Riassunto dal testo Diritto Amministrativo Europeo

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Riassunto dal testo Diritto Amministrativo Europeo
Università degli Studi di Salerno
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica in
Scienza dell’Amministrazione e dell’Organizzazione
Diritto Amministrativo Europeo
A.A. 2007 – 2008
Riassunto dal testo
Diritto Amministrativo Europeo
Prof. De Lucia
Studente: Aniello Spina – 1220300118
CAPITOLO III
I CARATTERI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO
1. LA COMUNITÀ EUROPEA COME ORDINAMENTO GIURIDICO
È da tempo recepito in giurisprudenza e dottrina l’assunto per cui la Comunità sia
un ordinamento giuridico, intendendo per tale “un insieme organizzato e strutturato di
norme giuridiche provvisto di fonti proprie, di organi e procedure idonee a emetterle,
interpretarle, farne constatare e, se del caso, sanzionarne le violazioni”.
L’ordinamento giuridico comunitario è retto da una serie di principi contenuti nei
Trattati, ai quali se ne sono aggiunti altri il cui sviluppo coerente è opera della Corte di
giustizia che ha assunto un ruolo sostanzialmente creativo tramite una serie di
peculiari tecniche interpretative. Oltre che a presiedere all’assetto comunitario, i
principi regolano i rapporti con i sistemi giuridici degli Stati membri e, soprattutto,
sono alla base dei diritti conferiti direttamente ai singoli.
È stata la Corte di giustizia che ha elaborato la tesi della Comunità come distinto
ordinamento giuridico: secondo una sentenza guida (Van Gena & Loos, 5.2.1963,
causa 26/62) “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel
campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche
se in settori limitati ai loro poteri sovrani; ordinamento che riconosce come soggetti
non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”. Di poco successiva è un’altra
sentenza celebre della Corte (Costa, 15.7.1964, causa 6/64), con cui venne sviluppata
la tesi dell’originalità dell’ordinamento comunitario: “a differenza dei comuni trattati
internazionali, il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato
nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato
e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare”.
L’ordinamento comunitario è da considerarsi un ordinamento di nuovo genere
con caratteristiche autonome nei rispetti sia dell’ordinamento internazionale che di
quello degli Stati. Questi ultimi hanno trasferito alla Comunità una parte della propria
sovranità, inizialmente in campi circoscritti e di seguito in settori sempre più ampi; gli
Stati membri, inoltre, non possono più esercitare i loro poteri nei settori trasferiti, se
non nei limiti ed alle condizioni previste dal diritto comunitario, e si devono astenere
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da qualsiasi iniziativa che possa compromettere lo sviluppo della Comunità.
In tale contesto sono tre i principi caratterizzanti l’ordinamento comunitario che
rilevano ai nostri fini: la preminenza del diritto comunitario rispetto al diritto
nazionale; la diretta applicabilità di una parte degli atti comunitari; l’efficacia
diretta, ancora di una parte degli atti comunitari. I primi due principi attengono
ai rapporti tra le fonti dell’ordinamento comunitario e degli ordinamenti nazionali,
fondando il sistema unitario o monistico, cui si riferisce costantemente la Corte di
giustizia. Il principio dell’efficacia diretta, invece, attiene alla qualità che hanno certi
atti comunitari di fondare direttamente situazione giuridiche soggettive di vantaggio
che gli interessati possono far valere davanti ai giudici nazionali o comunitari, a
seconda del caso. Per quanto chiaramente distinti in linea teorica, i tre principi sono in
concreto molto meno distinguibili, anche perché rappresentano l’espressione di una
medesima posizione del diritto comunitario nei rispetti dei diritti nazionali e delle
posizioni dei singoli.
2. LA PREMINENZA DEL DIRITTO COMUNITARIO SUL DIRITTO NAZIONALE
Per quanto riguarda il rapporto con gli ordinamenti nazionali, il diritto
comunitario si impone al diritto degli Stati membri, secondo il criterio detto della
preminenza
del
diritto
comunitario
sulle
disposizioni
nazionali
eventualmente
contrarie. Il principio è stato posto in termini chiarissimi nella più volte citata sentenza
Costa del 15.7.1964, e successivamente ribadito senza eccezioni. La preminenza del
diritto comunitario rappresenta uno dei caratteri genetici del sistema comunitario: il
diritto comunitario è interpenetrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri e
rappresenta per essi un imperativo incondizionato.
Il diritto comunitario implica in particolare che non vi possano essere iniziative
degli Stati membri capaci di attentare alla piena efficacia delle disposizioni
comunitarie. Tale principio risulta anche dal collegamento individuato dalla Corte tra
“preminenza” e “diretta applicabilità” del diritto comunitario.
La conseguenza giuridica maggiore è che il diritto comunitario prevale sulle
norme interne che siano in contrasto con esso, vuoi anteriori che posteriori.
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In caso di norme nazionali anteriori, l’applicazione del principio di supremazia
non è particolarmente innovativa anche sulla sola base del criterio della successione di
leggi nel tempo tipico degli ordinamenti nazionali. Per l’Italia il principio è formalizzato
all’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile; ma,
come detto, lo stesso principio è proprio di tutti i Paesi dell’Unione europea.
Nuovo e diverso è il caso della non applicazione di norme nazionali successive
alla disciplina comunitaria, che allude al criterio della competenza nella produzione
delle fonti del diritto, ed in particolare all’attribuzione alla Comunità di una
competenza primaria in determinati settori, ove di conseguenza gli Stati membri
hanno una formale limitazione di sovranità, tra cui un potere normativo esercitabile
solo secondo i limiti del diritto comunitario e nel rispetto dei suoi caratteri.
Il principio è stato considerato dalla Corte di giustizia come inerente al diritto
comunitario: “scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non
potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi
provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne
risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità” (sentenza Costa, cit.).
In effetti, assumendo per proprio il punto di partenza della Corte di giustizia tutti
gli svolgimenti giurisprudenziali che si sono determinati risultano coerenti con il
principio di supremazia ed il carattere monistico del sistema complessivo. È sul piano
nazionale, invece, che non trova ancora una convincente spiegazione il criterio della
disapplicazione delle norme interne contrastanti con il diritto comunitario.
3.
LA DIRETTA APPLICABILITÀ DELLE NORME COMUNITARIE
Passando alla diretta applicabilità, si tratta di una nozione che ha un espresso
fondamento nel Trattato CE. All’art. 249 [ex art. 189], infatti, si prevede che “il
regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”.
Su tale base, è stato chiarito dalla giurisprudenza che gli atti direttamente
applicabili non necessitano di alcun ulteriore atto degli Stati per assumere vigenza
negli ordinamenti nazionali e, a condizione di avere diretta efficacia, possono essere
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fatti valere da chi ne abbia interesse. In particolare, l’entrata in vigore del
regolamento e la sua applicazione nei confronti dei soggetti interessati non abbisogna
di alcun tipo di ricezione nel diritto nazionale. Anzi gli Stati membri sono tenuti, in
forza degli impegni da essi assunti con la ratifica del Trattato, a non ostacolare la
diretta applicabilità dei regolamenti e delle altre norme comunitarie, che è condizione
essenziale per la loro applicazione simultanea ed uniforme nell’intera Comunità. Gli
Stati membri devono altresì astenersi dall’adottare provvedimenti atti a sminuire la
competenza della Corte a pronunciarsi su qualsiasi questione di interpretazione del
diritto comunitario o di validità degli atti emanati dalle istituzioni.
La nostra Corte costituzionale ha per la sua parte sempre garantito questi
principi, contribuendo a bloccare una iniziale prassi di riprendere il contenuto
sostanziale di regolamenti comunitari con norme legislative nazionali dello stesso
tenore.
Così intesa, la diretta applicabilità può essere ben distinta dalla efficacia diretta,
malgrado le frequenti commistioni anche nella stessa giurisprudenza comunitaria. La
nozione di diretta applicabilità rileva infatti, da un lato, nei rapporti tra il legislatore
comunitario ed il legislatore nazionale, quale criterio ordinatorio delle fonti; dall’altro,
quale criterio di disciplina dei rapporti tra individui, avendo valore erga omnes.
Le due caratteristiche in esame delle norme comunitarie non sempre si
accompagnano: mentre tutti gli atti direttamente applicabili hanno di norma anche il
carattere della efficacia diretta, non è vero il contrario; come dimostra il caso delle
direttive.
I giudici nazionali si riferiscono ormai costantemente al carattere di diretta
applicabilità dei regolamenti comunitari per interpretarli ed applicarli nei casi loro
sottoposti. Ove non vi siano dubbi sulla loro interpretazione, circostanza che impone di
utilizzare la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, i giudici nazionali
usano di conseguenza i regolamenti comunitari come diretta disciplina del caso.
4.
L’EFFICACIA DIRETTA DELLE NORME COMUNITARIE
L’efficacia diretta (o effetto diretto), invece, evidenzia la capacità di alcuni atti
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comunitari di fondare direttamente situazioni giuridiche soggettive dei singoli che i
giudici nazionali devono tutelare. Lo sviluppo del principio dell’efficacia diretta è
principalmente dovuto all’esigenza di garantire pienamente le situazioni giuridiche
soggettive scaturenti dal diritto comunitario. Ma riconoscendo ai singoli talune
situazioni giuridiche direttamente tutelabili davanti ai giudici nazionali, si affianca un
nuovo strumento di integrazione agli strumenti di controllo sull’applicazione del diritto
comunitario.
Di regola, il principio consente di compensare le mancanze degli Stati membri,
ma può rilevare anche nei confronti delle carenze delle istituzioni comunitarie, come
vari casi giurisprudenziali hanno evidenziato.
Come è stato ben sintetizzato dalla Corte di giustizia nella celebre sentenza
Simmenthal (sentenza 9.3.1978, cit.), i principi ora esaminati comportano che:
a ) le norme comunitarie esplicano la pienezza dei loro effetti in maniera
uniforme in tutti gli Stati membri, e sono pienamente e uniformemente applicate per
tutto il tempo della loro vigenza;
b ) dette norme sono fonte immediata di diritti ed obblighi per tutti coloro che
esse riguardano, Stati membri e singoli;
c) i giudici hanno il compito di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto
comunitario;
d ) sono inapplicabili le disposizioni nazionali preesistenti in contrasto con gli atti
comunitari;
e ) è impedita la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, ove
incompatibili con le norme comunitarie.
A parte le disposizioni dei Trattati, normalmente gli atti comunitari che sono
direttamente applicabili hanno anche il carattere della diretta efficacia. Ciò vale per i
regolamenti, del tutto simili alle normali fonti nazionali, e ben definiti all’art. 249 [ex
art. 189] Tr. CE in modo da far concludere alla Corte di giustizia che il regolamento “in
ragione della sua stessa natura e della sua funzione nell’ambito delle fonti del diritto
comunitario, ha efficacia diretta ed è perciò atto ad attribuire ai singoli dei diritti che i
giudici devono tutelare”. Peraltro, sono frequenti i regolamenti comunitari che
rimandano ad atti nazionali di attuazione e completamento, e che pertanto assumono
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efficacia diretta al verificarsi di tali situazioni, dai regolamenti stessi previste come
condizioni.
Anche le decisioni hanno efficacia diretta, senza che vi sia in principio differenza
tra le decisioni che hanno per destinatari i singoli e quelle che si rivolgono agli Stati.
Nel secondo caso, infatti, valgono le considerazioni già esaminate per le disposizioni
del Trattato, e la giurisprudenza comunitaria ha correttamente stabilito che sarebbe
incompatibile con la forza obbligatoria conferita alle decisioni dall’art. 249 [ex art.
189] Tr. CE negare ai singoli di far valere i diritti che loro conseguono dalla decisione,
pur formalmente indirizzata ad uno Stato: “Gli effetti di una decisione possono non
essere identici a quelli di una disposizione contenuta in un regolamento, ma tale
differenza non esclude che il risultato finale, consistente nel diritto del singolo di far
valere in giudizio l’efficacia dell’atto, sia lo stesso nei due casi” (sentenza Grad,
6.10.1970, causa 9/70).
Ma lo stesso criterio vale anche per le direttive quando le disposizioni di una
direttiva risultino, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente
precise. Una norma comunitaria è incondizionata se sancisce un obbligo non soggetto
ad alcuna condizione; né subordinato, per quanto riguarda la sua osservanza o i suoi
effetti, all’emanazione di alcun atto da parte delle istituzioni della Comunità o degli
Stati membri. E poi sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo
ed applicata dal giudice, allorché sancisce un obbligo in termini non equivoci.
Rispetto ai regolamenti, la cui efficacia ha rilievo sia verticale che orizzontale,
ovvero tanto nei rapporti tra i singoli e le pubbliche autorità quanto nei rapporti tra i
singoli, le direttive si differenziano secondo la Corte di giustizia per l’efficacia solo di
tipo verticale e possono essere fatte valere solo nei confronti dello Stato, da intendersi
in senso molto più ampio di Stato-persona (sentenze Marshall, 26.2.1986, causa
152/84; Foster, 12.7.1990, causa C-188/89 e di recente Kampelmann, 4.12.1997,
cause C-253, 258/96). Sulla loro base, quindi non si possono creare di per sé obblighi
a carico di un singolo, né la direttiva può essere fatta valere in quanto tale nei
confronti dello stesso, persona fisica o giuridica.
Il carattere della diretta applicabilità è stato riconosciuto dalla giurisprudenza
nazionale anche alle cd. statuizioni interpretative della Corte di giustizia, ovvero alla
normativa comunitaria nella interpretazione datane da quest’ultima. Emblematica è la
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posizione della nostra Corte costituzionale che, dopo aver accettato (sent. n.
170/1984) che il criterio della diretta applicabilità porta alla prevalenza del diritto
comunitario sul diritto nazionale eventualmente con esso contrastante, ha affermato
che il principio vale non soltanto per i regolamenti comunitari, ma anche per le
statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia. Con una prima
sentenza (n. 113/1985) si è fatto riferimento alle statuizioni interpretative della Corte
pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 [ex art. 177] Tr. CE.
Successivamente, con la sentenza n. 389/1989 analoga efficacia è stata riconosciuta
anche alle norme comunitarie come interpretate dalla Corte in sede contenziosa ai
sensi dell’art. 226 [ex art. 169] Tr. CE. Ed infine, con sentenza n. 168/1991, si è
coerentemente ritenuto che la medesima conclusione possa raggiungersi anche in
riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia sulle direttive comunitarie
direttamente applicabili. “È proprio nel sistema delle fonti del medesimo ordinamento
comunitario che vanno verificate - secondo la sentenza della Corte costituzionale da
ultimo citata - le condizioni per l’immediata applicabilità, nei singoli ordinamenti degli
Stati membri, della normativa in esso prodotta”.
Le tre nozioni di supremazia del diritto comunitario, di diretta applicabilità e di
efficacia diretta - da sole considerate o in combinazione tra loro - assicurano ancora
un costante sviluppo del sistema comunitario, come si constata in ogni nuova fase,
della integrazione giuridica europea, alla cui base stanno sempre le fondamentali idee
guida poste dalla Corte di giustizia fin dall’inizio degli anni Sessanta.
5. LA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI
I caratteri dell’ordinamento giuridico comunitario sono ben evidenziati anche
dalla disciplina dei diritti fondamentali.
I Trattati istitutivi non contengono alcun Bill of Rights né richiami generali ai
diritti fondamentali; allo stesso modo non prevedono forme di tutela giurisdizionale
basate sui diritti fondamentali. Le sole “libertà” costituzionali previste dai Trattati sono
le quattro economiche fondamentali, ma con un significato ed una portata diversa da
quella tradizionalmente assicurata nelle costituzioni nazionali.
La mancanza di questa disciplina nei Trattati costituisce una evidente lacuna per
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chi li interpreta come “costituzione comunitaria” (cfr. Cap. V, par. 4); tanto più
rilevante se si considerano gli sviluppi intervenuti in tema di ordinamento comunitario
e dell’Unione, di cittadinanza europea, di tutela dei diritti.
Per comprendere i caratteri della questione, merita richiamare le principali tappe
sia dell’evoluzione giurisprudenziale che del diritto primario della Comunità.
La prima occasione in cui la Corte affermò che “i diritti fondamentali della
persona fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte
garantisce l’osservanza”, fu la sentenza Stauder del 12.11.1969, causa 29/69.
Su questa base si è poi sviluppata un’ampia giurisprudenza che ha riconosciuto
piena tutela avverso le misure della Comunità in contrasto con i diritti fondamentali
riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri; ha dato rilievo ai trattati
internazionali in materia; ha esteso la tutela dei diritti fondamentali anche nei rispetti
degli atti degli Stati membri in attuazione del diritto comunitario.
Il tema dei diritti fondamentali ha acquisito diretta rilevanza nel diritto primario
della Comunità e dell’Unione, a partire dal Trattato di Maastricht. Nel Trattato UE il
terzo considerando del Preambolo conferma l’attaccamento “ai principi della libertà,
della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché
dello Stato di diritto”. L’art. 6 [ex art. F], c. 2, TUE prevede poi che “l’Unione rispetta i
diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea [...] del 1950, e
quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario”. Infine, l’art. 177 [ex art. 130U], c. 2, Tr. CE
prevede che la politica della Comunità nel campo della cooperazione allo sviluppo
“contribuisce all’obbiettivo generale di sviluppo e consolidamento della democrazia e
dello Stato di diritto, nonché al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali”.
Per
quanto
le
richiamate
previsioni
del
Trattato
di
Maastricht
abbiano
rappresentato un evidente avanzamento della rilevanza costituzionale comunitaria dei
diritti fondamentali, esse sono risultate ancora compromissorie principalmente a causa
della limitata giustiziabilità di questa parte del Trattato UE.
Nel processo evolutivo della questione è poi intervenuto il fondamentale parere
della Corte di giustizia n. 2/94, richiesto dal Consiglio sulla proposta di adesione della
Comunità alla citata Convenzione del 1950. Non senza ragione, la Corte ha
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considerato che allo stato del diritto comunitario non vi è competenza per aderire alla
Convenzione, che rappresenta un ben distinto sistema giuridico internazionale.
Nell’occasione la Corte ha peraltro ribadito che: a ) il rispetto dei diritti fondamentali è
condizione della legittimità degli atti della Comunità; b ) i diritti fondamentali formano
una parte sostanziale dei principi generali, la cui osservanza è assicurata dalla Corte
stessa. A tal fine la Corte trae ispirazione dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri e dagli indirizzi forniti dai trattati internazionali per la protezione dei
diritti umani, cui aderiscono gli Stati membri. Tra questi atti internazionali, la Corte ha
sempre riconosciuto un particolare significato alla Convenzione del 1950, più volte
citata.
6.
L’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO NAZIONALE
I principi
dell’ordinamento
comunitario
ora
richiamati hanno
portato
ad
importanti conseguenze anche per quanto riguarda l’interpretazione del diritto
nazionale. I giudici, ma anche le pubbliche amministrazioni e, in generale, tutti coloro
che sono tenuti all’applicazione del diritto comunitario hanno l’obbligo di interpretare il
diritto nazionale in conformità al diritto comunitario, comprensivo sia del diritto scritto
che dei principi generali di diritto elaborati dalla Corte di giustizia.
Tale criterio interpretativo riecheggia in modo diretto l’analogo obbligo di
interpretazione del diritto nazionale secondo costituzione, rafforzando il carattere
costituzionale del sistema comunitario.
Al riguardo, anche la nostra Corte costituzionale non ha mai avuto dubbi,
affermando già prima della Corte di giustizia che tra le varie possibili interpretazioni
della norma deve essere privilegiata quella più conforme sia alle prescrizioni degli
organi costituzionali, sia ai principi del nostro ordinamento che garantiscono
l’osservanza del Trattato e delle norme da esso derivate.
L’applicazione generalizzata dell’obbligo di interpretazione conforme, quale
ulteriore espressione della diretta applicabilità degli atti comunitari da valere
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principalmente nei casi in cui sia dubbia la loro efficacia diretta, non può tuttavia
portare alla violazione di principi generali comuni sia al diritto comunitario che ai diritti
nazionali. Un profilo di particolare rilievo è stato esaminato dalla Corte di giustizia
(sentenza Kolpinghuis, 8.10.1987, causa 80/86) in un caso ove una direttiva non
ancora trasposta in diritto nazionale avrebbe portato ad aggravare dal punto di vista
penale la posizione della persona coinvolta, che aveva agito in violazione della
direttiva stessa, con la violazione del principio nulla poena sine lege e del criterio
generale per cui lo Stato non può, neanche indirettamente, beneficiare della
situazione di inadempimento al diritto comunitario da esso stesso determinata. La
conclusione della Corte è stata che una direttiva non può, di per sé e indipendentemente dalle norme di trasposizione, avere l’effetto di aggravare la responsabilità
penale dei soggetti coinvolti.
7.
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
Dalla configurazione del sistema comunitario come ordinamento giuridico con
proprie
peculiari
caratteristiche
derivano
sviluppi
di
grande
portata
anche
relativamente ad istituti finora caratterizzati in senso unicamente nazionale. Uno dei
casi più rilevanti è quello della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per
violazione del diritto comunitario, ove la Corte di giustizia ha sviluppato una
giurisprudenza che ha assunto caratteri di vero e proprio sistema organico, e che la
nostra Corte costituzionale considera vera e propria fonte di diritto tale da integrare le
direttive comunitarie.
Il punto che qui merita sottolineare è che:
a ) i recenti sviluppi sono fondati dalla Corte di giustizia sul diritto comunitario
stesso, e non sui principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, come recita
l’art. 288 [ex art. 215], c. 2;
b ) si tratta di conseguenze dei principi di supremazia del diritto comunitario e di
effetto diretto che non trovano equivalente nel diritto internazionale, ove, non per
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caso, la responsabilità degli Stati è ancora ad uno stadio assai insoddisfacente;
c) a differenza che per l’obbligo di interpretazione del diritto nazionale in conformità ai principi comunitari, che lascia ai giudici nazionali tale incombenza, la nuova
giurisprudenza fonda un vero e proprio rimedio comunitario.
Una
prima
giurisprudenza
della
Corte
di
giustizia
aveva
riguardato
la
responsabilità extracontrattuale delle istituzioni e degli organi comunitari; l’unica che,
come
detto,
trova
espresso
riferimento
nel
Trattato.
I
presupposti
di
tale
responsabilità sono ovviamente di carattere generale a tutti gli ordinamenti
(comportamento contro ius, verificarsi del danno, ecc.). ma nelle varie giurisdizioni
variano molto le condizioni particolari per la configurabilità della responsabilità
aquiliana e per la possibilità di far valere in giudizio le proprie ragioni a tal fine. La
previsione del secondo comma del citato art. 288 [ex art. 215] Tr. CE aveva
inizialmente rappresentato un innegabile progresso rispetto ad ogni precedente
disciplina sovranazionale, riferendosi ai “principi generali comuni ai diritti degli Stati
membri”; tanto che, non per caso, è su questa disposizione che si è sviluppata la
giurisprudenza della Corte di giustizia sui principi generali di diritto comunitario. Ma i
“principi generali comuni” potevano anche essere intesi, in senso letterale, come un
minimo comune denominatore a tutti gli ordinamenti degli Stati membri, limitando
fortemente la portata della previsione del Trattato in tema di responsabilità.
Assumendo invece la prospettiva dell’effetto utile, la Corte ha utilizzato i principi degli
ordinamenti nazionali, anche se non veramente comuni a tutti gli ordinamenti, che
apparivano di volta in volta funzionali alla migliore soluzione in senso comunitario
della fattispecie in esame.
Per
quanto
riguardava gli Stati membri,
fin
dalla
prima giurisprudenza
comunitaria (come la sentenza Humblet, 16.12.1960, causa 6/60), si è affermata
l’idea che fosse configurabile anche la loro responsabilità, in base alla circostanza che
la responsabilità dei pubblici poteri per la riparazione degli effetti illeciti determinati è
principio caratterizzante tutti i sistemi giuridici, e che dunque potesse verificarsi anche
quando l’illecito consiste nella violazione di norme comunitarie. Sino alla sentenza
Francovich del 1991, tuttavia, la Corte ha ritenuto che le condizioni della
responsabilità degli Stati fossero determinate dalle disposizioni nazionali sulla
responsabilità extracontrattuale delle rispettive istituzioni, secondo la logica del
principio di autonomia procedurale (sentenze Russo, 22.1.1976, causa 60/75;
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Granaria, 13.2.1979, causa 101/78): in caso di pregiudizio subito da un singolo per
intervento di uno Stato membro incompatibile con il diritto comunitario, incombe allo
Stato di riparare le conseguenze “nel quadro delle disposizioni nazionali relative alla
responsabilità dello Stato”.
Una vera e propria svolta giurisprudenziale si è determinata nel 1991, con la
sentenza Francovich (19.11.1991, cause C-6 e 9/90), quando la Corte ha esaminato
un caso di possibile responsabilità dello Stato italiano per mancato recepimento di una
direttiva (80/987/CEE) concernente un sistema di garanzie per i lavoratori subordinati
in caso di insolvenza dei propri datori di lavoro, che non aveva carattere selfexecuting.
Il punto della sentenza che qua interessa è quello relativo alla definizione dei
fondamenti comunitari della responsabilità dello Stato per i danni derivanti dalla
violazione degli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto comunitario. La
risposta positiva -che va in senso contrario a quanto sostenuto da alcuni Stati intervenuti nel giudizio, secondo cui la Corte non avrebbe competenza a giudicare oltre ai
limiti, di stretta interpretazione, posti dall’art. 288 [ex art. 215] cit., e comunque in un
caso, come la responsabilità degli Stati, nel quale il diritto al risarcimento non può mai
scaturire dal diritto comunitario, ma solo dal diritto nazionale è stata questa volta
argomentata sulla base dei caratteri generali dell’ordinamento comunitario, come
progressivamente messi a fuoco a partire dalla sentenza Van Gena & Loos del 1963.
Tali caratteri comporterebbero, infatti, che i diritti che il sistema comunitario
attribuisce ai singoli possono sorgere non soltanto in relazione alle disposizioni ad
effetto diretto, ma anche in relazione agli obblighi che il Trattato CE impone agli Stati
membri ed alle istituzioni comunitarie. Ora, il diritto al risarcimento di tali danni da
parte degli Stati membri scaturirebbe dall’art. 10 [ex art. 5] del Trattato CE, che,
prevedendo per essi l’obbligo di adottare tutte le misure di carattere generale o
particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto
comunitario, comporterebbe anche l’obbligo di eliminare le conseguenze illecite di una
violazione del diritto comunitario. Oltre a tale previsione specifica, la Corte ritiene che
“è inerente al sistema del Trattato” il principio della responsabilità extracontrattuale
dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso
imputabili. Si estende così la portata dei principi già affermati dalla Corte di giustizia,
per i casi di disposizioni comunitarie ad effetto diretto (sentenze Ren e.
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16.12.1976, causa 33/76; Cornei, 16.12.1976, causa 45/76; S. Giorgio,
9.11.1983, causa 199/82), ove sono i giudici nazionali che devono assicurare ai singoli
la protezione giuridica delle situazioni soggettive scaturenti dal diritto comunitario.
Con la nuova giurisprudenza viene dunque creato un rimedio diretto contro gli
Stati come materia di diritto comunitario per violazione di obblighi da esso scaturenti;
e la questione della responsabilità viene così portata sul terreno prettamente comunitario, trovandosi lì le condizioni ed i principi per la configurabilità della responsabilità
dello Stato per casi di mancata tempestiva trasposizione in diritto nazionale di
direttive non direttamente efficaci.
Con la rilevanza delle posizioni giuridiche dei singoli e con gli strumenti
direttamente loro offerti per la relativa tutela, l’ordinamento comunitario si conferma
del tutto peculiare rispetto alle connotazioni dell’ordinamento internazionale: come
ben sottolineato dalla sentenza
Francovich
(punti 33-34)
“sarebbe
messa a
repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei
diritti da essa riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un
risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario
imputabile ad uno Stato membro. La possibilità di risarcimento a carico dello Stato
membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella fattispecie, la piena
efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di un’azione da parte
dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far
valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario”.
Dal combinarsi del principio di effettività della tutela delle posizioni dei singoli, di
“effetto diretto” del diritto comunitario, e di quello che può essere indicato come
“effetto indiretto” (ovvero il ruolo dei giudici e delle autorità nazionali nella protezione
degli individui) risulta così rafforzata sia la garanzia delle posizioni dei singoli che la
possibilità di una più completa attuazione delle direttive e degli altri atti comunitari
necessitanti attuazione da parte degli Stati, in una parola l’efficacia delle regole
comunitarie.
Così come i principi sulla responsabilità degli Stati membri sono desunti dal
diritto comunitario, anche le condizioni, in cui essa fa sorgere un diritto al risarcimento
del danno, sono dalla Corte di giustizia desunte dal diritto comunitario; in particolare,
dalla natura “sufficientemente seria” della violazione del diritto comunitario che è
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all’origine del danno provocato. Nel caso dell’omessa trasposizione di una direttiva, il
diritto al risarcimento va riconosciuto, secondo la Corte, al verificarsi di tre condizioni:
a ) che la direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli; b ) che il
contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni delia
direttiva; e ) che vi sia un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico
dello Stato ed il danno subito dai soggetti lesi. Tali condizioni corrispondono a quelle
da tempo individuate (sentenza Zuckerfabrik Schòppenstedt, 2.12.1971, causa 5/71)
in riferimento alla responsabilità della Comunità, ai sensi dell’art. 288 [ex art. 215] Tr.
CE, per esercizio del potere legislativo.
Se dunque il diritto al risarcimento del danno trova, alle condizioni dette, il suo
fondamento direttamente nel diritto comunitario, è nell’ambito del diritto nazionale
relativo alla responsabilità dello Stato che vengono definite le modalità per il
risarcimento; come l’individuazione del giudice competente e le modalità procedurali.
Per un più ampio esame di questi profili si rinvia al Capitolo XI.
Sulla base delle conclusioni della sentenza Francovich era da aspettarsi che,
sorte altre questioni di violazione da parte degli Stati di obblighi comunitari, diverse
dalla mancata trasposizione di direttive, la Corte sviluppasse i propri principi sulla
responsabilità, ponendo le basi di un vero e proprio regime comunitario generale della
responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. In effetti,
un’articolata serie di successive sentenze ha precisato ulteriormente le condizioni della
responsabilità ed individuato nuovi casi di responsabilità extracontrattuale.
La sentenza Dillenkofer (8.10.1996, cause C-178, 179, 188, 189, 190/94)
riprende il tema già trattato in Francovich. Secondo la Corte, il diritto al risarcimento
del danno può sorgere anche a fronte di una semplice trasgressione del diritto
comunitario quando il margine di discrezionalità del legislatore a fronte della direttiva
comunitaria è considerevolmente ridotto o insussistente.
Con le sentenze Brasserie du Pècheur e Factortame Ltd. (5.3.1996, cause C46/93 e C-48/93) si è poi affermata la responsabilità dello Stato per scorretta
trasposizione di una direttiva in diritto nazionale.
Circa il recepimento delle direttive, con la già citata sentenza Dillenkofer, la Corte
si è attribuito il potere di verifica sulla qualità della normativa nazionale che per
essere comunitariamente ineccepibile deve avere “efficacia cogente, incontestabile,
Pag. 14
specificità, precisione e chiarezza necessarie per garantire la certezza del diritto”.
Con la sentenza Lo/nas (23.5.1996, causa C-5/94), infine, sviluppando il punto
centrale della sentenza Francovich che non distingue tra violazioni connesse ad atti
legislativi od amministrativi, la stessa responsabilità dello Stato è stata configurata
per i danni cagionati da un provvedimento amministrativo di un organo statale
adottato in violazione del diritto comunitario. In tali casi, infatti, l’amministrazione non
dispone di significativi margini discrezionali, come può accadere per il legislatore, e la
semplice trasgressione del diritto comunitario consente di accertare l’esistenza di una
violazione sufficientemente grave e manifesta.
Gli sviluppi di cui ora si è detto sono dovuti alla Corte di giustizia, la cui
giurisprudenza si manifesta ancora una volta come la base per “il quadro
costituzionale di una struttura di tipo federalistico in Europa”.
8. QUESTIONI DELLA PREMINENZA DEL DIRITTO COMUNITARIO SUL
DIRITTO ITALIANO
La
preminenza
del
diritto
comunitario
sul
diritto
nazionale
è
principio
fondamentale posto fin dalla già ricordata sentenza Costa del 1964, secondo cui “scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione
appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento
interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso
il fondamento giuridico della stessa comunità”.
La Corte costituzionale ha per molto tempo respinto questo assunto. L’evoluzione
seguita dalla giurisprudenza costituzionale è riassumibile in tre fasi.
In una prima fase, la Corte costituzionale ha sostenuto la tesi che: a )
l’ordinamento giuridico comunitario è del tutto autonomo ed estraneo a quello
nazionale, con le rispettive giurisdizioni situate “in orbite giuridiche separate”; b ) le
fonti comunitarie sono caratterizzate per propri elementi, in un rapporto con le fonti
nazionali ispirato al criterio della competenza.
Più in particolare, con la sentenza n. 14/1964, si affermò che l’adesione alla
Comunità non determina “alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine all’efficacia
Pag. 15
nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non
avendo l’art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il Trattato,
un’efficacia superiore a quella propria di tale fonte del diritto”. Ne consegue la
conclusione che ogni ipotesi di conflitto tra le norme interne e quella di esecuzione del
Trattato non può dare origine né a questioni di costituzionalità, né tantomeno a rinvìi
alla Corte comunitaria, perché rimane ben saldo “l’imperio delle leggi posteriori a
quella di esecuzione del Trattato”.
L’intera costruzione era basata su principi di diritto nazionale, ed in particolare
sul rilievo dell’art. 11 Cost. “L’Italia consente, in condizione di parità con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a
tale scopo”.
In verità anche in questa prima fase la Corte implicitamente ammetteva varie
forme di integrazione tra i due ordinamenti, che così apparivano meno distinti e
separati rispetto alle affermazioni generali. In tal senso basti ricordare i principi della
diretta
applicabilità
dei
regolamenti
nell’accezione
data
dalla
giurisprudenza
comunitaria, e della abrogazione delle leggi anteriori per effetto di successivi
regolamenti comunitari; il divieto di provvedimenti interni, anche di solo carattere
riproduttivo,
integrativo
o
esecutivo,
che
possano
comunque
condizionare
l’applicabilità della normativa comunitaria; il principio della necessaria interpretazione
del diritto nazionale in senso conforme ai principi comunitari.
In una seconda fase, aperta dalla celebre sentenza n. 170/1984, la Corte
accoglie molta parte delle posizioni della Corte comunitaria a cominciare dal primato
del diritto comunitario, ma resiste su alcuni aspetti più di principio che di concreta
rilevanza.
Il dato più rilevante a partire dalla sentenza n. 170/1984 è che la Corte
costituzionale, pur continuando a riferirsi all’art. 11 Cost., accetta quale implicito
presupposto
della
nuova
impostazione
un
quadro
di riferimento
prettamente
comunitario e quindi una forte integrazione tra i due ordinamenti.
Da un lato, la sentenza n. 170/1984 ribadisce che le fonti comunitarie
appartengono al loro ordinamento e sono disciplinate dai principi di questo; dall’altro,
se ne riconosce la diretta applicabilità negli Stati membri e l’effetto invalidante sul
Pag. 16
contrastante diritto nazionale, precedente e successivo, fino poi a concludere per il
potere/dovere dei giudici di disapplicare il diritto nazionale difforme da quello
comunitario. Lo stesso potere/dovere è stato poi coerentemente esteso anche a tutte
le pubbliche amministrazioni (sentenza n. 389/1989).
Se a questi risultati si aggiunge poi che la Corte costituzionale aderisce
progressivamente ai più radicali sviluppi della giurisprudenza comunitaria, possiamo
verificare lo spostamento del parametro di riferimento della Corte dai principi
costituzionali a quelli comunitari, con adesione implicita al criterio della integrazione
tra ordinamenti.
La nostra Corte apparentemente resiste su alcuni ultimi capisaldi, quali la propria
insuperabile competenza per la tutela dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione
italiana e la spiegazione del potere/dovere di disapplicazione delle norme interne. Ma
si tratta di posizioni con scarsa motivazione già prima dei recenti sviluppi, e che con
l’entrata in vigore dei nuovi principi dovrebbero essere finalmente superate.
In verità, la nostra Corte ha dimostrato che “ciò che è sommamente improbabile
è pur sempre possibile”. Con la sentenza n. 232/1989 si è individuato un caso in cui il
diritto comunitario aveva posto in discussione uno dei diritti fondamentali nel nostro
ordinamento, quale il diritto alla difesa nel profilo della garanzia del poter agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
In una terza fase, infine, la Corte costituzionale ha precisato meglio l’ambito del
proprio ruolo con due importanti sentenze relative ai giudizi di costituzionalità delle
norme regionali promossi in via principale, così come di norme statali sempre quando
promossi in via principale.
Con la sentenza n. 384/1994, la Corte ha affermato la propria competenza sui
conflitti relativi a delibere legislative regionali che il governo abbia impugnato per
questioni di legittimità comunitaria. La motivazione di questa nuova posizione è in
principio condivisibile, in quanto basata sull’esigenza di contribuire all’affermazione
della certezza del diritto, prevenendo l’entrata in vigore di leggi regionali che
altrimenti, ove in contrasto con il diritto comunitario, dovrebbero poi essere
disapplicate. Speculare alla sentenza ora esaminata è anche la successiva n. 94/1995,
relative all’affermazione della Corte costituzionale anche per le questioni di legittimità
costituzionale di norme nazionali per contrasto con norme comunitarie, se impugnate
Pag. 17
in via principale dalle regioni. Identica è la motivazione connessa all’esigenza di
assicurare la certezza del diritto.
9. LA NON APPLICAZIONE DEL DIRITTO NAZIONALE CONTRASTANTE CON
IL DIRITTO COMUNITARIO
Uno dei corollari più significativi del principio di preminenza del diritto
comunitario sul diritto nazionale è che nell’applicazione del diritto comunitario non è
opponibile alcuna norma interna che vi contrasti.
Il principio, che la Corte di giustizia definisce di “disapplicazione” delle norme
interne contrastanti con il diritto comunitario, era già contenuto nelle prime sentenze
guida degli anni Sessanta e ha avuto poi sistemazione definitiva nella più volte citata
sentenza Simmenthal del 1978. È ivi previsto un preciso obbligo per il giudice
nazionale - poi esteso a tutte le pubbliche amministrazioni e, in genere, a tutti coloro
che sono tenuti all’applicazione del diritto comunitario - di “applicare integralmente il
diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando
le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia
successiva alla norma comunitaria”.
Anche su questo tema, la Corte costituzionale mantiene una posizione in parte
diversa da quella della Corte di giustizia
Il potere di disapplicazione delle norme incompatibili con quelle comunitarie è
stato esplicitamente previsto per la prima volta nella sentenza n. 163/1977, ma in
riferimento alle sole leggi anteriori ai regolamenti e da questi “implicitamente
abrogate”. Ma già in precedenza, con la sentenza n. 205/1976 aveva riconosciuto ai
giudici una potestà di apprezzamento della situazione di contrasto del diritto nazionale
sopravvenuto in riferimento alla procedura di rinvio alla Corte di giustizia. Per il resto
la Corte era ferma nel ritenere che le norme contrarie al diritto comunitario non
fossero né nulle né inefficaci, ma costituzionalmente illegittime e denunziabili alla
Corte stessa.
