DIRITTO DELL`UNIONE EUROPEA

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DIRITTO DELL`UNIONE EUROPEA
COMPENDIO
DI
DIRITTO
DELL’UNIONE
ECCLESIASTICO
EUROPEA
Alessio Sculco
Adele Vinci
Capitolo V
L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO
AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
Sommario: 5.1. Il rapporto tra il diritto dell’Unione e il diritto italiano. – 5.2. L’adeguamento legislativo del diritto italiano al diritto dell’Unione europea. La legge 234/2012. – 5.3.
L’“adattamento” al diritto comunitario derivato da parte delle Regioni. – 5.4. L’obbligo di
interpretazione conforme al diritto dell’Unione.
5.1. Il rapporto tra il diritto dell’Unione e il diritto Italiano
Nei rapporti tra l’ordinamento europeo e quello italiano è sorta una forte
contrapposizione tra la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia. Il primo
problema nasceva dal fatto che i Trattati comportavano un parziale trasferimento dei poteri sovrani, in particolare di competenze legislative e giudiziarie,
dagli Stati membri alle istituzioni europee. A causa di tale trasferimento dei
poteri sovrani, molti Stati hanno dato attuazione alle disposizioni dei Trattati
con legge costituzionale per rendere compatibile con la propria costituzione
il suddetto trasferimento dei poteri.
In Italia, invece, la ratifica dei Trattati istitutivi è avvenuta con legge ordinaria, data l’ostilità, all’epoca, all’integrazione europea. Di conseguenza si è
posta ben presto di fronte alla Corte Costituzionale la questione di legittimità
costituzionale di tali leggi. La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza Costa c.
ENEL, ha dichiarato che le leggi di ratifica trovano un fondamento nell’art.
11 Cost., in cui “l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad
un ordinamento che assicuri le pace e la giustizia fra le Nazioni”. Tale disposizione è stata considerata idonea a consentire “limitazioni di
sovranità”.
Per giunta la giurisprudenza comunitaria con la celebre sentenza Van Gend
e Loos aveva stabilito la nascita di “un ordinamento giuridico di nuovo genere nel
campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato,
anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come sog-
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getti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”, mostrando subito la
specificità del nuovo ordinamento giuridico e soprattutto differenziandosi dal
diritto internazionale nel prevedere i singoli individui come imputazione di
centri diinteresse e di diritti rilevanti nell’ordinamento giuridico.
La Corte si impegnò immediatamente a sancire l’autonomia e la validità del nuovo ordinamento nei confronti degli Stati, degli individui e delle
istituzioni, ma nello stesso tempo si impegnava a rendere efficace il diritto
comunitario come norma primaria all’interno degli ordinamenti e ad affrontare l’annoso concetto della primauté del diritto comunitario sulle legislazioni
nazionali, il recepimento degli atti all’interno dell’ordinamento giuridico e le
rispettive competenze tra i giudici comunitari e i giudici costituzionali.
Ad un anno di distanza dalla celebre sentenza Van Gend, la Corte si ritrovava ad affrontare un tema cruciale per il successivo sviluppo del sistema
giuridico comunitario: la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno e, in particolar modo, se una disposizione dei trattati in contrasto con una
legislazione nazionale fosse direttamente applicabile ipso iure all’interno degli
ordinamenti degli Stati membri.
Questa problematica arrivò all’attenzione della massima Corte grazie alla
sentenza del 15 luglio 1964 Costa vs Enel che andava a rafforzare i principi
ribaditi dalla Van Gend e a consolidare la portata del diritto comunitario nei
confronti dei diritti statali.
La causa fu sollevata dall’avvocato Costa, che impugnando la legge italiana
sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica L. 1643/1962, si era rivolto al
giudice conciliatore di Milano ravvisando la violazione sia di alcune disposizioni del Trattato di Roma sia implicitamente dell’art. 11 della Costituzione
italiana che recita: “L’Italia [...] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a
tale scopo”.
Su tale quesito si era già pronunciata la Corte Costituzionale italiana che,
con la sentenza del 7 marzo 1964, n. 14, aveva rigettato il ricorso dell’avvocato
Costa stabilendo la legittimità della legge sul monopolio di stato in base al
principio del lex posterior derogat priori.
In particolar modo la Suprema Corte italiana non riscontrava nessuna violazione costituzionale. La Corte Costituzionale Italiana argomentava che l’art.
11 “significava che, quando ricorrono certi presupposti, è possibile stipulare trattati con
cui assumono limitazione della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge
ordinaria; ma ciò non importa alcune deviazione alle regole vigenti in ordine all’efficacia
del diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato, nei rapporti con gli altri Stati, non
avendo l’art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un’efficacia
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
superiore a quella propria di tale fonte di diritto” in quanto, secondo la procedura
di ratifica, le disposizioni del trattato CEE erano state recepite all’interno
dell’ordinamento italiano tramite una legge ordinaria (L.1203/1957) approvata dal Parlamento e, secondo il criterio cronologico, la legge intervenuta
successivamente, come L. 1643/1962, prevaleva sulla prima.(lex posterior derogat priori).
Con ciò si stabiliva che il diritto comunitario doveva cedere il passo ad una
legge statale ogni qual volta si applicasse il principio delle successioni delle
leggi nel tempo inficiando inevitabilmente la validità e l’efficacia del nuovo
ordinamento giuridico.
Tale aporia veniva desunta anche dalla Corte di Lussemburgo, chiamata
in causa dall’avvocato Costa tramite il ricorso in via pregiudiziale previsto
dall’art. 177 CEE, la quale ebbe l’occasione di stabilire un principio fondante
per il nascente ordinamento e in linea consequenziale con la Van Gend.
Infatti, non entrando nel merito della legislazione statale, la Corte di Giustizia si soffermava sul problema della competenza e dell’interpretazione del
trattato rispondendo, così, implicitamente sia alla Corte Costituzionale sia al
governo italiano fermamente contrario al ricorso dell’art. 177.
Era evidente che la questione sorta tra le due Corti, oltre a toccare punti
di diritto nevralgici per il consolidamento dello jus europeo all’interno degli
Stati membri, affrontava in sede giudiziale il rapporto delle competenze tra
comunità e Stati e l’annosa questione della cessione della sovranità.
La Corte, preoccupata per le possibili ripercussioni negative sul futuro della
totalità del diritto comunitario, marcava la intrinseca differenza e la peculiarità del
sistema giuridico posto in essere dalla Comunità economica rispetto al diritto internazionale affermando: ”A differenza dei comuni trattati internazionali, il
trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento
giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del trattato e che i giudici
nazionali sono tenuti ad osservare”.