La svolta radicale si ha con la citata sentenza n. 170/1984 che, pur ribadendo
l’autonomia dei due ordinamenti, afferma che l’ordinamento italiano consente alle
fonti comunitarie di operare come tali. Il giudice italiano “accerta che la normativa
Pag. 18
scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di
conseguenza
il
disposto,
con
esclusivo
riferimento
al
sistema
dell’ente
sovranazionale”.
In verità, i rapporti tra norme comunitarie e norme nazionali, anche nella lettura
della nostra Corte, possono trovare una completa spiegazione soltanto in riferimento a
parametri comunitari. L’art. 11 Cost., per quanto interpretato in modo evolutivo, non
consente di spiegare l’effetto abrogante delle norme comunitarie, così come i caratteri
della diretta applicabilità e della efficacia diretta. Il sistema può invece ricomporsi
armoniosamente se si abbandonano gli ultimi residui nazionali (del resto recessivi
nell’ottica già assunta per molti aspetti qualificanti dalla Corte costituzionale) a favore
della centralità dei principi sulle fonti comunitarie.
Al processo di integrazione il Trattato di Maastricht dà un contributo decisivo.
Anzitutto, il quadro delle competenze è completamente rivisto; pur mantenendo
l’impostazione funzionale, le competenze comunitarie sono ora classificate in esclusive
e concorrenti. Esse risultano poi assai ampliate specie considerando come la Comunità
continui ad espandere anche la portata delle originarie competenze attraverso le varie
tecniche dell’effetto utile, dei poteri impliciti, della procedura ex art. 308 [ex art. 235]
Tr. CE. In secondo luogo, il principio di sussidiarietà (art. 2 [ex art. B], c. 2, Tr. UE;
art. 5 [ex art. 3B], e 2, Tr. CE) determina una presenza generalizzata delle istituzioni
comunitarie in tutti gli affari a rilevanza europea, in una prospettiva di integrazione tra
ordinamenti. Siamo di fronte al perfezionamento del principio di cooperazione previsto
dall’art. 10 [ex art. 5] del Trattato di Roma, che implica il potere-dovere delle autorità
comunitarie di offrire alle autorità nazionali e regionali tutti i mezzi necessari per lo
sviluppo delle politiche comunitarie, nonché di intervenire direttamente ogni qualvolta
sia funzionale agli interessi comunitari.
10. VERSO UNA NUOVA DISCIPLINA DEI RAPPORTI TRA ORDINAMENTO
ITALIANO ED ORDINAMENTO COMUNITARIO
Sul piano nazionale, appare inappropriato il riferimento all’art. 11 Cost. per
valutare gli sviluppi del diritto comunitario e la loro compatibilità con i principi
costituzionali nazionali. L’art. 11 è stato essenziale per consentire inizialmente la
Pag. 19
nostra partecipazione alla Comunità europea, ma già dagli anni Sessanta è risultato
superato in relazione agli sviluppi della Corte di giustizia sui caratteri originali
dell’ordinamento giuridico comunitario. In particolare, sulla base dell’art. 11 Cost.
potevano essere motivate alcune limitazioni della sovranità, ma non dei veri e propri
trasferimenti di competenza come richiesti dal processo di integrazione europea.
In sostanza, la Comunità è risultata un ordinamento caratterizzato dalla
irresistibile progressione verso l’integrazione con gli Stati membri, con la conseguente
riduzione della tradizionale sovranità statale (si è vista nel Capitolo I la distinzione tra
vecchia e nuova sovranità) e un complessivo riassetto sia delle istituzioni che della
posizione dei singoli nel nuovo insieme.
Pare perciò alquanto strano che in dottrina solo poche voci abbiano richiamato
l’attenzione sull’art. 10 Cost., e sulla sua possibile rilevanza per la questione in esame.
Pur sapendo bene che questo articolo (secondo cui l’ordinamento italiano si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute) si riferisce al classico
diritto internazionale, inappropriato in riferimento al diritto comunitario che ha una
propria natura giuridica, l’art. 10, molto meglio dell’art. 11, consente l’entrata
continuativa delle norme comunitarie nei diritto nazionale. Se proprio si doveva
ricostruire la problematica dei rapporti tra i due ordinamenti sulla base delle
disposizioni della Costituzione del 1948, non sarebbe stato dunque azzardato riferirsi
più all’art. 10 che all’art. 11.
Pare in ogni caso venuto il tempo per una riscrittura degli artt. 10 e 11 Cost. per
adeguarli alla reale dimensione assunta dall’ordinamento comunitario, come è stato
realizzato in Germania con l’art. 23 del GG, ed anche in altri ordinamenti costituzionali
di Stati membri.
La Corte costituzionale, sentenza dopo sentenza, ha accettato la delineazione
dell’ordinamento
giuridico
comunitario
come
ordinamento
diverso
da
quello
internazionale e gli altri principali caratteri successivi. Con i risultati finora acquisiti la
Corte ha così valutato pienamente compatibile il sistema comunitario con i tratti di
fondo del nostro sistema costituzionale. Si tratta adesso, a seguito delle ulteriori
innovazioni previste dal Trattato di Maastricht e della chiarificazione generale delle
posizioni che ne consegue, di portare coerentemente a termine un percorso ormai
sostanzialmente pregiudicato nel senso della integrazione tra i due ordinamenti, e
Pag. 20
della nuova “sovranità condivisa”. Del resto, già nella sentenza n. 183/1973, la Corte
riconosceva che le limitazioni di sovranità connesse all’integrazione europea erano
consistenti, ma che erano liberamente assunte e trovavano “corrispettivo nei poteri
acquisiti in seno alla più vasta Comunità di cui l’Italia è parte”. Seguendo questo
insegnamento, si tratta di recuperare in sede comunitaria la sovranità perduta in sede
nazionale, dando vita alla nuova forma di “sovranità condivisa”, di cui si è parlato nel
Capitolo I, paragrafo 8.
Innovazioni molto interessanti erano previste per tutto il problema dei rapporti
tra i due ordinamenti nel progetto di revisione costituzionale elaborato nel 1997-98
dalla Commissione bicamerale del Parlamento per la riforma della Costituzione. Le
norme (artt. 114-116) del capo relativo alla “partecipazione dell’Italia alla Unione
europea” rappresentavano una delle migliori parti del testo riformatore, che però sono
state travolte dal fallimento generale della proposta. Il carattere bipartisan dei nuovi
principi lascia sperare gli inguaribili ottimisti che vi possa essere una prospettiva di
riforma costituzionale anche dei soli temi europei, condizione essenziale per una più
significativa nostra partecipazione al processo di integrazione europea.
Pag. 21
CAPITOLO IV
DIRITTO AMMINISTRATIVO EUROPEO E DIRITTI AMMINISTRATIVI NAZIONALI
1. LA COMUNITÀ EUROPEA QUALE COMUNITÀ DI DIRITTO
AMMINISTRATIVO
Passiamo
a
individuare
la
parte
del
diritto
comunitario
che
disciplina
l’organizzazione ed il funzionamento dell’amministrazione comunitaria ed i suoi
rapporti con i soggetto comunitari, ovvero il diritto amministrativo europeo.
Non vi è un comune modo di intendere i caratteri del diritto amministrativo
europeo, ed anzi si dibatte sulla sua stessa configurabilità unitaria. Manuali recenti
affermano infatti che “ancora oggi non esiste un unico diritto amministrativo della
Comunità europea. Ciò può non meravigliare, visto che il diritto comunitario viene
applicato direttamente dalle amministrazioni della Comunità solo in alcuni settori”
(Beutler e altri, 1998). Per contro, opere seminali considerano da tempo che il diritto
amministrativo sia il cuore dell’intero sistema giuridico comunitario, realizzandone gli
obbiettivi ed assicurando la connessione tra le tante branche del diritto comunitario
(Monaco, 1975).
La disputa ha sicura consistenza per quanto riguarda le connotazioni del diritto
amministrativo europeo, appare invece sbagliato contestare la configurabilità stessa
del diritto amministrativo europeo, ma, in ogni caso, è stata poi superata
dall’evoluzione del processo di integrazione e dalle innovazioni giuridico - istituzionali
che ne sono derivate.
Vediamo i principali elementi che confermano la configurabilità del diritto
amministrativo europeo e le ragioni per cui l’opinione contraria non appare fondata.
Nel
primo
senso,
occorre
anzitutto
richiamare
due
principi
caratterizzanti
l’ordinamento giuridico comunitario: il primo, per cui ne sono soggetti i singoli,
persone fisiche e giuridiche, e non solo gli stati; il secondo, relativo alla diretta
applicabilità ed all’efficacia diretta di vari atti comunitari. Consegue da questi principi
che il diritto comunitario rileva direttamente per tutti i propri soggetti, conferendo loro
nuove situazioni giuridiche soggettive comunitarie ed assicurando strumenti giuridici
Pag. 22
per far valere queste situazioni tanto in sede nazionale quanto in sede comunitaria.
Nel sistema comunitario i singoli vengono dunque direttamente considerati dal
diritto della Comunità, come nell’ambito dal diritto di quell’ordinamento giuridico. Si
ha un effetto giuridico conformativo diretto delle situazioni giuridiche dei singoli ad
opera del diritto comunitario, così come per converso i singoli hanno una serie di
opportunità per partecipare ai procedimenti comunitari e, in generale, per un rapporto
diretto con gli organi della Comunità e con le amministrazioni nazionali che operano in
funzione comunitaria.
Inoltre, la realizzazione delle politiche comunitarie è affidata ad un corpo di
norme cui è pacificamente attribuibile la connotazione di diritto amministrativo. Si
tratta, infatti, di norme che spaziano dall’organizzazione dei pubblici uffici, comunitari
e nazionali in funzione comunitaria alla disciplina dei procedimenti amministrativi sia
in termini di principi (ad esempio, di legittimo affidamento e di proporzionalità) sia di
contenuto sostanziale innovativo (come nel settore degli appalti pubblici); alla
garanzia delle posizioni giuridiche degli interessati, tanto nello svolgersi dell’azione
amministrativa quanto per l’eventuale reazione giurisdizionale nei rispetti dei
provvedimenti assunti.
Un terzo elemento è dato dallo svolgersi dell’attività comunitaria in un contesto
caratterizzato dal primato del diritto. Ciò comporta che le relazioni con i soggetti
dell’ordinamento comunitario e il modo di realizzazione delle politiche comunitarie
siano improntati a principi generali di diritto che la Corte di giustizia ha in parte
desunto dalle esperienze costituzionali comuni degli Stati membri, in altra parte
meglio definito in riferimento allo stesso sistema comunitario. Tali principi generali
sono di immediata rilevanza per il diritto amministrativo: basti pensare ai principi di
legalità dell’azione amministrativa, di motivazione obbligatoria, di trasparenza ed
accesso, di affidamento legittimo, di imparzialità, di buona amministrazione.
Per converso, le ragioni addotte per negare l’esistenza del diritto amministrativo
europeo non si dimostrano convincenti.
L’argomento più ricorrente è che l’esecuzione del diritto comunitario è ancora di
tipo indiretto, in quanto affidata di regola alle amministrazioni nazionali, le quali
operano secondo il proprio diritto nazionale.
Il criterio della esecuzione indiretta è certamente ancora quello di riferimento per
Pag. 23
l’esecuzione del diritto comunitario, pur se si sono ampliati gli interventi diretti della
Comunità, specie in settori di grande rilevanza come l’industria e la concorrenza.
Questo criterio va però inteso come riferito al modello di amministrazione e non
al diritto applicabile: è rivolto dunque a prevenire la crescita di un’organizzazione
diretta della Comunità non a garantire che le amministrazioni nazionali operino ancora
secondo il diritto nazionale. Lo sviluppo del diritto comunitario evidenzia infatti che è
stato possibile tener fermo il criterio base dell’esecuzione indiretta solo perché si è
espanso enormemente il diritto comunitario che deve essere osservato dalle
amministrazioni nazionali e grazie all’affermazione anche nei loro confronti del
potere/dovere di disapplicazione del diritto nazionale contrastante con quello
comunitario. In buona sostanza, di “indiretto” nel modo di esecuzione del diritto
comunitario c’è solo il sistema organizzativo, che di regola rimane quello incardinato
nel sistema nazionale; mentre il diritto comunitario funzionalizza progressivamente
l’attività di tutte le amministrazioni pubbliche nazionali, a tal punto che si parla di
amministrazioni comuni europee.
Altro argomento spesso utilizzato è la mancanza di una chiara sistemazione delle
funzioni pubbliche comunitarie e dei relativi atti giuridici. Nel sistema comunitario non
si rinviene, in effetti, un modello corrispondente a quello proprio degli Stati in cui
funzione legislativa, funzione di governo e funzione amministrativa (e gli atti in cui si
esprimono) sono distinte tanto in termini di costituzione formale che di costituzione
materiale. Tale circostanza è però eccessivamente enfatizzata e comunque appare
fuorviante: enfatizzata perché si sta delineando una distinzione tra funzione normativa
e funzione amministrativa. Fuorviante perché intende vincolare l’interpretazione del
sistema giuridico comunitario ai principi sulle funzioni e sugli atti elaborati per il diritto
degli Stati, che solo in parte sono utilizzabili nel contesto comunitario che da oltre un
trentennio la Corte di giustizia si affanna a qualificare come ordinamento di terzo tipo,
diverso tanto dall’ordinamento internazionale quanto da quello tipico degli Stati.
Una variante di questa lettura evidenzia poi l’inesistenza di un esecutivo
comunitario
e
di
una
chiara
distinzione
tra
diritto
costituzionale
e
diritto
amministrativo. Ma, di nuovo, in senso contrario si può constatare che la Commissione
rappresenta più che un embrione di esecutivo comunitario.
Un terzo elemento negativo per la tesi sostenuta sarebbe individuabile nella
Pag. 24
carenza di una giurisdizione amministrativa, o comunque specializzata per il
contenzioso amministrativo. Si tratta dell’argomento più debole, dato che dimentica
come anche precedentemente all’istituzione del Tribunale di primo grado, vero e
proprio giudice amministrativo, una delle molte sembianze della Corte di giustizia è
stata sicuramente quella di organo di giustizia amministrativa.
Al
di
là
dell’assorbente
considerazione
del
dato
normativo
sul
modello
giurisdizionale comunitario, la lettura in esame dimentica che è stata proprio la Corte
di giustizia ad edificare in via giurisprudenziale il sistema dei principi generali di diritto
comunitario, gran parte dei quali sono principi di diritto amministrativo.
Vi sono dunque buoni motivi per ritenere che il diritto amministrativo europeo è
configurabile con precisione in riferimento tanto allo sviluppo della normazione della
Comunità, quanto al diritto di formazione giurisprudenziale. La forte connotazione
amministrativa del sistema giuridico comunitario porta anzi ad accettare la lettura
della Comunità europea quale Comunità di diritto amministrativo.
2. I CARATTERI PRINCIPALI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO EUROPEO
I caratteri del diritto amministrativo europeo sono in parte simili a quelli dei
diritti amministrativi nazionali, e per altra parte peculiari al nuovo sistema giuridico
sovranazionale, circostanza spiegabile sulla base del processo circolare di esperienze
giuridiche tra Stati membri e Comunità, ma anche delle specificità giuridiche del
sistema comunitario.
Per quanto riguarda le similitudini, anche nel quadro comunitario il diritto
amministrativo è retto da una serie di principi, scritti e giurisprudenziali. Alcuni
principi “costituzionali” sono contenuti nei Trattati, come il principio di cooperazione
(art. 10 [ex art. 5] Tr. CE) e quello di sussidiarietà (art. 2 [ex art. B] Tr. UE e art. 5
[ex art. 3B] Tr. CE). Altri si ritrovano in regolamenti e direttive contenenti una
disciplina generale dei settori considerati e perciò considerata espressione di principi
generali del diritto amministrativo.
Molti altri principi generali sono poi stati elaborati dalla Corte di giustizia e
costituiscono parte essenziale dell’Acquis comunitario. Adesso si discute se consolidare
Pag. 25
una parte dei principi generali in diritto scritto, primario e derivato, al fine di
assicurare meglio i principi di certezza del diritto ed effettività del diritto comunitario.
Quale che sia l’esito di queste discussioni sulla possibile codificazione dei principi
generali e la redazione di testi unici per le maggiori materie comunitarie, anche in
sede comunitaria, è constatabile come il diritto amministrativo si sia eminentemente
sviluppato e tuttora si espanda ad opera primaria della giurisprudenza. È una
caratteristica
comune
ai
diritti
amministrativi
nazionali,
tanto
della
famiglia
continentale che di quella di common law.
Una
seconda
similitudine
con
i
diritti
amministrativi
nazionali
sta
nell’ampliamento della prospettiva del diritto amministrativo da regola del rapporto tra
potere pubblico e sfera dei privati - il binomio autorità/libertà - a disciplina dell’attività
che l’amministrazione svolge per la realizzazione di finalità sociali. In tale diversa
prospettiva, assumono rilievo molteplici interessi primari, così come si assicura un
ruolo attivo ai privati, cui vengono offerte occasioni di partecipazione al farsi
dell’attività amministrativa, con finalità in parte di garanzia e per altra parte di
concorso nel determinare l’esito del procedimento, anche con accordi, e comunque la
funzionalità complessiva del sistema amministrativo. Tale ultimo profilo è divenuto
sempre più rilevante nel sistema comunitario dove le opportunità offerte ai singoli
rappresentano uno dei maggiori strumenti di affermazione dell’effettività del diritto
comunitario.
Accanto alle similitudini con i diritti nazionali, vi sono poi varie peculiarità del
diritto amministrativo europeo.
Prima di tutto l’influenza particolare che su di esso svolgono alcuni principi guida
del sistema comunitario come il funzionalismo e la sussidiarietà. Il funzionalismo ha
assunto nuovo rilievo a seguito del Trattato sull’Unione europea.
Il principio di sussidiarietà implica una stretta integrazione in termini sia di
ordinamento che di amministrazione. Se ben intesa la sussidiarietà è alla base di una
concorrenza generalizzata tra amministrazioni, definibile in termini di organizzazione e
di procedimento come amministrazione composta. Nello stesso senso opera il profilo
amministrativo del principio di mutuo riconoscimento, che dà rilievo giuridico
comunitario a fatti e situazioni amministrative proprie in origine solo di un
determinato ordinamento giuridico nazionale.
Pag. 26
Per quanto riguarda i compiti e gli obbiettivi, già si è detto che il diritto europeo
appare assai peculiare in quanto, da un lato, le funzioni sono state definite nel
Trattato CE secondo il criterio delle competenze di attribuzione, e tali formalmente
rimangono anche nel Trattato sull’Unione europea; ma il loro ambito si è talmente
ampliato da mettere in crisi questo criterio. Dall’altro, nel quadro comunitario l’intero
impianto è visto in termini funzionali più che per materie e competenze, e quindi come
sistema dinamico finalizzato al perseguimento di obbiettivi, a loro volta non statici.
Dal primo punto di vista, la contrapposizione tra esecuzione diretta ed indiretta
appare superata da un più complesso assetto di relazioni segnate dall’apporto
congiunto sia di istituzioni ed organismi comunitari che di amministrazioni nazionali,
che in tal modo divengono parti della complessiva amministrazione europea integrata.
Dal punto di vista dell’organizzazione, aumentando le funzioni comunitarie in
quantità e spessore, ne è derivata la necessità di istituire nuovi organismi cui si affida
la cura di tali funzioni. In effetti, è così puntualmente avvenuto con l’aumento delle
direzioni generali della Commissione, la creazione di numerosi organismi atipici (quali i
servizi della Commissione con particolare autonomia, ed i comitati) e, di recente, con
l’istituzione di varie agenzie dotate di propria personalità giuridica e con larga
autonomia funzionale, talora centro di riferimento di amministrazioni a rete di
carattere europeo, ed in altri casi - quando è loro attribuito un potere regolativo o di
aggiudicazione - variabile europea della figura delle amministrazioni indipendenti.
Dunque, notevole dilatazione dell’organizzazione amministrativa diretta ed
indiretta della Comunità, ma anche influenza sulla organizzazione interna degli Stati
membri. Come aspetto della integrazione amministrativa si può infatti constatare un
sempre più frequente intervento della Comunità affinché siano istituite nuove
amministrazioni nazionali quali terminali locali o compartecipi dell’amministrazione
europea; oppure siano riformate amministrazioni già esistenti per adattarle alle nuove
responsabilità che discendono dalla integrazione dei due piani europeo e nazionale.
Tale effetto ha portata generale, ma è particolarmente avvertibile in tema di
agricoltura, ambiente e concorrenza.
3. LA DIMENSIONE EUROPEA DELLE SCIENZE GIURIDICHE E LE
PECULIARITÀ DELLA SCIENZA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO
Pag. 27
Si è finora discorso del diritto amministrativo come parte del diritto europeo
relativo alla pubblica amministrazione; vediamo adesso i caratteri della branca della
scienza giuridica che è particolarmente interessata a tale disciplina.
La
situazione è, al momento,
insoddisfacente vuoi per una
perdurante
“nazionalità” metodologica degli studi amministrativistici, vuoi per le difficoltà di
costruire
una
dogmatica
nuova
che
corrisponda
ai
particolari
caratteri
dell’amministrazione europea.
Esaminiamo le ragioni che hanno finora reso difficile l’elaborazione scientifica di
questa branca del diritto, iniziando da un’osservazione generale sulla “europeità” che
è invece propria di molte altre parti della scienza giuridica.
La prospettiva europea caratterizza tradizionalmente larga parte delle scienze
giuridiche. Nel contesto del diritto comune nell’Europa continentale il processo di
creazione ed applicazione del diritto ed il suo studio scientifico assumevano carattere
circolare tra
i vari Paesi, coinvolgendo organismi politici,
corti giudiziarie e
giureconsulti dei vari ordinamenti, tra loro strettamente comunicanti. Il diritto
elaborato localmente era di limitata portata, ed appariva naturale utilizzare i principi
generali elaborati dalla dottrina e dai tribunali di altri Paesi. Per quanto in linea
generale il diritto comune avesse solo un’autorità di carattere sussidiario rispetto al
diritto locale, la connessione tra le due dimensioni era strettissima.
La circolarità dell’esperienza giuridica non si esauriva nell’ambito continentale,
coinvolgendo anche l’altra grande famiglia giuridica: quella di common law. Si usa
distinguere tra il civil law, detto anche jus commune europaeum, proprio del
continente, e il common law inglese e dei Paesi che sono stati influenzati dal Regno
Unito, ma la differenza appare essere stata eccessivamente enfatizzata per ragioni di
carattere politico, più che giuridico. In effetti il civil law e il common law sono stati per
secoli due componenti di uno stesso contesto culturale non ancora influenzato dal
nazionalismo giuridico e dal positivismo.
La scienza giuridica era strutturalmente europea nel senso di una comune
formazione in università sorte molto prima degli Stati nazionali e impregnate delle
medesime idee, indipendentemente dalla loro collocazione nei diversi Paesi, e per una
circolazione delle persone e delle idee senza uguali sino ai tempi più recenti.
Pag. 28
Per tali motivi, si è oggi sostanzialmente d’accordo nel sottolineare il particolare
rilievo che la dottrina accademica ha avuto per la formazione del nostro comune
patrimonio giuridico: “sono stati i giuristi europei a precedere il diritto europeo”.
A questa strutturale “europeità” delle scienze giuridiche nei secoli considerati non
poteva partecipare il diritto amministrativo perché ancora non esisteva. Nell’accezione
di branca del diritto caratterizzata da proprie specifiche regole, e quindi distinta dal
diritto
comune
e
non
confusa
con
le
norme
genericamente
applicabili
alle
amministrazioni pubbliche, come tali sempre rinvenibili anche nelle più lontane
epoche, il diritto amministrativo si origina proprio con la rottura del diritto comune, e
rappresenta un’espressione giuridica del formarsi di Stati-nazione tendenzialmente
chiusi. È un diritto disciplinato da atti giuridici prettamente nazionali, ed in particolare
dalla legge; a sua volta espressione di organismi costituzionali diversi nei vari
ordinamenti. È un diritto progressivamente controllato da giudici, il più delle volte
distinti dai giudici ordinari e che non si rifanno a regole e principi generali anche di
altri ordinamenti, ma, di nuovo, a carattere nazionale. In tal senso, si connette
strettamente agli sviluppi statuali del diritto e alla sovranità dei rispettivi ordinamenti.
Nel continente le prime cattedre universitarie di diritto amministrativo sono
istituite all’inizio dell’Ottocento e solo alla conclusione dello stesso secolo, si può
parlare di un compiuto sviluppo della materia.
Sappiamo che in una delle due fondamentali famiglie giuridiche in cui si è
manifestato il diritto europeo, quella di common law, il diritto amministrativo non è
stato riconosciuto sino a tempi recenti.
Il diritto amministrativo è dunque, nella sua accezione di branca della scienza
giuridica, una tipica manifestazione della nazionalizzazione della cultura giuridica, che
anche nell’ambito continentale caratterizzato in precedenza dallo jus commune
assume tratti assai diversi, tanto che è risultato difficile ordinare i vari modelli
nazionali per gruppi omogenei.
In conclusione la dimensione europea è per il diritto amministrativo una recente
acquisizione, che non si riporta a periodi risalenti, né a precedenti istituti giuridici od
alle connesse elaborazioni dottrinali generali.
Malgrado il ridimensionamento delle distinzioni reso possibile dagli ultimi studi,
non è dubbio che l’elaborazione dei diritti amministrativi nazionali evoca l’idea di
Pag. 29
sistemi progressivamente chiusi, tesi ad esaltare le proprie peculiari radici.
Nel pieno dispiegarsi del diritto comunitario, con il connesso sviluppo di intere
parti di disciplina amministrativa comune agli Stati membri e di nuovi principi generali
elaborati dalla Corte di giustizia, la posizione richiamata manifestava, da un lato, la
difficoltà
ad
abbandonare
la
tradizionale
prospettiva
nazionale
del
diritto
amministrativo, per la quale, al massimo, sembra possibile giungere a forme di
comparazione
e
di
reciproca
imitazione
e
trasposizione
di
istituti;
dall’altro,
l’inadeguatezza della tradizionale dicotomia autorità/libertà per spiegare i nuovi
caratteri del diritto comunitario, proteso in nuove direzioni, come la realizzazione di un
mercato aperto e competitivo tramite originali forme di regolazione gestite da
organismi giuridici non conosciuti in passato, quali le autorità indipendenti. Un diritto
che solo in casi particolari limita ed obbliga, mentre normalmente si caratterizza per
gli obbiettivi da perseguire e quindi come “funzione”.
4. DALLE DIVERGENZE ALLE CONVERGENZE NEL DIRITTO
AMMINISTRATIVO
La situazione si è di recente modificata con un nuovo interesse per la
comparazione nel diritto amministrativo e con frequenti trapianti di istituti giuridici da
un ordinamento all’altro, accompagnati anche dal fenomeno delle imitazioni tra i vari
sistemi. Nell’insieme, il progressivo affermarsi di un approccio aperto contribuisce alla
convergenza dei vari modelli amministrativi e del relativo approccio scientifico.
Per quanto riguarda la comparazione, si è finalmente compreso che tale metodo
è non soltanto utilizzabile con profitto anche nel diritto amministrativo ma contribuisce
anche al fenomeno della convergenza. In tal modo la comparazione è un potente
ausilio alle riforme del diritto.
L’uso attuale della comparazione in diritto amministrativo non è, in verità,
un’assoluta novità dato che nell’Ottocento; si era ricorso ad essa sia per le soluzioni
dottrinarie sia per le indicazioni giurisprudenziali. Anche nel momento dell’affermarsi
delle scuole nazionali del diritto pubblico non mancavano autori che seguivano con
molta attenzione gli sviluppi di altri ordinamenti, apparentemente distanti e diversi.
In effetti, la comparazione non si esaurisce nell’esame della legge e del diritto
Pag. 30
scritto, ma dà rilievo alla giurisprudenza, alle norme organizzative, all’effettività dei
vari sistemi giuridici; tale approccio rappresenta uno dei principali valori della
comparazione, più che un suo limite, specie per il diritto amministrativo.
Più di recente, quando gli studi si sono staccati da una visione esclusivamente
Statocentrica e si è recuperato un approccio giuridico più aperto, la comparazione in
diritto amministrativo ha rappresentato un potente fattore di innovazione in quanto
aiuto a comprendere la varietà e la natura delle soluzioni proprie di altri ordinamenti e
la loro potenziale trasferibilità in diversi contesti.
La maggiore conoscenza di altri sistemi ha portato anche al fenomeno dei
trapianti di istituti giuridici da un ordinamento all’altro ed all’imitazione delle soluzioni
normative e giurisprudenziali per problemi similari che emergono nei diversi contesti.
Ciò implica ancora un approccio dualistico si “trapiantano” appunto istituti tra un
ordinamento ed un altro, che sono ancora distinti ma a lungo andare porta a superare
le ragioni di fondo della separatezza.
I
diversi
fenomeni
ora
descritti
determinano
nell’insieme
una
evidente
convergenza tra i principali sistemi di diritto amministrativo. Per convergenza si
intende il fenomeno complessivo, per cui, da un lato, si attenuano, in certi casi
addirittura si eliminano, le principali caratteristiche che differenziano i vari sistemi
amministrativi; e, dall’altro, i modelli nazionali si indirizzano in modo centripeto verso
istituti e soluzioni giuridiche similari.
Così, nei sistemi a tradizione di diritto comune, si ampliano in senso quantitativo
e qualitativo le deroghe pubblicistiche alla disciplina generale, e viceversa nei sistemi
“a diritto amministrativo” si infittiscono le occasioni in cui l’amministrazione viene
disciplinata da regole e principi del diritto comune.
Lo stesso può dirsi per molti altri aspetti, ma basti qua pensare alle similitudini
nelle varie forme di partecipazione nel procedimento amministrativo, vuoi che la
relativa disciplina discenda dal diritto scritto vuoi dai principi giurisprudenziali; così
come allo sviluppo di autorità amministrative indipendenti che esprimono nuove forme
di attività amministrativa regolativa e contenziosa; ma anche nell’amministrazione che
opera
in
modo
giustiziale,
assicurando
provvedimenti
che
sono
il
frutto
di
procedimenti aperti al contraddittorio, e sempre fondati su motivazioni specifiche.
Le ragioni di recenti sviluppi verso la convergenza dei sistemi amministrativi sono
Pag. 31
principalmente rinvenibili nella progressiva omogeneità delle questioni su cui
intervengono le pubbliche amministrazioni. Temi sostanzialmente simili non possono
trovare risposte amministrative molto differenziate. Il fenomeno ha anche un’evidente
rilevanza giuridica, dato che alla sempre maggiore omogeneità nelle questioni che si
pongono nei diversi Paesi, si risponde con soluzioni giuridiche che appaiono
sostanzialmente simili.
Il fenomeno generale trova un preciso riscontro nel diritto amministrativo, anche
per essere questa branca del diritto tra le più connesse ai caratteri dello sviluppo
economico e tecnologico.
Nel quadro dell’Unione europea, le condizioni per una vera armonizzazione dei
diritti nazionali e per la creazione di un nuovo diritto comune sono ben maggiori. La
Comunità europea, istituita con il primo obbiettivo di rimuovere le condizioni
economiche e giuridiche che rendevano i mercati degli Stati membri chiusi e protetti,
e di creare un nuovo mercato comune, ha riconosciuto al diritto un ruolo
probabilmente senza eguali negli ordinamenti contemporanei.
Gli effetti giuridici della globalizzazione e l’incidenza unificante della Comunità
europea si sono intrecciati strettamente e rappresentano il più potente fattore di
superamento della dimensione nazionale dei diritti, anche e soprattutto del diritto
amministrativo del quale stanno venendo meno le differenti fondamenta locali.
Siamo di fronte ad una vicenda apparentemente irreversibile per cui il diritto
amministrativo che si è originato quale disciplina giuridica espressiva delle peculiarità
dei vari ordinamenti e della loro storia complessiva, si apre all’influenza di altri
sistemi, attenua le diversità dei vari modelli nazionali, e soprattutto si omogeneizza
nel quadro europeo quale parte di un sistema giuridico più vasto ed integrato.
5.
LA CRITICA AL FENOMENO DELLA CONVERGENZA ED I SUOI LIMITI
Il
fenomeno
della
convergenza
dei
sistemi
amministrativi
nazionali,
particolarmente avvertibile nell’ambito europeo, è considerato in modo diverso dagli
studiosi.
Da una parte, vi sono coloro che considerano il fenomeno come inevitabile in
Pag. 32
quanto svariati fattori oggettivi determinano un moto circolare di persone, principi ed
istituti più forte di quello che aveva a lungo caratterizzato altre branche del mondo
giuridico. L’intreccio delle società e delle economie, e gli sviluppi tecnologici rendono a
loro volta omogenee le questioni cui la pubblica amministrazione e il suo diritto
devono rispondere.
Dall’altra parte, stanno invece coloro che reputano con scetticismo il processo di
convergenza o addirittura lo osteggiano in quanto fattore di distruzione delle
tradizionali diversità delle culture giuridiche nazionali, una ricchezza ormai a rischio.
Nel gruppo di critici esistono, a ben vedere, distinte posizioni. Per taluni il diritto
avrebbe un carattere autopoietico, sviluppandosi necessariamente in modo distinto da
un ordinamento all’altro, ma non nel sistema comunitario, per i caratteri particolari del
processo di integrazione e, in specie, del formarsi di un diritto comune agli Stati
membri. Le culture giuridiche nazionali possono contribuire alla edificazione di questo
diritto comune, come è ben avvertibile anche per recenti sviluppi giurisprudenziali (ad
esempio per la responsabilità extracontrattuale dei pubblici poteri) e del diritto scritto
(come per gli appalti pubblici), e mantengono un rilevante ruolo nell’adattamento delle
soluzioni comunitarie allo specifico diritto nazionale.
Per altri studiosi, è la “mentalità” complessiva che qualifica differentemente il
diritto da un ordinamento all’altro. Se il diritto non è solo un complesso di regole ed
istituti, ma espressione della generale cultura, allora le differenze esistono e non
possono essere superate.
Se queste sono le maggiori posizioni, è facile notare che larga parte delle critiche
alla convergenza derivano da assunti generali che esasperano i pericoli connessi al
preteso annullamento della diversità; in altra parte dimenticano l’effettiva evoluzione
del diritto positivo, ormai nettamente avviata alla convergenza.
Tale
effettiva
evoluzione
del
diritto
positivo
è,
nel
contesto
europeo,
rappresentata da due fenomeni: l’estendersi della disciplina amministrativa comune
prodotta dalla Comunità e lo scambio reciproco di esperienze e soluzioni, favorito
dall’essere parti di un ordinamento giuridico complessivo che è ispirato a valori e
principi comuni.
Al dato di fondo della convergenza non sembrano contrastare le valenze diverse
assunte da soluzioni apparentemente identiche. Così, il difensore civico e le autorità
Pag. 33
amministrative indipendenti hanno da un ordinamento all’altro, natura e ruolo diversi,
pur essendo il frutto di imitazioni e sollecitazioni reciproche. Ma questo dato, lungi dal
mettere in crisi la tesi della convergenza, serve invece a dimostrare come la ricerca di
soluzioni comuni o simili non rappresenti l’annullamento delle diversità degli
ordinamenti e delle relative culture giuridiche.
Ai potenziali pericoli di un’eccessiva omogeneizzazione del diritto amministrativo,
si può rispondere valorizzando una serie di principi sul pluralismo giuridico già presenti
nel diritto comunitario, da un lato; e ripensando alcuni principi guida elaborati e fatti
valere dalla Corte di giustizia, dall’altro.
Le diversità ed il pluralismo sono sicuramente valori imprescindibili, ma nel
contesto del complessivo ordinamento europeo segnato da principi comuni e nel quale
gli ordinamenti nazionali sono irreversibilmente inseriti. In tal senso, si tratta di
assicurare che la rete dei pubblici poteri e le tecniche di sviluppo e di garanzia del
diritto siano organizzate in modo da combinare le esigenze di sviluppo dell’insieme con
l’apporto delle varie componenti giuridico-istituzionali dell’Unione.
6.
ALCUNE CONCLUSIONI
Secondo
quanto
si
è
esposto
nei
precedenti
paragrafi,
per
il
diritto
amministrativo nell’ambito europeo, si manifestano due fenomeni di grande rilievo:
a ) è in atto una vistosa tendenza alla convergenza di principi generali, istituti
giuridici e soluzioni di natura organizzativa e procedimentale tra i diritti amministrativi
degli Stati membri;
b ) si è da tempo definito il diritto amministrativo europeo, che ha assunto un
particolare rilievo nel quadro giuridico della Comunità.
I due fenomeni interagiscono strettamente, dato che il quadro istituzionale
dell’Unione europea e della Comunità offre un ambiente giuridico quanto mai propizio
allo scambio di esperienze e di soluzioni. Proprio perché rappresenta un vero e proprio
“spazio giuridico europeo” - rafforzato anche dalle iniziative del Consiglio d’Europa tale ambiente non è solo più favorevole di altri contesti alla comparazione giuridica,
ma tramite l’istituto del mutuo riconoscimento rende direttamente rilevanti in tutti gli
Pag. 34
Stati membri talune situazioni conformate dal diritto amministrativo di un determinato
Stato.
Tale interazione “orizzontale” tra i diritti amministrativi nazionali è più forte nel
quadro comunitario che altrove, dato che l’azione comunitaria tende direttamente e
indirettamente a rendere omogenee le condizioni giuridiche e di vita per i soggetti
pubblici e privati che ivi sono operanti. All’interazione orizzontale si somma poi
l’incidenza diretta, o “verticale” del diritto amministrativo comunitario che opera in
settori sempre più ampi.
Così, intere parti del diritto amministrativo sono ormai disciplinate dal diritto
amministrativo comunitario che stabilisce tanto i nuovi principi della materia, quanto
specifiche regole dell’azione amministrativa, soluzioni organizzative e strumenti di
tutela amministrativa e giurisdizionale.
I due fenomeni della convergenza dei diritti amministrativi e dell’incidenza del
diritto amministrativo europeo sono, come detto, una peculiarità unica del contesto
giuridico europeo, in quanto sfruttano gli effetti determinati da altri principi del diritto
comunitario quali la supremazia del diritto comunitario sui diritti nazionali e l’efficacia
diretta di varie previsioni del diritto comunitario. La connotazione fortemente integrata
dell’insieme comunitario e degli Stati membri è così un’ulteriore occasione di sviluppo
dell’interazione tra i diritti amministrativi.
La medesima integrazione giuridica che connota complessivamente l’ordinamento
giuridico europeo suggella il definitivo distacco del diritto amministrativo dalla
referenza statuale.
L’effetto complessivo che ne deriva è certamente una forte omogeneizzazione
degli strumenti giuridici e delle culture europee. Per il diritto amministrativo si tratta
di una vicenda senza precedenti, dato che, come si è visto, la sua origine si può
collocare nell’Ottocento ed in stretta aderenza con il diritto degli Stati. Il diritto
amministrative non aveva dunque partecipato, proprio perché ancora non c’era, alla
gloriosa vicenda dello jus commune che invece aveva caratterizzato altre più antiche
branche del diritto. Con la nuova dimensione europea ed integrata, il diritto
amministrativo - inteso sia come ramo del diritto sia come scienza giuridica di quel
ramo - trova il suo posto nel complessivo sistema giuridico, da sempre contrassegnato
da una spiccata “europeità”.
Pag. 35
Che tale sviluppo, in cui certamente talune particolarità nazionali si perderanno,
sia un’acquisizione positiva od una disgrazia è giudizio soggettivo di valore. Rimane
però
fermo
il
dato
di
diritto
positivo
della
tendenza
irresistibile
verso
la
"europeizzazione" del diritto amministrativo.
Pag. 36
CAPITOLO V
LE FONTI
1. LE PECULIARITÀ DELLE FONTI NELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO
I tratti particolari assunti dall'ordinamento giuridico comunitario e dai suoi
rapporti con gli ordinamenti degli Stati membri sono ben riflessi nel sistema delle fonti
del diritto comunitario e nella loro incidenza sulle fonti nazionali.
Per fonte di diritto si intende ogni atto o fatto giuridico da cui l'ordinamento fa
discendere effetti giuridicamente vincolanti per i propri soggetti. Tutti gli ordinamenti
giuridici hanno un proprio sistema di fonti, in quanto non può mancare la disciplina
delle forme di produzione del diritto e del valore dei vari atti riconosciuti come fonti.
Storicamente, il sistema delle fonti è tipico degli ordinamenti giuridici statali; ma
con la formazione delle organizzazioni internazionali anche talune di queste hanno un
loro proprio sistema di fonti. Al riguardo si distingue tra fonti primarie e fonti
secondarie, intendendo per fonti primarie l'atto istitutivo e lo statuto di ciascuna
organizzazione; e per fonti secondarie gli atti assunti dalle organizzazioni secondo le
regole previste nell'atto istitutivo e nello statuto, ed in conformità ai principi generali
applicabili.
Nell'ordinamento comunitario esistono comunque fin dai Trattati istitutivi delle
evidenti peculiarità. Così ad esempio, se le organizzazioni internazionali hanno un
certo potere di interpretazione delle fonti primarie, è solo nella Comunità europea che
si rinviene il potere esclusivo di interpretazione affidato alla Corte di giustizia (art. 234
[ex art. 177] Tr. CE), con un'ampiezza senza eguali nei rispetti anche delle Corti
costituzionali e dei giudici degli Stati membri. Le fonti comunitarie, poi, non si
rivolgono esclusivamente agli Stati membri ma anche ai loro cittadini, che adesso
sono anche cittadini europei.
A questi primi tratti peculiari, altri se ne possono aggiungere: il valore dei
Trattati come norma di riferimento per la disciplina derivata e parametro di legittimità
degli atti delle istituzioni (cfr. art. 230 [ex art. 173] Tr. CE, “la violazione del presente
Trattato”), è la base della configurazione dei Trattati come costituzione comunitaria; il
Pag. 37
principio
della
diretta
applicabilità
di
certi
atti
comunitari
(principalmente
i
regolamenti, ai sensi dell'art. 249 [ex art. 189] Tr. CE), che pone in termini del tutto
originali il rapporto con le fonti nazionali del diritto; il carattere aperto del sistema
delle fonti, come ricavabile dalla posizione della Corte di giustizia circa la non
esaustività dell'elenco degli atti normativi comunitari contenuto nell'art. 249 [ex art.
189] Tr. CE; il principio sui “poteri utili” di cui all'art. 308 [ex art. 235] del medesimo
Trattato,
che
consente
alle
istituzioni
comunitarie,
secondo
una
determinata
procedura, ogni iniziativa utile al perseguimento di uno degli scopi della Comunità; un
rilievo dei principi generali di diritto che non ha paralleli nelle altre organizzazioni
internazionali.
Il tema delle fonti comunitarie risente direttamente della progressiva definizione
ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia dei caratteri autonomi
dell'ordinamento giuridico comunitario nei rispetti tanto degli Stati che delle tipiche
organizzazioni internazionali.
2.
IL QUADRO DELLE FONTI COMUNITARIE
Per definire il sistema delle fonti comunitarie sono stati utilizzati diversi criteri,
tutti per una parte validi, ma allo stesso tempo non capaci di offrire una coerente
visione di insieme. Le ragioni di questa difficoltà stanno nel carattere aperto ed
evolutivo dell'ordinamento comunitario, che proprio nella sua asistematicità, ha
trovato una delle condizioni per il suo straordinario sviluppo.
Un primo criterio definitorio distingue tra diritto primario e diritto derivato. Il
diritto primario è costituito dai Trattati istitutivi, dai successivi Trattati che hanno
integrato e modificato i primi, e da altri atti internazionali che hanno contribuito a
connotare l'ordinamento comunitario.
Il diritto derivato comprende a sua volta tutti gli atti normativi assunti dalle
istituzioni comunitarie sulla base delle previsioni primarie sopra ricordate. Il carattere
“derivato” di questi atti si riferisce all'essere previsti dal diritto comunitario primario,
che ne stabilisce le procedure di adozione, la forza ed il valore giuridico. Nella
distinzione è implicito un criterio di gerarchia tra i due plessi normativi, con primazia
del diritto primario.
Pag. 38
Un secondo criterio è quello che distingue tra diritto posto dagli Stati in forma di
atti internazionali e diritto proprio delle istituzioni comunitarie. In tal senso, i Trattati,
pur se costituiscono la normativa di riferimento del sistema comunitario, rimarrebbero
soggetti ai criteri propri degli atti internazionali; a differenza degli atti comunitari, il
cui valore giuridico è tutto definito nello specifico contesto comunitario.
Un terzo criterio è poi quello che distingue a seconda del modo di produzione
delle fonti del diritto comunitario. Abbiamo così, da un lato, il diritto scritto che è
formato secondo procedure formalizzate negli stessi Trattati o in altri atti primari e
derivati; dall'altro, il diritto di formazione giurisprudenziale, particolarmente rilevante
nel sistema comunitario per l'opera pretoria della Corte di giustizia, da cui sono
scaturiti i principi generali di diritto comunitario.
Sono stati poi proposti numerosi altri criteri, tra i quali merita ricordare quello
che distingue tra le fonti tipiche, che nel sistema comunitario risultano formalizzate sia
come tipi di atti che come relativo procedimento di formazione, e definite nella loro
valenza giuridica; e le fonti atipiche, che ricomprendono atti del più svariato genere,
parte rilevante delle quali definite con il termine volutamente ambiguo di soft law.
Di recente è apparsa la nozione di norma comunitaria di ordine pubblico, in
precedenza conosciuta solo negli ordinamenti nazionali. Tale sarebbe, tra le altre, la
disposizione di cui all'art. 81 [ex art. 85] Tr. CE, in quanto “disposizione fondamentale
indispensabile per l'adempimento dei compiti affidati alla Comunità”.
3.
I TRATTATI COMUNITARI
Si è ricordato già più volte che i Trattati istitutivi della Comunità europea ed i
molti successivi Trattati comunitari sono atti di natura internazionale, conclusi e
ratificati secondo le procedure proprie degli atti internazionali. Ma si è altresì avvertito
che i Trattati rappresentano la base fondamentale del sistema comunitario in quanto
indicano gli obbiettivi della Comunità e dell'Unione europea, connotano le competenze
delle istituzioni, i loro poteri ed i reciproci rapporti, prevedono le forme di controllo
giurisdizionale ed altri aspetti a rilevanza costituzionale, come le forme di loro
revisione.
Pag. 39
Così i Trattati svolgono un ruolo sostanzialmente costituzionale per l'ordinamento
comunitario che ne discende ed impongono un metodo di interpretazione proprio delle
norme costituzionali.
Sta diventando grave il problema del numero e della diversità dei Trattati
comunitari, con una tendenza alla complicazione che a partire dall'Atto unico del 1986,
si è fortemente accentuata. Il culmine di questa tendenza è stato raggiunto con il
Trattato di Amsterdam del 1997, caratterizzato da una miriade di microinnovazioni
che hanno generato un sistema di quasi impossibile interpretazione anche per i giuristi
professionali. Né pare un particolare miglioramento la prassi della Commissione di dar
vita dopo ogni nuovo Trattato ad un testo coordinato. Si tratta infatti di un documento
il cui valore non è ufficiale; che lascia fuori previsioni contenute in atti diversi, ma a
carattere sostanzialmente equipollente a quello dei Trattati; che soprattutto si limita
ad assemblare disposizioni che hanno progressivamente disperso una coerenza
istituzionale complessiva.
L'unica vera innovazione è stata la rinumerazione complessiva degli articoli del
Trattato CE, prevista dal Trattato di Amsterdam e, a seguito della sua entrata in
vigore dal 1° maggio 1999, numerazione ormai ufficiale.
4. I TRATTATI COME “COSTITUZIONE” COMUNITARIA
Dopo aver precisato i limiti degli attuali Trattati e richiamato i connotati
internazionalistici di origine, va detto che essi hanno da tempo assunto il ruolo di
costituzione comunitaria sia dal punto di vista funzionale, in quanto operano come
vera e propria costituzione del proprio ordinamento giuridico, e sono percepiti come
tale; sia da quello formale, quale complesso di norme supreme dell'ordinamento
comunitario e sovraordinate anche rispetto alle norme degli ordinamenti degli Stati
membri.
È la Corte di giustizia che ha contribuito in modo decisivo alla configurazione dei
Trattati - costituzione. Nei Trattati stessi non si rinviene nessun riferimento espresso
al tema, che invece è stato progressivamente forgiato dalla Corte, che con franchezza
ammette questa operazione nel parere 1/91: “come risulta dalla giurisprudenza
Pag. 40
consolidata della Corte di giustizia, i Trattati comunitari hanno instaurato un
ordinamento giuridico di nuovo genere”.
5. UNA “COSTITUZIONE IN TRASFORMAZIONE”
Come risulta dalla giurisprudenza, la Corte utilizza l'espressione “costituzione
europea” per segnare l'avvenuto completamento di un processo di interpretazione
giurisprudenziale dei Trattati e dei caratteri dell'ordinamento europeo, iniziato fin dai
primi anni Sessanta. Il principio, costantemente ribadito dalla Corte, è che l'origine
internazionalistica
dei
Trattati
non
ne
preclude
un'autonoma
rilevanza
nell'ordinamento comunitario cui presiedono, a favore del quale gli Stati hanno
rinunciato in settori sempre più ampi alla propria sovranità, del quale sono soggetti
anche i cittadini degli Stati membri, e che ha per caratteristiche fondamentali la
supremazia sui diritti degli Stati membri e l'efficacia diretta di tutta una serie di
norme.
I Trattati costituiscono dunque un diritto superiore rispetto a quello degli Stati
membri, secondo il criterio del higher law status. Sulla base di questa preminenza è
stato possibile stabilire che, diversamente dai normali atti internazionali, con i Trattati
comunitari gli Stati membri hanno limitato la propria sovranità, ed accettato il criterio
integrazionistico, da cui discende tra l'altro il peculiare principio della preemption,
secondo cui la disciplina comunitaria di una certa area preclude nuovi interventi per gli
Stati membri se non nella misura consentita dal diritto comunitari
La lettura dei Trattati come costituzione comunitaria riverbera anche sulla
questione dei limiti e delle condizioni alla revisione dei Trattati, che la Corte ha
impostato sulla base dell'art. 236 Tr. CE (poi abrogato dal TUE) in modo diverso dai
criteri del diritto internazionale relativi alle modifiche dei normali trattati, e simile
invece a quello della revisione costituzionale negli ambiti nazionali con costituzione
rigida. Nei Trattati comunitari, a differenza dei trattati internazionali ed in modo
similare, invece, a quanto previsto per le costituzioni nazionali, esisterebbero infatti
dei “valori costituzionali” che limiterebbero la possibilità di revisione.
La Corte è stata particolarmente chiara nell'affermare il rilievo di questi principi
taluni dei quali espressamente previsti nei Trattati, come i principi di Stato di diritto,
Pag. 41
di pluralismo culturale e di cittadinanza; altri sono facilmente individuabili in via di
interpretazione dei Trattati, come il principio democratico e quello di giustizia sociale;
altri infine sono stati elaborati dalla Corte di giustizia quali principi generali comuni
alle esperienze costituzionali degli Stati membri e, quindi, patrimonio costituzionale
comune (sui principi generali cfr. il par. 6). Questi valori costituzionali rappresentano
un nucleo rigido che si oppone ad ogni possibilità di modifica del Trattati ed ispirano
l'interpretazione di tutto il diritto comunitario, contribuendo ad assicurarne la coerenza
complessiva.
Oltre ad aver contribuito in modo decisivo alla configurazione dei caratteri
costituzionali dei Trattati comunitari, la Corte ha sostanzialmente esercitato un
controllo di legittimità costituzionale comunitaria utilizzando una variegata gamma di
tecniche giuridiche: con la procedura di controllo giurisdizionale di tutti gli atti
comunitari derivati, prevista dall'art. 230 [ex art. 173] Tr. CE; con un uso quanto mai
penetrante dei poteri di interpretazione del diritto comunitario risultanti dalla
procedura di rinvio pregiudiziale, di cui all'art. 234 [ex art. 177] Tr. CE; con la tutela
dei diritti fondamentali attraverso la comunitarizzazione di molti principi generali, pur
non espressamente previsti nei Trattati; con la verifica consultiva preliminare sulla
conformità ai principi comunitari degli accordi internazionali con gli Stati terzi. È
soprattutto tramite la procedura di rinvio pregiudiziale, sollecitata da un numero
sempre più ampio di organi giudiziari nazionali sensibili alla dimensione comunitaria
delle questioni al loro esame, che la Corte di giustizia ha finito per esercitare
indirettamente un vero e proprio controllo di costituzionalità comunitaria sulla
legislazione nazionale, rafforzando in tal modo la supremazia del diritto comunitario e
la posizione del Trattato come costituzione.
La dottrina ha poi arricchito alcuni aspetti dell'elaborazione giurisprudenziale in
riferimento alla peculiare caratteristica dei Trattati come “tappe” di un continuo
processo di integrazione.
Non mancano peraltro voci critiche sulla configurabilità dei Trattati come
costituzione, o per ragioni di tipo giuridico-formale o per la carenza negli attuali
Trattati di aspetti considerati essenziali ai fini della loro possibile qualificazione
costituzionale. Dal primo punto di vista è considerata ostativa la circostanza che
manchi un atto costituzionale formalmente definito come tale e frutto di un originale
processo costituente. Circostanza indubbia, ma che non rende impossibile la
Pag. 42
configurazione della costituzione europea, basti pensare al caso britannico, ove non
c'è una costituzione scritta ed unitaria, ed il processo costituente non si è verificato
nei modi consueti, ma con una formazione progressiva ed aperta.
Altri autori evidenziano che la nozione di costituzione sarebbe inappropriata
rispetto alla vicenda comunitaria. Pur scontando la sua peculiare connotazione,
mancherebbe infatti una serie di elementi qualificanti l'idea di costituzione, come i fini
ordinamentali, il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali e la loro giustiziabilità.
Soprattutto, non sarebbe rinvenibile un nuovo soggetto politico che, in virtù di un atto
costituente, possa considerarsi detentore della sovranità europea.
Le critiche non convincono. L'esperienza europea si manifesta indubbiamente
come diversa; ma ciò non significa escludere il carattere costituzionale dei Trattati,
bensì solo evidenziarne le peculiarità rispetto alle esperienze nazionali, analogamente
ad ogni altra caratteristica del sistema comunitario.
6.
I PRINCIPI GENERALI
Sulla base di due scarne disposizioni del Trattato CE, la prima (art. 230 [ex art.
173]: “violazione del presente Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua
applicazione”) di carattere generico, e la seconda (art. 288 [ex art. 215]: obbligo di
risarcimento “conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri”)
apparentemente connessa allo specifico tema della responsabilità extracontrattuale
della Comunità, la Corte di giustizia è riuscita a creare un vero e proprio corpo
organico di principi generali che svolgono una funzione essenziale per la protezione
dei diritti degli individui e per la tenuta dell'ordinamento giuridico comunitario.
Due sono le funzioni dei principi generali: colmare le lacune del diritto
comunitario e contribuire all'interpretazione delle regole scritte che hanno un incerto
significato. Nel primo caso, che ancora una volta segna una profonda differenza della
Comunità dalle altre organizzazioni internazionali ove il problema delle lacune non può
neanche porsi, i principi generali sono usati come integrazione del diritto esistente
(criterio dell’analogia juris); mentre nel secondo caso sono uno strumento per
interpretarlo (criterio dell’analogia legis).
Pag. 43
In tema di lacune, la Corte ha affermato sin dalla sentenza Algera del 1957
(12.7.1957 cause 7/56 e 3-7/58), la necessità di dare una risposta ai problemi non
ben definiti dal diritto comunitario. In quell'occasione la Corte esaminava il problema
della revoca degli atti amministrativi per la cui soluzione il Trattato non contiene
alcuna previsione specifica. La Corte decise di risolvere comunque il problema per
assicurare i diritti degli interessati, ed a tal fine derivò gli elementi utili dalle regole
scritte, dalla dottrina e dalla giurisprudenza degli Stati membri.
Se il diniego di giustizia a seguito della constatazione di lacune era apparso alla
Corte inaccettabile, non poteva che conseguirne il principio del superamento delle
lacune stesse attraverso un'opera di interpretazione delle regole esistenti e dei principi
dell'ordinamento, normalmente individuati in via giurisprudenziale.
Una volta scelto questo metodo, la Corte si è però trovata a creare
giurisprudenzialmente importanti principi generali, più che a colmare particolari
lacune.
Si è usi parlare dei principi generali del diritto elaborati dalla Corte di giustizia
quale categoria omogenea di principi giuridici della stessa natura. In verità esistono
tra questi principi notevoli differenze: la più importante è quella tra principi a
carattere davvero generale, che risultano sul piano comunitario l'equivalente dei
principi costituzionali fondamentali delle esperienze nazionali, e principi di carattere
più definito, o meno qualificante il sistema complessivo. I primi hanno un evidente
valore normativo, rappresentando la base di altre disposizioni, mentre i secondi sono
principi che presiedono ad uno specifico settore. Tra i principi generali, dunque, ce ne
sono alcuni più generali di altri e con una diversa forza giuridica, dato che i principi
fondamentali sono allo stesso tempo un parametro di giudizio di altre disposizioni e
direttamente efficaci nei confronti dei soggetti dell'ordinamento.
Esempi di principi generali del primo tipo sono il principio di legalità, il diritto alla
tutela giurisdizionale, il principio di non discriminazione, il principio di eguaglianza. Tra
questi principi si può poi distinguere tra principi effettivamente comuni agli Stati
membri, che manifestano la medesima utilità “costituzionale” anche nell'ordinamento
comunitario, e principi elaborati con specifico riferimento alle esigenze comunitarie,
come il principio di leale cooperazione, il principio dell'effetto utile, il principio di
Pag. 44
equilibrio istituzionale. Buona parte di questa problematica rifluisce in quella dei diritti
fondamentali.
Del secondo tipo di principi generali, di carattere più definito ed usualmente
definiti come principi generali amministrativi, sono esempi il diritto al contraddittorio,
il principio di legittimo affidamento, il principio di proporzionalità, il principio di non
retroattività degli atti amministrativi. Solo alcuni di essi sono comuni per gli Stati
membri, mentre altri (come la tutela dell'affidamento) derivano da particolari
esperienze di alcuni Paesi, che la Corte ha inteso generalizzare come all'ordinamento
comunitario nel suo insieme in quanto funzionali allo sviluppo della Comunità e, da
ultimo, dell'Unione.
Dalla “costituzionalizzazione” comunitaria di alcuni principi, va distinta la vera e
propria codificazione, ovvero la sistemazione in regolamenti e direttive dei principi
stessi, articolati per materia. Qua vale ancora di più l'esigenza di mantenere al
sistema
la
maggiore flessibilità
possibile,
essendo l'integrazione sul versante
amministrativo ancora molto da sviluppare. L'unico passo al momento consigliabile
sembra quello per un consolidamento della legislazione comunitaria esistente in testi
coordinati, chiari e facilmente leggibili - come le già ricordate direttive-testi unici del
1993 in tema di appalti pubblici - lasciando da parte l'idea di una vera e propria
codificazione di cui non sembrano esservi ancora i presupposti.
7.
GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI COMUNITARIE. I REGOLAMENTI
I Trattati istitutivi, ed in particolare il Trattato CE (art. 249 [ex art. 189] su cui
concentreremo l'attenzione, prevedono alcuni atti con i quali il Parlamento europeo
congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione, alle condizioni
contemplate dal Trattato, provvedono all'assolvimento dei loro compiti. L'originaria
versione dell'art. 249 [ex art. 189] si riferiva solamente al Consiglio ed alla
Commissione, ma i successivi sviluppi in tema di funzione di indirizzo politico
comunitario e di funzione normativa hanno visto espandersi continuamente il ruolo del
Parlamento. Di questa tendenza sono esplicita espressione le nuove formulazioni degli
artt. 249-252 [ex artt. 189-189C] previste dal Trattato Unione europea e dal Trattato
di Amsterdam.
Pag. 45
A questi atti propri della Comunità si dà usualmente il nome di diritto derivato,
per sottolinearne la specificità comunitaria e la espressa base giuridica nel Trattato.
Essi rappresentano una importante conferma della differenza dell'ordinamento
comunitario rispetto alle normali organizzazioni internazionali, nelle quali non si
rinviene un sistema di fonti ed atti pubblici così articolato e, soprattutto, con analoga
incidenza nei diritti degli Stati membri.
L'art. 249 [ex art. 189] Tr. CE contempla assieme regolamenti e direttive,
decisioni, raccomandazioni e pareri, malgrado la natura sostanzialmente diversa degli
atti normativi (come i regolamenti) e degli atti amministrativi (cornee le decisioni ed i
pareri).
Ciò
corrisponde
alla
impostazione
iniziale
del
Trattato
ove risultava
relativamente indistinto il ruolo delle diverse istituzioni (che nel testo originario erano
solo il Consiglio e la Commissione), il tipo di procedura decisionale e la natura stessa
degli atti sopra ricordati. Il diritto comunitario in questo senso si distingueva dalla
impostazione propria delle costituzioni nazionali, ispirate ad una distinzione di funzioni
tra le rispettive istituzioni e ad una chiara classificazione degli atti da queste assunti.
I regolamenti, i più chiari atti normativi comunitari, sono atti approvati secondo
le varie procedure previste dagli artt. 250-252 [ex artt. 189A-189C] Tr. CE, che hanno
“portata generale” nel senso che di regola valgono per l'intero ambito della Comunità
e per tutti i soggetti dell'ordinamento comunitario, secondo il criterio ben noto negli
ordinamenti nazionali degli atti generali. Sono anche obbligatori in tutti i loro elementi
e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Ciò comporta l'illegittimità di
una applicazione parziale, incompleta o selettiva dei regolamenti così come del
mancato rispetto del regolamento per qualche peculiarità del diritto interno. Il criterio
dell'astrattezza,
ovvero
del
riferimento
dell'atto
ad
una
serie
di
fattispecie
indeterminate aventi le medesime caratteristiche, non è espressamente previsto
all'art. 249 [ex art. 189], ma viene pacificamente considerato come tipico dei
regolamenti.
Le caratteristiche dei regolamenti come tipici atti normativi comunitari sono state
da tempo colte anche dalla nostra Corte costituzionale, che nella sentenza n.
183/1973 rilevava che “con l'art. 189 [ora art. 249] è stato attribuito al Consiglio e
alla Commissione delle Comunità il potere di emanare regolamenti con portata
generale al pari delle leggi statuali, forniti di efficacia obbligatoria in tutti i loro
elementi
e
direttamente
applicabili
in
ciascuno
degli
Stati
membri,
cioè
Pag. 46
immediatamente vincolanti per gli Stati e per i loro cittadini, senza necessità di norme
interne di adattamento o di recezione”.
Si è soliti distinguere i regolamenti in regolamenti generali, o regolamenti senza
aggettivazione specificativa, e regolamenti di esecuzione. I secondi assumono il
carattere di completamento e dettaglio dei regolamenti generali (detti anche di base),
e sono di regola adottati dalla Commissione in virtù del potere di esecuzione proprio o
delegato dal Consiglio. In quanto regolamenti di esecuzione di precedenti regolamenti
non possono contenere previsioni difformi o contrastanti con essi: pur se nei due casi
si tratta sempre di regolamenti, con i caratteri giuridici propri di tale tipologia ai sensi
del Trattato CE, tra i regolamenti generali ed i regolamenti di esecuzione si determina
una gerarchia interna, che può originare l'annullamento dei regolamenti esecutivi per
contrasto con quelli generali.
Le caratteristiche dei regolamenti enunciate nel Trattato fanno di questi atti le
più
rilevanti
fonti
del
diritto
comunitario,
in
quanto
capaci
di
disciplinare
omogeneamente in tutto lo spazio comunitario i soggetti pubblici e privati ivi operanti
senza necessità di alcun recepimento da parte del legislatore nazionale, cui anzi in
linea di principio è precluso ogni intervento al riguardo, secondo la rigorosa
interpretazione della Corte di giustizia del principio di diretta applicabilità.
Secondo i criteri ben noti ai sistemi nazionali delle fonti circa la pubblicazione e la
vacano legis, i regolamenti sono pubblicati sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee ed entrano in vigore dalla data che vi è prevista, oppure, in mancanza, dal
ventesimo giorno dalla loro pubblicazione. Un'entrata in vigore immediata del
regolamento deve trovare espressa motivazione, secondo la Corte di giustizia
(sentenza Neumann, 13.12.1967, causa 17/67). La retroattività è di regola esclusa,
ma può essere prevista a condizione che siano rispettati i principi generali e che ciò
sia strettamente necessario per il fine perseguito. Quando i regolamenti sono adottati
secondo la procedura di codecisione, di cui all'art. 251 [ex art. 189B], per sottolineare
l'apporto del Parlamento vengono firmati dal Presidente del Parlamento europeo e dal
Presidente del Consiglio.
Tutti i regolamenti, indipendentemente dalla procedura decisionale seguita, sono
motivati e fanno riferimento alle proposte od ai pareri obbligatoriamente richiesti in
esecuzione del Trattato. L'obbligo di motivazione degli atti normativi comunitari li
Pag. 47
caratterizza rispetto agli atti normativi di molti Stati membri in cui la motivazione non
è prevista. Certo è che in nessun ordinamento nazionale si ritrovano atti normativi con
un preambolo così esteso e motivato. Nello stesso senso rileva la perdurante
configurazione della Comunità quale ordinamento a fini attribuiti, che impone
normalmente che sia indicata la base giuridica dell'atto che si assume.
Il numero dei regolamenti comunitari assunti nel tempo dalle istituzioni è
certamente consistente, sì che si pone adesso il problema di una razionalizzazione
normativa attraverso una revisione dei regolamenti vigenti, una loro codificazione e
l'utilizzo di fonti alternative. In particolare, il principio di sussidiarietà implica che su
ogni iniziativa normativa sia effettuato un test di conformità con il nuovo criterio, che
nel caso dei regolamenti implica anche la valutazione circa l'opportunità di usare tale
strumento normativo che, in principio, nei settori disciplinati non lascia margini alle
decisioni degli Stati membri. Per tali motivi il numero dei regolamenti tende a
decrescere, a favore di un utilizzo maggiore di diversi atti fonte, dei vari atti definibili
come soft law, e di strumenti di coordinamento di natura amministrativa.
8.
LE DIRETTIVE
Secondo l'art. 249 [ex art. 189], Tr. CE, comma 3 “la direttiva vincola lo Stato
membro cui è rivolto per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la
competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
A differenza dei regolamenti sopra esaminati, che esprimono la peculiarità
dell'ordinamento comunitario anche dal punto di vista delle fonti, le direttive
riecheggiano
di
più
le
tradizionali
relazioni
di
diritto
internazionale
ove
un'organizzazione pone agli Stati membri, e solo ad essi, obbligazioni di risultato
indicate in determinati atti, senza incidere sulla loro autonoma determinazione circa la
ripartizione delle competenze sul piano interno, i modi ed i mezzi necessari a tal fine.
Le direttive comunitarie si legano poi ai principi in tema di cooperazione degli Stati
membri per assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato CE, come
quello previsto all'art. 10 [ex art. 5], e come da ultimo quello di sussidiarietà.
Pag. 48
Le direttive possono essere adottate secondo una delle procedure di cui agli artt.
250-252 [ex artt. 189A-189C]. Quando adottate con la procedura di codecisione sono
cofirmate dal Presidente del Parlamento europeo e dal Presidente del Consiglio.
Quando sono indirizzate a tutti gli Stati membri sono pubblicate nella Gazzetta
ufficiale delle Comunità europee. La stessa pubblicazione è prevista per le direttive del
Consiglio e della Commissione che sono rivolte a tutti gli Stati membri. In ambedue i
casi, le direttive entrano in vigore alla data da loro stabilita o altrimenti dopo venti
giorni dalla pubblicazione. Da questo momento inizia a decorrere il termine assegnato
agli Stati membri per assumere i necessari atti di propria competenza; in caso di
direttive particolar-mente innovative o incidenti su complesse discipline nazionali, il
termine concesso agli Stati può essere addirittura di anni, con differenziazioni ulteriori
a seconda degli Stati.
Prima delle riforme procedurali introdotte dall'art. G.63 TUE, comma 63, del
Trattato UE, l'efficacia delle direttive era sempre subordinata alla loro notifica agli
Stati destinatari. Questa previsione rimane ora valida (cfr. il terzo comma dell'art. 254
[ex art. 191]) solo nei casi diversi da quelli esaminati, ovvero quando si tratti di
direttive non rivolte a tutti gli Stati membri.
Gli obblighi che scaturiscono per gli Stati devono essere adempiuti con atti
giuridicamente rilevanti per il diritto degli Stati membri destinatari, senza che vi sia
alcun vincolo circa l'atto specifico da adottare. La scelta dipenderà dunque dal tipo di
impegno posto dalla direttiva e dalla strumentazione giuridica propria di ciascuno
Stato; ma sempre assicurando che le disposizioni della direttiva siano attuate con
un'efficacia cogente incontestabile, e con specificità, precisione e chiarezza (sentenza
30.5.199L causa C-59/89). Semplici comportamenti o prassi amministrative in
conformità agli obbiettivi della direttiva non sono considerati dalla Corte di giustizia
sufficienti per far ritenere adempiuti gli obblighi scaturenti dalle ricordate disposizioni
del Trattato, non fosse altro ai fini delle certezza del diritto e della piena garanzia delle
posizioni degli individui (sentenza 19.5.1999, causa C-225/77).
Pur se la configurazione formale delle direttive è rimasta inalterata sin dal
Trattato istitutivo della CE, esse sono gli atti comunitari che nella sostanza più si sono
modificati rispetto al modello originario. Il loro contenuto è divenuto sempre più
puntuale e dettagliato, sì da lasciare spesso ben pochi margini agli Stati destinatari.
Per la diffusa situazione di inottemperanza degli Stati alle indicazioni delle direttive,
Pag. 49
tipica dei due primi decenni, alla Corte di giustizia, è stato possibile elaborare la tesi
della loro efficacia diretta una volta scaduti i termini per il loro recepimento, ed a
condizione che il loro contenuto sia sufficientemente dettagliato.
Su altro piano, invece, la Corte non ha per il momento accolto un ulteriore
sviluppo delle medesime premesse generali, ovvero l'efficacia orizzontale delle
direttive
nelle
relazioni
interpersonali.
Pur
se
questa
esigenza
è
divenuta
fortunatamente meno avvertita per l'operatività allo stesso fine sostanziale di altre
tecniche giuridiche recentemente affermatesi, come la nuova dimensione della
responsabilità extracontrattuale degli Stati, e per una minor frequenza del fenomeno
dell'inottemperanza agli obblighi posti dalle direttive, la posizione della Corte appare
incoerente con le premesse.
Con il completamento dei principali adempimenti per la realizzazione del mercato
interno, e con l'introduzione del principio di sussidiarietà sembra che si sia esaurita la
fase di utilizzo massiccio delle direttive, specie a carattere molto dettagliato.
9.
GLI ALTRI ATTI DELLE ISTITUZIONI
È da tempo chiaro che la tipologia di atti delle istituzioni prevista all'art. 249 [ex
art. 189] Tr. CE non esaurisce gli atti che possono essere assunti dalle istituzioni
stesse. In tale disposizione sono solo considerati gli atti tipici, che non sono
necessariamente i pili importanti ai fini del processo di integrazione come dimostrato
dagli atti definiti “conclusioni del Consiglio europeo”, ovvero le linee guida politiche
per lo sviluppo dell'Unione, e dalle Relazioni che lo stesso organo presentato al
Parlamento europeo, che sintetizzano i risultati dei vari Consigli europei ordinari e
straordinari, ove si definiscono le linee di azione e gli orientamenti politici generali
della Unione (art. 4 [ex art. D] TUE).
Gli sviluppi comunitari e dell'Unione europea hanno portato ad una quantità di
atti atipici, la cui varietà e pervasività è tale da mettere in discussione la qualifica di
“atipicità”, specie considerando che questi atti tendono a ricomporsi in categorie. La
Corte di giustizia aveva inizialmente assunto un atteggiamento rigoroso, affermando
che la Commissione non potesse fare ricorso ad atti diversi da quelli contemplati nel
Trattato,
a
garanzia
dell'applicazione
uniforme
del
diritto
comunitario.
Pag. 50
Successivamente, è però prevalso un approccio pragmatico che, nell'implicito assunto
della adottabilità di atti atipici, ne esamina di volta in volta le caratteristiche e la
legittimità.
Per atti interni delle istituzioni si intendono gli atti con cui le istituzioni
regolamentano la propria organizzazione ed il modo di funzionamento, e che per tale
motivo esauriscono di regola la propria rilevanza giuridica nell'ambito dell'istituzione
stessa. Ciò corrisponde ad una situazione ben conosciuta negli ordinamenti nazionali,
ove gli organi costituzionali od a rilevanza costituzionale hanno il potere di
autorganizzazione tramite atti normalmente privi di rilevanza esterna. È intuibile
peraltro che taluni di detti regolamenti rilevino anche direttamente per tutti gli
interessati, come nel caso del regolamento di organizzazione della Corte di giustizia
che condiziona indirettamente le forme di tutela assicurate da tale istituzione,
incidendo anche sul regolamento di procedura. È poi ben possibile che siano annullati
atti di istituzioni che sono stati assunti in violazione dei propri regolamenti (si veda il
caso Regno Unito c. Consiglio, 23.2.1988, causa 68/86).
Tra gli atti interni delle istituzioni vanno poi annoverati i molteplici atti di
organizzazione
non
regolamentari,
quali
ordini
di
servizio,
direttive
interne,
programmi di azioni, che sono destinati unicamente alle proprie strutture.
Passando all'esame degli atti atipici a rilevanza giuridica esterna, la prima
categoria è quella degli atti politici e di alta amministrazione. Per atti politici si
intendono gli atti con i quali le istituzioni competenti contribuiscono alla definizione
delle linee guida dell'indirizzo politico comunitario. Tali sono principalmente le già
ricordate conclusioni del Consiglio europeo e gli accordi interistituzionali; ma analoga
natura è da riconoscere di volta in volta ad atti dalla varia denominazione (risoluzioni,
orientamenti, ecc.) che esprimono la posizione politica delle istituzioni. In non pochi
casi, gli atti tipici delle istituzioni sono preceduti da una risoluzione, atto del Consiglio
con cui si delinea il quadro generale delle future iniziative comunitarie sulla materia.
In altri casi, poi, con “decisioni” il Consiglio ha approvato accordi internazionali o
talune sistemazioni istituzionali, come la “comitologia”. Ovviamente si tratta di atti
diversi dalle decisioni quali atti tipici previsti all'art. 234 [ex art. 189] Tr. CE, di cui si
dirà avanti.
Pag. 51
Gli accordi interistituzionali e le dichiarazioni comuni rappresentano a loro volta
l'espressione della comune posizione delle istituzioni su temi di alta rilevanza per la
costituzione dell'Unione e della Comunità, ed hanno sicuro carattere di atti politici.
Altri atti, pur avendo una notevole valenza politica, rappresentano maggiormente
il punto di snodo tra l'indirizzo politico e l'attività amministrativa, per cui meglio loro si
addice la qualifica di atti di alta amministrazione. Un esempio è rappresentato dai
“programmi generali” di cui parla il Trattato CE per certe politiche comunitarie (cfr.
artt. 44 e 52 [ex artt. 54 e 63]), e che racchiudono le linee guida per l'azione della
stessa istituzione che li ha adottati, ed il quadro di riferimento per tutti gli altri
soggetti coinvolti, comunitari e nazionali. Vi si possono assimilare anche le conclusioni
e le risoluzioni del Consiglio.
Sia per gli atti politici che per gli atti di alta amministrazione il problema della
impugnabilità si pone nel sistema comunitario in modo non differente dal diritto
nazionale. Si tratterà dunque di volta in volta di verificare la portata concreta degli atti
in questione, ovvero se hanno natura direttamente rilevante e, in tal caso, se sono
possibili forme di impugnativa diretta. In linea generale si può dire che nessuno di tali
atti è in principio privo di effetti giuridici per i destinatari, con maggiore pregnanza nel
caso degli atti di alta amministrazione. Il problema è particolarmente avvertito per i
programmi generali o per altri atti a carattere programmatorio che condizionano lo
scenario delle imprese interessate, in certi casi determinando affidamenti cui sembra
difficile non rico-noscere un preciso rilievo giuridico.
Il terzo tipo di atti comprende i numerosissimi atti assunti dalle istituzioni per
realizzare concretamente i compiti loro propri, in connessione o indipendentemente
dagli atti tipici esaminati ai precedenti paragrafi. La tipologia di questi atti è
veramente ampia, sì che al momento è solo possibile indicarne alcune linee guida.
Si tratta di atti normalmente non vincolanti, perciò usualmente definiti con il
termine di soft law, ma che possono anche esserlo. Anche nel caso di atti non
vincolanti, come di regola sono le comunicazioni, ne derivano sempre influenze
giuridiche per i destinatari. Non diversamente dalle circolari interpretative di molti
diritti nazionali, le comunicazioni esprimono infatti la posizione dell'istituzione
competente e dunque possono essere disattese solo in virtù di specifica ed accurata
motivazione che dia conto delle diverse ragioni di pubblico interesse fatte proprie dalle
Pag. 52
istituzioni. In caso contrario, gli atti finali possono essere impugnati davanti ai giudici
comunitari o nazionali, a secondo del tipo di atto. Più in generale, per gli atti aventi
carattere endoprocedimentale (come le iniziative, le proposte e le richieste) valgono le
regole note nei diritti nazionali circa la loro impugnabilità solo in particolari
circostanze, in cui si determina una immediata vincolatività per i soggetti terzi.
In questo quadro le comunicazioni hanno assunto un ruolo molto importante,
dato che rappresentano lo strumento usato dalla Commissione per rendere note agli
interessati le posizioni comunitarie. Per la primaria funzione di informazione, per la
mancanza di una chiara base giuridica e per il vario contenuto effettivo che possono
assumere, le comunicazioni trovano il loro più vicino riferimento nazionale nelle
circolari.
Il motivo principale della grande diffusione degli atti di soft law consiste nella
sempre maggiore integrazione che si verifica all'interno del sistema comunitario e
dell'Unione, che rende necessarie nuove forme di coordinamento ed indirizzo espresse
con
atti
diversi
da
quelli
tipizzati
nei
Trattati,
di
carattere
eminentemente
amministrativo, rivolti ai vari organismi comunitari e/o alle amministrazioni nazionali
operanti in senso comunitario.