Per rafforzare l’autonomia dell’ordinamento giuridico ”europeo”, era
fondamentale rendere efficace e vivente le norme comunitarie nei diversi
sistemi di diritto, e, in particolar modo, nella sua fase di applicazione concreta.
Non bastava solo riconoscere la validità delle norme prodotte dalle istituzioni comunitarie per rendere indipendente e svincolato lo jus europeo dal
diritto internazionale e dai diritti nazionali, ma era essenziale tutelarlo da ogni
tentativo di ridimensionamento o di svilimento della sua efficacia.
Questo comportava il riconoscimento di una primauté del diritto comunitario sul diritto interno giustificato dall’esistenza di: “poteri effettivi provenienti
da una limitazione di competenza o di un trasferimento di attribuzione degli Stati alla
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comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti i loro poteri sovrani e creato
quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”.
Ma dall’altra parte tale principio implicava che: “Lo spirito e i termini del
trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un
ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento
unilaterale ulteriore, il quale pertanto non è opponibile all’ordinamento stesso scaturito
da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto
della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza
perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento
giuridico della stessa comunità”.
La Corte, perciò, stabilì che la creazione di un ordinamento nuovo ed integrato con i differenti sistemi giuridici era una scelta voluta dagli Stati membri
nel momento dell’entrata in vigore del Trattato di Roma e, di conseguenza,
nessun atto legislativo statuale, anche di rango costituzionale, poteva imporsi
su di esso senza compromettere l’uniforme applicazione del diritto comunitario.
Con questa sentenza le norme del Trattato venivano interpretate come delle norme gerarchicamente superiori a qualsiasi altra norma di diritto interno
capaci di affermarsi e di prevalere sugli altri ordinamenti giuridici.
Questo attivismo giudiziale da parte della Corte di Lussemburgo era necessaria per consolidare e delineare i poteri reali della nuova comunità di
diritto e, nel contempo, bloccare le spinte centrifughe provenienti dagli Stati
e da alcune Corti nazionali, gelosi custodi delle loro prerogative di controllo
costituzionale.
Era evidente che la giurisprudenza comunitaria andava ad affiancarsi e, in
alcuni casi, a sovrapporsi alle attività dei giudici statali, ma poneva anche dei
limiti efficaci all’attività legislativa delle Nazioni in alcuni settori chiavi dell’economia.
Non a caso il rapporto tra Comunità e Stati e, in particolar modo, il confronto tra le Corti, spesso chiamate in causa dai propri governi per la difesa dei
poteri sovrani in settori rilevanti dell’economia e del commercio, fu problematica e spesso incerta riflettendo anche le criticità del processo di integrazione che da una parte poneva la Corte di Giustizia e la Commissione propensi
ad una maggiore integrazione funzionale tra le diverse legislazioni, dall’altro le
Corti nazionali e i governi impegnati a porre dei limiti all’attività giurisprudenziale del nuovo ordinamento.
Per questo la Corte europea fin dall’inizio si impegnò a consolidare la sua
giurisprudenza sul primato del diritto comunitario, affrontando tutte le implicazioni che da tale principio ne derivavano e rispondendo alle sollecitazioni
provenienti dalle Corti e dagli Stati.
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Infatti, grazie al ricorso all’art. 177 CEE (rinvio pregiudiziale) i giudici
comunitari poterono non solo interpretare il Trattato, ma anche ampliare le
loro competenze e regolare l’attività dei giudici nazionali con l’intento di eliminare le possibili discrasie tra i diversi sistemi giuridici degli Stati membri e
di dare organicità all’edificio comunitario.
Questo comportò da parte della CGCE una forma di interventismo in
diversi ambiti giuridici che investivano non solo il diritto primario), ma anche
il diritto comunitario derivato.
Questo si evinse nella sentenza della Corte Costituzionale italiana del 1975
inerente alla problematica dell’effetto del regolamento comunitario all’interno
del diritto interno.
La Corte Costituzionale, con la sentenza Industrie Chimiche del 30 ottobre
1975, n. 232, aveva cercato un compromesso con la Corte di Giustizia sul rapporto tra le fonti del diritto comunitario e il diritto nazionale.
La problematica era simile a quella affrontata con la celebre sentenza Costa
vs. Enel, che verteva sull’esistenza dei regolamenti comunitari, recepiti in Italia
tramite legge di adattamento (procedura non prevista dall’art. 189) in conflitto
con le leggi ordinarie posteriori.
La Corte Costituzionale, pur riconoscendo forza di legge ai regolamenti,
risolveva il conflitto con le leggi interne affidando il controllo di legittimità
costituzionale a se stessa.
L’argomentazione della Corte Costituzionale era in linea con una sua precedente pronuncia la n. 183 del 27 dicembre 1973 Frontini in cui ribadì che
il diritto comunitario e il diritto statale ”possono configurarsi come sistemi giuridici
autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la logica di ripartizioni di competenze
stabiliti dal Trattato “qualificando i regolamenti comunitari come “atti aventi
forza e valore di legge”. Per la Corte i possibili contrasti tra le norme del diritto
europeo e quelle italiane dovevano essere risolte applicando il criterio della
competenza e, di conseguenza, i regolamenti disciplinanti materie di competenza comunitaria dovevano avere immediata applicazione senza la previsione
di un ulteriore atto legislativo nazionale. Tale principio trovava fondamento
nell’art. 11 della Costituzione italiana, che previsto dai costituenti per favorire
la partecipazione dell’Italia all’organizzazione delle Nazioni Unite, con la sua
clausola di limitazione di sovranità permetteva la copertura adeguata per l’affermazione dei principi comunitari.
La sentenza industrie chimiche, pur riconoscendo implicitamente il primato della legislazione comunitaria, dimostrava la resistenza da parte dei
giudici interni di cedere il monopolio di costituzionalità e di interpretazione ad una corte appartenente ad un ordinamento diverso e distinto da
quello statale.
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L’ottica adottata dalla massima Corte italiana era sempre quella nazionale
e, nonostante si verificasse un’apertura verso l’Europa del diritto, era evidente
la volontà dei supremi giudici italiani di difendere il proprio ruolo di garante
della conformità delle leggi nazionali alla propria Costituzione.
La procedura prospettata dalla sentenza del 1975 rendeva eccessivamente
macchinoso e lungo il controllo di legittimità degli atti nazionali in rapporto
al diritto comunitario, poiché il giudice di merito avrebbe dovuto sollevare
la questione dinanzi alla Corte Costituzionale, unica corte competente a pronunciare l’incostituzionalità di una norma.
Questo andava a scapito dell’efficacia del diritto comunitario che vedeva
ridimensionata la sua portata da un iter giurisdizionale nazionale poco pratico
e molto processuale.
Dall’altra parte i continui interventi delle Corti statali erano i primi segni
di cedimento delle istituzioni nazionali nei confronti delle norme comunitarie, poiché il sistema delle fonti nazionali dovevano contemplare il Trattato
e i regolamenti in una posizione intermedia tra legge costituzionale e legge
ordinaria.
Eppure la Corte di Giustizia non mancò di dissentire dall’orientamento
espresso dalla Consulta con la sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978 rimarcando la necessità di rendere il diritto europeo efficace ed effettivo all’interno
dei singoli ordinamenti e di consolidare la giurisprudenza sulla preminenza
del diritto comunitario.
La problematica riguardava la possibile violazione di uno dei pilastri del
trattato CEE, la libera circolazione delle merci.
La Simmenthal S.P.A., nell’importare una partita di carni bovine dalla
Francia, veniva sottoposta al pagamento dei diritti di controllo sanitario, ravvisando la violazione dell’art. 30 dello stesso Trattato e chiedendo la restituzione
di ciò che era stato versato indebitamente.
Il pretore di Susa, investito della causa, invece di rivolgersi alla Corte Costituzionale, come prescriveva la sentenza delle Industrie Chimiche, per far
dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge italiana per il pagamento dei
controlli sanitari sulle carni rinviava il caso alla Corte di Giustizia in base alla
procedura descritta dall’art. 177.
Il giudice comune italiano aveva ravvisato la debolezza del metodo prospettato dalla Consulta e il pericolo che i diritti tutelati dall’ordinamento comunitario fossero poco salvaguardati dalla procedura descritta dalla sentenza
Frontini.
La Corte di Lussemburgo, grazie alla collaborazione del giudice di merito,
coglieva l’occasione per consolidare la giurisprudenza sulla primauté e di definirla in maniera netta all’interno dell’ordinamento comunitario.
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
Infatti, i giudici comunitari con la pronuncia del 1978 stabilivano:” […]
Che l’applicabilità diretta del diritto comunitario significa che le norme devono esplicare
pienamente i loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dall’entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità, le disposizioni direttamente applicabili sono una fonte immediata di diritti ed obblighi per tutti coloro che esse riguardano,
siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati
dal diritto comunitario. Questi effetti riguardano tutti i giudici che aditi, nell’ambito
della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di
tutelare i diritti attribuiti ai singoli dagli Stati membri”.
Ciò comportava anche che “In forza del principio della preminenza del diritto
comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri,
non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore,
qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anchein quanto dette disposizioni fanno parte integrante, con rango superiore, rispetto alle
norme interne, nell’ordinamento giuridico vigente nel territorio degli Stati membri- di
impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui
questi fossero incompatibili con norme comunitarie”.
Ne derivava che un giudice aveva l’obbligo di disapplicare le disposizioni
di una legge interna in contrasto con quelle comunitarie per applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti creati in capo ai singoli.
Comportava affermare che le norme interne contrastanti non si formavano
validamente e bisognava rendere il giudice nazionale capace di dare immediata
applicazione alle norme comunitarie per non sminuire l’efficacia concreta del
diritto e dei diritti dei singoli.
Per questo non poteva essere considerata valida, secondo il ragionamento
della Corte comunitaria, una procedura che rallentasse l’attuazione immediata
di una norma europea da parte del giudice comune e affidasse ogni azione e
giudizio alla Corte Costituzionale.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale europeo gli Stati contraenti del
Trattato CEE perdevano potestà legislativa in tutte le materie di competenza
comunitaria o meglio la produzione normativa nazionale era priva di efficacia
giuridica in tutti quei settori regolati dal diritto comunitario.
Da qui scaturiva l’intento della Corte di utilizzare gli articoli in materia di
libertà di commercio e di sfruttare l’origine economica della nuova comunità
di diritto per affermare principi cardini e strutturali del nuovo ordinamento.
Con la sentenza Simmenthal si tentava di cambiare il punto di vista delle
Corti nazionali vincolate alle pronunce della Corte di Giustizia che in maniera perentoria e senza equivoci aveva delineato il contenuto della clausola di
supremazia del diritto comunitario.
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Tale posizione assunta dalla massima Corte europea aveva dei risvolti giuridici importanti perché, oltre ad erodere la sovranità degli Stati nazionali e a
limitare l’attività legislativa in alcuni campi, imponeva di rivedere l’articolazione delle fonti all’interno dei sistemi dei singoli Stati membri.
A quest’ultima considerazione giunse la Corte Costituzionale Italiana, che
rivedendo la posizione assunta con la Frontini, con la sentenza Granital del
1984 dichiarava l’obbligo per il giudice di merito di privilegiare l’interpretazione comunitaria per gli atti normativi prodotti dagli organi nazionali e,
in caso di incompatibilità tra una norma interna e comunitaria, quest’ultima
doveva prevalere.
Se da una parte la Consulta riprende gli orientamenti della Corte di Giustizia dall’altra se ne discosta su un importante punto di diritto, la gerarchia
delle fonti.
Infatti la CGCE cercava, tramite la sua costante giurisprudenza, di interpretare le fonti del diritto comunitario e di quelle nazionali in unico sistema giuridico (era una visione organica dell’ordinamento giuridico in cui il
trattato veniva letto all’interno di una cornice sistemica); mentre la Corte
Costituzionale, ribadendo l’autonomia e la differenza dei due ordinamenti, si
richiamava al criterio della competenza per giustificare la disapplicazione della
norma da parte del giudice comune.
Infatti, secondo la Consulta la norma nazionale non poteva essere considerata né nulla né invalida, bensì inapplicabile. La Corte di Giustizia e la Corte
Costituzionale si rifacevano a due diverse teorie internazionalistiche quella
monista e quella dualista. La prima, seguita dalla Corte europea, considerava gli
ordinamenti, in questo caso quello comunitario e quello nazionale, all’interno
di un unico sistema giuridico; mentre, la seconda, propugnata dalla Corte italiana, ribadiva la separazione dei due ordinamenti dotati ciascuno di carattere
individuale, unitario, autonomo.
Tale posizione da parte della Corte era un tentativo di difesa della sovranità
nazionale e delle prerogative della Corte.
Anzi, proprio la Corte Costituzionale per impedire l’eccessiva incisività
dell’ordinamento comunitario si impegnava a porre dei limiti alla Comunità
Europea impegnata ad ampliare le proprie competenze grazie alla giurisprudenza interpretativa ed evolutiva della Corte di Giustizia.
Con la sentenza Granital la Consulta si riservò la competenza a sindacare
sul diritto comunitario “in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” considerando la
sfera dei diritti fondamentali una parte incedibile della sovranità nazionale.
(c.d. teoria dei contro limiti) specificando che se una disposizione o un atto
dell’Unione avessero violato un tale principio o un diritto umano fondamen-
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tale, il giudice comune avrebbe dovuto sottoporre alla Corte Costituzionale la
questione di legittimità della legge italiana di esecuzione dei Trattati europei
che contrasta con tali principi fondamentali.