10. LE PROPOSTE PER UNA SISTEMAZIONE DELLE FONTI
A conclusione di questo Capitolo dovrebbe risultare ben chiaro lo stato di
confusione che contraddistingue l'intera problematica delle fonti.
Le proposte presentate si incentrano sulla introduzione nel sistema comunitario
di un preciso criterio di classificazione degli atti, accompagnato da un corrispondente
ordine gerarchico degli atti stessi, secondo quanto ipotizzato nella dichiarazione n. 16
annessa al Trattato UE e in armonia con alcune aperture della giurisprudenza
comunitaria, ove si è fatto ricorso alla nozione di gerarchia delle norme per
distinguere tra atti legislativi ed atti di attuazione (cfr. Tribunale di primo grado,
sentenza 8.6.1995, causa T-9/93). Più in particolare, il sistema delle norme dovrebbe
comprendere le leggi costituzionali, le leggi ordinarie o quadro, atti regolamentari a
carattere esecutivo, secondo un disegno generale familiare ad una parte dei sistemi
costituzionali degli Stati membri.
Pag. 53
Pur condividendo l'intento dei proponenti per una adeguata chiarificazione del
quadro complessivo, oggi palesemente inadeguato rispetto alle esigenze di certezza
del diritto, di conoscibilità delle regole, di trasparenza e responsabilità, è facile
comprendere perché non ci sono ancora le premesse per l'affermazione di queste
proposte.
Si consideri anzitutto che vi sono Stati membri ove non esiste una chiara
classificazione delle fonti e degli atti pubblici, e tanto meno un loro criterio ordinatore
gerarchico. In secondo luogo, molti ritengono che siano tuttora attuali le ragioni
originarie per la configurazione volutamente ambigua degli atti comunitari, in
particolare il bilanciamento tra le diverse istituzioni ed il sovrapporsi delle funzioni. In
terzo luogo, molti oppositori si rifanno alla necessità di non valorizzare nessun
elemento dell'ordinamento comunitario che porti a rafforzarlo rispetto agli Stati
membri, contribuendo di fatto e di diritto allo sviluppo di principi federalistici.
Il motivo assorbente sta comunque nell'impossibilità di realizzare la riforma del
sistema delle fonti prima o al di fuori di una revisione istituzionale generale del
sistema comunitario e dell'Unione. È ovvio infatti che il quadro degli atti pubblici di
qualsivoglia ordinamento sia una parte strettamente compenetrata agli altri snodi
costituzionali del sistema, e non certo una variabile indipendente. Una chiara
classificazione degli atti comunitari sarà dunque possibile solo quando troverà una
compiuta sistemazione il modello istituzionale complessivo della Comunità.
Pag. 54
CAPITOLO X
PROCEDIMENTI E ATTI AMMINISTRATIVI
1. IL MODESTO RILIEVO INIZIALE DELLA TEMATICA DEL PROCEDIMENTO
La rilevante influenza del diritto amministrativo di alcuni Stati membri nella fase
di avvio della Comunità ha determinato la trasposizione nel nuovo ordinamento
dell’approccio
tradizionale,
secondo
cui
ciò
che
giuridicamente
rileva
è
il
provvedimento che conclude il procedimento segnando il rapporto amministrazionesingolo, e rispetto al quale sono esperibili i rimedi giurisdizionali. Le varie evenienze
che precedono la conclusione del procedimento rimangono in una dimensione
pregiuridica o, al più, sono rilevanti solo in modo indiretto, ed in ogni caso filtrate dal
provvedimento finale.
Questo tipo di approccio risentiva anche dell’influenza del diritto privato per cui
anche gli atti amministrativi sono da distinguere in “meri atti” ed “atti negoziali”, a
seconda se endoprocedimentali o conclusivi del procedimento e quindi a diretta
rilevanza esterna, con la conseguenza che di regola non sono giuridicamente rilevanti
le fasi preliminari alla conclusione provvedimentale del procedimento.
Anche quando gli atti amministrativi sono stati considerati con nuovi strumenti
concettuali pubblicistici, il loro procedimento di formazione è stato a lungo ritenuto
marginale in
quanto
afferente a
criteri di buona
organizzazione più
che a
problematiche giuridiche.
La giurisprudenza amministrativa aveva da tempo indicato che nello svolgimento
del procedimento si potevano determinare illegittimità di vario tipo, dando così
implicitamente rilievo giuridico al procedimento stesso ed alle sue fasi.
Il particolare rilievo del provvedimento amministrativo nella scienza giuridica e
nella giurisprudenza accomunava, grosso modo, tutti gli ordinamenti degli Stati
fondatori della Comunità e dunque si trasferì facilmente anche nel nuovo contesto. Lo
stesso Trattato di Roma risente di questo approccio.
Altri e più rilevanti motivi erano collegati ai tratti specifici dell’ordinamento
comunitario nella sua fase iniziale, di cui merita richiamarne almeno tre: la
Pag. 55
configurazione del sistema comunitario quale ordinamento con fini particolari; la
tendenziale indistinzione tra atti normativi ed amministrativi; il generale modesto
rilievo delle problematiche amministrative.
Per quanto riguarda il criterio delle competenze di attribuzione, che come è
intuibile come rilevi in modo diretto sull’intera problematica amministrativa, e quindi
anche
sui
procedimenti
amministrativi:
il
ruolo
dell’amministrazione
è
infatti
direttamente proporzionale all’espandersi delle competenze, così come alla “forma di
Stato” comunitaria. In un sistema inizialmente configurato come variante di
un’organizzazione
internazionale,
con
una
struttura
amministrativa
propria
estremamente ridotta ed incentrata sul principio della esecuzione indiretta, era
naturale che i procedimenti amministrativi non avessero un particolare rilievo.
I medesimi caratteri originari della Comunità spiegano anche la ragione della
apparente indistinzione tra gli atti normativi e gli atti amministrativi. Del resto, il
principio
della
esecuzione
indiretta
delle
politiche
comunitarie
attraverso
le
amministrazioni degli Stati membri portava a considerare come eccezionali i
procedimenti amministrativi comunitari, ed a rimandare l’approccio scientifico per le
problematiche comunitarie ai modelli propri degli ordinamenti nazionali; in tal modo
non favorendo un’autonoma riflessione sul tema dei procedimenti.
Pag. 56
2.
LE RAGIONI DELLA SUCCESSIVA EVOLUZIONE
II quadro ora descritto è però progressivamente mutato, sia negli ordinamenti
nazionali che nel sistema europeo.
Nell’ambito nazionale il tema del procedimento amministrativo si è affrancato
dalle influenze privatistiche, ed è apparsa in tutta evidenza la differenza tra le
manifestazioni della autonomia privata e le attività amministrative con cui si
perseguono gli interessi pubblici. Di seguito, nella prospettiva amministrativa
compiutamente acquisita, il procedimento si è imposto tra i problemi giuridici di
maggior rilievo in quanto cruciale tanto per l’interesse pubblico quanto per quello dei
privati, ribaltando l’iniziale prospettiva.
Anche nel diritto positivo vi è stata una notevole evoluzione, con vari Stati che
hanno approvato leggi sul procedimento, sia di carattere organico e molto dettagliato
come in Germania con la legge sulla procedura amministrativa del 1978; sia con leggi
di principi, come in Spagna con la legge sulla procedura amministrativa comune del
1992, ed in Italia con la legge n. 241/1990. Addirittura, alcune recenti costituzioni
prevedono principi in tema di procedimenti: così, la Costituzione spagnola all’art. 105,
circa il diritto degli interessati ad essere ascoltati; la Costituzione portoghese agli artt.
267-268, sulla partecipazione dei cittadini alla procedura amministrativa e sulla
pubblicità della stessa; la Costituzione greca del 1975 sul principio di audi alteram
partem.
Negli Stati che hanno inteso mantenere un tipo di disciplina del procedimento
sostanzialmente giurisprudenziale, come in Francia e in Inghilterra, il tema del
procedimento è risultato egualmente centrale nel dibattito sull’amministrazione, per le
medesime ragioni generali sopra evidenziate. La diversità è dunque solo nella tecnica
giuridica utilizzata.
Una decisa evoluzione si è avuta anche nell’ambito comunitario. I fini
dell’ordinamento comunitario si sono velocemente espansi sia in modo esplicito specie con l’Atto unico europeo ed il Trattato sull’Unione europea - che attraverso una
serie di tecniche espansive, confermate o addirittura create dalla Corte di giustizia.
Pag. 57
Allo stesso risultato porta la crisi del principio dell’esecuzione indiretta, almeno
nella sua accezione più rigida che porta a considerare eccezionali gli interventi diretti
comunitari ed a delineare una chiara distinzione tra le due sfere, comunitaria e
nazionale. Una delle maggiori conferme dell’improprietà della distinzione tra le due
forme di esecuzione è data dalla diffusione dei procedimenti composti. Con questo
termine si intendono quei procedimenti che si svolgono in parte nella sfera
comunitaria ed in altra parte nella sfera nazionale, finalizzati al perseguimento di
obbiettivi comunitari. I settori ove maggiormente si hanno questi procedimenti
composti sono la concorrenza e gli aiuti di Stato. Un forte aumento di questi
procedimenti deriva dall’attuazione del principio di sussidiarietà e del connesso criterio
delle competenze concorrenti.
Vi sono poi altri sviluppi che si riferiscono specificamente al tema dei
procedimenti amministrativi. Così, l’interpretazione di una serie di disposizioni generali
dei Trattati come riferibili anche ai procedimenti; la progressiva distinzione tra atti e
procedimenti normativi ed amministrativi; la disciplina di alcuni importanti aspetti
come il diritto di accesso; la consolidazione in diritto derivato di interi procedimenti
amministrativi di settore, come nel caso degli appalti pubblici; la rilevanza generale di
queste discipline di settore che, pur essendo riferite alle amministrazioni aggiudicatrici degli Stati membri, sono considerate applicabili anche agli analoghi
contratti da concludersi dalla Commissione e dagli organismi comunitari, nonché
contenenti principi rilevanti anche per altri procedimenti.
Il fattore più rilevante per il nuovo ruolo assunto dai procedimenti amministrativi
è stata comunque la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’elaborazione dei
principi generali di diritto comunitario, molti dei quali sono specificamente principi sul
procedimento.
Se i principi generali acquisiti dall’esperienza di uno o più Stati membri
rappresentavano
l’espressione
dell’influenza
originaria
dei
diritti
amministrativi
nazionali sulla Comunità, i nuovi principi rifluiscono sui sistemi nazionali secondo un
moto circolare che tende oggi a spostare verso la Comunità il principale centro motore
delle innovazioni.
Un importante contributo per la rilevanza giuridica del procedimento è derivato
anche
dal
Consiglio
d’Europa,
che
ha promosso
una
serie
di
risoluzioni
e
Pag. 58
raccomandazioni in tema di garanzia del giusto procedimento e di prevenzione
procedimentale della maladminislration.
L’art. 6, c. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“ogni persona ha
diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un
tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione
sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile...”) è stato poi inteso dalla Corte
di Strasburgo in senso assai estensivo, sì da ricomprendere ogni tipo di procedura il
cui esito si riflette su diritti di carattere privato. Il concetto di “tribunale” è stato
interpretato come inclusivo anche di organi amministrativi; così come il “diritto di
carattere civile” non è stato ristretto ai casi strettamente privatistici di controversie tra
persone o tra persone e pubbliche autorità che agiscono come persone private,
ampliandosi a ricomprendere fattispecie come l’esercizio delle professioni, la gestione
di cliniche private, i procedimenti disciplinari, l’esercizio di attività commerciali
soggette
ad
autorizzazione.
L’influenza
di
questa
giurisprudenza
è
risultata
particolarmente rilevante anche per quanto attiene lo sviluppo di forme procedimentali
a carattere giustiziale in molti Paesi.
Dalla somma dei vari fattori ora esaminati, univocamente scaturenti dalle
risultanze del diritto comparato, dalle esperienze dei vari Stati membri, dagli sviluppi
propri del sistema comunitario e dalle iniziative di altri organismi internazionali come il
Consiglio d’Europa, risulta conclusivamente che il procedimento amministrativo è
tematica di assoluta centralità anche nell’ordinamento comunitario.
3.
LE DISPOSIZIONI DEI TRATTATI RILEVANTI PER IL PROCEDIMENTO
In questo paragrafo si esaminano i principi dei Trattati che rilevano per la
tematica del procedimento amministrativo.
Viene per primo in evidenza il principio di legalità, implicitamente previsto agli
artt. 220 [ex art. 164] e 230 [ex art. 173] Tr. CE, e considerato dalla giurisprudenza
principio inerente al complessivo sistema comunitario, quale “Comunità di diritto”.
Per la circostanza che il principio di legalità è l’unico principio veramente comune
a tutti gli Stati membri, e per la sua centralità nella costruzione dell’ordinamento
comunitario, è dato per pacificamente acquisito.
Pag. 59
Questa posizione è condivisibile in quanto, da un lato, il principio di legalità è
ormai inteso, anche negli Stati membri, come sottoposizione dell’amministrazione al
diritto in generale, e non specificamente alla legge; dall’altro, implica che l’attività
amministrativa debba sempre trovare una base giuridica nei Trattati e nel diritto
derivato. Come è stato precisato nella sentenza Hòchst AG (21.9.1989, cause 46/87 e
227/88), in tutti i sistemi giuridici degli Stati membri gli interventi dei poteri pubblici
nella sfera dell’attività privata di qualsiasi persona, fisica o giuridica, devono essere
fondati sulla legge e giustificati dai motivi contemplati dalla legge. Il principio di
legalità diviene, in tal modo, il principio primigenio da cui tutti gli altri finiscono per
derivare.
Altro rilevante principio è quello di eguaglianza, spesso considerato in termini
di divieto di discriminazioni e quindi riferito all’art. 12 [ex art. 6] Tr. CE (divieto di
discriminazioni sulla base della nazionalità) od all’art. 141 [ex art. 119] Tr. CE (criterio
della parità di retribuzione tra uomini e donne) o ad altre simili disposizioni dei
Trattati; ma che la più attenta giurisprudenza connette all’esigenza generale che
l’amministrazione operi in modo corretto ed imparziale, prendendo in considerazione
tutti gli interessi coinvolti, ogni volta che disponga di un potere discrezionale.
Come per il principio di legalità, anche per il principio di eguaglianza il Trattato
CE non aveva un’espressa previsione. Ma la comune esperienza costituzionale ed
amministrativa degli Stati membri nel riconoscerlo come principio fondamentale ha
fatto sì che si desse sempre per implicita una siffatta configurazione anche
nell’ordinamento comunitario.
In riferimento al profilo, che qui più interessa, dell’eguaglianza nell’applicazione
del diritto, secondo la lettura datane dalla giurisprudenza il principio implica che non si
trattino diversamente situazioni analoghe o che non si trattino allo stesso modo
situazioni diverse. Importanti svolgimenti giurisprudenziali del principio si sono avuti
nei procedimenti relativi al personale comunitario, alla concorrenza ed al mercato, alle
cd. azioni affermative.
Con il Trattato di Amsterdam il principio di eguaglianza è stato inserito tra i
principi generali del diritto comunitario primario, almeno nell’accezione di non
discriminazione. Per il nuovo comma dell’art. 3 (numerazione non modificata) Tr. CE,
“l’azione della Comunità a norma del presente articolo mira a eliminare le
Pag. 60
ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”. Per il nuovo art.
13 [ex art. 6A] dello stesso Trattato, poi, il Consiglio con determinate procedure può
prendere i provvedimenti opportuni “per combattere le discriminazioni fondate sul
sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap,
l’età o le tendenze sessuali”.
Con il Trattato sull’Unione europea del 1992 è divenuto principio generale
“costituzionalizzato” anche quello di proporzionalità, o, meglio, una delle accezioni
di questo complesso principio. L’art. 5 [ex art. 3B] Tr. CE prevede infatti all’ultimo
comma che “l’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il
raggiungimento degli obbiettivi del presente Trattato”. Vuoi per il limitato interesse di
questa accezione del principio di proporzionalità per la tematica del procedimento,
vuoi per il carattere spiccatamente giurisprudenziale che ancora è proprio in generale
del principio, lo si esaminerà meglio di seguito, nel contesto dei principi elaborati dalla
Corte di giustizia che sono direttamente riferibili al procedimento (cfr. par. 4).
Anche l’art. 10 [ex art. 5] Tr. CE, cui si è fatto già molteplice riferimento per vari
altri profili, ha una diretta rilevanza per la materia esaminata. In effetti il principio di
leale cooperazione fra Stati membri e istituzioni comunitarie è una delle più innovative
disposizioni tra quelle dell’originario Trattato CE, che ha consentito alla Corte di
giustizia di trarne una serie impressionante di corollari quale criterio generale della
condotta tenuta dagli Stati membri e dalle istituzioni comunitarie. Basti ricordare la
disapplicazione del diritto nazionale contrastante con quello comunitario da parte delle
amministrazioni nazionali, e la responsabilità degli Stati membri per omessa o
ritardata trasposizione del diritto comunitario.
Le implicazioni maggiori del principio stanno proprio sul versante amministrativo,
in quanto su tale base è stato possibile alla Commissione di prescrivere una serie di
adempimenti e indirizzi per le amministrazioni nazionali coinvolte nei procedimenti a
rilevanza
comunitaria.
Ciò
è
particolarmente
rilevante
nella
prospettiva
dei
procedimenti amministrativi perché determina un ulteriore attenuarsi della distinzione
tra esecuzione diretta e indiretta, a favore di un modo di esecuzione congiunto degli
impegni comunitari, ora confermato dal criterio del “fare assieme” che è uno dei
maggiori significati del principio di sussidiarietà.
Per quanto riguarda appunto la sussidiarietà prevista dall’art. 2 [ex art. B] Tr.
Pag. 61
UE e dall’art. 5 [ex art. 3B] Tr. CE, ai nostri fini tale principio diviene un essenziale
riferimento per i procedimenti composti. Tali procedimenti hanno per caratteristica di
combinare fasi sia comunitarie che nazionali, con un ordine che dipende dalle singole
fattispecie e che prevede una conclusione con atti nazionali o comunitari, a seconda
del tipo di competenza e dell’interesse perseguito.
Se l’accezione istituzionale o, altrimenti detta, “verticale” del principio di
sussidiarietà è di diretta valenza per il tema qua esaminato, meno finora studiata, ma
probabilmente ancora più ricca di significato, è l’accezione “orizzontale” dello stesso
principio. Si tratta della valenza della sussidiarietà ai fini della possibile delimitazione
della sfera pubblicistica a fronte di quella privata, che con altri fattori è alla base delle
tendenze nazionali alla progressiva liberalizzazione di attività altrimenti soggette ad
un forte condizionamento pubblico, ed anche, in una più ridotta dimensione, delle
tendenze alla semplificazione dei procedimenti amministrativi. Il tema è, come noto,
particolarmente sviluppato in Italia a partire dalla legge n. 241/1990.
Anche la problematica dei diritti fondamentali ha una diretta incidenza sul
procedimento amministrativo. I diritti fondamentali, già da tempo richiamati dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia, hanno fatto il loro ingresso espresso nel diritto
comunitario in occasione del Trattato sulla Unione europea (art. F [ora art. 6], c. 2),
per quanto in modo ambiguo relativamente alla loro giustiziabilità (cfr. infatti l’art. L
[ora art. 46] sulle limitate competenze della Corte di giustizia). Con il recente Trattato
di Amsterdam si è, da un lato, fortemente rafforzato il richiamo ai principi fondamentali nell’art. 6 [ex art. F], c. 1, TUE riformulato (“l’Unione si fonda sui principi di
libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello
stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri”); dall’altro, si è assicurata
la loro tutela giurisdizionale con la modifica dell’art. 46 [ex art. L] TUE, ora richiamato.
Per quanto rileva ai fini del procedimento amministrativo, basti richiamare il principio
del giusto procedimento e tutte le sue implicazioni.
Vanno infine richiamate altre disposizioni dei Trattati a carattere più particolare,
ma egualmente di rilevante importanza per la tematica qua in esame. Così, in
particolare, il principio circa l’obbligo di motivazione degli atti comunitari, di cui all’art.
253 [ex art. 190] Tr. CE; ed il principio circa l’obbligo per il Consiglio o la
Commissione di consultare in
certi
casi organismi a
rilevanza
costituzionale
comunitaria, come il Comitato economico sociale (art. 262 [ex art. 198] Tr. CE) e il
Pag. 62
Comitato delle regioni (art. 265 [ex art. 198C] Tr. CE.
Per quanto riguarda l’obbligo di motivazione, l’art. 253 [ex art. 190] Tr. CE è
direttamente rivolto agli atti tipici e vincolanti previsti negli articoli precedenti dello
stesso capo, ma una volta riconosciuti legittimi anche gli atti atipici la disposizione è
stata estesa a tutti gli atti comunitari, come espressione di principio generale.
Nel quadro del procedimento amministrativo, “l’obbligo di motivare le decisioni
individuali ha il duplice scopo di permettere, da un lato, agli interessati di conoscere le
giustificazioni del provvedimento adottato al fine di difendere i loro diritti e, dall’altro,
al giudice comunitario di esercitare il suo sindacato sulla legittimità della decisione”
(Tribunale di primo grado, sentenza 17.6.1998, causa T-174/95; Corte di giustizia,
sentenza 14.2.1990, causa C-350/88).
Infine, per quanto riguarda l’espressione dei pareri obbligatori da parte del
Comitato economico-sociale e del Comitato delle regioni, essi possono essere previsti
tanto in procedimenti normativi, quanto in procedimenti amministrativi, che qui più
direttamente interessano. La loro funzione è del tutto simile a quanto avviene negli
ordinamenti nazionali per analoghi organismi, che per natura giuridica e funzioni non
solo
di
carattere
consultivo
sfuggono
ad
una
qualificazione
direttamente
amministrativa, pur se partecipano in modo obbligatorio a procedimenti di tal genere.
Un ruolo specificamente amministrativo è proprio invece dei numerosi comitati, detti
appunto consultivi, previsti da regolamenti e direttive quali strumento di assistenza (e
di condizionamento) della Commissione da parte degli Stati membri, nonché quale
occasione di partecipazione dei rappresentanti delle categorie interessate e di
utilizzazione di esperti indipendenti (cfr. Cap. VIII, par. 3).
4. I PRINCIPI GENERALI ELABORATI DALLA GIURISPRUDENZA
COMUNITARIA
Si esaminano adesso i principi generali che sono il frutto della giurisprudenza
pretoria della Corte di giustizia e che non sono stati finora recepiti nei Trattati, se non
per profili particolari come nel caso del principio di proporzionalità e di quello di buona
amministrazione.
Tra i molti principi generali rilevanti per il procedimento amministrativo, vanno
Pag. 63
ricordati i principi di certezza del diritto, di proporzionalità, di legittimo
affidamento, di buona amministrazione, sul diritto ad essere ascoltati. Alcuni
di questi principi comunitari derivano direttamente da un particolare ordinamento
nazionale
(è
il
caso,
ad
esempio,
della
proporzionalità
propria
in
origine
dell’ordinamento tedesco), altri sono di generale accettazione negli Stati membri
(come il principio di certezza del diritto). Ma anche nei casi di principi apparentemente
“nazionali”, possiamo constatare che in forme più o meno similari sono conosciuti
anche da molti altri ordinamenti.
Passando ad esaminare singolarmente alcuni principi generali di carattere
esemplare, quello di certezza del diritto implica che i soggetti dell’ordinamento
comunitario siano garantiti circa il quadro giuridico della loro azione e dei rapporti con
le istituzioni e gli organismi comunitari. In particolare, il principio è diretto a garantire
la prevedibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici rientranti nella sfera del diritto
comunitario (Tribunale di primo grado, sentenza 25.3.1997, causa T-37/97). Si tratta
di un tipico svolgimento dell’idea generale di Stato di diritto che si lega strettamente
ad altri principi, come la tutela del legittimo affidamento.
È tipico il caso della revoca degli atti amministrativi illegittimi, che fin dalla prima
giurisprudenza comunitaria ha fatto discutere circa il fondamento ed i limiti di questo
potere. Mutuando l’impianto dai diritti amministrativi nazionali, la posizione della
giurisprudenza comunitaria è nei senso di ammettere la revoca solo entro un termine
ragionevole, ed alle condizioni che non siano in gioco situazioni giuridiche soggettive
costituite da un atto individuale valido, e che non sia violata la tutela del legittimo
affidamento. Il principio della irrevocabilità degli atti amministrativi è infatti un fattore
di certezza del diritto e di stabilità delle situazioni giuridiche (Corte di giustizia,
sentenza Basf del 27.2.1992, causa cit.).
Sono invece di regola vietati atti amministrativi con efficacia retroattiva, ovvero
anteriore al momento in cui è stato assunto od alla data della sua notificazione o
pubblicazione. Ma si ammette la retroattività quando ciò sia necessario per il fine
perseguito e sia rispettato il principio del legittimo affidamento.
Vi è una vasta giurisprudenza anche in tema di rapporto tra recupero di aiuti di
Stato dichiarati incompatibili e principio di affidamento legittimo. La posizione che si è
saldamente affermata è nel senso che, in materia di aiuti, il legislatore comunitario
Pag. 64
non ha fissato alcun termine di prescrizione per l’azione della Commissione, né tale
termine è deducibile in via analogica; e che il beneficiario può vantare un legittimo
affidamento solo quando l’aiuto sia stato concesso nel rispetto delle norme del
Trattato (Tribunale di primo grado, III sez., sentenza 15.9.1998, cause T-126,
127/96; ma vedi, adesso, il regolamento 22.3.1999, n. 659).
Come si vede, è continuo il collegamento tra il principio di certezza del diritto e
quello di legittimo affidamento, che in modo diretto mira a proteggere le situazioni
consolidate, ad esempio a fronte di revoche illegittime, soprattutto in presenza di
circostanze di fatto che giustificano un ragionevole affidamento ingenerato nei
destinatari da parte di organi comunitari.
Un altro principio cui la giurisprudenza comunitaria ha fatto largo ricorso è quello
di proporzionalità. Il principio è conosciuto specificamente in alcuni ordinamenti
nazionali, come Germania e Francia, ed in modo parzialmente diverso in molti altri
ordinamenti. Si tratta di un principio ad ampio spettro di applicazione, incentrato sul
rispetto dell’equilibrio tra obbiettivi perseguiti e mezzi utilizzati, che riguarda in egual
modo l’azione della Comunità e l’azione degli Stati membri. In tal senso, le pubbliche
autorità non possono stabilire obblighi e restrizioni alla libertà degli interessati in
misura diversa da quella necessaria nel pubblico interesse per raggiungere lo scopo
cui è preposta l’autorità responsabile; e sempre ovviamente che si tratti di provvedimento davvero necessario.
I settori ove più è stato utilizzato il principio di proporzionalità sono quelli degli
aiuti di Stato, dell’organizzazione dei mercati, delle sanzioni per violazione di
disposizioni comunitarie.
Va comunque sin d’ora precisato che nel diritto comunitario sono distinti il vizio
di sviamento di potere (di cui all’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE) e la violazione del
principio di proporzionalità. Un’importante applicazione recente è data dal caso della
“mucca pazza”, ove i provvedimenti della Commissione in tema di protezione contro
l’encefalopatia spongiforme bovina sono stati considerati validi tanto in riferimento allo
sviamento di potere, quanto al principio di proporzionalità (Corte di giustizia sentenza
5.5.1998, causa C-157/96). Nell’occasione, la Corte ha ribadito che il principio di
proporzionalità richiede che gli atti delle istituzioni comunitarie non superino i limiti di
ciò che è idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi legittimamente
Pag. 65
perseguiti dalla normativa di cui trattasi.
Il diritto ad essere ascoltati nel corso del procedimento amministrativo è un
altro principio generale elaborato dalla Corte di giustizia fin dalla sentenza Alvis
(4.7.1963, causa 32/63), svolgendo le varie implicazioni dello Stato di diritto e
dunque riconoscendolo come principio di diritto amministrativo ammesso in tutti gli
Stati membri della Comunità, che risponde alle esigenze della giustizia e della buona
amministrazione.
II principio è stato individuato in riferimento specifico ai procedimenti afflittivi, al
fine di consentire agli interessati di poter esporre le proprie ragioni ed avere al
riguardo una risposta motivata da parte degli organismi cui compete la responsabilità
del procedimento, così rafforzando la loro tutela. Si sono anche avute applicazioni del
principio nel diritto della concorrenza e per le questioni del pubblico impiego
comunitario.
La complessità e varietà dei procedimenti amministrativi suggerisce di introdurre
una previsione generale sul diritto ad essere ascoltati nel diritto scritto della
Comunità, assicurando così maggiore chiarezza operativa ad un principio di cui
nessuno contesta la particolare rilevanza. In tal modo potrebbe anche essere risolta
un’ambiguità dell’attuale giurisprudenza, che mentre da un lato afferma il carattere
fondamentale del principio, dall’altro sostiene che per aversi l’annullamento di un
provvedimento per violazione del principio stesso va dimostrato che, in mancanza di
tale irregolarità, la procedura avrebbe potuto portare ad un diverso risultato.
Per quanto riguarda infine il principio di buona amministrazione, sino al
Trattato UE è stato discusso se i molti richiami ad esso nella giurisprudenza
comunitaria si riferissero ad un vero e proprio principio generale o non soltanto ad una
variante del principio di legalità. Non mancava addirittura chi metteva in discussione
la giuridicità del principio.
In verità, siamo di fronte ad uno svolgimento del principio di legalità che non
assume caratteri nettamente distinti. L’unico tratto peculiare è l’enfasi posta sul
rispetto dei criteri di efficienza e di efficacia, e quindi di ogni parametro di buona
amministrazione ivi comprese regole tecniche ed interne. Alla “buona amministrazione”
si
è
amministrativa
così
e
fatto
la
riferimento
capacità
per
funzionale
assicurare
la
tempestività
dell’amministrazione.
dell’azione
Difficilmente
la
Pag. 66
giurisprudenza comunitaria ha fatto esclusivo richiamo alla buona amministrazione per
affermare l’illegittimità di certi atti, accompagnando preferibilmente la conclusione al
principio del legittimo affidamento o ad altri principi di più chiara configurazione.
5.
LE FASI DEL PROCEDIMENTO
Dopo aver considerato i principi generali che rilevano per la disciplina del
procedimento amministrativo, possiamo esaminare l’articolazione delle varie fasi del
procedimento stesso, distinguendo tra procedimenti comunitari, espressione della
cd.
esecuzione
diretta;
procedimenti
nazionali
a
rilevanza
comunitaria,
espressione della cd. esecuzione indiretta; e procedimenti composti, che sono
l’espressione della integrazione funzionale tra le due amministrazioni.
I procedimenti amministrativi comunitari sono abbastanza limitati dal punto di
vista quantitativo e, come detto, non hanno una disciplina generale. Dalle norme
particolari che sono previste per determinate procedure e dalla giurisprudenza in
materia risulta che l’articolazione dei procedimenti comunitari non si discosta
significativamente dal modello generale dei procedimenti nazionali, sia per quanto
attiene alla sequela delle varie fasi che ai caratteri delle stesse.
Circa l’inizio del procedimento, l’iniziativa può derivare dall’amministrazione
responsabile della decisione finale, da altra amministrazione o dagli interessati. La
peculiarità comunitaria sta nella previsione di un speciale mezzo di ricorso per i casi in
cui vi sia da parte del Consiglio e della Commissione la violazione di un obbligo di
provvedere. Si tratta del ricorso in carenza di cui all’art. 232 [ex art. 175] Tr. CE,
che si riferisce tanto alla mancata conclusione di un procedimento quanto, come qua
interessa, anche al suo mancato inizio (situazione più frequente della prima). Nel caso
in cui la contestazione muova dagli Stati membri o dalle altre istituzioni della
Comunità per violazione di un obbligo di provvedere previsto dal Trattato, il ricorso è
ricevibile solo se l’istituzione in causa sia stata preventivamente richiesta di agire. Alle
medesime condizioni, il ricorso può essere proposto anche da ogni persona, fisica o
giuridica, per contestare ad una delle istituzioni della Comunità di avere omesso di
emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere (art.
232 [ex art. 175], ult. comma). Il rimedio ora descritto avverso l’inerzia delle
Pag. 67
istituzioni comunitarie è speculare a quello di cui all’art. 226 [ex art. 169] Tr. CE per
l’inerzia degli Stati membri, che sarà tra breve esaminato.
Una volta iniziato il procedimento, ne sono informati i diretti interessati nelle
forme consuete, ovvero per notifica diretta o per pubblicazione. Il punto non è oggetto
di una previsione generale analoga a quella che in Italia è data nell’art. 7 della legge
n. 241/1990, ma da una miriade di previsioni particolari con modalità diverse; ciò
malgrado, è considerato espressione di un principio generale di informazione e
partecipazione degli interessati.
Circa l’ambito dei soggetti interessati, di regola i diritti procedimentali sono
assicurati ai diretti interessati ed ai portatori di interessi collettivi, ma in vari casi sono
stati riconosciuti i medesimi diritti anche ai portatori di interessi diffusi. Tali fattispecie
sono al momento di stretta interpretazione e quindi da considerarsi tassative. Gli
interessati hanno titolo per conoscere gli atti del procedimento ed esprimere, anche
per scritto, il proprio punto di vista.
Circa poi la fase dell’istruttoria, che del procedimento è il cuore, l’attuale
disciplina è assai carente sia per la limitatezza delle previsioni, sia perché tali
previsioni non esprimono alcun criterio generale.
Per la tematica dell’istruttoria procedimentale non rileva neanche il potere
generale di raccogliere informazioni previsto all’art. 284 [ex art. 213] Tr. CE. Si tratta
infatti di un potere finalizzato alla migliore conoscenza da parte della Commissione sui
fatti affidati alla sua cura, con carattere preliminare rispetto all’apertura di successivi
ed eventuali procedimenti. E comunque implicito nell’art. 284 [ex art. 213] che quanto
ivi previsto possa essere posto in essere anche nel corso di procedimenti della Commissione e degli altri organismi comunitari.
Nel diritto derivato vi è invece un preciso riferimento alla istruttoria nella
disciplina dei comitati, secondo la decisione sulla “comitologia” n. 87/373, che, per
quanto
fortemente
criticata,
dà
ancora
indicazione
sulle
quattro
forme
procedimentali dette a comitato consultivo, a comitato di gestione, a comitato
di regolamentazione, a procedura di salvaguardia. La Corte di giustizia è molto
attenta a delimitare il ruolo dei comitati affinché non sia alterato l’equilibrio
istituzionale previsto dai Trattati. In particolare, si è ritenuto che i comitati consultivi e
di gestione non partecipino al processo decisionale comunitario e che l’eventuale
Pag. 68
mancanza del parere del comitato di gestione non influisca sulla validità del
provvedimento della Commissione.
Diversamente dai comitati ora esaminati, di carattere amministrativo, i comitati
previsti dai Trattati quali organi a rilevanza costituzionale comunitaria hanno un
particolare ruolo nel contesto di procedure normative o di alta amministrazione. Tale è
sicuramente il caso del Comitato economico e sociale e del Comitato delle
regioni, le cui funzioni consultive sono finalizzate all’esercizio delle attribuzioni
conferite alle istituzioni. Anche per questi due Comitati, comunque, vi possono essere
richieste di parere di natura amministrativa, con un subprocedimento per la relativa
espressione disciplinato dall’art. 262 [ex art. 198] Tr. CE, per il Comitato economico e
sociale, e dall’art. 265 [ex art. 198C] Tr. CE, per il Comitato delle regioni. Nei Trattati
sono altresì considerati altri comitati con funzioni eminentemente amministrative,
come il comitato consultivo trasporti (art. 79 [ex art. 83] Tr. CE). Pur avendo un
rilievo costituzionale, questi comitati sono vicini ai comitati amministrativi consultivi e
di gestione, che sopra abbiamo esaminato, in quanto prendono parte ai procedimenti
amministrativi nelle politiche di afferenza.
Al di là della disciplina dei comitati, la cd. comitologia, i principi in tema di
istruttoria sono al momento di carattere principalmente giurisprudenziale. Il principale
è quello relativo all’obbligo dell’amministrazione procedente di accertare tutte le
circostanze di fatto che sono necessarie per la decisione da assumere, con specifica
attenzione alle particolarità del caso (giurisprudenza costante dal caso Hoogovens,
sentenza 12.7.1962, causa 14/61). Gli unici limiti nell’attività di accertamento e di
acquisizione
di
notizie
sono
connessi
al
rispetto
della
riservatezza
e
della
proporzionalità.
La conclusione del procedimento avviene di regola in modo espresso, con atti
normalmente assunti dalla Commissione (ma non sono infrequenti atti amministrativi
del Consiglio). Nel caso di mancata conclusione espressa del procedimento (il cd.
silenzio dell’amministrazione), solo in casi particolari si prevede il suo valore giuridico,
di regola a carattere negativo (cfr. ad esempio l’art. 35, e 3, Trattato CECA, “decisione
implicita di rifiuto che si presume risulti da questo silenzio”).
Ove manchi un’espressa disciplina, la giurisprudenza configura il silenzio
dell’amministrazione come decisione implicita a carattere negativo e passibile di
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ricorso giurisdizionale. Prevale comunque un atteggiamento giurisprudenziale di tipo
casistico; così, in giudizi promossi da dipendenti comunitari, è stato affermato che il
silenzio dell’amministrazione sull’istanza dell’interessato non può intendersi come
confermativo di quest’ultima, né può determinare la stabilizzazione di situazioni
contrarie al diritto (Tribunale di primo grado, sentenza Chomel, 27.3.1990, causa T123/89). Ma in taluni casi il principio è stato considerato recessivo rispetto a quello di
legittimo affidamento (Corte di giustizia, sentenza RSV, 24.11.1987, causa 223/85),
ed esistono fattispecie di silenzio assenso.
La varietà delle posizioni giurisprudenziali e la mancanza di chiari riferimenti
generali fanno del silenzio della amministrazione comunitaria - situazione per la verità
assai particolare rispetto a quanto avviene in molti Stati membri - una questione
aperta che dovrà essere presto disciplinata.
Per quanto riguarda il silenzio nei procedimenti nazionali a rilevanza comunitaria,
nell’occasione in cui è stato affrontato in modo diretto il problema la Corte di giustizia
(sentenza 28.2.1991 causa 360/87) ha manifestato forti perplessità sulle capacità di
apprezzare gli interessi pubblici rilevanti nella fattispecie con una procedura di
carattere semplificato.
Occorre però ridimensionare la portata di questa sentenza, in quanto si riferisce
ad una disposizione nazionale nel quadro della esecuzione indiretta e non al problema
del silenzio nel contesto delle procedure dirette della Comunità. Inoltre, la sentenza ha
considerato una forma di silenzio assenso connessa al mero decorso di un termine e
non alla sola conclusione tacita del procedimento, per il resto regolarmente realizzato;
e non tiene conto delle più raffinate forme di silenzio assenso previste da legge
nazionali recenti, come le citate leggi sul procedimento amministrativo in Italia e
Spagna, ove a determinate condizioni il silenzio può essere una forma normale di
conclusione del procedimento.
Nell’ordinamento comunitario, del resto, esistono talune fattispecie di silenzio
assenso (ad esempio nel procedimento per l’assegnazione del marchio di qualità
ecologica, di cui al regolamento n. 880/92, e nella disciplina della concorrenza),
impostate analogamente ai similari procedimenti nazionali a conclusione per silenzio
assenso, e dunque con l’obbligo di svolgere comunque le fasi del procedimento, ed in
particolare l’istruttoria. Ciò dimostra che l’ordinamento comunitario non rifugge in via
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di principio dall’istituto del silenzio assenso, considerato in determinate circostanze un
utile
strumento
di
semplificazione
amministrativa
e
di
economia
nell’azione
dell’amministrazione.
Per quanto attiene ai tempi di conclusione del procedimento, le discipline di
settore prevedono di regola dei termini per il compimento del provvedimento; per i
restanti casi è considerato principio generale che il procedimento si concluda entro
termini certi e pronti.
Una volta assunto il provvedimento, questo deve osservare certe forme la cui
inosservanza non produce però necessariamente la nullità dell’atto. I requisiti
attengono alla indicazione dell’autorità che assume l’atto, alla qualificazione del tipo di
atto in questione, al numero progressivo dell’atto ed alla sua data. Tanto la
Commissione che il Consiglio hanno regole di procedura che prevedono tali requisiti.
6. IL DIRITTO DI ACCESSO
L’intero procedimento è aperto alla conoscenza da parte degli interessati; in
certe
materie
poi,
come
l’ambiente,
chiunque
può
prendere
visione
della
documentazione rilevante. Il diritto di accesso era inizialmente previsto dal diritto
comunitario, come del resto era normale nel diritto amministrativo degli Stati membri
in quel periodo. Successivamente, vuoi per l’evoluzione generale verso un’azione
amministrativa trasparente e conoscibile, vuoi anche per taluni eccessi comunitari in
senso opposto, con procedimenti amministrativi di regola segreti anche in assenza di
valide ragioni di pubblico interesse, si è addivenuti al progressivo riconoscimento del
diritto di accesso del pubblico alle informazioni di cui dispongono le istituzioni. Un
importante esempio si è avuto, in materia ambientale con la direttiva CEE del
Consiglio 7.6.1990, n. 90/313.
Un vero e proprio salto di qualità nella disciplina comunitaria si è verificato con il
Trattato sull’Unione europea, Dichiarazione n. 17, secondo cui la trasparenza del
provvedimento decisionale rafforza il carattere democratico delle istituzioni e la fiducia
del pubblico nell’amministrazione. Di conseguenza, si è impegnato la Commissione a
sottoporre entro il 1993 le misure necessarie per aumentare le forme di accesso alle
informazioni di cui dispongono le istituzioni. L’impegno è stato ribadito dal Consiglio
europeo nel 1992 ed in successivi vertici.
Pag. 71
In effetti, la Commissione ha pubblicato nel giugno 1993 la comunicazione 93/C
156/05 relativa all’accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni, ed una seconda
comunicazione 93/C 166/04 relativa alla trasparenza nella Comunità. Nel dicembre
1993, Consiglio e Commissione hanno approvato un codice di condotta relativo
all’accesso del pubblico ai documenti del Consiglio e della Commissione, sviluppato poi
con la decisione del Consiglio 93/731/CE e con la decisione della Commissione
94/90/CE. Le due decisioni sono state adottate sul fondamento delle disposizioni del
Trattato CE che prevedono il potere di autoregolamentazione delle istituzioni (art. 207
[ex art. 151] e art. 218 [ex art. 162], rispettivamente per il Consiglio e la
Commissione). Tale base giuridica è stata confermata dalia Corte di giustizia con la
sentenza 30.4.1996, causa C-58/94.
Gli indubbi progressi così realizzati per garantire l’accesso agli atti delle istituzioni
non avevano ancora un chiaro quadro giuridico di riferimento, discutendosi se
l’accesso fosse implicitamente compreso tra i diritti che esprimono il principio
democratico consacrato nell’art. 6 [ex art. F] TUE, oppure solo un risvolto delle misure
organizzative adottate dalle istituzioni.
Da ultimo, il Trattato di Amsterdam risolve il dilemma con due previsioni
inequivocabili: da un lato, riformulando l’art. A [ora art. 1] TUE con l’inciso: “Unione
sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più
trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini”; dall’altro, con il nuovo art.
255 [ex art. 191A] Tr. CE, specificamente dedicato a garantire il diritto di accesso (“1.
Qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia
la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti del
Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, secondo i principi ed alle
condizioni da definire a norma dei paragrafi 2 e 3. 2. I principi generali e le limitazioni
a motivo di interessi pubblici o privati applicabili al diritto di accesso ai documenti
seno stabiliti dal Consiglio, che delibera secondo la procedura di cui all’art. 251 [ex
art. 189B] entro due anni dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. 3.
Ciascuna
delle
suddette
istituzioni
definisce
nel
proprio
regolamento
interno
disposizioni specifiche riguardanti l’accesso ai propri documenti”).
Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam e la successiva definizione di
procedure specifiche da parte del Consiglio, il diritto di accesso agli atti delle istituzioni
diviene dunque assai ampio e garantito.
Pag. 72
Nel recente periodo i giudici comunitari hanno esaminato numerosi ricorsi in
materia, con significative anticipazioni del regime generale dell’accesso. Di questa
giurisprudenza i punti più rilevanti sono tre: la legittimazione a ricorrere avverso il
diniego di accesso; i parametri di legittimità dei provvedimenti delle istituzioni in tema
di accesso; il significato generale del diritto di accesso nel contesto dell’azione
amministrativa comunitaria.
Circa la legittimazione, il giudice comunitario ritiene che le due decisioni sopra
esaminate del Consiglio e della Commissione diano titolo a chiunque di richiedere
l’accesso a qualsiasi atto non pubblicato, senza che sia necessario motivare la
domanda (Tribunale di primo grado, sentenza 6.2.1998, causa T-124/96). Pertanto,
una persona alla quale sia stato negato l’accesso a un documento od a una parte di un
documento ha, per ciò solo, un interesse all’annullamento della decisione di diniego.
Circa poi i parametri di legittimità dei provvedimenti sulle richieste di accesso, i
giudici comunitari hanno finora evitato di esaminare il problema dell’accesso come
principio fondamentale, trovando già confortevoli risposte nelle decisioni più volte
citate del Consiglio e della Commissione, e nella disposizione del Trattato CE relativa
all’obbligo di motivazione degli atti (art. 253 [ex art. 190]). Nel primo senso, le
condizioni poste all’accesso sono state considerate restrittivamente al fine di non
privare di efficacia concreta l’applicazione del principio generale sull’accesso sancito
dalle due decisioni (Tribunale di primo grado, sentenza 5.3.1997, causa T-105/95), e
verificando che i provvedimenti contestati abbiano effettivamente posto a confronto
l’interesse del cittadino ad ottenere l’accesso e l’interesse dell’istituzione a tutelare la
segretezza delle proprie deliberazioni (Tribunale di primo grado, sentenza 19.10.1995,
causa T-194/94). Nel secondo senso, poi, si è affermato che dall’art. 253 [ex art. 190]
Tr. CE consegue l’obbligo di esporre analiticamente i motivi specifici per cui si ritiene
che la divulgazione dei documenti richiesti rientri in una delle eccezioni previste
(Tribunale di primo grado, sentenza 5.3.1997, causa T-105/95).
Infine, per quanto riguarda il significato generale del diritto di accesso, i giudici
comunitari hanno affermato in piena sintonia con le istituzioni che i recenti sviluppi
hanno per scopo di attuare il principio del più ampio accesso possibile dei cittadini
all’informazione, al fine di rafforzare il carattere democratico delle istituzioni nonché la
fiducia del pubblico nell’amministrazione (Tribunale di primo grado, sentenza
17.6.1998, causa T-174/95).
Pag. 73
Una volta entrato in vigore il Trattato di Amsterdam, queste già significative
posizioni giurisprudenziali vengono rafforzate dalla “costituzionalizzazione” del diritto
di accesso e dalla conseguente possibilità di utilizzare come parametro di legittimità il
nuovo art. 255 [ex art. 191A] Tr. CE.
Rimane da dire che il diritto di accesso riguarda per il momento gli atti delle tre
citate istituzioni comunitarie, e che neanche il citato nuovo art. 255 [ex art. 191A] Tr.
CE precisa se gli atti dei numerosi altri organismi comunitari sono soggetti alla
medesima disciplina. Una parte di essi sta autonomamente provvedendo ad assumere
codici di condotta, simili a quelli di Consiglio e Commissione (è il caso, ad esempio, del
Comitato delle regioni e di alcune agenzie); ma altri organismi non sembrano essersi
attivati in tal senso, sì che il diritto di accesso ai loro atti rimane per il momento una
mera aspirazione, con effetti assai negativi per la qualità della partecipazione alla vita
comunitaria e per la fiducia nel sistema istituzionale europeo. Ciò è particolarmente
avvertibile per il sistema dei comitati, ovvero per una fase cruciale della elaborazione
degli atti comunitari, in seguito difficilmente modificabili in modo significativo.
7. PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI NAZIONALI E INFLUENZA
COMUNITARIA
Per quanto riguarda i procedimenti nazionali influenzati dal diritto comunitario e
la parte nazionale dei procedimenti composti, merita anzitutto rilevare che secondo
una cospicua giurisprudenza comunitaria, che si rifà soprattutto al principio di leale
cooperazione, gli Stati membri hanno l’obbligo di assicurare procedimenti nazionali
capaci di dare esecuzione piena ed incondizionata alle regole comunitarie. In
particolare, i procedimenti nazionali devono essere organizzati in modo efficace e
verificabile, assicurando le stesse garanzie di effettività previste per le disposizioni
nazionali, come nel caso del sistema sanzionatorio. In secondo luogo, è affermazione
costante dei giudici comunitari che “il rispetto dei principi generali del diritto
comunitario si impone ad ogni autorità nazionale che debba applicare il diritto
comunitario” (per tutte, cfr. la sentenza Hauptzollant Hamburg-Jonas, 26.4.1988,
causa 316/86).
Vi sono poi discipline comunitarie che riguardano in modo diretto i procedimenti
nazionali. L’influenza comunitaria è particolarmente avvertibile in certi settori che
sono direttamente connessi alle libertà economiche comunitarie e alla piena
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realizzazione del mercato interno. Tale è il caso degli appalti pubblici, ove la disciplina
comunitaria dei procedimenti di aggiudicazione, pur se contenuta in direttive, è così
pervasiva da non lasciare spazi significativi agli Stati membri. Altri settori in cui la
Comunità ha influito in modo rilevante sui procedimenti nazionali sono l’import-export
e le connesse imposizioni fiscali, e la tutela dell’ambiente.
In generale si può dire che la Comunità è intervenuta in modo sistematico e con
normative ad alta innovazione nei settori che sono stati considerati rilevanti per il
funzionamento dell’ordinamento comunitario, poco curando invece del resto
L’asimmetria della disciplina è ancora più forte quando un determinato settore
rimane soggetto al diritto nazionale, oppure diviene di competenza comunitaria, a
seconda che si superi o meno un certo dato stabilito. Emblematico è il caso degli
appalti pubblici dove l’applicabilità del diritto comunitario non è per settore organico,
ma risulta collegata ad una soglia convenzionale di valore. In tali casi, più che
un’asimmetria di disciplina si ha il concreto rischio di ingiustificate differenziazioni di
disciplina, a seconda del diritto applicabile.
Merita inoltre notare che la Comunità, così attenta a garantire l’effettivo
funzionamento del mercato interno da parte degli Stati membri, non ha per molto
tempo applicato alle sue istituzioni le stesse regole prescritte alle amministrazioni
nazionali. II caso più eclatante è ancora quello degli appalti pubblici, ove le procedure
ad evidenza pubblica previste dalle direttive comunitarie e vincolanti per gli Stati non
sono tali per le istituzioni, i cui appalti non hanno in effetti finora brillato per
trasparenza e garanzie di un mercato aperto e competitivo. Solo da ultimo, in
considerazione dell’insostenibilità della posizione comunitaria, che non applicava alle
sue istituzioni ciò che prescriveva agli altri, la Commissione ha avviato la procedura
per adeguare la propria disciplina contrattuale alle medesime regole di cui alle
direttive sugli appalti gestiti negli Stati membri.
Nell’ultimo decennio si è avuto un vero e proprio salto di qualità nell’applicazione
nei procedimenti nazionali delle regole e dei principi comunitari, a seguito della
posizione combinata assunta dalla Corte di giustizia (sentenza Fratelli Costanzo,
22.6.1989, causa 103/28), e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 389/1989) in
tema di disapplicazione anche da parte delle amministrazioni pubbliche del diritto
procedimentale nazionale in contrasto con il diritto comunitario, e di diretta rilevanza
Pag. 75
di nuovi istituti comunitari del procedimento. Anche altre sentenze della Corte di
giustizia confermano l’applicabilità dei principi generali ai procedimenti nazionali a
rilievo comunitario. Tale è il caso (cfr. le sentenze 27.11.1991, causa C-199/90, e
2.10.1991, causa C-7/90) del principio di proporzionalità, per cui le sanzioni irrogate
dalle amministrazioni nazionali per violazione delle norme comunitarie devono essere
commisurate alla gravità delle irregolarità commesse. Analogamente è stato previsto
per l’obbligo di motivazione di cui all’art. 253 [ex art. 190], quando le autorità
nazionali operano nel quadro del diritto comunitario ed anche se il diritto nazionale
non lo preveda (sentenza 15.10.1987, causa 222/86).
E però da notare che la giurisprudenza della Corte di giustizia privilegia
progressivamente i principi funzionali agli interessi della Comunità, anche se in tal
modo si riduce l’ambito di principi generali - come il legittimo affidamento - che sono
di particolare importanza per i soggetti interessati e per il sistema giuridico di alcuni
Stati membri. Questa posizione è divenuta evidente nei giudizi sui casi, sempre più
frequenti, di aiuti erogati dagli Stati in contrasto con il diritto comunitario. Preoccupata
dagli effetti negativi di queste decisioni per gli interessi finanziari della Comunità, la
Corte di giustizia ha dato particolare enfasi al principio di effettività, considerando
essenziale la piena attuazione del diritto comunitario. A tal fine, la Corte (sentenza
Alkan II, 20.3.1997, causa C-24/95) ha fatto prevalere l’interesse all’annullamento dei
provvedimenti di aiuto, rispetto alla tutela dell’affidamento. La conclusione è di
particolare importanza per gli ordinamenti nazionali, come quello tedesco, che
conoscono tradizionalmente i principi ora ridimensionati dai giudici comunitari. Siamo
infatti di fronte ad
un’altra
forma
di comunitarizzazione della
disciplina
dei
procedimenti e dei provvedimenti, con un bilanciamento della rilevanza dei vari
principi che privilegia quelli funzionali agli interessi comunitari.
Più contrastato è il caso dei procedimenti portati alla decisione dei soli giudici
nazionali, ove l’applicazione dei principi generali comunitari è alquanto aleatoria a
causa del persistente atteggiamento di molti giudici a riferirsi più o meno
esclusivamente al diritto nazionale, oppure a dare un rilievo riduttivo ai principi
comunitari.
Per il nostro ordinamento, i principi in tema di procedimento amministrativo
elaborati dalla giurisprudenza e quelli previsti dalla legge n. 241/1990 sono idonei ad
assicurare un’efficace osmosi con i principi comunitari, risultando poi in certe parti più
Pag. 76
incisivi.
Il principio di legalità cui si richiama la legge n. 241 (art. 1: “L’attività
amministrativa
persegue
i
fini
determinati
dalla
legge”),
quelli
di
buona
amministrazione, di pubblicità, del contraddittorio, di motivazione e molti altri,
richiamati ancora dalla legge n. 241 od affermati dalla giurisprudenza, mostrano in
effetti una sostanziale corrispondenza con i similari principi comunitari, sì da rendere
funzionante la interazione. Anche nel caso di principi comunitari che non si ritrovano
in modo diretto nella legge n. 241, come quello di proporzionalità, si può ritenere che
siano impliciti nel contesto dei vari principi sulla congruità dell’azione amministrativa;
ma il punto è controverso.
Più in generale si può notare che la legge n. 241/1990 ha origini essenzialmente
nazionali, senza che abbiano esercitato un ruolo particolare gli sviluppi comunitari. Ma
giungendo a risultati molte simili a quelli de! diritto comunitario e di molti altri Stati
membri, la legge richiamata e la lettura datane della giurisprudenza amministrativa
confermano l’esistenza di principi comuni che costituiscono il “diritto” di cui parla l’art.
220 [ex art. 164] Tr. CE.
8. I PROCEDIMENTI COMPOSTI
Gli sviluppi più innovativi in tema di diritto del procedimento amministrativo si
stanno avendo per i procedimenti composti Il numero di questi procedimenti tende a
dilatarsi rapidamente. Si tratta di una tendenza che, come sopra esaminato, trova
preciso riferimento in principi della costituzione comunitaria, come il principio di
sussidiarietà, e che corrisponde alla impostazione monistica del sistema comunitario in
riferimento
agli
ordinamenti
nazionali
ed
alla
conseguente
integrazione
delle
amministrazioni nazionali in una complessiva “amministrazione comune”.
Le manifestazioni di questo nuovo genere di procedimenti amministrativi
composti sono oggi moltissime, spaziando dai procedimenti per la composizione di
organi a rilevanza costituzionale comunitaria ai procedimenti per l’erogazione di
benefici finanziari e per la relativa verifica ed eventuale sanzione, alle politiche
regionali. In questi casi è evidente la connessione tra le autorità amministrative
nazionali e comunitarie, secondo un modulo relazionale che è stato definito quale
Pag. 77
coamministrazione.
Dai procedimenti composti derivano delicati problemi in ordine alla tutela
giurisdizionale dei soggetti interessati. Anzitutto, l’ampliamento e la complicazione dei
procedimenti porta a rimettere in discussione la netta distinzione tra fasi ed atti
endoprocedimentali e provvedimento finale. La circostanza che vi siano fasi con
caratteristiche ben determinate affidate ad autorità assai diverse porta infatti a
considerare distintamente gli atti relativi, specie quando hanno valore condizionante
sul seguito della procedura. In secondo luogo, si evidenziano molte situazioni in cui la
legittimazione a ricorrere risulta difficile o impossibile applicando i principi tradizionali,
che però sono stati elaborati in riferimento a procedimenti assai più semplici vuoi
nell’articolazione per fasi, vuoi per tipo di interessi pubblici perseguiti.
La
giurisprudenza
comunitaria
riflette
lo
stato ancora
inappagante della
disciplina. Così abbiamo sentenze come Oleificio Borelli (3.12.1992, causa C97/1991), che ha esaminato il caso dell’impugnativa di una decisione della
Commissione che non aveva accolto una domanda di contributo comunitario a seguito
di un parere negativo su di essa espressa da una regione italiana. Verificato che l’atto
nazionale, inserito in un iter decisionale comunitario, vincola l’organo comunitario e
determina i termini dell’emananda decisione, la Corte di giustizia ha affermato che “è
compito dei giudici nazionali statuire, se necessario previo rinvio pregiudiziale alla
Corte, sulla legittimità dell’atto nazionale di cui trattasi conformemente alle modalità
di controllo giurisdizionale applicabili a qualsiasi atto definitivo che, emanato dalla
stessa autorità nazionale, possa recare pregiudizio a terzi, e di conseguenza
considerare ricevibile il ricorso presentato a tale scopo, anche se le norme procedurali
nazionali non lo prevedono in un caso del genere”. Con ciò viene assicurata dunque
una particolare rilevanza agli atti del procedimento, autonomamente impugnabili alle
condizioni predette.
Ma con altre sentenze i giudici comunitari hanno dato una lettura restrittiva delle
regole sulla legittimazione, che anche sul piano comunitario erano state inizialmente
previste in relazione a situazioni più unitariamente definite. È il caso, ad esempio,
deciso dal Tribunale di primo grado con ordinanza del 29.9.1995 (causa T-381/94)
circa la composizione del Comitato economico-sociale. Nell’occasione, il Tribunale ha
dichiarato la irricevibilità del ricorso proposto da un sindacato italiano avverso la
nomina di un membro del Comitato in rappresentanza dell’Italia, in quanto il
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ricorrente non ha un interesse differenziato da quello della generalità, e comunque
può trovare tutela in sede nazionale (dove peraltro, il TAR Lazio ha considerato
inammissibile il ricorso con sentenza della I sez., n. 1904/98, perché trattasi di
questione comunitaria).
Con altre sentenze (Texilwerke Deggendorf, 9.3.1994, causa C-188/92) la Corte
ha
affermato
che in
caso
di ricorso
al giudice nazionale avverso
un
atto
dell’amministrazione nazionale che esegue una decisione della Commissione che si
reputa illegittima, ma che non è stata oggetto del ricorso diretto ex art. 230 [ex art.
173] Tr. CE, pur sussistendone i presupposti, il giudice nazionale è vincolato dalla
decisione comunitaria ormai definitiva e quindi non può attivare il procedimento di
rinvio pregiudiziale, La sentenza, pur non riguardando in modo diretto il tema dei
procedimenti composti, ma quello dell’attuazione del diritto comunitario, ben
evidenzia come non sia semplice garantire un pieno sindacato giurisdizionale di
qualsiasi decisione di un’autorità nazionale, affermato in principio dalle sentenze
Johnston, 15.5.1986, causa 222/84, e Heylens, 15.10.1987, causa 222/86.
I profili della tutela rappresentano il più delicato risvolto dei procedimenti
composti, e perciò saranno meglio approfonditi nel successivo Capitolo XI, cui si
rinvia.
9. IL DIBATTITO SULLA CODIFICAZIONE DEL PROCEDIMENTO
Dall’esame compiuto nei precedenti paragrafi risulta che, allo stato, la disciplina
del procedimento amministrativo nel sistema comunitario è lacunosa ed inidonea a
fornire un adeguato quadro di riferimento per i sempre più rilevanti procedimenti
eseguiti direttamente dagli organismi comunitari, oppure dalle amministrazioni degli
Stati membri; oppure ancora nella forma che si è definito composta in quanto
realizzata congiuntamente dalle due sfere.
I punti di riferimento maggiore per il procedimento amministrativo sono da
ritrovarsi ancora nella giurisprudenza del giudice comunitario, ed in particolare nei
principi generali di diritto comunitario che sono stati progressivamente forgiati. Dato
che molti di questi principi generali sono da tempo parte essenziale dell’acquis
comunitario, si discute se codificarli in tutto o in parte, al fine di dare maggiori
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certezze circa la loro vigenza e l’ambito di applicazione.
La
tesi
favorevole
alla
codificazione
di
questi
principi
generali
ritiene
maggioritariamente che non vi sia bisogno di una loro costituzionalizzazione nei
Trattati, vuoi perché taluni principi sono già in essi presenti, vuoi perché, non
potendosi inserire tutti i principi nei Trattati, significherebbe dare solo ad una parte di
essi un particolare posizione, creando così una scala di valore tra i principi generali.
Varie voci invece auspicano un nuovo regolamento comunitario per la disciplina dei
maggiori principi generali, che risulti l’equivalente sul piano comunitario della nostra
legge n. 241/1990.
La tesi contraria alla codificazione fa principalmente leva sulle diversità ancora
sussistenti tra le discipline nazionali del procedimento e le relative culture del diritto
amministrativo. Allo stato del processo di integrazione europea, una codificazione
avrebbe il significato di annullare indebitamente le diversità tra i vari diritti, che sono
una delle ricchezze dell’Unione europea e non un valore negativo da superare.
In conclusione, si può prevedere che almeno per un certo periodo ancora il diritto
comunitario del procedimento amministrativo rimanga un diritto “leggero”, solo in
parte codificato in atti normativi e principalmente affidato all’opera sistematizzatrice
della giurisprudenza.
10. DISCIPLINA COMUNITARIA E MODELLI DI PROCEDIMENTO
A conclusione dell’esame dei procedimenti amministrativi comunitari, si conferma
la tesi già richiamata che la relativa disciplina risulta, allo stato, assai lacunosa e
frammentaria.
Ci si può in ogni caso chiedere a quale dei modelli generali di procedimento
corrisponda l’attuale sistema comunitario, pur nella sua incompletezza. Come è noto, i
principali modelli di procedimento sono due, con varianti dovute al loro intrecciarsi ed
alla molteplicità degli interessi perseguiti. Il primo modello è quello “giustiziale”, ove
l’amministrazione esercita il potere conferitole, facendo uso di regole tecniche e di
buona amministrazione, sotto il controllo esterno degli interessati.
Il secondo modello è noto per il particolare rilievo dato alle forme partecipative
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ed alla rappresentanza degli interessi nel corso del procedimento. L’amministrazione
infatti compie un’istruttoria aperta alla partecipazione ed agli apporti degli interessati;
sì che favorisce la più ampia presentazione dei dati da parte degli interessi privati e
determina la propria posizione dopo aver acquisito e considerato tutte le prospettive
possibili. In questa prospettiva la legge non è vista come l’esito conclusivo dei
procedimenti politici, dopo i quali si ha solo una corretta esecuzione, ma come una
fase di una più ampia funzione decisionale che comprende anche il procedimento
amministrativo.
Ci si riferisce normalmente all’Austria come ordinamento di origine del primo
modello, ed agli Stati Uniti per il secondo.
Gran parte dei sistemi ha carattere misto, unendo elementi sia dell’uno che
dell’altro modello. Così, è diffuso il criterio della necessaria informativa agli interessati
circa l’avvio del procedimento, e della loro partecipazione al procedimento stesso
tramite una costante informazione, la possibilità di presentare documenti e memorie,
e di chiedere di essere ascoltati sulle decisioni in elaborazione. Rimane comunque
fermo che l’amministrazione non è terza rispetto alle parti in causa, ma è essa stessa
responsabile di un certo risultato, rispetto al quale è aperta alla considerazione di ciò
che i privati intendano eventualmente rappresentare.
11. GLI ATTI AMMINISTRATIVI COMUNITARI. LE DECISIONI
Dopo aver esaminato le principali questioni relative ai procedimenti, passiamo ad
esaminare gli atti che vi si manifestano, tanto nello svolgersi delle sue fasi quanto
come loro esito. La corrispondenza con l’analoga problematica dei diritti nazionali
consente di utilizzare, anche nel diritto comunitario, le nozioni di atto dei
procedimento, o endoprocedimentale, e di provvedimento.
La categoria degli atti amministrativi comunitari comprende sia atti previsti dai
Trattati, come per l’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE, le decisioni ed i pareri, sia atti
previsti
nel
diritto
derivato
con
varie
denominazioni
e
caratteristiche,
e
frequentemente utilizzati dalle istituzioni comunitarie e dalla Commissione in
particolare. Al riguardo merita ricordare che l’elencazione degli atti comunitari di cui
all’art. 249 [ex art. 189] citato non è tassativa, sì che il loro ambito, specie per gli atti
Pag. 81
amministrativi, ha carattere aperto (cfr. Cap. V).
La mancanza di un quadro adeguatamente definito delle fonti e degli atti
comunitari rende anzitutto non sempre agevole stabilire se effettivamente siamo di
fronte all’atto comunitario tipico che ne porta formalmente il nome, non essendo in
principio sufficiente il dato della qualificazione formale dell’atto. Per la Corte di
giustizia la natura di un atto è determinata dai suoi caratteri sostanziali e non
semplicemente dalla forma. Così, quando una decisione si indirizza ad una pluralità
non determinabile di soggetti, ha efficacia generale ed è assimilabile ad un atto
normativo. In tali casi la Corte di giustizia parla di decisioni di “natura normativa”.
Altri atti, come i pareri, possono avere una valenza amministrativa quale tipica
espressione della funzione consultiva propria di certi organi comunitari, e sono
destinati ad inserirsi nel contesto di un procedimento amministrativo; ma possono
avere anche una valenza prettamente politica, quali i pareri del Parlamento europeo
previsti dagli artt. 250-252 [ex artt. 189A-189C] Tr. CE nel quadro del procedimento
normativo comunitario.
Il recente sviluppo di atti atipici ha evidenziato nuovi tipi di atti che non è facile
collocare né tra gli atti normativi, né tra quelli amministrativi, con intuibili incertezze
sul loro valore giuridico e pericoli per la tutela dei soggetti interessati. A questa terza
categoria di atti, gergalmente nota come soft law, è stato dedicato il paragrafo 9 del
Cap. V.
Iniziando l’esame degli atti amministrativi previsti dal Trattato CE, rilevano
anzitutto le decisioni, previste all’art. 249 [ex art. 189]. Si tratta di una categoria di
atti assunti dal Consiglio o dalla Commissione, con carattere “obbligatorio in tutti gli
elementi per i destinatari designati”. L’elemento distintivo delle decisioni è di essere
provvedimenti decisori con contenuto concreto e non astratto, e di riferirsi con
carattere obbligatorio ad uno o più destinatari individuati dall’atto stesso. Più in
particolare, si tratta di “atti emanati dall’organo competente, destinati a produrre
effetti giuridici, che costituiscono lo stadio finale dell’iter interno”. (Corte di giustizia,
sentenza 16.6.1966, causa 54/65).
Per quanto la giurisprudenza comunitaria, ai fini di delimitare l’ambito dei
soggetti legittimati a ricorrere contro gli atti delle istituzioni (art. 230 [ex art. 173] Tr.
CE), incentri la definizione di decisione sulla “limitatezza dei destinatari ai quali è
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diretta” (sentenza 14.12.1962, cause riunite 16-17/62), ovvero sul dato soggettivo
dei destinatari (individualità dell’atto, in opposizione alla generalità), non pare dubbio
che caratteri essenziali della decisione siano anche l’oggetto delimitato e la statuizione
particolare, distinguendosi in ciò dagli atti astratti che riguardano fattispecie tipo non
individuate singolarmente.
La definizione delle decisioni comunitarie corrisponde a quella degli atti
amministrativi diffusa nei diritti amministrativi nazionali degli Stati fondatori; ovvero
atti di carattere individuale e particolare, con cui si curano in modo puntuale
interessi concreti, così disciplinando una determinata fattispecie.
Peraltro, come sempre nella problematica degli atti comunitari, occorre evitare di
assumere una visione troppo rigorosa delle decisioni come atti amministrativi
comunitari. Basti pensare che talune delle decisioni assunte dal Consiglio nei confronti
di Stati membri possono avere per contenuto l’obbligo di adozione di provvedimenti
normativi; avvicinandosi così alle direttive, ma senza assumere carattere normativo.
Per quanto in linea di principio sia chiara la specificità delle decisioni rispetto
agli atti normativi comunitari, si è discusso sul carattere normativo od amministrativo
di vari atti delle istituzioni, non considerandosi decisiva la forma con cui l’atto è stato
assunto dalle istituzioni, bensì i caratteri oggettivi dell’atto stesso.
È affermazione costante in giurisprudenza che “la Corte non può arrestarsi alla
denominazione ufficiale dell’atto, bensì deve tener conto in primo luogo del suo
oggetto e del suo contenuto” (cfr. sentenza 14.12.1962, cause riunite 16-17/62, cit.).
La distinzione sembra comunque potersi individuare in modo relativamente agevole
sulla base del carattere normativo o meno degli atti considerati, intendendosi con ciò
la presenza dei caratteri della generalità e della astrattezza come desumibili da tutti
gli elementi dell’atto.
Se il carattere dell’obbligatorietà accomuna le decisioni ai regolamenti, da cui le
prime si distinguono per il motivo ora rilevato della mancanza del carattere normativo,
lo stesso carattere le differenzia da altri atti amministrativi comunitari, come i pareri.
Peraltro, in coerenza con l’approccio sostanzialistico sopra ricordato, la Corte ha
affermato che un atto, pur formalmente qualificato come parere, si deve intendere
come decisione se risulta provvedimento incidente in modo diretto su situazioni
giuridiche di determinati soggetti (sentenza 15.3.1967, cause 8-11/66).
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Quali
atti
amministrativi,
le
decisioni
sono
normalmente
assunte
dalla
Commissione che, come detto, rappresenta tendenzialmente l’esecutivo comunitario.
Ma anche qua si avverte il carattere pragmatico del sistema delle competenze
comunitarie, ben potendo le decisioni essere assunte anche dal Consiglio (ed è il caso
normale delle decisioni indirizzate agli Stati), oppure delegate dal Consiglio alla
Commissione.
Relativamente al procedimento per l’adozione delle decisioni, le istituzioni che ne
hanno la competenza assumono le decisioni secondo le regole generali di procedura e
le eventuali norme regolamentari specifiche. Il Trattato CE, art. 253 [ex art. 190],
prevede pure per le decisioni l’obbligo di motivazione e il riferimento necessario alle
proposte ed ai pareri obbligatoriamente richiesti. Alle decisioni si applicano,
ovviamente, anche i principi generali di diritto comunitario eventualmente rilevanti.
Perché le decisioni assumano giuridica efficacia, è necessario che siano notificate ai
loro destinatari; non è invece necessaria la pubblicazione, a differenza di altri atti
comunitari, con l’eccezione delle decisioni adottate con la procedura di codecisione,
che di norma amministrative non sono.
La motivazione è di particolare rilievo per le decisioni, dato il loro carattere di atti
che incidono direttamente ed in modo obbligatorio su particolari persone e questioni.
Fin dalla prima giurisprudenza della Corte si è così affermato che la motivazione delle
decisioni deve indicare in modo chiaro e non equivoco le ragioni sulle quali l’atto è
fondato.
Per quanto attiene alla possibile efficacia diretta delle decisioni, occorre
distinguere a seconda che destinatario sia uno Stato membro o un singolo, persona
fisica o giuridica. Nel primo caso, si è discusso se per le decisioni valga il criterio della
efficacia diretta, ovvero della possibilità per qualsiasi soggetto di far valere gli obblighi
scaturenti dalla decisione. La questione è assai sentita nel caso delle decisioni, che per
il loro oggetto specifico anche quando sono indirizzate a Stati membri coinvolgono
indirettamente i soggetti interessati agli adempimenti così prescritti.
Al riguardo la Corte ha affermato che sarebbe in contrasto con la forza
obbligatoria attribuita alla decisione dall’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE che l’obbligo
imposto dalla decisione stessa potesse essere fatto valere solo dalle istituzioni
comunitarie e non anche dagli interessati: “in particolare, nei casi in cui le autorità
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comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno Stato membro o tutti gli Stati
membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe
ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici
nazionali
non
potessero
prenderlo
in
considerazione
come
norma
di
diritto
comunitario. Gli effetti di una decisione possono non essere identici a quelli di una
disposizione contenuta in un regolamento ma tale differenza non esclude che il
risultato finale, consistente nel diritto del singolo a far valere in giudizio l’efficacia
dell’atto, sia lo stesso nei due casi”.
Il carattere dell’efficacia diretta non è invece mai stato posto in dubbio ove i
destinatari della decisione siano dei singoli, in ciò consistendo appunto il carattere
dell’obbligatorietà.
Pur se incidono direttamente nella sfera dei singoli soggetti le decisioni
rimangono ad ogni effetto atti comunitari la cui osservanza è responsabilità delle
istituzioni comunitarie, e possono essere oggetto di ricorso esclusivamente avanti alla
Corte di giustizia.
Essendo direttamente obbligatorie per i destinatari non necessitano normalmente
di misure di applicazione da parte degli Stati membri. Un caso di intervento delle
autorità nazionali, frequente in alcuni settori come la concorrenza, è previsto per le
decisioni a carattere sanzionatorio pecuniario che necessitano di essere eseguite in
forma coercitiva nei confronti di singoli. In tali circostanze l’art. 256 [ex art. 192] Tr.
CE prevede la possibilità che possa essere richiesta l’esecuzione forzata delle decisioni
senza un previo giudizio nazionale, all’unica condizione dell’apposizione della formula
esecutiva da parte dell’autorità nazionale (in Italia, il Ministero degli esteri), a seguito
della verificazione dell’autenticità del titolo. Una volta avutosi il titolo esecutivo questo
può essere fatto valere davanti ai giudici nazionali secondo le norme di procedura
propria di ciascun Stato, ma la eventuale sospensione del titolo può essere richiesta
solo alla Corte di giustizia.
12. RACCOMANDAZIONI E PARERI
L’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE, oltre agli atti obbligatori di cui finora si è parlato
(le decisioni), prevede anche due tipi di atti definiti come non obbligatori: le
raccomandazioni ed i pareri. Dei due atti non si dà la definizione né si indicano gli
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elementi essenziali; peraltro in altre disposizioni del Trattato ci si riferisce alle
raccomandazioni ed ai pareri, considerati espressione del potere della Commissione di
assicurare il funzionamento e lo sviluppo della Comunità (art. 211 [ex art. 155], 2°
alinea: “formula raccomandazioni o pareri nei settori definiti dal presente Trattato,
quando questo esplicitamente lo preveda ovvero quando la Commissione lo ritenga
necessario”).
I caratteri delle raccomandazioni e dei pareri esprimono ancora una volta
l’impossibilità di utilizzare nel diritto comunitario le categorie definitorie degli atti
pubblici tipiche dei diritti nazionali. Se infatti normalmente sono atti rilevanti nel
contesto di procedimenti a carattere amministrativo, vi sono casi in cui le raccomandazioni o i pareri sono espressi in procedimenti di altro tipo. Basti ricordare i pareri del
Parlamento europeo, che si inseriscono in uno dei procedimenti normativi comunitari,
recessivo rispetto allo stadio attuale raggiunto dal Parlamento nel progresso verso una
disciplina del procedimento decisionale in senso genuinamente sovranazionale.
Esaminando specificamente le raccomandazioni, in mancanza di una definizione
generale, risulta che le raccomandazioni sono atti con i quali le istituzioni prospettano
ai destinatari la soluzione di un determinato problema che risulta preferibile in senso
comunitario, indicando loro i comportamenti attivi od omissivi che risultano appropriati
nelle circostanze.
Destinatari delle raccomandazioni possono essere le altre istituzioni comunitarie,
gli Stati membri, ma anche soggetti pubblici e privati degli ordinamenti nazionali. Ciò
rappresenta una vistosa diversità nei confronti delle raccomandazioni proprie del
diritto internazionale, ove i destinatari sono esclusivamente gli Stati membri di
determinate organizzazioni.
Le indicazioni che formano oggetto delle raccomandazioni non hanno carattere
vincolante per i destinatari, come detto; ma non sono prive di rilevanza giuridica.
Come nel caso delle direttive amministrative nel diritto nazionale, atti di indirizzo non
strettamente vincolanti, anche le raccomandazioni possono essere disattese solo con
una congrua motivazione che esplicita le ragioni di pubblico interesse che portano a
ritenere preferibile altra soluzione. Inoltre le raccomandazioni possono essere oggetto
di
rinvio
pregiudiziale
ed
i
giudici
nazionali
devono
tenerne
conto
ai
fini
dell’interpretazione di norme nazionali o di altri atti comunitari vincolanti; in
Pag. 86
particolare, sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di
garantire l’attuazione di norme comunitarie o di completare norme comunitarie aventi
natura vincolante.
Le raccomandazioni non sono in linea di principio impugnabili dai destinatari,
mentre possono essere impugnabili gli atti di questi ultimi, nel caso in cui abbiano
disatteso immotivatamente le raccomandazioni stesse.
L’istituzione che più frequentemente fa uso delle raccomandazioni è la
Commissione, per la quale l’art. 211 [ex art. 155] Tr. CE prevede espressamente il
potere di formulare tali atti. Oltre alla Commissione, anche le altre istituzioni indicate
al primo comma dell’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE hanno il potere di formulare
raccomandazioni, ma l’effettivo uso di tale potere è alquanto limitato. Quando la base
giuridica non sia l’art. 211 [ex art. 155] Tr. CE, si richiama solitamente l’art. 308 [ex
art. 235] dello stesso Trattato; la Corte ha ritenuto corretto tale metodo nella citata
sentenza Grimaldi: “le raccomandazioni sono in genere adottate dalle istituzioni
comunitarie quando queste non dispongono, in forza del Trattato, del potere di
adottare norme obbligatorie o quando ritengono che non vi sia motivo di adottare
norme più vincolanti”.