L’apertura della Corte Costituzionale nei confronti della Corte di Giustizia fu supportata da altre sentenze inerenti all’efficacia del diritto comunitario all’interno del nostro ordinamento. Si è riconosciuto il ruolo della Corte
di Giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto comunitario:
essa, infatti, viene definita come l’unica interprete predisposta a determinare
d’autorità il significato, l’ampiezza e la possibilità applicative del diritto comunitario con la conseguenza che una pronuncia che precisa o integra il
significato di una norma ha essenzialmente la stessa immediata efficacia di quest’ultima. In particolare, si è rilevata l’immediata applicabilità,
in luogo di contrasto con le norme nazionali, delle norme comunitarie così
come interpretate nelle sentenze della Corte di Giustizia pronunciate a seguito di rinvio pregiudiziale (Corte Cost., sent. 23 aprile 1985, n. 113, BECA),
nonché all’esito di una procedura d’infrazione (Corte Cost., sent. 11 luglio
1989, n. 389, Provincia Bolzano). La Corte ha previsto la possibilità che norme comunitarie determinino deroghe al riparto di competenze tra
Stato e Regioni, se esplicite e se imposte da esigenze organizzative dell’Unione (Corte Cost., sent. 17 aprile 1996, n. 126, Province Trento e Bolzano).
La Corte Costituzionale ha accolto la giurisprudenza della Corte di giustizia
sul diritto derivato affermando che le norme contenute nelle direttive comunitarie provviste di efficacia diretta, vale a dire sufficientemente chiare, precise
e suscettibili di efficacia immediata, possono essere fatte valere dai singoli direttamente dinanzi ai giudici nazionali nel confronti dello Stato membro inadempiente (Corte Costituzionale, sentenza 1 aprile 1991, n. 168, Giampaoli).
Ulteriori precisazioni la Corte Costituzionale italiana li ha compiute nello
stabilire che, diversamente dall’ipotesi di giudizio incidentale, nel giudizio
di costituzionalità in via principale il conflitto tra norme interne
e norme comunitarie può e deve essere risolto dalla stessa Corte
con la dichiarazione di incostituzionalità. In tale ipotesi, in particolare,
la non applicazione può costituire una soluzione inadeguata rispetto al valore
costituzionale della certezza normativa e all’obbligo di corretto adempimento
sancito dall’art. 10 del Trattato (Corte Cost., sent. 10 novembre 1994, n. 384,
Regione Umbria). È anche vero che la Corte nel giudizio principale di costituzionalità è giudice della controversia con la conseguenza che è tenuta a non
applicare la norma confliggente con il diritto comunitario e, dunque, a dichiararla incostituzionale per garantire la certezza del diritto. Su questa scia la
Corte italiana si avviò a limitare il ricorso al referendum abrogativo sulle norme riguardante l’impegno comunitario e in particolar modo le leggi di adat-
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tamento delle normi nazionali al diritto comunitario e successivamente tutte
quelle leggi che direttamente o indirettamente stabiliscono l’adempimento del
Paese agli obblighi comunitari o semplicemente rientrano nella sfera di competenza dell’Unione (Corte Cost., sentenze 7 febbraio 2000, nn. 31, 41 e 45).
La complessa vicenda tra la giurisprudenza della Corte Costituzionale e quella
Comunitaria sembra essere ad un termine con il primo rinvio pregiudiziale attuato dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza 103/2008, specificando
che la Corte Costituzionale nei giudizi di costituzionalità in via principale,
è giustificata a ricorrere in via pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia
poiché, pur essendo il massimo organo di garanzia giurisdizionale all’interno
del ordinamento nazionale, essa costituisce una giurisdizione nazionale. La
posizione dei giudici costituzionali italiani era comune ad altri Stati membri
che non accettavano facilmente la “prepotenza” del nuovo ordinamento e si
incentivavano ad erigere dei limiti ad esso. Era il caso della Germania Federale
Tedesca e del Regno Unito, il cui rapporto con la Corte di Lussemburgo fu
spesso conflittuale e non sempre lineare. La difficoltà ad accettare la forza del
nuovo diritto si riscontrava soprattutto a livello costituzionale con la resistenza
da parte dei paesi membri di adeguarsi ai dettami dell’ordinamento comunitario e impegnati a porre o, in alcuni casi ad elaborare, dei limiti giuridici al
nuovo ordinamento. Caso emblematico era la Germania che, dopo aver posto
fine al regime nazionalsocialista, era gelosa della sua Costituzione Federale e
dei principi da essa affermati, specie in materia di diritti fondamentali, mostrando un orientamento molto più prudente rispetto alla politica europeista
del cancelliere Adenauer.
Nel 1963 un giudice finanziario della Renania -Palatinato aveva sollevato
la questione di illegittimità della Legge di esecuzione del Trattato CEE, e,
precisamente, riteneva l’inammissibilità della Germania al trattato di Roma a
causa dell’art. 189 che disciplina la formazione degli atti posti dalle istituzioni
comunitarie specie dei regolamenti comunitari.
Il Tribunale Costituzionale Federale Tedesco (Bundesverfassungsgericht) il 5
luglio 1967 dichiarava a tal proposito che l’art. 189 non pregiudicava la partecipazione
della Germania Federale al Trattato CEE anche se i regolamenti comunitari fossero
Stati privi di efficacia all’interno del sistema giuridico tedesco.
La posizione della suprema corte tedesca, simile a quella italiana, era dettata dalla
rigidità del sistema delle fonti dell’ordinamento prescritte all’art. 20.3 che recita: “La
legislazione è soggetta all’ordinamento costituzionale, il potere esecutivo e la giurisdizione sono soggetti alla legge e al diritto”.
Come si vede, sia la Corte Federale Tedesca che la Corte Costituzionale
Italiana di fronte alla nascente Comunità Europea mostravano un’ ottica nazionalista ed erano propense ad applicare come parametri di legittimità per le
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disposizioni ed atti comunitari i principi stabiliti dalle loro rispettive costituzioni.
Infatti, i giudici tedeschi non presero in considerazione i principi enunciati
dalla Corte di Giustizia con la Van Gend e con la Costa, suscitando vivacissime
critiche all’interno della dottrina comunitaria.
Ciò spinse il Bundesverfassungsgericht a rivedere le proprie posizioni e, a distanza di solo tre mesi, a dichiarare con una sentenza del 18 ottobre del 1967
l’autonomia dell’ordinamento comunitario nei confronti sia di quello statale
che di quello internazionale, seguendo, come quella italiana, la teoria dualistica
escludendo la possibilità da parte del massimo tribunale di esercitare il controllo di costituzionalità sugli atti del diritto derivato.
Questa sentenza non aveva fatto nessun cenno alla prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale fino alla pronuncia della Corte di Giustizia sul caso Lütticke
del 1966.
Infatti, una legge tedesca prevedeva l’imposizione di dazi doganali sul latte
in polvere proveniente dagli altri Stati membri, privilegiando di fatto il latte
tedesco.
I giudici finanziari tedeschi, ravvisando una violazione dell’art. 95 del trattato CEE, adivano alla Corte di Giustizia che constatava la violazione di una
norma del trattato e ribadiva il primato del diritto comunitario.
Nonostante la ferma opposizione del Governo Tedesco, che si ostinava a
considerare invalida la sentenza della massima corte europea perché limitava la
politica commerciale della Germania ed erodeva la sovranità tributaria nazionale, il Tribunale tedesco con la pronuncia del 1971 sancì la preminenza del
diritto comunitario sul diritto nazionale.
Questa posizione assunta dalla massima corte tedesca non segnava, però,
una piena apertura nei confronti del diritto comunitario in quanto a distanza
di solo 3 anni il tribunale tedesco stabiliva con la sentenza Solange I dei limiti
alla validità ed efficacia del sistema comunitario.
Infatti, il supremo giudice tedesco in linea con la teoria dualistica degli
ordinamenti riscontrava l’esistenza di un nucleo fondamentale di diritti, stabiliti dalla Grundgeset (La Costituzione Tedesca, pur contemplando all’art. 24 la
cessione di sovranità alle organizzazioni sovranazionali, prevedeva una serie di
diritti considerati fondamentali tra cui rientrava il parametro della democraticità.), intangibili ed inviolabili anche per l’ordinamento comunitario riservandosi, così, la competenza di giudicare sulla norma comunitaria contrastante
con un principio supremo della Costituzione tedesca. Il Bundesverfassungsgericht giustificava la sua prerogativa sulla legittimità costituzionale a causa della
limitata democraticità del sistema comunitario dovuto ad un Parlamento non
elettivo e della mancata previsione di una Bill of Rights comunitaria.
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Questo comportava un rapporto conflittuale con la Corte di Giustizia europea come dimostrano le successive sentenze del tribunale tedesco sulla problematica dei diritti fondamentali. Le principali sentenze del Tribunale federale tedesco in materia di protezione dei diritti fondamentali furono la Solange
II del 1986 con cui il Bundesverfassungsghericht dichiarò la possibilità di sospendere il controllo di legittimità costituzionale delle norme comunitarie fino a
quando la Corte di Giustizia avesse garantito una sufficiente protezione dei
diritti fondamentali e la Maastricht-Urteil del 1994 con cui, lo stesso tribunale,
garantiva una collaborazione con Lussemburgo, ma si riservava la competenza
di rendere inapplicabile gli atti comunitari contrastanti con la Costituzione
tedesca. Un pacifico compromesso tra le due corti si raggiunse nel 2000 con
la Bananenmarktordnung tedesca con cui si limitò l’intervento del Tribunale tedesco in materia di diritti fondamentali (La Corte poteva intervenire a livello
nazionale solo nel caso in cui si fosse verificata una violazione continuata e
sistematica dei diritti fondamentali da parte della Comunità europea) e riconosceva il sistema di rinvio pregiudiziale come forma di garanzia pregiudiziale
per la tutela dei diritti fondamentali.
Non dissimile era la posizione del Regno Unito, entrato all’interno del
mercato comune nel 1973, il quale, a differenza degli altri Stati membri, non
era dotato di una costituzione scritta e vigeva un sistema giuridico di common
law.
La Gran Bretagna aveva deciso di adire alla CEE tramite una legge la Communities Act del 1972 che regolava i rapporti tra il diritto nazionale e il diritto
comunitario, stabilendo un principio basilare: l’obbligo di interpretare la normativa nazionale anteriore e successiva in armonia col diritto comunitario.
Questo comportava alcuni problemi all’interno del sistema giuridico britannico, perché scardinava dei cardini fondamentali della commow law inglese
tra cui la dottrina della sovranità del organo legislativo e il principio in base al
quale nessun Parlamento può vincolare i suoi successori, con la conseguenza
della prevalenza della norma posteriore su quella anteriore.
Così, una legge nazionale successiva alla Communies act implicitamente invalidava il primato del diritto comunitario sull’ordinamento giuridico, compromettendo l’uniforme applicazione delle norme europee.
La problematica emerse nel caso Fractortame del 1989 con cui le Corti inglesi si trovarono ad affrontare concretamente le questioni giuridiche derivanti
dall’adesione al Trattato CEE.
Alcune compagnie marittime spagnole sostenevano l’incompatibilità della
British Merchant Shipping Act del 1988 con una disposizione del Trattato CEE.
La legislazione inglese imponeva per l’esercizio dell’attività di pesca ai battelli l’iscrizione ad un registro navale, possibilità concessa ai solo cittadini in-
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
glesi o alle compagnie stabilite in Gran Bretagna e, pertanto, secondo le società
spagnole, in violazione dell’art. 52, 58 e 221 CEE che prevede il divieto di
restrizioni alla libertà di stabilimento di cittadini di uno Stato membro nel
territorio di un altro Stato membro.
La Queen’s Bench Division della High Court of Justice, competente in materia,
rinviava la causa alla Corte di Giustizia e nel contempo ordinava allo Stato di
non applicare la legislazione vigente fino alla pronuncia definitiva della Corte
di Lussemburgo.
Il rimedio temporale, prospettato dal giudice di merito, contrastava, secondo la camera dei Lords, con la common law inglese sia per la non previsione dei
provvedimenti cautelari sia per l’obbligo posto ai giudici di applicare la legge
fin a quando non si fosse espressa la Corte di Giustizia.
Quest’ultima, invece, con la pronuncia del 1990 sanciva la previsione del
interlocutory injunctions, cioè del provvedimento cautelare, sconosciuto nel diritto inglese, necessario per la tutela dei singoli e contemporaneamente riaffermava, in linea con la Simmenthal del 1978, che: “[…] la piena efficacia del diritto
comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire
al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di
concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’ esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario”.
La Corte spinse, anche in questo caso, la Gran Bretagna a rivedere il suo
sistema di fonti di diritto e ad accertare la primauté del diritto come ebbe a
pronunciarsi Lord Bridge nel 1991 alla Camera dei Lords su questo punto: “Se
la supremazia, nella Comunità europea, del diritto comunitario sul diritto nazionale
non era esplicitata nel trattato CEE, è certo che essa fu affermata nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia ben prima che il Regno Unito aderisse alla Comunità. Pertanto, ogni limitazione della propria sovranità che il Parlamento ha accettato approvando
la legge del 1972 è del tutto volontaria. In base alla legge del 1972 è stato sempre
chiaro che era obbligatorio per i giudici inglesi, al momento della decisione, prescindere da
qualsiasi norma interna che fosse ritenuta in contrasto con qualsiasi norma comunitaria
direttamente applicabile [...].