Le raccomandazioni sono, di regola, atti giuridicamente rilevanti in modo
autonomo, ovvero non endoprocedimentali. Si esauriscono infatti nella indicazione ai
destinatari del comportamento ritenuto comunitariamente appropriato, senza che di
regola seguano altre fasi conseguenti o connesse, oppure provvedimenti successivi da
esse dipendenti. Anche l’eventuale atto assunto dai destinatari in osservanza della
raccomandazione appare infatti giuridicamente da esse autonomo e frutto di un
distinto procedimento. La raccomandazione si distingue in tal modo dall’iniziativa
procedimentale, che del procedimento stesso è fase originaria e parte strutturale.
Per quanto riguarda specificamente i pareri, si tratta di atti che anche nel pur
peculiare contesto comunitario mantengono le caratteristiche generali degli atti
consultivi note negli ordinamenti nazionali. Si tratta infatti di atti che contengono
dichiarazioni di giudizio di carattere giuridico - amministrativo oppure
tecnico-specialistico, destinati ad offrire agli organi decidenti maggiori lumi
per l’esercizio della loro amministrazione attiva.
I pareri delle istituzioni comunitarie non sono vincolanti, secondo l’art. 249 [ex
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art. 189], ultimo comma, Tr. CE; ma non sono certo senza rilievo nei confronti dei
destinatari. In taluni casi, è lo stesso Trattato CE che prevede l’effetto della mancata
conformazione al parere da parte dei soggetti interessati, come per la procedura di
infrazione prevista all’art. 226 [ex art. 169]. Si tratta però di un caso molto
particolare, e perciò non generalizzabile.
Se, come detto, le raccomandazioni non sono di norma impugnabili per il loro
carattere non obbligatorio, pur se atti giuridicamente rilevanti in modo autonomo, i
pareri non sono impugnabili in quanto atti tipicamente endoprocedimentali e quindi
non produttivi di effetti diretti nei confronti dei destinatari finali degli atti delle
istituzioni e degli organi comunitari.
Per ambedue i tipi di atti qui considerati non vi sono requisiti procedurali
generali, sì che saranno assunti secondo le regole di procedura proprie dei vari
organismi che li assumono.
Dal
punto
di
vista
sostanziale,
merita
sottolineare
che
anche
per
le
raccomandazioni ed i pareri vale la regola della motivazione
Gli atti della Commissione denominati “comunicazioni” sono stati esaminati per
linee generali al Capitolo V. In tale occasione se ne è messo in evidenza il carattere
disomogeneo, potendo tali atti assumere i più diversi contenuti.
Interessano qua le comunicazioni con cui la Commissione definisce taluni obblighi
degli Stati membri, non limitandosi ad una mera ricognizione del diritto esistente od a
preannunciare future iniziative da realizzarsi con atti tipici. Questo tipo di comunicazioni, denominate additive sono qualificabili come atti amministrativi comunitari in
quanto definiscono giuridicamente la fattispecie considerata. La Corte ha in vari casi
confermato implicitamente questa interpretazione, considerando le comunicazioni
additive come atti impugnabili (ad esempio, sentenza 16.6.1993, causa C-325/91).
13. L’INVALIDITÀ DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI COMUNITARI
Anche per gli atti amministrativi comunitari si pone il problema della possibile
invalidità, quando vi siano violazioni dello schema normativo di riferimento o si rilevi
un uso della discrezionalità amministrativa in contrasto con i principi che la regolano.
Pag. 88
Si distingue anzitutto tra le situazioni in cui si evidenziano vizi dell’atto di
particolare gravità, e le situazioni in cui i vizi, pur sussistenti, non assumono tale
carattere. Nel primo caso si parla di atto inesistente, che dunque non produce
giuridicamente alcun effetto e che in ogni momento può essere dichiarato tale a
seguito di rilevazione d’ufficio del giudice o su istanza di qualsiasi interessato, o dalla
stessa amministrazione comunitaria. Nel secondo caso, invece, atti annullabili che
continuano ad esercitare i loro effetti giuridici fino all’eventuale annullamento su
ricorso o in via di autotutela, alle condizioni procedurali e sostanziali precisate da una
vasta giurisprudenza dei giudizi comunitari.
La terminologia usata al riguardo nei Trattati e nella giurisprudenza comunitaria
può indurre in confusione: si parla infatti di “inesistenza” per casi di nullità dell’atto,
dato che, gli atti così caratterizzati sono pur sempre esistenti, ma non producono
effetti giuridici. Per converso quando nell’art. 231 [ex art. 174] Tr. CE si dispone che
“se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto l’atto
impugnato”, è corretto ritenere che si tratti di atti annullabili e non nulli, e che la
relativa sentenza abbia carattere costitutivo e non dichiarativo.
La Corte di giustizia ha delimitato le situazioni di “inesistenza” dell’atto alla
verifica di vizi particolarmente evidenti (sentenza 26.2.1987, causa 15/85), al fine di
evitare i pericoli per la certezza delle posizioni e per la realizzazione delle politiche
comunitarie che derivano dal concetto di atto inesistente. Come è stato indicato dalle
conclusioni dell’avvocato generale Mischo, nella sentenza ora citata, “siffatta patente
di irregolarità sembra ricorrere in casi estremi come la manifesta usurpazione di poteri
o di funzioni, l’assoluta mancanza di firma, l’irrealtà, l’incertezza o l’illiceità dello scopo
dell’atto, che vanno di gran lunga al di là della normale irregolarità dovuta all’erronea
valutazione dei fatti o alla violazione di legge”. La Corte ha confermato questa visione
della “inesistenza” come situazione eccezionale in un importante caso (sentenza Basf,
15.6.1994, causa C- 137/92), ove è stato ribaltato il giudizio del tribunale circa la non
esistenza dell’atto impugnato; peraltro ritenuto illegittimo e quindi annullato.
Speculare alla situazione di inesistenza dell’atto è quella di semplice irregolarità,
che si ha quando il contrasto dell’atto con lo schema normativo di riferimento ha
carattere marginale e non inficia comunque la sua sostanza. Per tale motivo, anche in
diritto comunitario si dubita che l’irregolarità rappresenti una forma di invalidità degli
atti.
Pag. 89
Per quanto riguarda i vizi di legittimità che possono determinare l’annullamento
degli atti amministrativi comunitari, l’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE prevede quattro
figure: incompetenza; violazione delle forme sostanziali; violazione del
Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione;
sviamento di potere. Come nel nostro diritto nazionale, tale elencazione ha
carattere tassativo e quindi i vizi degli atti amministrativi comunitari sono da
considerare tipici.
L’incompetenza si riferisce alla sfera dei poteri del soggetto che ha assunto
l’atto, caratterizzando la situazione in cui si è determinata una violazione delle
previsioni normative circa la potestà a provvedere. Nel quadro comunitario,
l’incompetenza si può avere per violazione della sfera di attribuzioni di un’istituzione
da parte di altra istituzione, oppure per violazione della sfera di attribuzione di uno dei
molti organi amministrativi comunitari o dei soggetti del sistema comunitario dotati di
propria personalità. Il caso si verifica con una certa frequenza nelle relazioni ConsiglioCommissione per quanto riguarda le funzioni di esecuzione, a causa della non chiara
ripartizione di poteri cui in varie occasioni si è fatto cenno; così ancora nelle varie
procedure della “comitologia”. L’incompetenza si può avere pure all’interno di una
stessa amministrazione per violazione dell’ordine dei poteri, come ad esempio quando
non sia stata rispettata l’articolazione della competenza delle direzioni generali della
Commissione.
A questa forma di incompetenza “relativa” (per usare un linguaggio usuale nel
diritto
amministrativo
nazionale),
si
contrappone
l’incompetenza
“assoluta”
o
“esterna”, nei casi in cui la Comunità abbia assunto un atto in campi non ad essa
attribuiti. Il caso è davvero eccezionale, dato che il criterio delle competenze di
attribuzione è stato in molti modi attenuato, ma si ricordano casi in cui la Corte ha
riconosciuto sussistente questo tipo di .
La violazione delle forme sostanziali è una forma di illegittimità non
conosciuta in tutti gli Stati membri (ad esempio, in Italia), e di difficile distinzione
dalla forma d’illegittimità che l’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE definisce “violazione del
Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione”.
In effetti, i casi che i giudici comunitari hanno riportato alla “violazione delle
forme sostanziali” riguardano la violazione di principi generali di diritto comunitario,
Pag. 90
come il principio dell’audi alteram partem e quello della motivazione. Tali principi
generali sono però riconducibili alle regole di diritto relative all’applicazione del
Trattato, ed in parte sono stati costituzionalizzati nei Trattati. Tanto è che in altri casi i
giudici comunitari hanno considerato in violazione di regole di diritto degli atti contrari
ad altri principi generali, come la proporzionalità. La differenza sembra consistere
nella violazione, nel primo caso, di previsioni particolarmente rigorose; ma è evidente
il carattere puramente descrittivo di questo criterio discriminatore.
La determinazione della linea di demarcazione avviene di fatto solo attraverso la
giurisprudenza comunitaria; i cui margini sono ampi anche per la non identica
formulazione dell’art. 230 [ex art. 173] in alcune versioni: non pare infatti che lo
“Infring-ment of an Essential Procedural
Requirement”
della
versione inglese
corrisponda esattamente alla “violazione delle forme sostanziali” della versione
italiana.
Lo sviamento di potere, infine, connota il vizio della funzione come
nell’ordinamento amministrativo francese, e solo in parte corrisponde al nostro
eccesso di potere. Gli atti amministrativi comunitari sono viziati in tal modo quando,
sulla base di indizi oggettivi e pertinenti, risultano adottatati sulla base di un potere
che è nella titolarità dell’amministrazione agente, ma per raggiungere scopi diversi da
quelli dichiarati e imposti dall’ordinamento giuridico. Al riguardo, anche nella
giurisprudenza comunitaria si sta formando una casistica di figure sintomatiche di
sviamento di potere, come negli ordinamenti continentali. Si ricordano in particolare
l’inosservanza di codici di condotta e il richiamo di elementi limitati e superati nella
motivazione dell’atto. Il settore ove finora è stato maggiormente rilevante questo vizio
è il pubblico impiego comunitario.
I presupposti e le modalità con cui gli interessati possono far valere la pretesa
illegittimità degli atti amministrativi comunitari sono esaminati nel Capitolo seguente,
dedicato alla tutela giurisdizionale.
14. L’INVALIDITÀ DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI NAZIONALI IN CONTRASTO
CON IL DIRITTO COMUNITARIO
In conseguenza della sempre più frequente attività amministrativa esercitata
Pag. 91
dalle pubbliche amministrazioni nazionali in funzione comunitaria e, in parallelo,
dell’estendersi della normativa comunitaria, si pone il problema di quale sia il regime
degli atti amministrativi nazionali che siano stati assunti in contrasto con il diritto
comunitario.
Al riguardo vi è sostanziale unanimità nel ritenere che in tal caso si abbia una
nuova forma di invalidità degli atti amministrativi, ma si controverte circa i suoi
caratteri: in una lettura, questa invalidità rimane soggetta ai principi generali di diritto
interno, mentre in altra la rilevanza comunitaria dei vizi in esame configurerebbe una
diversa invalidità rendendo applicabile un particolare regime.
La situazione di contrasto col diritto comunitario si può determinare in due modi:
quando l’atto amministrativo nazionale viola un atto normativo comunitario, come un
regolamento o una direttiva; oppure quando tale atto viola un atto amministrativo
comunitario, come una decisione o una comunicazione. Ma queste due modalità
principali
possono
a
loro
volta
articolarsi
variamente,
con
soluzioni
non
necessariamente simili. Si consideri ad esempio, il caso delle direttive, che possono
essere recepite in diritto nazionale, correttamente o scorrettamente; ma anche non
recepite entro i termini previsti; e per le quali, in carenza di recepimento, rileva il
possibile carattere di effetto diretto.
A fronte della varietà di situazioni in cui gli atti amministrativi nazionali possono
essere in contrasto con il diritto comunitario, è necessario esaminare distintamente i
principali casi su cui si sta formando una interessante giurisprudenza.
Un atto amministrativo nazionale può in primo luogo essere stato assunto in
violazione di un regolamento comunitario. Dato che il regolamento ha carattere
obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascun
ordinamento giuridico degli Stati membri, è pacifico che l’atto amministrativo
nazionale eventualmente assunto in sua violazione sia invalido, non diversamente
dall’atto amministrativo comunitario eventualmente assunto dalle istituzioni o da
organi della Comunità per darvi attuazione per la loro parte, ma che risulti in
contrasto con il regolamento in questione. In tali casi, il regolamento comunitario,
quale tipico atto normativo, rappresenta il diretto parametro della legittimità per ogni
conseguente atto amministrativo, tanto comunitario quanto nazionale.
I regolamenti comunitari non abbisognano, in principio, di atti normativi nazionali
Pag. 92
per poter giuridicamente operare negli ordinamenti degli Stati membri. Ciò in virtù
della loro peculiare caratteristica di essere direttamente applicabili. Ma, di fatto, le
autorità nazionali adottano spesso atti normativi per assicurare le migliori opportunità
di applicabilità dei regolamenti comunitari, ad esempio con modificazioni alle
organizzazioni
pubbliche
e
private
che
operano
nel
settore
disciplinato
dal
regolamento, oppure con nuovi procedimenti, talora direttamente rilevanti per i
singoli. In questi casi, pur ammessa la possibilità di limitati interventi nazionali per
adeguare il sistema interno alla nuova disciplina comunitaria, gli atti normativi così
assunti possono in concreto essere lesivi delle previsioni regolamentari comunitarie.
Ove ciò effettivamente si verifichi, gli atti normativi nazionali sono invalidi e di
conseguenza non possono giuridicamente rappresentare un valido fondamento per gli
atti amministrativi assunti su tali basi dalle autorità amministrative nazionali
Nel caso delle direttive, una prima situazione di contrasto si può avere quando la
direttiva è stata recepita in modo parziale o erroneo, e l’atto amministrativo nazionale
è conforme alla fonte di recepimento. Il contrasto è qua nel raffronto tra l’insieme atto
amministrativo ed atto normativo nazionale, a sua volta invalido per violazione della
direttiva in questione, e direttiva stessa; che dà origine ad una situazione
giuridicamente simile alla precedente.
Una seconda situazione è quella in cui, non essendo stata tempestivamente
recepita la direttiva, l’autorità amministrativa nazionale la considera priva di effetto
diretto e di conseguenza assume atti che non ne fanno riferimento o che sono ad essa
contrari anche quando in verità la direttiva ha efficacia diretta secondo i noti
parametri individuati dalla Corte di giustizia.
Come si può vedere, nei diversi casi ora indicati, l’atto amministrativo nazionale
può essere in rapporto diretto con gli atti normativi comunitari (regolamenti e direttive
ad efficacia diretta), oppure indiretto in quanto filtrato da atti normativi nazionali (atti
di recepimento di direttive e atti di esecuzione di regolamenti, nei limiti consentiti
dalla loro diretta applicabilità). Non diverso è il caso degli atti amministrativi nazionali
assunti in esecuzione di decisioni comunitarie non normative, dato che si tratta di atti
vincolanti le autorità nazionali competenti cui sono diretti (art. 249 [ex art. 189] Tr.
CE), indipendentemente dalla esistenza o meno nel sistema nazionale di atti normativi
con esse contrastanti.
Pag. 93
Pur con le diverse modalità descritte sussiste una situazione di incompatibilità
dell’atto amministrativo nazionale con il diritto comunitario, e perciò dottrina e
giurisprudenza sono orientate a riconoscere una nuova forma di invalidità degli atti
amministrativi per contrasto con il parametro normativo di riferimento
Per la prima tesi, il regime dell’invalidità degli atti amministrativi così assunti
deve riportarsi ai principi generali di diritto nazionale sulla invalidità degli atti
amministrativi; per la seconda, invece, la rilevanza comunitaria della fattispecie
introduce un particolare regime di invalidità di questi atti, in termini di piena nullità. In
dottrina le opinioni sono equamente divise, mentre nella giurisprudenza prevale finora
il primo approccio.
Le conseguenze che derivano dall’accettare l’una o l’altra delle tesi citate sono
assai diverse. Per effetto dell’applicazione del regime nazionale dell’invalidità degli atti
amministrativi, il caso dell’incompatibilità di un atto nazionale col diritto comunitario
ha di particolare solamente il parametro normativo di riferimento, che non è un atto
normativo nazionale, come di usuale, bensì un atto comunitario. Per il resto
rimangono fermi i principi generali sulla invalidità degli atti amministrativi, vuoi in
termini di configurazione dei vizi degli stessi, che di disciplina processuale per far
valere tali vizi. In tal senso, varrebbero gli usuali termini di impugnativa degli atti per
cui si richiede l’annullamento e le altre regole del processo amministrativo, che qui
specialmente rilevano
per
quanto attiene alla
necessità
di
puntuali
gravami
sull’anticomunitarietà dell’atto (altrimenti non rilevabile d’ufficio dal giudice) e di una
sentenza di annullamento per privare l’atto della sua efficacia. Portando alle sue
ultime conclusioni l’assunto dell’applicabilità al caso considerato del normale regime
nazionale della invalidità degli atti amministrativi, la tesi in esame accetta anche
l’inoppugnabilità di siffatti atti in caso di mancata impugnativa; malgrado la possibile
loro pacifica anticomunitarietà.
Ove invece si accolga la tesi che sostiene l’esistenza di un regime particolare di
invalidità per gli atti amministrativi assunti in violazione del diritto comunitario, un suo
primo profilo è la configurabilità di tale invalidità in termini di nullità assoluta, in
quanto gli atti risulterebbero espressi in carenza di potere. Ciò varrebbe tanto nel caso
di diretto contrasto dell’atto amministrativo nazionale con un atto comunitario, quanto
in quello ove sia presente una norma italiana a sua volta incompatibile con il diritto
comunitario e pertanto disapplicabile.
Pag. 94
La seconda situazione appare certamente più plausibile: infatti, quale che sia
l’esatta connotazione di quest’ultima, una legge disapplicabile non appare idonea a
fondare il potere dell’autorità amministrativa in questione. Accogliendo questa
interpretazione, conseguono anche altri effetti di particolare rilievo: la nullità può
essere rilevata da chiunque e fatta valere dal giudice, indipendentemente dai motivi di
ricorso; la medesima nullità inficia così radicalmente l’atto da precluderne ogni
efficacia e valore giuridico, senza determinare alcun onere di impugnazione nei termini
usualmente previsti dal diritto nazionale.
Le due tesi richiamate non appaiono convincenti. La prima, che tende a
mantenere anche per questo caso il regime nazionale ordinario dell’invalidità degli atti
amministrativi, porta a conclusioni palesemente inaccettabili dal punto di vista
comunitario. Infatti, il diverso regime di invalidità proprio dei vari Stati membri
attenterebbe al principio di necessaria uniformità del diritto comunitario; inoltre, per
gli atti amministrativi nazionali avremmo molte più limitazioni che per gli atti
normativi al fine di far valere la loro anticomunitarietà; ciò che rappresenta un
evidente paradosso. In particolare, l’affermazione dell’inoppugnabilità di questi atti,
ove non tempestivamente impugnati, riduce le occasioni dei privati quali garanti
indiretti per l’effettività del diritto comunitario, e pone in una luce ambigua l’obbligo di
disapplicazione di tali atti che incombe a tutte le autorità amministrative tenute ad
applicare il diritto comunitario; dando vita ad un sistema asimmetrico e, per una
parte, in palese violazione degli obblighi comunitari (art. 10 [ex art. 5] Tr. CE ed altri
principi più volte richiamati). Ma lo stesso dicasi per l’affermato diniego del potere del
giudice di rilevare d’ufficio vizi di legittimità comunitaria degli atti impugnati, che è in
contrasto con lo stesso principio di leale cooperazione ora richiamato, ma più in
generale con il principio di interpretazione del diritto nazionale in modo conforme al
diritto comunitario, tanto per la parte del diritto sostanziale che per quella del diritto
processuale (cfr. da ultimo la precisa indicazione della sentenza della Corte di
giustizia, 4.3.1999, causa C-258/97).
Anche l’altra tesi, che propende per la radicale nullità degli atti amministrativi
così assunti, mostra evidenti limiti nella misura in cui generalizza una situazione che
invece sembra da individuare in particolari circostanze; e soprattutto perché
determina un radicale sconvolgimento del sistema processuale nazionale, che allo
stato dell’evoluzione del diritto comunitario non sembra giustificato. Se infatti la
Pag. 95
Comunità sta inevitabilmente estendendo il proprio ambito di intervento anche sul
diritto processuale, essenziale al fine di garantire il principio di uniformità del diritto
comunitario, ciò avviene in modo incrementale attraverso un’espansione progressiva
tanto di discipline scritte (ad esempio per i ricorsi in materia di appalti pubblici),
quanto di sentenze dei giudici comunitari che introducono di volta in volta nuovi
principi comuni. Nell’insieme, non vi sono ancora le condizioni per poter parlare di un
diritto comune dei rimedi giuridici, né di un radicale sconvolgimento dei diritti
processuali nazionali da affermarsi in sede giurisdizionale in virtù del solo riferimento
alle esigenze comunitarie.
L’interpretazione più corretta circa i caratteri giuridici della invalidità degli atti
amministrativi in esame è dunque, allo stato del diritto comunitario, quella che
riconosce vigente la generale disciplina nazionale dei rimedi giuridici, ma alla
condizione di apportarvi di volta in volta le deroghe che appaiono necessarie per
assicurare il rispetto degli obblighi comunitari assunti dagli Stati membri.
L’esame di alcune siffatte situazioni aiuta a comprendere questa proposta
interpretativa. Anzitutto, va richiamato il principio di disapplicabilità anche nel
contesto del regime dell’invalidità degli atti amministrativi nazionali contrastanti con il
diritto comunitario. In tal senso, la disapplicabilità risulta un potere/dovere generale
esercitabile nei confronti degli atti amministrativi nazionali in contrasto con qualsiasi
atto
comunitario
immediatamente
applicabile,
senza
che
al
riguardo
rilevi
significativamente la diatriba sulla separazione o sulla integrazione tra sistema
comunitario e sistemi nazionali (in questo libro più volte risolta nel senso
dell’integrazione).
Il richiamo al principio di disapplicabilità di questi atti amministrativi consente di
generalizzare la portata del principio stesso a tutte le situazioni di contrasto di atti
giuridici nazionali, normativi ed amministrativi, con il diritto comunitario, che è
esigenza inerente al sistema comunitario. Nel caso, abbiamo la rilevanza del principio
di disapplicabilità sul versante amministrativo dell’azione pubblica, facendo qui valere
gli stessi principi oggi pacificamente accolti sul versante normativo, e così assicurando
una necessaria coerenza di insieme.
Va inoltre sottolineato come il pieno dispiegarsi del principio di disapplicazione
degli atti nazionali in contrasto con il diritto comunitario abbia per gli atti
Pag. 96
amministrativi un’efficacia ben maggiore che per gli atti normativi: togliere giuridica
rilevanza in un caso concreto ad un atto normativo lascia, infatti, integra l’efficacia
generale della norma per ogni caso diverso da quello esaminato; e il medesimo atto
normativo viene giustamente percepito dai soggetti dell’ordinamento come ancora
vigente. Per tale motivo, la possibilità di disapplicare una norma nazionale non elimina
la violazione dei diritto comunitario compiuta dallo Stato membro in questione,
superabile solo con l’espressa abrogazione della norma nazionale anticomunitaria.
Diversamente, per gli atti amministrativi, normalmente destinati alla disciplina di
situazioni particolari, la possibilità di disapplicazione produce effetti più rilevanti in
quanto consente di risolvere la questione nella sua integrità; rimanendo solo un
incombente formale l’annullamento dell’atto amministrativo anticomunitario.
Il riconoscimento del principio in esame nella sua integralità importa rilevanti
conseguenze anche per il regime degli atti amministrativi in questione, in quanto
consente alle parti ed al giudice di riferirsi ad esso in tutti i casi ove, per vari motivi,
non sia possibile assicurare la conformità comunitaria della situazione determinatasi a
seguito dell’atto amministrativo contrastante con il diritto comunitario.
Non accettando il regime di generale disapplicabilità per tali atti amministrativi si
giungerebbe al paradosso di una loro particolare capacità di resistenza agli effetti
comunitari, nel mentre gli atti normativi sarebbero cedevoli in ogni caso in cui si
prospetti una loro anticomunitarietà. Con l’effetto di determinare un’inversione del
valore giuridico degli atti giuridici nazionali, non giustificata da nessun convincente
argomento generale. La tesi contraria non convince neanche quando sostiene che la
disapplicabilità comprometterebbe l’autorevolezza del provvedimento e l’attitudine
degradatoria dei diritti soggettivi, nonché i criteri generali di riparto delle giurisdizioni.
Se tali effetti, rapportati ai caratteri degli atti normativi, sono ormai pacificamente
accolti per le leggi malgrado lo stravolgimento che ciò comporta per il sistema
costituzionale delle fonti ed il relativo processo costituzionale, per coerenza deve
riconoscersi che lo stesso regime non può non valere anche per gli atti amministrativi.
A meno di non ipotizzare un’improbabile riserva di amministrazione rispetto
all’influenza comunitaria, di cui mancano completamente i presupposti giuridico istituzionali.
Allo stesso risultato si perviene cogliendo le particolarità della situazione di
disapplicabilità rispetto a quella generale di invalidità. Le recenti direttive in tema di
Pag. 97
rimedi per i pubblici appalti sono impostate in termini rispettosi delle tradizioni
processuali nazionali, compreso il regime normale della illegittimità/annullabilità degli
atti amministrativi nazionali comunitariamente illegittimi. Tale circostanza è stata
malintesa come apparente conferma del sistema tradizionale dell’invalidità degli atti
amministrativi, laddove vuole solo garantire una serie di principi comuni in tema di
rimedi, al fine di eliminare dall’ordinamento giuridico nazionale un atto amministrativo
contrastante con il diritto comunitario nel modo più drastico e palese; ma senza certo
precludere l’utilizzabilità di una serie di accorgimenti per assicurare l’effettiva tutela
dei “diritti comunitari”, anche se non previsti dall’ordinamento nazionale.
Così, del resto, si sta muovendo la Corte di giustizia, con una serie di sentenze
assai
innovative
in
tema
di
rimedi
processuali,
pur
se
giustamente
caute
nell’affermare nuovi principi generali (cfr. Cap. XI, par. 26). Una recente sentenza
della Corte (29.4.1999, causa C-224/97) ha poi portato a compiuta definizione la
posizione già espressa per gli atti normativi con la celebre sentenza Simmenthal del
1978, sostenendo in via generale la disapplicabilità generale di provvedimenti
amministrativi in contrasto con il diritto comunitario.
Il caso è stato posto alla Corte dal Tribunale superiore amministrativo austriaco
tramite la procedura di rinvio pregiudiziale, con un quesito diretto che non lasciava
margini di ambiguità: se un divieto posto “non attraverso una norma generale ed
astratta, ma attraverso un provvedimento amministrativo individuale e concreto
divenuto definitivo, che sia in contrasto con la libera prestazione dei servizi, vada
disapplicato
nella
valutazione
della
legittimità
di
un’ammenda
irrogata
per
inosservanza di tale divieto”.
Il Tribunale austriaco ha chiesto di risolvere tale quesito perché in analoghe
circostanze, ma segnate dall’inosservanza di norme generali ed astratte, avrebbe
senz’altro disapplicato tali norme a vantaggio del diritto comunitario. Ciò che potrebbe
valere per le stesse ragioni anche per i provvedimenti amministrativi individuali e
concreti non conformi al diritto comunitario, problema su cui però non c’è una chiara
giurisprudenza del giudice comunitario.
La risposta della Corte di giustizia è stata netta e definitiva. Anzitutto ha
ricordato
che
“poiché
le
norme
del
Trattato
CE
sono
direttamente
efficaci
nell’ordinamento giuridico di ciascun Stato membro e il diritto comunitario prevale sul
Pag. 98
diritto nazionale, queste disposizioni attribuiscono agli interessati dei diritti che le
autorità nazionali devono rispettare e tutelare e che, quindi, ogni disposizione
contraria di diritto interno diviene inapplicabile nei loro confronti”.
Dopo aver poi ricordato vari passaggi della propria giurisprudenza sulla
disapplicazione di tali disposizioni e sul ruolo che gli organi dell’amministrazione
esercitano a tal fine, la sentenza ha tre passaggi fondamentali nelle affermazioni per
cui: a) tra le disposizioni di diritto interno in contrasto con la disposizione comunitaria
“possono figurare disposizioni vuoi legislative, vuoi amministrative”; b) è nella logica
della giurisprudenza comunitaria “che le disposizioni amministrative di diritto interno
di cui sopra non includano unicamente norme generali ed astratte, ma anche provvedimenti amministrativi individuali e concreti”; infatti, la tutela giurisprudenziale
spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta, e
che è compito dei giudici nazionali garantire, “non può dipendere dalla natura della
disposizione di diritto interno contrastante con il diritto comunitario”; c) un
provvedimento amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, che sia in
contrasto con il diritto comunitario, va disapplicato.
La conclusione raggiunta ora dalla Corte appare in piena coerenza con la sua
giurisprudenza (in specie le sentenze Simmenthal e Factortame) e con i caratteri
dell’istituto della disapplicazione, come da tempo si era proposto. Per il tipico effetto
espansivo della giurisprudenza comunitaria, si attendono adesso altre sistemazioni
finora solo accennate dalla Corte. In particolare, gli svolgimenti della posizione qua
sostenuta portano dunque a ritenere comunitariamente necessario che, anche in
deroga alle normali regole nazionali, il giudice possa rilevare d’ufficio vizi di legittimità
comunitaria; che i termini di decadenza per l’impugnativa di atti amministrativi
anticomunitari possano essere derogati in presenza di particolari circostanze; che il
concetto di inoppugnabilità sia considerato contrastante con le esigenze del diritto
comunitario, salvo un concreto bilanciamento con altri principi comunitari come la
tutela dell’affidamento.
15. ALTRI ASPETTI DEL REGIME DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI NAZIONALI
SOTTO L’INFLUENZA COMUNITARIA
Pag. 99
Oltre alla nuova configurazione della nozione di invalidità l’influenza comunitaria,
sul
regime
degli
atti
amministrativi
nazionali,
ha
molte
altre
occasioni
di
manifestazione. Se ne esaminano due, che hanno carattere esemplare: le possibili
modificazioni del potere discrezionale e i nuovi caratteri del potere di autotutela.
Per quanto riguarda la discrezionalità amministrativa, il problema si pone
principalmente perché tra il sistema comunitario e quello nazionale vi sono spesso
diverse configurazioni degli interessi pubblici, e dei rapporti tra tali interessi e quelli
privati. Ove tale differenza si concreti in una situazione di incompatibilità tra i due
regimi, la soluzione è data dalla più volte citata regola della prevalenza del diritto
comunitario sul diritto nazionale.
Più sottile è il caso in cui il contrasto sulla rilevanza dei vari interessi, pubblici e
privati, caratterizzanti la fattispecie non giunga a tal punto; si pensi ad esempio ai
servizi pubblici locali, all’ambiente, agli appalti pubblici, ove non sono direttamente in
questione modelli organizzativi, procedure e istituti giuridici, quanto la rilevanza
sostanziale degli interessi. È a tale riguardo che si pone il problema della possibile
incidenza
delle
indicazioni
comunitarie
per
l’esercizio
della
discrezionalità
amministrativa delle amministrazioni nazionali competenti.
In questi casi l’autorità amministrativa nazionale non può che esercitare la
propria discrezionalità nel rispetto primario delle indicazioni scaturenti dal diritto
comunitario, secondo quello che si può definire il versante amministrativo del principio
di supremazia del diritto comunitario. Trattasi di esercizio del potere discrezionale
certamente ad alta complessità, in quanto si richiede all’amministrazione nazionale di
calarsi nel diritto comunitario e di valutare le ragioni delle regole poste per il settore di
riferimento. Gli interessi comunitari sono poi divenuti di difficile valutazione per il
continuo loro ampliamento ed arricchimento: così, se nella fase iniziale della Comunità
prevalevano gli interessi del mercato e della concorrenza, oggi assumono particolare
rilievo anche gli interessi sociali e della coesione. Le discipline di settore devono
essere interpretate alla luce di queste indicazioni generali, di carattere costituzionale
europeo, confermando che si è di fronte ad un’operazione di alta complessità.
Una volta chiarito il rilievo diretto che per l’esercizio della discrezionalità hanno le
scelte comunitarie sugli interessi caratterizzanti la fattispecie, si deve però precisare
che gli interessi canonizzati dal diritto nazionale non devono essere pretermessi in
Pag. 100
modo ineluttabile. Infatti, ove le istituzioni comunitarie avessero voluto definire
compiutamente la fattispecie in questione con propri atti vincolanti ne avrebbero
avuto piena facoltà, eliminando in radice il rilievo degli interessi, non omogenei a
quelli comunitari, espressi dagli atti normativi nazionali. Non avendo compiuto tale
scelta, il diritto comunitario lascia spazio ad una perdurante rilevanza per la
configurazione nazionale degli interessi, almeno ad un secondo livello rispetto a quelli
comunitari.
In breve, la nota distinzione tra interessi pubblici primari e secondari individuabili
per ogni situazione di esercizio discrezionale del potere amministrativo, nel caso in cui
siano presenti interessi di rilievo comunitario, fa sì che sia prospettabile una diversa
configurazione gerarchica, ove primari divengano gli interessi comunitari, distinguibili
in comunitari primari e secondari, e secondari quelli nazionali, a loro volta distinguibili
in primari e secondari. Pur essendo improbabile, si potrà dunque in concreto avere
una prevalenza degli interessi rilevanti per il diritto nazionale rispetto agli interessi
comunitari; in tal caso ancora più rilevante di sempre risulterà la motivazione del
provvedimento assunto dall’autorità nazionale.
Il secondo problema generale del regime degli atti amministrativi nazionali sotto
l’influenza comunitaria è quello dei profili del potere di autotutela, connessi alla
verifica di un contrasto di un atto amministrativo nazionale con il diritto comunitario.
Malgrado una somiglianza di facciata, si è già detto che la disapplicabilità degli atti
amministrativi non è correttamente rapportabile all’autotutela, così come configurata
nel diritto nazionale, diversa nei principi che la ispirano e nelle manifestazioni. I profili
qua
in
discussione
riguardano
la
possibile
configurabilità
di
un
potere
di
autoannullamento in ogni circostanza in cui emerga un’anticomunitarietà di un atto
amministrativo, senza limiti di tempo in ordine all’esercizio, senza necessità di
particolari motivazioni e senza l’osservanza delle regole nazionali sulla competenza.
Malgrado alcune sentenze favorevoli alla più radicale interpretazione (Cons. St.
Sez, IV, 18.1.1996, n. 54), la lettura più convincente appare quella che tiene fermo
l’impianto tradizionale del potere di autotutela, anche se ovviamente l’interesse
pubblico di riferimento è divenuto qua l’interesse comunitario. Di conseguenza
mantengono una specifica rilevanza tanto il tempo in cui tale potere viene esercitato,
quanto la comparazione dell’interesse all’annullamento con gli altri interessi presenti
nella fattispecie. In tal senso spingono, del resto, vari principi generali di diritto
Pag. 101
comunitario, come la tutela del legittimo affidamento, che non possono non valere
anche per l’esercizio di poteri amministrativi a rilevanza comunitaria da parte delle
amministrazioni nazionali.
La possibilità/obbligatorietà della disapplicazione dell’atto amministrativo in
questione dovrebbe poi portare a dare dimostrazione nel caso concreto che
l’annullamento dell’atto non è reso superfluo dalla sua disapplicabilità. Requisito che è
proprio unicamente delle fattispecie a rilevanza comunitaria, non essendovi nel diritto
nazionale un principio generale di disapplicabilità degli atti amministrativi illegittimi.
Sono sempre incombenti i rischi di una indebita confusione tra disapplicabilità,
annullamento d’ufficio a carattere obbligatorio in caso di anticomunitarietà dell’atto
amministrativo e annullamento in via di autotutela retto dai tradizionali principi. Un
interessante esempio di questa confusione è dato dal parere del Consiglio di Stato
(sez. I, 9.4.1997, n. 372/97) reso sul caso degli effetti della sentenza della Corte di
giustizia (1.6.1995, causa C-40/93) che aveva condannato l’Italia per aver consentito
indebitamente l’esercizio della professione di odontoiatra ai laureati in medicina, non
specializzati in odontoiatria, immatricolati in anni per cui la disciplina comunitaria non
lo consentiva. Il Consiglio di Stato ha ritenuto erroneamente applicabili alla fattispecie
i principi nazionali sull’annullamento di un atto amministrativo in via di autotutela,
quando il caso avrebbe imposto un annullamento senza ostacoli dalla presenza di
interessi pubblici o privati.
Pag. 102
CAPITOLO XI
LA TUTELA GIURISDIZIONALE
1. LA RILEVANZA DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE NEL SISTEMA
COMUNITARIO
L’ordinamento giuridico comunitario è fortemente caratterizzato da principi
generali preposti alla tutela dei propri soggetti e da un sistema giudiziario pensato per
assicurare effettività ai principi stessi. Inoltre le varie forme di tutela previste dal
diritto comunitario rilevano direttamente per i giudizi nazionali ove si trattano di
questioni a rilevanza comunitaria, e influenzano in senso riformatore i sistemi
nazionali processuali anche per la parte ancora non direttamente coinvolta dal diritto
comunitario.
La
garanzia
giurisdizionale
delle
posizioni
dei
soggetti
dell’ordinamento
comunitario è uno dei connotati più rilevanti della Comunità quale “Comunità di
diritto”. Tale garanzia è piena ed effettiva anche quando possa mettere a rischio
alcune delle esigenze essenziali dei sistema comunitario, come l’uniforme applicazione
del diritto comunitario in tutti gli Stati membri. In molte occasioni le azioni degli
interessati per la tutela delle proprie posizioni finiscono per contribuire alla garanzia
della corretta attuazione del diritto comunitario. Come rilevato dalla Corte sin dalla
sentenza Van Gend & Loos del 1963, la vigilanza dei singoli interessati alla
salvaguardia dei propri diritti rappresenta un efficace controllo che si aggiunge a quelli
previsti agli artt. 226 [ex art. 169] e 227 [ex art. 170] Tr. CE.
Il sistema di tutela giurisdizionale è articolato su due piani: quello comunitario e
quello nazionale. Nella Comunità opera un sistema giurisdizionale formato dal
Tribunale di primo grado e dalla Corte di giustizia, vero architrave del sistema
giuridico della Comunità e dell’Unione europea. Per una parte di competenze, tale
sistema è a doppio grado; in particolare, ciò vale per il caso dei ricorsi proposti dalle
persone fisiche e giuridiche. Alcune competenze di particolare rilievo per il diritto
comunitario, come l’interpretazione dello stesso in via pregiudiziale, sono invece
concentrate in modo esclusivo nella Corte di giustizia al fine di avere uniformità di
interpretazione. Per quanto riguarda poi il piano nazionale, è stato da tempo chiarito
Pag. 103
che i giudici nazionali nel trattare casi a rilevanza comunitaria, divengono giudici
comunitari di diritto comune, e quindi parte di un sistema giudiziario integrato che ha
il suo massimo punto di espressione nella procedura di cui all’art. 234 Tr. CE.
2. LA COMPOSIZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA E DEL TRIBUNALE DI
PRIMO GRADO
La Corte è composta da quindici giudici ed è “assistita” da otto avvocati generali,
secondo la felice formula dell’art. 224 [ex art. 168] Tr. CE. La figura degli avvocati
generali è una peculiarità della giurisdizione comunitaria, senza vere analogie negli
ordinamenti degli Stati membri. Infatti, anche le figure cui i redattori del Trattato si
sono in qualche modo ispirati - ad esempio, per l’Italia il Procuratore generale presso
la Cassazione nelle cause civili, e per la Francia il Commissario del Governo presso il
Consiglio di Stato - non collimano con il modello assunto per gli avvocati generali e
nelle rispettive esperienze non hanno avuto altrettanto rilievo per lo sviluppo della
giurisprudenza degli organi ausiliari.
Gli avvocati generali presentano pubblicamente, “con assoluta imparzialità e in
piena indipendenza, conclusioni motivate sugli affari sottoposti alla Corte di giustizia,
per assistere quest’ultima nell’adempimento della sua missione” (art. 222 [ex art.
166], c. 2).
Per quanto riguarda i giudici, la Corte di giustizia era inizialmente composta da
sette giudici, ovvero uno in più rispetto ai sei Stati fondatori, al fine di assicurare un
numero dispari funzionale alla regola delle decisioni prese a maggioranza, in cui il
presidente non ha un voto prevalente. La composizione della Corte si è nel tempo
ampliata e oggi risulta composta da quindici giudici ed assistita da otto avvocati
generali.
Il potere di nomina, la relativa procedura e la qualificazione richiesta per i
nominandi sono previsti all’art. 223 [ex art. 167] Tr. CE, secondo cui i giudici e gli
avvocati generali sono nominati di comune accordo, per un periodo di sei anni, dai
governi degli Stati membri. Essi sono scelti tra personalità che offrono tutte le
garanzie di indipendenza e che hanno le condizioni per l’esercizio nei propri Paesi delle
più
alte
funzioni
giurisdizionali,
“ovvero
che
siano
giureconsulti
di
notoria
competenza”.
Pag. 104
Questa
disciplina
esprime
il
tentativo
di
conciliare
il
criterio
della
rappresentatività per Paese con il principio dell’assoluta indipendenza ed imparzialità,
unita alla qualificazione professionale. Pur se la designazione dei giudici spetta per
prassi a ciascun Stato membro, la nomina avviene per decisione collegiale unanime e
per candidati che hanno alte qualità personali e professionali. Nella prassi, le
designazioni nazionali non sono mai state espressamente sindacate dagli altri Stati
membri.
La presenza di un giudice per Stato ha varie conseguenze positive, in quanto per
il lavoro della Corte assicura l’apporto delle varie culture giuridiche nazionali,
arricchendo sia il quadro giuridico comparativo che quello propriamente comunitario.
Per il versante nazionale, assicura una più facile osservanza della giurisprudenza
comunitaria che, in linea di principio, avrà tenuto conto del contesto giuridico in cui è
destinata ad operare.
Più in generale, la “rappresentatività” della Corte contribuisce a farla sentire
meno lontana di una usuale giurisdizione internazionale e quindi adeguatamente
legittimata nel contesto ordinamentale comunitario.
Circa la qualificazione professionale dei giudici, la condizione necessaria è che
siano giuristi di notoria competenza; mentre le ulteriori condizioni dipendono dalla
disciplina nazionale per l’esercizio della funzione giurisdizionale nelle giurisdizioni
superiori. Così per l’Italia, sono nominabili giudici di carriera, professori universitari di
materie giuridiche ed avvocati con particolare esperienza; per altri Stati, anche
funzionari dei ministeri della giustizia ed altre determinate figure.
La nomina dei giudici è per un periodo di sei anni, confermabile senza limiti. Un
rinnovamento parziale avviene ogni tre anni, alternativamente per otto o sette giudici
e per quattro avvocati generali. Il criterio mira ad assicurare la continuità
dell’organismo, di fatto rafforzato dalla non infrequente conferma di alcuni giudici ed
avvocati generali. La possibilità della conferma, che come detto non è rara, è da molti
considerata un potenziale attentato alla indipendenza dei giudici, i quali possono
essere interessati a garantire gli interessi del proprio Stato, competente per una loro
nuova designazione. Si tratta di un’eventualità assai ipotetica, ma non impossibile,
che giustifica la proposta per estendere il termine dell’ufficio a nove o dodici anni,
senza possibilità di rinnovo. Per un giudice è molto importante, come si sa, non solo
Pag. 105
l’essere, ma anche l’apparire.
Durante il loro ufficio, i giudici non possono essere rimossi dalle funzioni se non
per casi eccezionali, quali il venir meno delle condizioni per la loro nomina o per
violazione grave dei propri doveri. La decisione è competenza degli altri membri della
Corte, con decisione all’unanimità. Finora non si è mai verificato un caso del genere.
Il presidente della Corte è eletto dai giudici della Corte stessa (ma non dagli
avvocati generali, che pure sono membri della Corte), per un periodo di tre anni,
rinnovabile. L’elezione avviene con voto segreto ed a maggioranza assoluta; nel caso
in cui non si raggiunga tale maggioranza, al secondo scrutinio è sufficiente la
maggioranza semplice (art. 7 del reg. proc). L’elezione del Presidente da parte della
stessa Corte è allo stesso tempo una conferma dell’indipendenza dell’organo ed un
fattore di ulteriore suo sviluppo. I poteri del Presidente riguardano la presidenza delle
sedute plenarie, la direzione generale dei lavori della Corte, la decisione su misure
cautelari urgenti, la direzione dell’attività e degli uffici della Corte. Per la parte
amministrativa del lavoro, al Presidente si affiancano il cancelliere ed il comitato
esecutivo di presidenza, delegato dalla riunione generale.
Per quanto riguarda il Tribunale di primo grado, le regole sulla sua composizione
e sulla durata dell’ufficio sono le stesse della Corte. Attualmente il numero dei giudici
è quindici, con un giudice per ogni Stato membro; le medesime ragioni sopra dette
per la Corte e un elevato contenzioso davanti al Tribunale giustificano richieste per
l’aumento del numero dei giudici. Nel caso, l’attuale numero dei giudici sembra che
possa essere ampliato senza particolari difficoltà, in connessione o meno con
l’incremento del numero degli Stati membri, data la particolare natura delle questioni
portate al suo esame ed il normale procedere per sezioni, anziché in seduta plenaria.
Presso il Tribunale non operano, come invece nella Corte, avvocati generali; ma il
Presidente può affidare la medesima funzione, ove necessario (di fatto in rare
circostanze), ad uno dei giudici del Tribunale che in tal caso non parteciperà,
ovviamente, alla decisione finale. Il primo decennio di funzionamento del Tribunale ha
visto una composizione professionale articolata, simile a quella della Corte, con le sole
peculiarità dell’età relativamente più bassa dei giudici e della presenza di due donne
(mentre nella ben più lunga esperienza della Corte si è avuto solo un giudice donna).
Pag. 106
3. LA POSIZIONE DEI GIUDICI E L’ORGANIZZAZIONE DELLA CORTE E DEL
TRIBUNALE
I giudici comunitari esercitano la loro funzione in modo indipendente ed
imparziale. A tal fine, lo statuto prevede diritti ed obblighi per i giudici comunitari
ispirati ai medesimi criteri previsti per i giudici nazionali, professionali e non; in
riferimento all’Italia uno statuto molto simile è quello di giudice costituzionale. Così,
durante il periodo di ufficio i giudici non possono esercitare alcuna altra funzione
pubblica o privata, remunerata o meno, salve eccezionali circostanze. Essi sono tenuti
al segreto d’ufficio, e quindi a non rivelare niente che sia relativo alle deliberazioni.
Una speciale garanzia di indipendenza è l’immunità dalla giurisdizione durante
l’ufficio, per cui non possono essere oggetto di alcuna azione giudiziaria neanche per
la loro vita privata. Solo la Corte è competente a togliere questa immunità in
situazioni speciali; in tal caso il componente la Corte sarà giudicato nel proprio Stato
secondo le regole previste per i giudici delle giurisdizioni superiori, se esistenti. Mai
finora si sono avuti eventi di tal fatta.
Dal punto di vista economico, il trattamento dei giudici è elevato vuoi in termini
assoluti vuoi per essere esente da ogni imposta nazionale.
Ciascun giudice ha un gabinetto composto da tre referendari (due per il
Tribunale) ed altri funzionari, i quali svolgono attività di assistenza, preparazione
documenti e dossier, redazione di bozze di decisioni.
I giudici svolgono la propria funzione in varia composizione, secondo le previsioni
dell’art. 221 [ex art. 165] Tr. CE e del regolamento di procedura. Nella Corte i giudizi
sono dati in seduta plenaria - a sua volta articolata in plenaria grande, composta da
tutti i giudici, e plenaria piccola, composta da nove giudici - oppure in sezioni, che
rappresentano un’articolazione della Corte senza una specifica competenza per
materie. Le sezioni sono composte da tre, cinque o sette giudici.
Non ci sono regole generali circa la ripartizione del lavoro tra i due moduli
organizzativi dopo che il Trattato UE ha eliminato la necessarietà della composizione
plenaria per i casi contemplati nell’originaria versione dell’art. 221 [ex art. 165], c. 2,
Tr. CE; anche il ricorso in carenza, che veniva giudicato in plenaria, dopo d Trattato
UE viene di regola deciso in sezione. Rimane possibile Per gli Stati membri o
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un’istituzione della Comunità, che sia parte nell’istanza, chiedere in modo vincolante la
riunione della Corte in seduta plenaria (art. 221 [ex art. 165], c. 3, Tr. CE). La seduta
plenaria viene utilizzata per i casi di maggior rilievo vuoi per le implicazioni giuridiche
nuove e/o difficili, vuoi per le questioni politico-istituzionali eventualmente connesse;
decisivo per la scelta è il ruolo del presidente, anche se la decisione è della Corte. Per
la intuibile maggiore speditezza e specializzazione del lavoro per sezioni, i casi così
decisi sono ormai i due terzi del totale.
Nel Tribunale vi è invece un’espressa preferenza per la trattazione delle cause
per sezioni, composte da tre o cinque giudici e senza una rigida composizione per
materia. In particolari casi le sezioni stesse possono chiedere un giudizio in plenaria.
Il primo responsabile del buon funzionamento amministrativo dei due organi
giurisdizionali è il rispettivo cancelliere, scelto dai giudici (e nella Corte anche dagli
avvocati generali) per un periodo di sei anni, rinnovabile. Questa figura è contemplata
direttamente nel Trattato CE (art. 224 [ex art. 168]).
Il cancelliere ha uno status giuridico molto simile a quello dei giudici e degli
avvocati generali, ispirato all’analoga figura presso la Corte internazionale di giustizia.
Gode dei privilegi ed immunità dei membri della Corte; non può essere rimosso
dall’ufficio se non per straordinarie ragioni; esercita le sue funzioni in piena imparzialità ed in tutta coscienza; assicura la segretezza delle deliberazioni della Corte. Il
ruolo del cancelliere è di particolare importanza per il corretto svolgimento della
procedura giurisdizionale ed anche per l’amministrazione della Corte, con poche
similitudini negli ordinamenti nazionali: così per l’Italia, né le giurisdizioni superiori, né
la Corte costituzionale conoscono una figura del genere.
Gli uffici della Corte sono molto complessi e vi sono addetti circa mille funzionari,
tra cui trecento linguisti e traduttori per assicurare il pieno utilizzo della lingua madre
nei procedimenti giurisdizionali, considerato condizione essenziale per il miglior
esercizio della difesa e della funzione giurisdizionale.
4. L’ATTIVITÀ DELLA CORTE E DEL TRIBUNALE E LE PROSPETTIVE PER UNA
DIVERSA ORGANIZZAZIONE GIURISDIZIONALE
La giurisprudenza comunitaria è assai cospicua, avendo la Corte di giustizia
Pag. 108
deciso finora oltre quattromila sentenze e il Tribunale più di duemila.
Negli anni più recenti le cause decise dalla Corte si sono stabilizzate intorno alle
250, mentre quelle promosse intorno alle 400. Il Tribunale ha invece un andamento
molto alterno. In ambedue i casi, le cause pendenti aumentano costantemente, con
diretto riflesso sui tempi di decisione, nella Corte mediamente di venti mesi.
Il
Tribunale risente non soltanto della crescente domanda di giustizia
comunitaria nel campo tradizionale dei ricorsi diretti proposti dalle persone fisiche o
giuridiche, ma soprattutto delle nuove competenze in tema di ricorsi relativi alla Banca
centrale europea, controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese, di
procedure speciali relative ad esempio al marchio comunitario, di procedure relative
alla privativa comunitaria per ritrovati vegetali. Materie assai recenti, in cui una volta
che
la
disciplina
comunitaria
sarà
pienamente
operativa,
si
determineranno
sicuramente molti casi contenziosi.
5. LA TUTELA DEGLI “AMMINISTRATI”: ORDINE DEGLI ARGOMENTI
li sistema di tutela giurisdizionale è particolarmente complesso. Ne fanno parte
tanto procedure e forme di ricorso finalizzate ad assicurare i poteri propri delle
istituzioni e degli Stati membri e, in definitiva, l’equilibrio istituzionale del sistema
comunitario e dell’Unione; quanto garanzie dirette per i singoli, persone fisiche o
giuridiche.
Se pure questa seconda parte interessa più direttamente la tematica in esame, in
quanto relativa alla posizione degli “amministrati”, è necessario sinteticamente dar
conto anche delle altre principali procedure e forme di ricorso. I tratti particolari del
sistema comunitario fanno sì, infatti, che anche da procedure interistituzionali o
relative a Stati membri si determinino sviluppi di immediato interesse per i singoli.
Inoltre, gli Stati e le diverse amministrazioni nazionali possono direttamente assumere
la veste di “amministrati” nel contesto comunitario, confermando l’opportunità
dell’esame delle procedure di tutela al riguardo previste.
6. L’AZIONE DI ANNULLAMENTO
Pag. 109
Con l’azione di annullamento, i soggetti che ne hanno titolo in base al disposto
dell’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE possono presentare un ricorso avverso un atto delle
istituzioni comunitarie che è lesivo delle loro posizioni giuridiche e che si pretende
viziato per uno dei motivi indicati al secondo comma dell’articolo ora citato.
Per il controllo giurisdizionale degli atti comunitari il Trattato CE prevede una
competenza esclusiva degli organi giurisdizionali comunitari: il Tribunale di primo
grado per quanto attiene i ricorsi dei singoli, persone fisiche o giuridiche; la Corte di
giustizia relativamente agli appelli sulle sentenze del Tribunale ed in unica istanza sui
ricorsi proposti dagli Stati membri, dal Consiglio e dalla Commissione, nonché dal
Parlamento europeo e dalla Banca centrale europea per la salvaguardia delle proprie
prerogative (art. 230 [ex art. 173] Tr. CE, come modificato dal Trattato UE).
Per il Parlamento l’iniziale formulazione dell’art. 230 [ex art. 173] ora citato non
prevedeva la sua legittimazione attiva, e la Corte di giustizia aveva ritenuto non
trattarsi di una lacuna del sistema, dato che è la Commissione che provvede a
garantire il Trattato, ivi comprese le prerogative del Parlamento. Il diritto del
Parlamento di presentare un ricorso a tutela delle proprie prerogative è da
considerarsi insito nel principio istituzionale stabilito dai Trattati, secondo cui ogni
istituzione esercita le proprie competenze nel rispetto di quelle degli altri, con la
possibilità di richiedere un controllo giurisdizionale sull’effettivo esercizio delle
competenze stesse, ai fini del rispetto delle proprie prerogative e competenze.
Iniziando dai ricorsi proposti dagli Stati membri,
dal Consiglio
e dalla
Commissione, si tratta dell’azione loro riconosciuta in via generale avverso gli atti
adottati congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio, gli atti del Consiglio, della
Commissione e della Banca centrale europea, ad eccezione delle raccomandazione e
dei pareri, e gli atti del Parlamento destinati a produrre effetti giuridici nei confronti
dei terzi. Tali soggetti sono usualmente definiti ricorrenti privilegiati in quanto è loro
riconosciuta una legittimazione generale, senza che sia necessario dimostrare uno
specifico interesse ad agire, come invece è regola per i singoli. I ricorsi diretti proposti
dalle istituzioni rappresentano negli ultimi anni circa l’otto per cento del contenzioso
davanti alla Corte di giustizia.
Gli atti impugnabili sono, come detto, tutti gli atti delle istituzioni e della Banca
Pag. 110
centrale europea con la sola esclusione delle raccomandazioni e dei pareri, e degli atti
del Parlamento che non sono destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei
terzi. La giurisprudenza ha dedotto da tale previsione che gli atti impugnabili sono
quelli a carattere vincolante, ovvero in prima battuta i regolamenti, le direttive e le
decisioni, definiti vincolanti dallo stesso Trattato CE (art. 249 [ex art. 189]), ma anche
ogni altro atto delle istituzioni, anche atipico, da cui possano scaturire effetti lesivi. Ciò
significa che, indipendentemente dalla natura e dalla forma voluta attribuire all’atto,
questo
sarà
impugnabile
se
produce
effetti
giuridici
vincolanti:
“l’azione
di
annullamento deve potersi esperire nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato
dalle istituzioni, indipendentemente dalla sua natura e dalla forma, che miri a
produrre effetti giuridici” (sentenza 9.10.1990, causa 366/88).
L’approccio sostanzialistico dei giudici comunitari ha il pregio di estendere
l’ambito della tutela giurisdizionale, ma determina anche una serie di incertezze
applicative, con il rischio che la mancata tempestiva impugnazione determini
l’inoppugnabilità di tali atti.
Un
secondo
carattere
degli
atti
impugnabili
è
stato
individuato
dalla
giurisprudenza nella loro definitività, ovvero sono impugnabili gli atti conclusivi dei
rispettivi procedimenti e non sottoposti a condizioni o termini di efficacia. Ciò porta ad
escludere l’impugnabilità degli atti preparatori e di ogni altro atto che sia comunque
inserito all’interno di una sequela procedimentale. I ricorsi avverso atti non definitivi
sono irricevibili, circostanza rilevabile dal giudice anche d’ufficio. Stante la complessità
di molti procedimenti comunitari e l’esigenza di assicurare comunque la più ampia
tutela giurisdizionale, il principio della ricorribilità solo avverso atti definitivi è talora
considerato dalla giurisprudenza in modo flessibile, con privilegio per il carattere
effettivamente lesivo dell’atto in questione. Così, coerentemente con le premesse
generali, viene considerato non impugnabile il parere motivato della Commissione nel
quadro della procedura di infrazione ex art. 226 [ex art. 169] Tr. CE; mentre è
impugnabile l’atto di avvio di una procedura di controllo su un aiuto di Stato in
quanto, pur se non definitivo, è atto da cui scaturiscono direttamente degli effetti per i
destinatari dell’aiuto di Stato, i quali non possono ottenere l’erogazione dell’aiuto
stesso.
Per quanto riguarda i ricorsi dei singoli, il quarto comma dell’art. 230 [ex art.
173] Tr. CE prevede che qualsiasi persona, fisica o giuridica, può proporre alle stesse
Pag. 111
condizioni previste ai commi precedenti un ricorso contro le decisioni prese nei suoi
confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una
decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano direttamente ed
individualmente. Questo tipo di ricorsi rappresenta una rilevante componente
nell’attività del Tribunale, negli ultimi anni pari a circa il quaranta per cento dell’intero
contenzioso.
Nella sua laconica formulazione, la disposizione ora citata pone vari problemi su
cui si è formata una cospicua giurisprudenza. Il primo è relativo all’individuazione
delle persone giuridiche legittimate al ricorso. La formulazione omnicomprensiva della
norma è anzitutto tale da riferirsi tanto alle persone giuridiche private che alle
pubbliche; per queste ultime debbono intendersi tutte le persone giuridiche
riconosciute dall’ordinamento come pubbliche, vuoi di ambito operativo locale,
regionale o nazionale, a carattere esponenziale o meno, con le più diverse missioni. È
recente, ad esempio, una sentenza del Tribunale di primo grado (16.7.1998, causa T81/97) che, su ricorso della Regione Toscana, ha annullato una decisione della
Commissione
che
aveva
disimpegnato
certe
somme
relative
a
finanziamenti
comunitari. Ne rimane escluso solo lo Stato, per il quale vale il procedimento
“privilegiato” sopra indicato che è disciplinato dai primi due commi dell’art. 230 [ex
art. 173] citato.
Più complesso è il caso delle persone giuridiche private, sia per l’ambito assai
diverso che le caratterizza da un Paese all’altro, ad esempio in riferimento agli enti
pubblici economici ed alle società miste; sia perché se considerate in modo letterale,
escludono una vasta serie di centri di imputazione soggettiva che sono privi della
formale personalità (è il caso ad esempio di associazioni non riconosciute, comitati,
organismi politici e sindacali).
La giurisprudenza
ha assunto
anche
a questo riguardo
una
concezione
sostanzialistica in base alla quale sono legittimati a ricorrere, in quanto assimilabili
alle persone giuridiche, tutti i centri di imputazione soggettiva, anche se privi della
personalità, purché abbiano l’autonomia necessaria per agire come entità responsabile
nei rapporti giuridici.
Un secondo problema riguarda la individuazione degli atti impugnabili. Mentre i
ricorsi diretti degli Stati membri e delle istituzioni possono di regola avere ad oggetto
Pag. 112
tutti gli atti comunitari, i ricorsi promossi dai singoli riguardano unicamente le
decisioni, ovvero la particolare categoria di atti prevista all’art. 249 [ex art. 189], c. 4,
Tr. CE. Tale schema normativo incentrato sull’atto comunitario dal profilo più
spiccatamente amministrativo corrisponde al carattere amministrativo dell’azione di
annullamento in esame, ove i singoli fanno valere un loro interesse personale che si
sostiene essere stato leso dal provvedimento in questione.
Le decisioni comunitarie impugnabili dai singoli davanti al Tribunale sono dunque
il
corrispondente
comunitario
dei
provvedimenti
amministrativi
nazionali.
La
condizione dell’impugnabilità è che si tratti di decisioni prese negli specifici confronti di
tale persona o che, anche apparentemente assunte nei confronti di altre persone, la
riguardano direttamente ed individualmente.
Come per gli atti impugnabili con ricorso diretto degli Stati o delle istituzioni,
anche nel caso in esame la giurisprudenza della Corte ha assunto una prospettiva
sostanzialistica, poi condivisa pienamente dal Tribunale. È dunque principio costante
che il giudice non può arrestarsi alla denominazione ufficiale dell’atto, bensì deve
tener conto del suo oggetto e del suo contenuto. Ciò vale in primo luogo per gli
svariati atti atipici assunti dagli organi comunitari, che dunque saranno impugnabili
una volta che concretamente si manifestino come destinati a produrre effetti giuridici
sfavorevoli nei confronti di determinati soggetti. L’esito complessivo è sicuramente
rafforzativo delle esigenze garantistiche dei soggetti interessati, ma è molto legato
alla casistica e non consente una convincente razionalizzazione generale del principio.
I motivi di ricorso, previsti al secondo comma del più volte richiamato art. 230
[ex art. 173] Tr. CE. sono l’ incompetenza, la violazione delle forme sostanziali,
la violazione del Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua
applicazione, lo sviamento di potere.
I quattro motivi di ricorso sono stati esaminati nel Capitolo precedente, paragrafo
13, trattando degli atti amministrativi e dei loro possibili vizi. Merita comunque
ricordare che la incompetenza cui ci si riferisce nell’art. 230 [ex art. 173], c. 2, è di
tipo relativo o funzionale, ovvero attiene allo sconfinamento di una istituzione nei
poteri di altra istituzione, mentre l’ incompetenza assoluta, nei casi di difetto di
attribuzione dell’ordinamento comunitario nel suo complesso, impedisce addirittura la
configurabilità giuridica dell’atto in questione, e quindi la stessa configurabilità come
Pag. 113
decisione impugnabile. Si applica qua la distinzione tra le due forme di incompetenza,
conosciuta in molti diritti amministrativi nazionali, con la particolarità che la forma di
incompetenza assoluta è riferita all’ordinamento comunitario nel suo insieme e non
alle attribuzioni di uno dei “poteri” comunitari, del resto non configurabili con
chiarezza. L’incompetenza è quasi sempre rilevata anche come violazione di legge,
secondo lo stesso approccio proprio dei diritti processuali amministrativi nazionali.
La violazione delle forme sostanziali allude ai vari casi di irregolarità nella forma
o nella procedura seguita che determinano violazioni dei diritti degli interessati. È il
caso ad esempio della carenza di motivazione o della mancata consultazione di un
organo consultivo nei casi in cui il parere sia previsto come obbligatorio. Si richiama
questo tipo di vizio anche per contestare la base giuridica di determinati atti, quando
ciò sia rilevante per le condizioni di adozione dell’atto (es. tipo di procedura da
seguire, maggioranze richieste per la decisione; competenze delle istituzioni).
Per quanto poi riguarda la violazione del Trattato e di qualsiasi regola di diritto
relativa alla sua applicazione, si tratta di una categoria residuale di vizi mirata a
ricomprendere ogni violazione che non sia riconducibile alle categorie più precise che
finora si sono esaminate. La sua utilità è evidente per le molte situazioni peculiari del
diritto comunitario in cui non sarebbe altrimenti facile ipotizzare un motivo di ricorso:
tale è il caso, in particolare, dei principi generali di diritto elaborati dalla Corte di
giustizia, come il principio di legittimo affidamento ed il principio di proporzionalità. In
questa categoria si ascrivono poi le violazioni delle norme internazionali applicabili alla
Comunità.
Infine, lo sviamento di potere si riferisce ai casi in cui una istituzione usa i suoi
poteri per un fine diverso da quello per cui sono stati conferiti. La giurisprudenza - non
copiosa - ha cercato di oggettivizzare questa situazione, in riferimento ai casi in cui lo
sviamento risulti da indizi obbiettivi, pertinenti e concordanti.
7.
IL REGIME PROCESSUALE
Il termine per l’impugnazione degli atti comunitari è previsto dall’art. 230 [ex art.
173], c. 5, in due mesi dalla pubblicazione dell’atto, oppure dalla sua notificazione al
ricorrente; oppure ancora, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto
Pag. 114
conoscenza. Nei ricorsi di annullamento promossi dai privati ai sensi dell’art. 230 [ex
art. 173], c. 5, Tr. CE, il criterio della conoscenza dell’atto, ai fini dell’individuazione
del dies a quo, è sussidiario rispetto a quello della pubblicazione o della notifica
dell’atto (Corte giustizia, sentenza 10.3.1998, causa C-122/95).
Il termine di due mesi è meno preciso di quello riferito a dei giorni determinati,
ad esempio sessanta giorni come è regola generale nel nostro diritto processuale
amministrativo, ma esprime allo stesso modo l’esigenza di definire sollecitamente il
regime degli atti impugnabili per intuibili ragioni di pubblico interesse e di certezza
delle posizioni giuridiche.
A seguito della scadenza di tale termine senza che l’azione di annullamento sia
stata esercitata, l’atto in questione diviene inoppugnabile. Ciò comporta che i soggetti
che avrebbero avuto titolo all’impugnazione di tale atto non possono più far valere la
pretesa illegittimità con tale procedura né con altre forme ordinariamente disponibili.
Fa eccezione il solo caso di nullità assoluta o di inesistenza giuridica dell’atto, quando
l’interessato può far valere in ogni tempo tale circostanza.
Un recente caso ha fatto emergere una grave lacuna nel sistema comunitario di
tutela giurisprudenziale. Una società francese ha presentato ricorso alla Corte di
giustizia avverso una ordinanza del Tribunale che aveva dichiarato irricevibile per
tardività l’originario ricorso. Secondo la società la tardività era stata causata dalla
mancanza di indicazioni nell’atto impugnabile circa i ricorsi giurisdizionali esperibili ed i
termini per il loro esercizio; ciò in violazione di vari principi generali di diritto
comunitario, ad iniziare dalla certezza del diritto. La Corte, pur riconoscendo che un
obbligo di informazione è previsto nella maggior parte degli Stati membri, non
riconosce che analogo obbligo, non previsto dal diritto scritto della Comunità, possa
dedursi dai principi generali. Quindi solo un esplicito intervento del legislatore
comunitario può risolvere il problema. Conclusione che potrebbe anche condividersi,
laddove l’elaborazione dei principi generali ha visto delle vere e proprie creazioni
originali della Corte e del Tribunale. Il self-restraint della Corte è, in questo caso,
particolarmente negativo per le conseguenze che produce sul diritto alla difesa.
Il processo davanti alla Corte di giustizia ed al Tribunale di primo grado è
sostanzialmente simile. Le uniche particolarità sono quelle previste dagli artt. 49 e 64
dello Statuto del Tribunale, ed un notevole potere di impulso da parte del giudice.
Pag. 115
Davanti ad ambedue gli organi giurisdizionali il ricorrente può chiedere la
sospensione dell’atto impugnato, quando dalla sua esecuzione possa derivare
all’interessato un danno grave ed irreparabile nelle more della decisione del ricorso. È
infatti principio generale, stabilite addirittura nel Tr CE (art. 242 [ex art. 185]) che i
ricorsi proposti alla Corte (ed ora anche al Tribunale) non hanno effetto sospensivo.
La richiesta cautelare in sede comunitaria è configurata in modo simile a quanto
previsto nel nostro ordinamento, e quindi presuppone non solo il cd. periculum in
mora, ma anche l’apparenza del diritto, il cd. fumus boni juris. Il provvedimento
cautelare può essere concesso dalla Corte “quando reputi che le circostanze lo
richiedano” (art. 242 [ex art. 185 cit.]), ovvero valutati tali presupposti ed anche,
comparativamente, le ragioni di pubblico interesse coinvolte.
Una particolarità rispetto al sistema italiano è data dalla necessaria accessorietà
dell’istanza cautelare all’azione principale, e quindi alla sentenza richiesta. Non è
dunque possibile in sede comunitaria proporre un’azione cautelare ante causam.
Curiosamente, per le procedure nazionali a rilevanza comunitaria si prevede un potere
cautelare
come
attribuzione
autonoma.
Un
esempio
di
particolare
rilievo
è
rappresentato dalla direttiva 89/665 (sui ricorsi in tema di appalti pubblici), che
nell’interpretazione della Corte di giustizia (sentenza 19.9.1996, causa C-236/95)
conferisce ai giudici nazionali “la facoltà di adottare, indipendentemente da ogni
azione previa, qualsiasi provvedimento provvisorio”.
Nelle previsioni processuali contenute nel Trattato non è stabilito solo il potere
dei giudici comunitari di sospensione dell’atto impugnato, ma anche quello di ordinare
“i provvedimenti provvisori necessari”. I giudici comunitari stanno facendo ampio ed
innovativo uso dei poteri cautelari, non limitandosi alla sospensione degli atti
impugnati quando ciò è considerato necessario per la piena garanzia delle posizioni
giuridiche degli interessati, ed anche se ciò possa portare limiti al pieno dispiegarsi del
diritto comunitario.
Del processo comunitario basti qua ricordare alcuni caratteri essenziali, come la
presentazione del ricorso al cancelliere dell’organo adito, il quale provvede alla notifica
alle parti interessate, e la immodificabilità dei motivi di ricorso dopo la scadenza del
termine di sessanta giorni, ed anche in appello. La Corte può comunque d’ufficio
rilevare l’incompetenza e la violazione di forme sostanziali. Il procedimento è
Pag. 116
eminentemente scritto e prima della eventuale discussione orale si conclude con la
relazione di udienza preparata dal giudice relatore sul caso.
Gli avvocati generali presentano al giudice comunitario le proprie conclusioni sul
caso, come apporto personale elaborato in piena indipendenza, tenendo conto degli
elementi di fatto e di diritto coinvolti nel caso.
Per la posizione di indipendenza e la particolare qualità dei loro apporti, le
conclusioni degli avvocati generali hanno una grande influenza sulla giurisprudenza
della Corte ed anche quando non sono da questa seguite determinano una più ampia
e ragionata motivazione.
Il giudizio si conclude o con sentenza che respinge il ricorso perché infondato,
oppure con sentenza che accoglie il ricorso in quanto fondato. In questo secondo caso,
per l’art. 231 [ex art. 174] Tr. CE la Corte - ed ora anche il Tribunale - dichiara “nullo
e non avvenuto l’atto impugnato”. Trattasi invero di un effetto di annullamento, più
che di nullità, conforme al carattere costitutivo dell’azione di annullamento.
L’annullamento ha effetto normalmente retroattivo, e quindi fin dal momento
dell’adozione dell’atto annullato, e nei confronti di tutti. La sentenza è efficace dal
giorno della pronuncia ed ha l’effetto della cosa giudicata. Stante la pluralità delle
procedure con cui può essere contestato un atto comunitario, si dà il caso in cui il
medesimo atto esca indenne da un ricorso diretto e sia successivamente contestato
con altro procedimento.
La pronuncia dei giudici comunitari si riferisce ai motivi di ricorso secondo il
principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Può darsi così che
l’annullamento coinvolga tutto l’atto impugnato, oppure una parte di esso nei casi in
cui è possibile una considerazione distinta delle sue varie parti. Peraltro, nel solo caso
dei regolamenti, l’art. 231 [ex art. 174], c. 2, Tr. CE prevede che la Corte, ove lo
reputi necessario, precisi gli effetti del regolamento annullato che devono essere
considerati come definitivi. Ciò ha reso possibili sentenze con cui la Corte ha stabilito
l’annullamento di certe parti di un regolamento solo ex nunc, ed anche la
conservazione dei suoi effetti fino a nuovo provvedimento.
La Corte ha ampliato il potere di precisare gli effetti dell’annullamento, attribuito
in via espressa per i soli regolamenti e nel contesto dell’azione di annullamento, anche
al caso di annullamento di direttive ed alla conclusione del procedimento di ricorso
Pag. 117
pregiudiziale di cui all’art. 234 [ex art. 177]. Pur condividendo le esigenze sostanziali
che hanno portato la Corte ad assumere questa impostazione, ovvero l’omogeneità tra
regolamenti e direttive ed i loro effetti molto spesso similari per i giudici ed i singoli,
va rilevato che le norme processuali non possono essere modificate in via
giurisprudenziale, pena il vanificarsi proprio dei principi di certezza del diritto che pure
la Corte ha inteso privilegiare. Stante poi la continua modifica anche di questa parte
dei Trattati, talora con espressa costituzionalizzazione delle soluzioni giurisprudenziali
intervenute, è con tale procedura che deve essere definita la questione.
L’istituzione da cui emana l’atto è tenuta, ai sensi dell’art. 233 [ex art. 176] Tr.
CE, a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte o del
Tribunale importa. Tale obbligo non pregiudica l’eventuale obbligo al risarcimento del
danno risultante dalla applicazione dell’art. 288 [ex art. 215], c. 2, Tr. CE relativo alla
responsabilità extracontrattuale della Comunità.
La sentenza, del Tribunale di primo grado può essere appellata alla Corte di
giustizia per i soli motivi di diritto ed alle condizioni stabilite dallo statuto; ovvero,
anzitutto, alla condizione che non si modifichi l’ambito del contendere con nuovi
motivi. Nella prima esperienza del Tribunale, le sue sentenze appellate sono circa un
quinto del totale, e l’accoglimento dell’appello assai raro.
L’appello va presentato nel termine di due mesi dalla notifica della sentenza
impugnata. I motivi di diritto su cui l’appello può essere fondato sono l’incompetenza
del Tribunale, l’irregolarità della procedura seguita e, più in generale, ogni violazione
del diritto comunitario in cui il Tribunale possa essere incorso. La presentazione
dell’appello non ha effetto automaticamente sospensivo della sentenza di primo grado,
ma alla Corte può essere richiesta una misura cautelare.
La Corte può rigettare il ricorso anche se uno o più motivi sono accoglibili, ma
l’atto egualmente può mantenere i suoi effetti. In taluni casi particolari, la Corte
interviene nel merito stesso dell’atto, pur senza che in sede comunitaria sia
espressamente previsto un equivalente della nostra giurisdizione amministrativa di
merito, ed in ogni caso determinando un’alterazione del principio di doppio grado di
giurisdizione. Quando invece la Corte ritiene il ricorso fondato, può annullare la
sentenza di primo grado e statuire definitivamente sul caso; oppure può rinviare la
questione al Tribunale con vincolo sul punto di diritto deciso, come nel caso di
Pag. 118
annullamento di una sentenza di irricevibilità del ricorso e, in genere, di carattere
procedurale.
8.
L’ECCEZIONE DI INVALIDITÀ
Con questo particolare istituto processuale di origine francese, previsto all’art.
241 [ex art. 184] Tr. CE, le parti di un procedimento giurisdizionale davanti alla Corte
di giustizia od al Tribunale di primo grado che coinvolga un regolamento delle
istituzioni comunitarie o della Banca centrale possono invocare l’illegittimità e la
conseguente inapplicabilità di tale atto al caso in esame, avvalendosi dei motivi
previsti all’art. 230 [ex art. 173], c. 2, anche dopo lo spirare del termine di due mesi
previsto dall’articolo ora citato.
Si offre così ai singoli l’opportunità di contestare un atto normativo comunitario
che è a base di una successiva decisione di applicazione, ancorché con effetti
direttamente rilevanti per il solo procedimento in cui l’eccezione è sollevata. L’intento
è palesemente quello di ampliare l’effettività della tutela delle posizioni giuridiche dei
soggetti interessati, anche rispetto agli atti normativi per i quali non è ordinariamente
previsto alcun potere di impugnativa diretta.
L’eccezione ha carattere incidentale nel quadro di ogni azione di fronte ai
giudici comunitari, ma di fatto è esperibile nel contesto del ricorso di annullamento ai
sensi dell’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE, ove l’atto di cui si richiede l’annullamento ha il
giuridico presupposto nel regolamento ritenuto illegittimo. Pertanto, l’eccezione non
può essere proposta autonomamente quale espressione di uno specifico diritto di
azione, né dà vita ad un procedimento autonomo (sentenza 16.7.1981, causa 33/80).
I soggetti che possono sollevare l’eccezione sono le parti del procedimento
principale; ma la Corte ha riconosciuto che l’eccezione è sollevabile anche da parte
delle istituzioni e degli Stati membri. Le situazioni in cui vi potrà essere interesse in tal
senso sono di fatto limitate all’impugnativa di regolamenti di esecuzione di altri
regolamenti, ove questi ultimi appaiano illegittimi.
Gli atti che secondo l’art. 241 [ex art. 184] citato possono essere oggetto
dell’eccezione sono i regolamenti delle istituzioni comunitarie e della Banca centrale.
Pag. 119
Tuttavia la Corte di giustizia ha ritenuto che, indipendentemente dalla forma degli atti,
l’eccezione possa essere proposta contro tutti gli atti che producono effetti analoghi ai
regolamenti e che non sono direttamente impugnabili. La disposizione in esame
esprime, infatti, un principio generale per cui qualsiasi parte ha il diritto di contestare
la validità di precedenti atti comunitari che costituiscono il fondamento della decisione
impugnata, qualora nei loro confronti non si abbia il potere di proporre un ricorso
diretto (sentenza 6.3.1979, causa 92/78).