Come accadeva in altre Corti statali si poneva il quesito dell’esistenza di
limiti costituzionali al primato europeo e al rango della legge di adesione del
1972, una problematica affermata dalle Corti inglesi nel 2002 con la sentenza
Thoburn. La senteza Thoburn nasceva dall’opposizione di alcuni commercianti
inglesi ad un regolamento CE del 1994 “Weight and Measures-Units of Measurements” che ordinava l’adozione del sistema metrico e rendeva facoltativo
l’utilizzo del sistema imperiale. I commercianti inglesi, estremi difensori del
loro sistema di misura, invocavano la violazione da parte dell’atto comunitario
di una legge parlamentare del 1984 inerente all’uso delle tradizionali misure.
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Essi invocavano così l’abrogazione della legge di adesione del 1972 in base
al principio costituzionale che dichiarava la superiorità della legge parlamentare
successiva su quella anteriore.
In quel caso il giudice inglese Laws introduceva all’interno della common law
il concetto di leggi costituzionali come norme di rango superiore riferendole in
particolar modo alla legislazione sui diritti fondamentali e sul rapporto tra Stato
e cittadino.
Di fronte a tali leggi anche il Parlamento sovrano doveva cedere il passo e, di
conseguenza, il Communities Act, ritenuto legge costituzionale, era superiore alle
leggi parlamentari.
Se da una parte veniva accolto il principio della primauté europea dall’altra
parte si difendeva la sovranità nazionale, chiarendo che la legittimità dell’ordinamento comunitario nel sistema inglese era dovuta all’esistenza di norme interne
create dallo Stato (la legge del 1972 era costituzionale per i parametri nazionali
britannici e non erano tenuti in considerazione quelli comunitari). Un orientamento diametralmente opposto alla Corte Europea di Giustizia che, grazie ad
una consolidata giurisprudenza, aveva più volte marcato l’integrazione tra i sistemi giuridici e la forza propria dell’ordinamento comunitario.
Con questa pronuncia la Corte inglese, in linea con altri tribunali statali, edificava i propri limiti agli atti comunitari prevedendo la possibilità di non applicare
una norma comunitaria in contrasto con i diritti fondamentali tutelati dal sistema
giuridico britannico.
Gli Stati tramite la teoria dei contro limiti tentavano di porre un argine alla
Comunità Europea e in particolar modo alla Corte di Giustizia che, oltre a consolidare principi non previsti dal Trattato, si impegnava ad unificare il mercato
comune in via giudiziale.
La giurisprudenza della Corte verteva sull’interpretazione o la giusta applicazione di disposizioni del Trattato che riguardavano le principali libertà economiche le quali, per essere meglio tutelate, necessitavano di una cornice “costituzionale” capace di eliminare le possibili antinomie tra gli ordinamenti statali.
Così grazie ai principi dell’effetto diretto e del primato del diritto comunitario, ricavate da un’interpretazione abbastanza estensiva del trattato comunitario, si
poterono attuare tutte quelle politiche commerciali volte ad eliminare gli ostacoli
e le barriere al commercio interstatale.
5.2. L’adeguamento legislativo del diritto italiano al diritto
dell’unione europea. La “legge comunitaria”
L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi nascenti dal diritto dell’Unione richiede un intervento ad opera del legislatore, necessario per gli atti
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
europei non direttamente applicabili, cioè le direttive. Infatti, i regolamenti e
le decisioni dotate di effetto diretto non pongono problemi di adeguamento
nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati membri.
L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi derivanti da una direttiva
era, precedentemente, abbastanza farraginoso ed avveniva attraverso legge o
leggi che delegavano al Governo l’emanazione di decreti legislativi volti a dare
attuazione ad un pacchetto di direttive indicate nella legge delega.
Lo strumento della delega veniva concesso sotto l’urgenza di eseguire le direttive il cui termine di attuazione era già scaduto, provocando notevoli ritardi
da parte dell’ordinamento italiano a conformarsi ai precetti normativi delle
istituzioni comunitarie. Il sistema era criticato perché non appariva conforme
all’art. 76 Cost., il quale dichiara che la delega al governo doveva contenere
i criteri direttivi, cioè doveva essere limitata nel tempo e per oggetti definiti.
In realtà l’oggetto della delega era estremamente diversificato e il Parlamento
risultava così espropriato dei suoi poteri.
C’era bisogno di un sistema che abbandonasse gli interventi episodici e
confusi della legge delega e assicurasse una corretta e tempestiva attuazione
delle direttive, garantendo al tempo stesso il pieno rispetto della Costituzione
e limitando notevoli ritardi da parte dell’ordinamento italiano ad adattarsi agli
obblighi imposti dalle istituzioni comunitarie.
Una disciplina organica venne introdotta con la c.d. “legge La Pergola”
(legge comunitaria); tale legge aveva un duplice obiettivo: da un lato regolare le forme di partecipazione del Parlamento e delle regioni alla formazione
degli atti, dall’altra garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Così, lo strumento centrale per garantire tale adempimento era la “legge
comunitaria”: una sorta di legge “organica”, che per la prima volta disciplinava in modo compiuto il processo di adattamento dell’ordinamento italiano
all’ordinamento comunitario, tentando di imporre una disciplina efficace e
semplificata per la regolamentazione degli obblighi comunitari.
La legge La Pergola è stata più volte modificata ed infine abrogata; è stata
prima sostituita dalla c.d. legge Buttiglione e poi successivamente dalla più
recente legge 234/2012 (“Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla
formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”) che contiene la nuova disciplina relativa alla formazione (fase ascendente) e all’attuazione (fase discendente) del diritto UE.
Tale legge risultata necessaria per accogliere le modifiche e novità introdotte dal Trattato di Lisbona, in particolar modo sul coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nella fase di creazione delle norme e delle politiche dell’Unione europea. Infatti, lo scopo principale di tale normativa è di migliorare il
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raccordo fra Parlamento e Governo, Parlamento e Regioni, Governo e Regioni e di rendere più efficace il processo di attuazione.
Nel dettaglio nella fase ascendente vengono potenziati gli obblighi
di informazione del Governo nei confronti del Parlamento, (informazioni
specifiche) (artt. 5 e 14) tra cui:
– l’obbligo di riferire preventivamente sulle posizioni che i rappresentanti
dell’esecutivo intendono assumere nelle riunioni del Consiglio europeo e
del Consiglio dell’Unione e relazionare sugli esiti delle riunioni stesse (art.
4).
– l’obbligo del Governo di trasmettere tempestivamente alle Camere le informazioni concernenti i progetti normativi in discussione (art. 6), che includono anche le relazioni e le note informative predisposte dalla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione con riferimento agli incontri
interistituzionali.
– l’obbligo per il Governo, nei casi di particolare rilevanza o di richiesta
espressa delle Camere, di corredare alla documentazione una relazione illustrativa della valutazione del Governo sulla proposta, con indicazione della
data presumibile di discussione o approvazione (art. 6, co. 1-3 ).
– l’obbligo per l’esecutivo di trasmette ogni tre mesi alle Camere, alla Corte
dei conti, alle regioni e alle province autonome un elenco, articolato per
settore e materia di (art.14):
a)sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea relative a giudizi
di cui l’Italia sia stata parte o che abbiano rilevanti conseguenze per l’ordinamento italiano;
b)di rinvii pregiudiziali disposti ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea da organi giurisdizionali italiani;
c) procedure d’infrazione avviate nei confronti dell’Italia ai sensi degli articoli 258 e 260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea,
con informazioni sintetiche sull’oggetto e sullo stato del procedimento
nonché sulla natura delle eventuali violazioni contestate all’Italia;
d)procedimenti di indagine formale avviati dalla Commissione europea
nei confronti dell’Italia ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 2, del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea.
Dal punto di vista parlamentare vengono rafforzati i poteri di indirizzo
del Parlamento tramite:
– la coerenza tra la posizione assunta dall’Italia all’interno dei rapporti istituzionali dell’Ue con gli indirizzi definiti dalle Camere (art.7 co.2). Tuttavia,
è stabilita la possibilità per il Governo di non attenersi agli indirizzi delle
Camere, prevedendo però l’obbligo di fornire alle Camere «le adeguate
motivazioni della posizione assunta»;
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
– la possibilità da parte di ciascuna Camera di apporre in sede di Consiglio
dell’Unione europea la riserva di esame parlamentare sul progetto o atto in
corso di esame. In tal caso il Governo può procedere alle attività di propria
competenza per la formazione dei relativi atti dell’Unione europea soltanto a conclusione di tale esame e comunque decorso il termine di trenta
giorni dalla comunicazione da parte dell’esecutivo alle Camere di aver apposto una riserva di esame parlamentare in sede di Consiglio dell’Unione
europea (art. 10, co.1- 3);
– la possibilità di intervento del Parlamento in relazione all’ipotesi di procedura semplificata di modifica dei Trattati (art. 48, par. 6,TUE) e in relazione
ad una decisione del Consiglio europeo inerente alla possibilità di adottare
un atto mediante una procedura diversa da quella prevista dai Trattati stessi
(art. 48, par. 7, TUE);
– la facoltà di sospendere la procedura legislativa nel caso in cui un progetto
di direttiva di armonizzazione penale incida su aspetti fondamentali del
proprio ordinamento giuridico penale (freno d’emergenza) anche in assenza di una precisa disposizione del Trattato sull’obbligo di coinvolgimento
dei parlamenti nazionali.
Per quanto concerne, invece, la fase discendente con la legge 234/2012
di fatto viene attuato uno sdoppiamento della legge comunitaria annuale in
due distinti provvedimenti: la legge di delegazione europea, inerente al recepimento dei regolamenti, delle direttive e delle decisioni quadro,
nonché all’adeguamento del diritto nazionale ai pareri adottati dalla Commissione UE e alle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte di Giustizia nell’ambito delle procedure di infrazione (art. 29) e la legge europea
(art. 30), concernente le disposizioni necessarie a garantire l’adeguamento
dell’ordinamento nazionale a quello dell’Unione (come disposizioni modificative o abrogative di disposizioni nazionali in contrasto con gli obblighi
UE o disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l’applicazione di atti UE). Per quanto riguarda la prima, essa deve essere presentata
alle Camere entro il 28 febbraio di ogni anno, recante la dicitura “delega al
Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri
atti dell’Unione europea” corredata da una relazione illustrativa aggiornata
al 31 dicembre dell’anno precedente. Tuttavia, in base all’art. 29, comma 8
della legge n. 234/2012, si prevede la possibilità per il Governo di presentare,
entro il 31 luglio, un nuovo disegno di legge di delegazione europea “nel
caso di ulteriori esigenze di adempimento di obblighi” derivanti dalla
partecipazione dell’Italia all’Unione europea. La legge europea, invece, non
specificando dei termini precisi di presentazione, rende la stessa legge europea non obbligatoria.
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Lo sdoppiamento della legge comunitaria è derivato dalla necessità di adeguare in maniera tempestiva l’ordinamento interno agli obblighi europei, e di
limitare le procedure di infrazione a carico dell’Italia. Infatti, tale adeguamento è rimarcato dalla possibilità di dare attuazione diretta agli atti normativi
dell’Unione, come contemplato all’art. 38, nei casi di particolare importanza
politica, economica e sociale.
5.3. L’“adattamento” al diritto comunitario derivato da parte
delle Regioni
È evidente che le disposizioni dei trattati istitutivi, nonché l’obbligo da
parte dello Stato di conformarsi ad essi e alla normativa comunitaria emanata dalle istituzioni europee, abbia un suo impatto anche nell’articolazione
interna degli Stati tenendo in giusto conto la forma di governo prevista dagli
Stati membri (sistema federale, regionale e centralista). Anche sull’articolazione regionale italiana il diritto secondario o derivato dell’Unione ha avuto un
rilievo sulle competenze e legislazioni regionali con la riforma Costituzionale
del 2001 del Titolo V della Costituzione.
L’art. 117 della Costituzione delimita le sfere di competenza legislativa dello Stato e delle Regioni, individuando un ambito di competenza
“esclusiva” dello Stato (art. 117, 2° comma, Cost.), un ambito di competenza
“conncorrente”, in cui lo Stato fissa normativamente i principi e le Regioni
danno esecuzione a tali principi (art. 117, 3° comma, Cost.), ed un ambito di
competenza “residuale” delle Regioni (art. 117, 4° comma) che conferisce
la potestà legislativa alle Regioni in tutte quelle materie non elencate dai
comma 3 e 4 dell’art. 117, salvo la possibilità per lo Stato di incidere su tali
materie attraverso alcune competenze esclusive “trasversali” (si pensi, ad esempio, alla potestà legislativa statale in materia penale; sarà comunque lo Stato
a disciplinare le sanzioni penali, anche nelle materie di competenza residuale
regionale).
È evidente come le limitazioni di sovranità cui ha acconsentito
lo Stato, attraverso la ratifica del Trattato istitutivo della Comunità,
si impongono anche alle Regioni nelle materie di loro competenza
(residuale e concorrente).
Tuttavia, questo principio mutuato dal diritto internazionale pone alcune problematiche dal punto di vista giurisprudenziale in quanto all’interno
dell’ordinamento comunitario le violazioni delle norme vengono imputate
allo Stato e non certo agli enti territoriali dello Stato stesso, essendo irrilevante
per l’ordinamento la distribuzione interna del potere tra centro e autonomie
territoriali: “uno Stato membro non può richiamarsi a situazioni del proprio ordina-
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
mento interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi. Esso resta il solo responsabile, nei confronti della Comunità, del rispetto degli obblighi derivanti dal diritto
comunitario quale che sia l’uso che esso ha fatto della libertà di ripartire le competenze
normative sul piano interno” (così Corte di Giustizia, Commissione vs. Italia, resa
il 13 dicembre 1991).
Con le modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 3/2001 al Titolo
V della II parte della Costituzione l’art. 117, 1° comma, Cost. si dispone
chiaramente che sia la potestà legislativa statale che la potestà legislativa regionale sono esercitate nel rispetto (non solo della costituzione, degli obblighi
internazionali ma anche) dei “vincoli comunitari”.
Più specificatamente l’art. 117, 5° comma, Cost. dispone che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti
normativi comunitari (nella cosiddetta fase “ascendente” del diritto comunitario) e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea (cosiddetta fase “discendente”
del diritto comunitario), nel rispetto delle norme di procedura stabilite con
legge statale, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in
caso di inadempienza.
Questa norma costituzionale è stata attuata prima dalla Legge Buttiglione
e poi dalla legge 234/2012, secondo cui le Regioni e le Province Autonome, nelle materie di loro competenza, devono dare tempestiva attuazione alle
direttive comunitarie e agli obblighi derivanti dall’Unione europea (art.29).
Tuttavia, l’aspetto più innovativo rispetto alla legislazione precedente riguarda
il potenziamento degli obblighi di informazione da parte del Governo. Infatti,
esso è tenuto ogni sei mesi a riferire alle Camere circa lo stato di recepimento
delle direttive europee da parte delle Regioni, con modalità da definirsi in
sede di Conferenza Stato-Regioni. Sulla base dell’art.40, inoltre, il Governo
deve indicare i criteri cui devono attenersi le Regioni nei casi di direttive
nelle materie di competenza esclusiva dello Stato al fine del soddisfacimento
di esigenze di carattere unitario, del perseguimento degli obiettivi di programmazione economica e del rispetto degli impegni derivanti dagli obblighi internazionali. In generale la partecipazione delle Regione alla fase discendente
si articola in due momenti:
– attraverso il coinvolgimento nel procedimento di predisposizione della
Legge di delegazione europea;
– il recepimento della normativa europea a livello regionale nelle materie di
rispettiva competenza.
Tuttavia, come nella legge Buttiglione del 2005, rimane in vigore la possibilità per lo Stato di intervenire in sostituzione degli atti regionali (sulla base
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dell’art117.co.5 e 120.co 2. della Costituzione) in caso “di eventuale inerzia
dei suddetti enti nel dare attuazione ad atti dell’Unione europea.” (art.41) In
tale caso, gli atti normativi statali “sostitutivi” sono applicabili soltanto nell’ambito dei territori delle Regioni e delle Province autonome che non abbiano
provveduto e diventano “cedevoli”, ossia perdono la loro efficacia, dal momento dell’entrata in vigore della (sopravvenuta) normativa di attuazione delle
Regioni o delle Province. Strettamente connesso all’esercizio di tale potere si
pone il diritto di rivalsa, il quale, consente allo Stato di rivalersi economicamente sugli enti pubblici o sulle Regioni che si siano resi responsabili di una
violazione del diritto europeo.
Un aspetto significativo di tale normativa ed in linea con le innovazioni
poste dal Trattato di Lisbona riguardano il ruolo delle regioni nel processo di
verifica del principio di sussidiarietà Infatti, l’art. 25 prescrive la possibilità per
gli enti territoriali di far pervenire le loro osservazioni alla Camere in tempo utile per l’esame parlamentare, dandone contestuale comunicazione alla
Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e province
autonome. Tuttavia, come specificato nell’art. 8, le Camere hanno la facoltà,
ma non l’obbligo, di consultare i consigli regionali.
5.4. L’obbligo di interpretazione conforme al diritto dell’Unione
L’obbligo d’interpretazione conforme impone a tutti gli organi nazionali,
soprattutto ai giudici, d’interpretare il proprio diritto interno in modo quanto
più compatibile con le prescrizioni del diritto comunitario. Ciò si ricava da
una lettura degli artt. 4, n. 3 TUE e 288 TFUE.
In questo caso in una controversia tra privati, i giudici non potendo
immediatamente applicare la direttiva, che necessita per sua stessa natura
della normazione statale, possono individuare, tra tutti i significati possibili
della norma interna, quello che appare maggiormente conforme all’oggetto
ed allo scopo della direttiva disciplinante la materia, devono cioè seguire il
metodo teleologico, che consente di adattare per via interpretativa il contenuto della disposizione interna agli obiettivi prescritti dall’ordinamento
comunitario. Tale orientamento venne esplicitato con chiarezza dalla Corte
di Giustizia nella sentenza Adeneler che affermava: ”il principio di interpretazne
conforme richiede nondimeno che i giudici nazionali facciano tutto quanto compete
loro, prendendo, in considerazione il diritto interno nella sua interezza e applicando
i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena
efficacia della direttiva di cui trattasi e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest’ultimo”.
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Compendio di Diritto dell’Unione Europea
In questo modo le norme vengono direttamente applicate dal giudice nazionale nelle controversie tra privati attraverso l’interpretazione conforme del
diritto, a tal punto che la direttiva nel sistema giuridico nazionale produca
degli effetti indiretti orizzontali. Non a caso spesso la Corte ha utilizzato il criterio dell’interpretazione conforme per ovviare all’annosa questione dell’effetto diretto delle direttive, preoccupandosi più dell’efficacia sostanziale e non
formale della norma comunitaria.
Rimangono dei casi in cui il criterio dell’interpretazione conforme non
può essere utile. Per esempio, quando vi sia una palese e non sanabile difformità tra la norma interna e quella contenuta nella direttiva in questo caso se la
norma comunitaria è provvista di effetto diretto, il giudice deve disapplicare la
norma nazionale contrastante, affinché non si pervenga ad un esito contrario
al diritto comunitario.
L’obbligo di interpretazione conforme o “adeguatrice” ha nel tempo acquisito spazi di interpretazione sempre più ampi, è stata utilizzata spesso dalla
Corte per allargare le competenze dell’Unione in campi non esplicitamente
previsti dal Trattato nonché ad incentivare azioni legislative da parte delle istituzioni europee in materie in cui si riscontravano delle lacune normative.