La finalità dell’eccezione è, come detto, la tutela soggettiva delle parti
processuali interessate, ma si è voluto anche scorgervi una seconda finalità di tutela
obbiettiva della legalità sulla scorta di alcune indicazioni giurisprudenziali circa
l’opportunità di evitare che un determinato regolamento possa costituire la base giuridica di altri atti. La tesi non convince per il modo inequivoco in cui l’art. 241 [ex art.
184] Tr. CE ha configurato l’eccezione in esame, affidata unicamente alla volontà delle
parti e nel contesto di un procedimento principale ad altro direttamente finalizzato.
Ulteriori conferme derivano, da un lato, dalla circostanza che l’eccezione di invalidità è
irricevibile nel caso in cui l’azione principale stessa sia dichiarata irricevibile, che
sottolinea il carattere fortemente soggettivo della tutela in tal modo garantita;
dall’altro, dalla ferma posizione della Corte che contrasta l’utilizzazione della eccezione
di invalidità rispetto ad atti che avrebbero potuto essere tempestivamente impugnati
con un ricorso diretto per annullamento (sentenza 9.3.1994, causa C-188/92).
Alla presentazione dell’eccezione segue la verifica dei presupposti di legge, ed in
particolare il controllo della rilevanza del regolamento contestato per la decisione del
ricorso. In caso di accoglimento dell’eccezione, il giudice comunitario dispone per
l’inapplicabilità del regolamento nel procedimento principale, e non per il suo
annullamento. La sentenza vale soltanto per il caso di specie e quindi non ha il
normale carattere di cosa giudicata, sì che il regolamento rimane vigente e
direttamente applicabile in ogni altro caso. Le istituzioni hanno comunque sempre
provveduto ad emendare od abrogare l’atto dichiarato inapplicabile, stante la
illegittimità verificata dal giudice comunitario la cui rilevanza non può sostenersi
esaurita nel solo caso che ha dato origine alla sentenza.
9.
IL RICORSO IN CARENZA
Pag. 120
Il ricorso in carenza, previsto all’art. 232 [ex art. 175] Tr. CE, consente agli
interessati di far constatare dai giudici comunitari l’illegalità di un’inazione del
Consiglio, della Commissione o del Parlamento, e più di recente anche della Banca
centrale, in tal modo ponendo fine all’inattività illegittima delle istituzioni per contrasto
con un obbligo di provvedere previsto dai Trattati.
I legittimati a promuovere il ricorso in carenza sono da un lato le stesse
istituzioni, che intendono sollecitare un’altra istituzione a realizzare gli atti obbligatori
previsti dai Trattati cui abbiano interesse; dall’altro i singoli, persone fisiche e
giuridiche. Nel primo caso il giudice competente è la Corte; nel secondo il Tribunale.
L’omissione contestata riguarda un obbligo di provvedere previsto dal Trattato, e
quindi non ha a che fare con l’esercizio di poteri discrezionali. Gli atti da assumere non
necessariamente sono i provvedimenti definitivi, potendo consistere anche nel
semplice avvio di una procedura quando ciò non abbia alternative e quindi la
mancanza osti allo svolgimento di qualsiasi ulteriore fase; oppure anche atti del
procedimento, a loro volta necessari all’ulteriore sviluppo del procedimento stesso. Per
i singoli è stato poi precisato che deve trattarsi di atti che producono effetti diretti e
vincolanti nei loro confronti, ovvero normalmente di decisioni. In linea di principio tale
requisito può anche applicarsi ai regolamenti ed alle direttive, ma è ben raro che simili
atti
abbiano
un
carattere
chiaramente
provvedimentale,
tanto
da
essere
immediatamente lesivi per l’interessato.
II ricorso in carenza ha gli stessi caratteri generali e le medesime finalità del
ricorso diretto previsto dall’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE, consentendo di mettere fine
ad un comportamento illegale delle istituzioni comunitarie. Il suo presupposto è una
pura omissione, debitamente contestata con richiesta di agire, sì che ogni altra
determinazione delle istituzioni dovrà eventualmente essere contestata nelle forme del
ricorso diretto. Ciò avviene ad esempio quando a seguito della richiesta ad agire
l’istituzione in questione assuma la determinazione di non accogliere la richiesta,
oppure quando l’atto finalmente assunto abbia forme e/o contenuti diversi da quelli
richiesti. Vi sono peraltro casi in cui, con scarsa coerenza di principi, la Corte ha
ammesso il ricorso in carenza in presenza di un rifiuto esplicito di provvedere da parte
dell’istituzione richiesta (sentenza 27.9.1988, causa 302/87), in tal modo avvicinando
il ricorso in esame all’azione di adempimento del diritto tedesco. Rispetto al modello
del ricorso in carenza previsto dal Trattato CE e dal Trattato Euratom, il Trattato CECA
Pag. 121
(art. 35) configura un sistema simile a quello francese ed italiano di impugnativa del
silenzio rifiuto: infatti dopo che il termine per provvedere seguente alla diffida è
decorso inutilmente, gli interessati possono ricorrere contro la decisione implicita di
rifiuto, e non per far constatare l’omissione.
In riferimento ai singoli, il ricorso può essere promosso, come detto, tanto dalle
persone fisiche quanto da quelle giuridiche entro un termine ragionevole dal momento
in cui si è manifestata, o appaia altamente probabile, la violazione dell’obbligo di
provvedere da parte della istituzione coinvolta (sentenza 6.7.1971, causa 59/70).
Condizione
di ricevibilità
del
ricorso
è
che
sia
stata
previamente
notificata
all’istituzione una richiesta a provvedere e sia ulteriormente decorso un termine di due
mesi dalla notifica stessa senza che l’istituzione abbia comunque “preso posizione”.
Questo ambiguo dettato dell’art. 232 [ex art. 175] citato non consente di
stabilire
con
certezza
se
è
sufficiente
che
l’istituzione
adita,
per
superare
l’inadempimento, attivi entro il termine dei due mesi il procedimento richiesto, oppure
se sia necessario definire quest’ultimo completamente assumendo il provvedimento
finale. La prima lettura sembra preferibile, dato che l’obbiettivo del ricorso in parola è
di por fine all’illegittima inazione delle istituzioni, e che dopo l’inizio della procedura
sono comunque disponibili nuovi rimedi in caso di blocco sopravvenuto o di
provvedimenti illegittimi.
Affinché la
violazione dell’obbligo di provvedere sia
dichiarata dal giudice comunitario, la situazione di carenza deve mantenersi sino alla
conclusione della procedura; in caso contrario, la stessa diviene senza oggetto.
Per le relazioni interistituzionali e con gli Stati il ricorso in carenza ha un
carattere eminentemente politico manifestando soprattutto la endemica tensione tra i
profili sovranazionali e quelli interstatuali. Per i singoli, i problemi di una tutela
effettiva contro il silenzio delle istituzioni sono ancora più gravi che nel caso del
silenzio delle attività nazionali secondo il diritto dello Stato. Gli esiti dei rari ricorsi dei
singoli non sono poi esaltanti, dato che solo un recente ricorso è andato a buon fine.
10. L’AZIONE DI DANNO PER RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE.
QUESTIONI GENERALI
Conformemente ai principi giuridici comuni agli Stati membri in tema di
Pag. 122
inadempimento e fatti illeciti, anche il diritto comunitario conosce la distinzione tra
responsabilità da inadempimento di un’obbligazione e responsabilità per fatto illecito:
la prima, normalmente connessa all’ inadempimento di un contratto, sanziona la
violazione di un dovere specifico nei confronti di uno o più soggetti; la seconda
sanzione invece la violazione del dovere generale di non recare ad altri un danno
ingiusto.
Le
azioni
di
responsabilità
per
gli
inadempimenti
di
un’obbligazione,
e
specificamente la responsabilità contrattuale, da parte della Comunità sono di regola
affidati alle giurisdizioni nazionali che giudicheranno secondo i principi sostanziali e le
norme di procedura proprie dei rispettivi Stati. Tale è il significato principale dell’art.
240 [ex art. 183] Tr. CE secondo cui “fatte salve le competenze attribuite alla Corte di
giustizia dal presente Trattato, le controversie nelle quali la Comunità sia parte non
sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni nazionali”. In modo
più diretto l’art. 288 [ex art. 215], c. 1, Tr. CE prevede che “la responsabilità
contrattuale della Comunità è regolata dalla legge applicabile al contratto in causa”.
Ciò rappresenta un’ulteriore particolarità delle Comunità europee rispetto alle
organizzazioni internazionali, che normalmente sono immuni dalle giurisdizioni
nazionali anche per questo tipo di responsabilità, secondo le regole di diritto
internazionale applicabili agli Stati.
Circa poi i casi di inadempimento del generale dovere di non recare ai terzi un
danno ingiusto, il sistema comunitario non poteva non contemplare il caso della
responsabilità extracontrattuale per i danni cagionati dai suoi organi.
Le ragioni del diverso regime rispetto alla responsabilità contrattuale stanno
principalmente: nelle più marcate differenze dei sistemi nazionali al riguardo; nella
circostanza che nella maggior parte dei casi emerge l’illegittimità di un atto
comunitario; nella possibilità che la contestazioni riguardi direttamente l’azione o
l’omissione delle istituzioni, che sarebbe sconveniente portare davanti ad una
giurisdizione nazionale.
Alle peculiarità comunitarie va poi aggiunto che una parte delle questioni per
responsabilità extracontrattuale sono comunque conosciute dalle giurisdizioni nazionali
in quanto determinate da organi delle amministrazioni nazionali, che attuano il diritto
comunitario secondo lo schema dell’esecuzione indiretta.
Pag. 123
Malgrado che l’evoluzione del diritto della responsabilità extracontrattuale sia
ancora largamente insoddisfacente, il numero delle azioni di responsabilità tende ad
aumentare costantemente.
11. LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE DELLA COMUNITÀ
Secondo l’art. 235 [ex art. 178] Tr. CE “la Corte di giustizia è competente a
conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui all’art. 288 [ex
art. 215], c. 2”, ovvero dei danni cagionati dalle istituzioni della Comunità o dai suoi
agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
Siamo dunque di fronte ad una caso di giurisdizione esclusiva dei giudici
comunitari - oggi anche il Tribunale di primo grado, secondo le competenze
attribuitegli con la decisione n. 350/93 - in quanto è apparso coerente con i caratteri
distinti dell’ordinamento giuridico comunitario e del suo diritto concentrare in esso le
questioni di responsabilità dei soggetti comunitari.
Con l’azione di responsabilità gli interessati - intesi nel modo più ampio, come
tutte le persone fisiche o giuridiche, e gli Stati membri, che ritengono di aver subito
un danno ingiusto - chiedono ai giudici comunitari la condanna della Comunità al
risarcimento
del
danno,
previo
accertamento
della
sua
responsabilità
extracontrattuale.
I soggetti che possono originare i danni risarcibili, sono tutti coloro che agiscono
in nome e nell’interesse della Comunità, conformemente all’ampia previsione dell’art.
288 [ex art. 215], c. 2. Per configurare una possibile responsabilità comunitaria, detti
soggetti devono aver agito nell’esercizio delle loro funzioni, ovvero quando si tratti
dell’esecuzione delle finalità affidate all’istituzione coinvolta.
L’atteggiamento della Corte di giustizia è stato finora assai cauto nel definire i
casi in cui si configura questo tipo di responsabilità, limitati alle situazioni che
rappresentano una necessaria estensione dei doveri propri di una istituzione. In tal
senso, è stata esclusa la responsabilità della Comunità per l’incidente causato da un
dipendente che nell’esercizio delle sue funzioni guidava una automobile privata
(sentenza 10.7.1969, causa 9/69). La questione è complicata anche dalla circostanza
che l’art. 12 del Protocollo sui privilegi e le immunità delle Comunità europee stabilisce
che i dipendenti comunitari siano immuni da procedimenti legali riferiti ad atti
Pag. 124
compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. Per il combinarsi dei due fattori, l’ambito
della responsabilità comunitaria risulta effettivamente ridotto rispetto ad analoghe
situazioni negli Stati membri.
Sta adesso emergendo il problema della configurabilità della responsabilità
extracontrattuale della Comunità per i danni causati da soggetti diversi dalle istituzioni
e dai suoi agenti. È il caso delle nuove agenzie europee e di altri organismi dotati di
autonoma personalità giuridica, che pur essendo costituiti con atti comunitari non
fanno parte, a stretto rigore, dell’organizzazione della Comunità se non in modo
indiretto. L’interpretazione più corretta sembra quella che, ai fini della responsabilità,
assimila gli organismi ora richiamati alla posizione delle istituzioni e degli agenti
comunitari quando svolgono funzioni che siano imputabili alla Comunità; altrimenti
risponderanno direttamente secondo la legge nazionale applicabile.
Il fatto che può originare la responsabilità è tanto un’azione che un’omissione a
carattere antigiuridico, nel senso che contravviene al diritto comunitario applicabile
alla fattispecie oppure applica un diritto comunitario illegittimo. Casi del genere sono
rinvenibili nei generali illeciti civili che possono essere commessi dagli organi
comunitari, oppure in situazioni prettamente comunitarie come la violazione di
superiori norme di diritto, di principi generali di diritto comunitario, di norme interne
poste
anche
a
garanzia
dell’interesse
dei
singoli;
come,
ancora,
l’arbitraria
applicazione di atti comunitari o l’inadeguata organizzazione amministrativa per la
realizzazione dei propri compiti.
Il fatto illecito deve aver prodotto un danno effettivo a colui che ha attivato
l’azione di responsabilità, e ciò si configura quando il danno è chiaramente
individualizzabile
rispetto
ad
un
danno
generico,
connesso
ad
esempio
alla
realizzazione delle generali politiche comunitarie.
Circa poi i danni risarcibili, il loro ambito comprende ogni tipo di danno, materiale
e morale, a carattere emergente o di lucro cessante, con l’eventuale incidenza della
svalutazione monetaria e degli interessi moratori. La prova del danno compete
all’attore, che deve anche allegare la certezza e l’attualità del danno stesso. Sono
pochi i casi in cui il danno è stato quantificato dai giudici comunitari, dato che
normalmente la sentenza si limita ad accertare la responsabilità dei soggetti
comunitari, i quali poi concordano con l’attore la precisa quantificazione.
Pag. 125
Una prima situazione in cui si può manifestare la responsabilità dei soggetti
comunitari è l’applicazione di un atto normativo comunitario considerato illegittimo.
L’applicazione fattane è in sé corretta, ma il danno prodotto al terzo è egualmente
ingiusto per illegittimità dell’atto normativo stesso. I giudici comunitari hanno ritenuto
che per configurare la responsabilità deve trattarsi di una grave violazione di una
norma giuridica superiore intesa a tutelare i singoli; ciò può verificarsi quando
l’istituzione contestata ha disconosciuto in modo palese e grave i limiti che si
impongono all’esercizio dei suoi poteri. Ciò avviene in particolare quando la norma ha
violato previsioni del Trattato finalizzate alla protezione dei singoli, oppure quando la
violazione riguarda certi principi generali di diritto con la medesima finalizzazione.
Vi sono poi casi in cui l’azione per il risarcimento del danno trova la sua base in
un atto amministrativo comunitario. In tali situazioni si determinano possibili
sovrapposizioni con l’azione di annullamento prevista dall’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE
in
quanto
l’azione
di
responsabilità
potrebbe
pensarsi
ammissibile
solo
successivamente ad una azione di annullamento dell’atto illegittimo. La Corte di
giustizia in un primo momento (sentenza 15.7.1963, causa 25/62) assunse una
posizione restrittiva, affermando l’irricevibilità di un’azione di risarcimento basata sulla
illegittimità di un atto che non era stato tempestivamente oggetto di un’azione di
annullamento, in quanto altrimenti si sarebbe potuto conseguire con diversa
procedura un risultato che il sistema comunitario vincola a precisi termini e condizioni.
In seguito però la Corte ha costantemente seguito un diverso indirizzo di
principio, secondo cui l’azione di responsabilità rappresenta una forma di azione
indipendente con proprie condizioni di esercizio e distinte finalità (sentenza 28.4.1971,
causa 4/69), nell’ambito della quale può essere verificato che il danno è stato causato
da un atto che non è già stato annullato e del quale dunque il giudice comunitario
accerta incidentalmente la illegittimità. Il carattere incidentale di tale accertamento fa
sì che riguardi solamente le parti della causa, senza altrimenti mettere in discussione
l’atto contestato. In particolare, secondo la Corte l’azione di danni è “rimedio
autonomo
dotato
di
una
particolare
funzione
nell’ambito
del
regime
delle
impugnazioni, subordinato, quanto al suo esercizio, a condizioni attinenti al suo
oggetto. Essa si differenzia, in particolare, dal ricorso di annullamento in quanto è
diretta non all’eliminazione di un determinato provvedimento, ma al risarcimento del
danno causato dall’illecita attività o inattività di un’istituzione” (sentenza 17.5.1990,
Pag. 126
causa C-87/89).
Di fatto, la giurisprudenza manifesta una precisa attenzione della Corte a non
ammettere azioni di responsabilità che mascherano azioni di annullamento di decisioni
non tempestivamente impugnate (cfr. sentenza 5.12.1979, causa 143/77) e più in
generale ogni volta che esista un’azione parallela di legittimità che consenta di
ottenere la medesima soddisfazione.
Si discute la configurabilità in diritto comunitario di una responsabilità per fatti
leciti, sulla base della formulazione letterale dell’art. 288 [ex art. 215] Tr. CE che, a
differenza dell’art. 40 Tr. CECA, non richiede espressamente “l’errore di servizio” o
“l’errore personale”. Finora la posizione della Corte è stata negativa, considerando
come requisito essenziale per l’azione di responsabilità che sia in gioco un
comportamento illecito della Comunità od un atto normativo comunitario che ha
violato una superiore norma di diritto.
L’azione di responsabilità è soggetta alle regole processuali stabilite all’art. 43
dello Statuto della Corte. Il dato più interessante è che l’azione si prescrive nel
termine di cinque anni a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà loro
origine, come nel diritto italiano. Il momento di decorrenza è stato inteso come quello
da cui sorge il diritto al risarcimento, e quindi quando si ha l’effettiva realizzazione del
pregiudizio. La prescrizione è interrotta dalla presentazione dell’istanza alla Corte,
oppure dalla preventiva richiesta che il danneggiato può rivolgere all’istituzione
competente della Comunità. Questa preventiva richiesta è configurata come semplice
facoltà per l’interessato, e non dunque come onere processuale preventivo; ha il
pregio di consentire talora un accordo tra le parti, ma in caso di diniego espresso della
istituzione si determina l’onere della impugnativa del provvedimento negativo con la
procedura di cui all’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE.
Legittimata passivamente è la Comunità come tale, rappresentata davanti alla
Corte o al Tribunale dalla istituzione dal cui fatto si è originata la responsabilità.
Secondo la Corte è ammissibile anche l’azione presentata direttamente nei confronti
dell’istituzione interessata. Per converso non è necessario agire nei confronti dei
funzionari comunitari che possono aver personalmente commesso il fatto.
Pag. 127
12. LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE DEGLI STATI MEMBRI
Come sappiamo, gran parte del diritto comunitario è eseguito dagli Stati membri
tramite le rispettive amministrazioni. Ai fini qua in esame, tale situazione può dare
origine a due diverse forme di responsabilità: per attività od inattività degli Stati
membri in violazione del diritto comunitario che stanno applicando; oppure per fatti
degli Stati stessi che rappresentano una corretta attuazione del diritto comunitario.
Nel primo caso la fonte della responsabilità sta nel fatto nazionale, mentre nel
secondo nello stesso diritto comunitario.
Quando il fatto illecito è puramente nazionale, nel senso di essere ascrivibile
senz’altro all’amministrazione nazionale, come nel caso di scorretta esecuzione del
diritto comunitario, l’azione di responsabilità non trova fondamento nell’art. 288 [ex
art. 215], c. 2, Tr. CE e dovrà essere eventualmente attivata davanti ai giudici
nazionali i quali giudicheranno secondo il diritto dello Stato, senza necessità di
coinvolgere i giudici comunitari (sentenza 13.2.1979, causa 101/78). Pur se i criteri
ora richiamati, ed in specie il criterio dell’applicabilità del diritto nazionale all’azione di
responsabilità avverso lo Stato membro, appaiono ineccepibili il risultato è la
mancanza di uniformità nell’applicazione e nella garanzia del diritto comunitario,
ovvero uno dei difetti che più attentano all’idea stessa della Comunità come ordine
giuridico omogeneo.
Diverso è il caso in cui si contesti il diritto comunitario che è stato eseguito
correttamente dall’amministrazione nazionale. L’azione sarà egualmente presentata al
giudice nazionale, ma questo - ove sia dubbia l’interpretazione del diritto comunitario
in questione - potrà richiedere una preliminare interpretazione di tale diritto alla Corte
di giustizia, secondo la procedura di rinvio pregiudiziale prevista all’art. 234 [ex art.
177] Tr. CE.
Accanto ai due casi esemplari esistono però sempre più numerose circostanze in
cui l’esecuzione del diritto comunitario è necessariamente congiunta, ovvero realizzata
in parte dalla Comunità in parte dagli Stati. Basti pensare al caso in cui la
Commissione ha espressamente approvato talune decisioni nazionali illegittime,
oppure quando la Commissione non ha esercitato in tutto o in parte i suoi poteri di
controllo preventivo sulle attività nazionali. Il caso più chiaro è quello dei procedimenti
Pag. 128
composti nei quali è assai difficile distinguere il ruolo di volta in volta svolto dai
soggetti, nazionali e comunitari, coinvolti. Quando ciò si verifichi, la responsabilità
assume carattere concorrente tra la Comunità e lo Stato, con una serie di
complicazioni di tipo procedurale e sostanziale che rendono assai problematica la
tutela del soggetto danneggiato. Basti pensare alla necessità di adire tanto il giudice
comunitario quanto quello nazionale, ed alla complessa definizione del reciproco grado
di responsabilità.
In particolare, sembra necessario dare sistematicità al principio della “competenza efficiente” al fine di assicurare al soggetto interessato le condizioni di maggiore
tutela.
13. I RECENTI SVILUPPI DELLA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
DEGLI STATI MEMBRI PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO
Negli ultimi anni la Corte di giustizia ha sviluppato una giurisprudenza
sistematica in tema di responsabilità extracontrattuale degli Stati per violazione del
diritto comunitario. Le sentenze della Corte rappresentano un’ulteriore applicazione
del principio dell’effettività del diritto comunitario, e dunque sono finalizzate alla
garanzia del rispetto degli impegni comunitari da parte degli Stati membri, anche se
ne deriva una più ampia tutela degli interessati; per altra parte, sono invece specificamente
rivolte
ad
assicurare
effettività
alla
tutela
dei
diritti
dei
singoli,
indipendentemente dalla circostanza che vi possa essere un concomitante effetto utile
per il diritto comunitario, oppure che si possa determinare qualche contrasto con le
esigenze del suo sviluppo.
La responsabilità extracontrattuale degli Stati non trova espressa base giuridica
nell’art. 288 [ex art. 215] Tr. CE, né in altre disposizioni collegate, ma, come
avvenuto in vari Stati membri è il frutto di una interpretazione sistematica che la
giurisprudenza ha compiuto dell’ordinamento comunitario. Partendo da alcune
specifiche disposizioni, come l’art. 10 [ex art. 5] Tr. CE sull’obbligo degli Stati di
assumere tutte le misura atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi comunitari e
quindi anche l’eliminazione delle conseguenze illecite di una violazione del diritto
Pag. 129
comunitario, nonché dal principio generale della effettività della tutela dei diritti dei
singoli, la Corte ha considerato che il principio della responsabilità dello Stato per i
danni da esso prodotti ai singoli in violazione del diritto comunitario è inerente al
sistema del Trattato.
Il riferimento agli Stati deve intendersi come comprensivo di tutti i pubblici poteri
dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro che possono causare un danno
ingiusto per violazione del diritto comunitario. Per l’Italia, ad esempio, sono da
ritenere incluse le regioni cui ora compete il recepimento diretto delle direttive
comunitarie (cfr. art. 13, legge n. 128/1998) e che adottano una quantità di atti
amministrativi a base e rilevanza comunitaria.
Anche a questo riguardo la Corte di giustizia sta rafforzando i profili più
direttamente comunitari. Con sentenza 1.6.1999, causa C-302/97, è stato affermato
che negli Stati membri a struttura federale al risarcimento dei danni causati ai singoli
da provvedimenti interni adottati in violazione del diritto comunitario non deve
necessariamente provvedere lo Stato federale perché gli obblighi comunitari dello
Stato membro interessato siano adempiuti. Infatti, il diritto comunitario non impone
agli Stati membri alcuna modifica della ripartizione delle competenze e delle
responsabilità tra gli enti pubblici territoriali esistenti sul loro territorio, purché le
modalità procedurali in essere nell’ordinamento giuridico interno consentano una
tutela effettiva dei diritti derivanti ai singoli dall’ordinamento comunitario senza che
sia più difficoltoso far valere tali diritti rispetto a quello derivanti agli stessi singoli
dall’ordinamento interno.
I casi esaminati dalla Corte di giustizia attengono a tre diverse fattispecie: il
mancato o tardivo recepimento di una direttiva da parte di uno Stato membro, oppure
il suo recepimento improprio; la mancata abrogazione di leggi nazionali in contrasto
con il diritto comunitario; attività delle amministrazioni nazionali in violazione del
diritto comunitario.
Per quanto riguarda il mancato o tardivo recepimento di direttive comunitarie si
tratta di una situazione non infrequente in riferimento sia a taluni Stati membri che
hanno difficoltà specifiche nel recepimento, sia a certi problemi di armonizzazione. La
scarsa rilevanza delle sanzioni previste dai Trattati a carico degli Stati inadempienti ha
portato la Corte ad elaborare la giurisprudenza sugli effetti diretti delle direttive che,
Pag. 130
decorso il termine per il loro recepimento, apparissero capaci di fondare diritti per gli
interessati in quanto sufficientemente precise e dettagliate. Pur essendo ovvia la
grande importanza di questo principio per la garanzia degli interessati, il suo effetto
primario è quello di agevolare l’effettività del diritto comunitario e la sua uniforme
applicazione in tutti gli Stati membri, anche in presenza di omissioni o scorretti
comportamenti degli Stati membri.
II primo filone della recente giurisprudenza - iniziato con la sentenza Francovich
del 19.11.1991, cause C-6 e C-9/90 - rappresenta uno sviluppo delle precedenti
posizioni sull’effetto diretto del diritto comunitario e sulle garanzie della sua effettività.
La sentenza Francovich del 1991 ha destato grandissima eco per la novità della
soluzione data al problema della responsabilità extracontrattuale dello Stato per
mancato recepimento di una direttiva, e per aver fortemente comunitarizzato una
problematica sino ad allora riferita al diritto nazionale. Il passo cruciale della sentenza
circa l’inerenza al diritto comunitario della responsabilità dello Stato per danni causati
ai singoli da violazioni di diritto comunitario ad esso imputabili detta: “sarebbe messa
a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela
dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un
risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario
imputabile ad uno Stato membro [...] La possibilità di risarcimento a carico di uno
Stato membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella fattispecie, la
piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata ad un’azione da parte dello
Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere
dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario”.
La vicenda traeva origine dal mancato recepimento in Italia di una direttiva
(80/987/CEE) che obbliga gli Stati membri ad istituire a favore dei lavoratori un
sistema di garanzie minime per i crediti retributivi da essi maturati nei confronti dei
propri datori di lavoro, poi resisi insolventi. Il giudice nazionale competente, nel corso
di un giudizio attivato da alcuni lavoratori trovatisi in tali non felici circostanze,
utilizzando la procedura di rinvio pregiudiziale aveva posto alla Corte il quesito se da
detta direttiva potessero scaturire diritti per gli interessati anche in difetto di
recepimento, e se comunque lo Stato potesse essere considerato responsabile del
danno subito dai lavoratori in conseguenza del mancato recepimento stesso.
Pag. 131
La Corte ha dato risposta negativa al primo quesito, dato che la direttiva in
questione non possiede i caratteri di sufficiente dettaglio e precisione che sono
necessari per configurarla ad effetto diretto. I singoli non possono dunque basare
direttamente su essa alcuna azione per far valere i propri diritti nei confronti dello
Stato membro. Sul secondo quesito, al contrario, la Corte è pervenuta al risultato già
accennato, secondo cui lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato dalla violazione del diritto comunitario ad esso imputabile, che nel caso
consiste nella violazione dell’obbligo di recepire tempestivamente le direttive previsto
dall’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE.
La conclusione è stata accompagnata dalla definizione delle condizioni per la
configurazione della responsabilità degli Stati. La prima è che il risultato prescritto
dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli; la seconda è che il
contenuto di tali diritti sia individuabile sulla base delle disposizioni della direttiva; la
terza è che esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello
Stato ed il danno subito dai soggetti lesi.
Al verificarsi di tali condizioni sorge nei singoli il diritto al risarcimento del danno,
che trova per la Corte il suo fondamento nel diritto comunitario. Tale diritto va
comunque fatto valere davanti ai giudici nazionali.
La sentenza Francovich ha sollevato un ampio dibattito dato che, oltre alla
rilevanza specifica per il tema della responsabilità extracontrattuale degli Stati, lascia
emergere una sempre più spiccata comunitarizzazione di molte cruciali problematiche
pur in carenza di una precisa base normativa comunitaria.
La sentenza Dillenkofer (8.10.1996, cause C-178, 179, 188, 189, 190/94), ha di
nuovo esaminato il primo tema, questa volta in riferimento al mancato recepimento in
Germania della direttiva sui viaggi “tutto compreso”, che tra l’altro garantisce agli
acquirenti di pacchetti turistici il rimborso delle spese sostenute ed il rimpatrio,
qualora si trovino all’estero, in caso di insolvenza degli operatori turistici. Pur
ribadendo il principio della precedente sentenza Francovich, nell’occasione la Corte ha
meglio precisato che le condizioni per la configurazione della responsabilità dipendono
anche dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all’origine del danno
provocato. Nel caso del recepimento di direttive, occorre esaminare se lo Stato abbia
un margine consistente di discrezionalità; in tal caso per aversi responsabilità occorre
Pag. 132
che la violazione sia grave e manifesta. Quando invece il margine di discrezionalità è
ridotto o inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può considerarsi
sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente grave e
manifesta. Tanto più chiara in tal senso è la situazione delle direttive che sono
finalizzate ad attribuire diritti ai singoli, e che perciò consentono di far valere la
responsabilità senza previe procedure di accertamento dell’inadempimento.
Nella medesima sentenza, la Corte ha altresì aperto un nuovo indirizzo al
riguardo della possibile valutazione sulla qualità del recepimento nazionale di direttive
comunitarie, là dove ha previsto che il recepimento debba avvenire con efficacia
cogente, incontestabile, e con la specificità, la precisione e la chiarezza necessarie per
dare pienamente la certezza del diritto. Il punto era stato già sommariamente
esaminato nella sentenza British Telecommunications pressoché coeva (26.3.1996,
causa C-392/93), ove si era concluso per la insussistenza di responsabilità del Regno
Unito per la qualità del recepimento di una direttiva in tema di telecomunicazioni.
A questo primo gruppo di sentenze che, come detto, principalmente ancora
sviluppano il tenia della effettività dei diritto comunitario, anche se al contempo
portano a rafforzare decisamente le garanzie dei singoli, si è nello stesso periodo
affiancato un altro lotto di sentenze più direttamente focalizzate sulla garanzia del
principio di effettività della tutela per i soggetti comunitari. La prima sentenza
(Brasserie du Pècheur e Factortame III, 5.3.1996, cause C-46/93 e C-48/93) esamina
il problema dei danni causati dal legislatore nazionale in violazione di norme
comunitarie. La seconda sentenza (Lomas, 23.5.1996, causa C-5/94) esamina invece
il caso di danni causati da atti amministrativi nazionali in contrasto con norme
comunitarie.
In Brasserie du Pècheur e Factortame erano in questione due leggi nazionali
considerate in violazione del diritto comunitario e causa di danni per i soggetti
interessati: nel primo caso, la legge tedesca sulla purezza della birra, di antichissima
origine, ostacolava il commercio intracomunitario in violazione dell’art. 28 [ex art. 30]
Tr. CE; nel secondo caso, una legge inglese sull’immatricolazione delle navi rendeva
ardua la possibilità di immatricolazione di pescherecci da parte di armatori spagnoli,
con violazione di varie norme del Trattato CE, a partire da quella relativa al diritto di
stabilimento (art. 43 [ex art. 52]).
Pag. 133
Al riguardo, la Corte di giustizia ha ripreso con particolare vigore il tema
dell’appartenenza al diritto comunitario della responsabilità extracontrattuale degli
Stati per violazione degli obblighi comunitari, affermando con ragione che la
configurabilità
e
le
condizioni
di
tale
responsabilità
attengono
in
definitiva
all’interpretazione del diritto comunitario, competenza esclusiva della Corte. Ha poi
sviluppato il principio affermato con la sentenza Francovich, ritenendo che la
responsabilità dello Stato secondo l’art. 288 [ex art. 215] può determinarsi per
qualsiasi violazione del diritto comunitario commessa da qualunque organo dello Stato
interessato, e quindi anche per fatto del legislatore che approva o non abroga una
legge contraria al diritto comunitario. Ove tale trasgressione determini un danno agli
interessati, secondo la Corte può configurarsi la responsabilità dello Stato in quanto
neanche il legislatore può compromettere le esigenze di tutela dei diritti dei singoli che
fanno valere il diritto comunitario.
Circa le condizioni per far valere la responsabilità la sentenza riprende ed affina,
in relazione al particolare caso, quanto già indicato nelle sentenze precedenti; con
l’importante applicazione nel caso britannico del criterio che il diritto nazionale non
può
prevedere
nelle
questioni
a
base
comunitaria
condizioni
che
rendano
eccessivamente complesso l’ottenimento del risarcimento. Tale è per la Corte la
previsione propria del diritto inglese in tema di abuso di potere nell’esercizio di
funzioni pubbliche, che dunque non risulta applicabile nelle azioni per risarcimento del
danno di rilevanza comunitaria. Quanto detto dimostra, da un lato, l’incidenza della
giurisprudenza comunitaria in esame sul diritto nazionale; dall’altro e più in generale,
come
la
progressiva
definizione
delle
condizioni
per
la
configurazione
della
responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario dia vita ad un vero e
proprio rimedio di diritto comunitario.
Il terzo indirizzo giurisprudenziale riguarda la responsabilità extracontrattuale
degli Stati per danni causati da attività amministrativa in violazione del diritto
comunitario. La sentenza di riferimento è la già citata Lomas del 1996, in cui venne
esaminato
il
diniego
da
parte
dell’amministrazione
britannica
di
autorizzare
l’esportazione verso la Spagna di ovini vivi, motivato dalle condizioni di esercizio dei
mattatoi spagnoli che non rispetterebbero alcune norme contenute in una direttiva
comunitaria in tema di macellazione di animali.
Il diniego di autorizzazione è stato considerato dalla Corte illegittimo in quanto
Pag. 134
non
giustificato
dalla
direttiva
invocata
dall’amministrazione
britannica
e,
di
conseguenza, lesivo dell’art. 29 [ex art. 34] Tr. CE. Circa la responsabilità per i danni
causati agli esportatori britannici da tale illegittimo divieto, la Corte ha esteso
all’attività amministrativa degli Stati membri le conclusioni già raggiunte per i loro atti
normativi; ovvero che nell’applicazione del diritto comunitario l’amministrazione
nazionale non dispone di margini significativi di discrezionalità e la semplice
trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare la esistenza
di una violazione sufficientemente grave e manifesta.
Data la frequenza di atti amministrativi nazionali in applicazione del diritto
comunitario, la conclusione della sentenza Lomas apre ampi spazi per il risarcimento
dei danni indebitamente subiti dagli interessati; ma solo l’esperienza dirà se in
concreto le nuove opportunità diverranno effettive, dato che a fronte di attività amministrative non è agevole individuare il grado di causalità diretta tra l’atto o
l’omissione ed il danno per gli interessati.
14. LA RICADUTA DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA SUL REGIME
DELLA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEI DIRITTI NAZIONALI
Lo
sviluppo
della
giurisprudenza
comunitaria
sulla
responsabilità
extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto comunitario è risultato
così rapido e pervasivo per le diverse ipotesi di violazione da determinare molte
reazioni negative.
Il problema più delicato è che le condizioni per la configurazione della
responsabilità degli Stati finiscono per essere restrittivamente interpretate in sede
nazionale. I giudici nazionali, prendendo spunto da alcune necessarie vaghezze della
giurisprudenza
comunitaria
(come
ad
esempio
il
concetto
di
“violazione
sufficientemente grave e manifesta”) passibili di varie letture, concludono spesso per
la insussistenza della responsabilità dello Stato, anche quando ciò sembrerebbe
possibile nella prospettiva comunitaria.
Ma il difficoltoso adeguamento della tradizionale disciplina della responsabilità
extracontrattuale ai nuovi principi connessi alla violazione del diritto comunitario non
sembra molto diverso da quanto verificatosi in precedenza per altri sviluppi innovativi
Pag. 135
del diritto e della giurisprudenza comunitaria, come nel caso della tutela cautelare
“positiva” per situazioni giuridiche soggettive a rilevanza comunitaria. Quando tali
asimmetrie o contrasti tra i due diritti si sono manifestati, è stata l’occasione per una
razionalizzazione della branca del diritto in questione, anche se ciò ha messo in
discussione od anche superato tradizionali e consolidati principi.
15. GLI SVILUPPI IN ITALIA DEL CASO FRANCOVICH
È proprio per l’Italia che si manifestano alcune delle maggiori difficoltà di
adeguamento ai nuovi indirizzi giurisprudenziali comunitari, vuoi per il filone aperto
dalla sentenza Francovich sulla responsabilità dello Stato legislatore, vuoi per l’altro
indirizzo sulle conseguenze dell’attività amministrativa in violazione del diritto
comunitario, che si è imbattuto nella secolare controversia sulla risarcibilità delle
lesioni agli interessi legittimi.
Per quanto riguarda gli sviluppi del caso Francovich, lo Stato italiano - già
condannato dalla Corte di giustizia (sentenza 2.2.1989, causa C-23/87) per
inadempimento dell’obbligo di attuare la direttiva 80/987/CEE - ha finalmente attuato
tale direttiva con la legge 29.12.1990, n. 428, art. 48, ed il successivo d.lgs.
27.1.1992, n. 80. I punti principali della nuova normativa consistono nella previsione
del pagamento dei crediti di lavoro rimasti inadempiuti da parte del fondo di garanzia
istituito presso l’INPS; nella limitazione dei crediti agli ultimi tre mesi del rapporto, a
loro volta rientranti nei dodici mesi precedenti; nella prescrizione annuale del diritto.
Queste regole trovano applicazione anche per la “determinazione dell’indennità
eventualmente spettante [...] per il danno derivante dalla mancata attuazione della
direttiva (CEE) n. 987/80”.
I punti più controversi sono stati la determinazione del giudice competente e
della connessa procedura, la congruità dell’individuazione dell’INPS quale organismo
tenuto alla garanzia, l’entità del risarcimento previsto e le modalità procedurali per il
suo ottenimento. Al riguardo, si sono determinati due contestuali sviluppi non ancora
opportunamente riaccorpati ad unità: il primo è dato da nuove sentenze della Corte di
giustizia, adita secondo la procedura di rinvio pregiudiziale, che sulla base dei principi
della sentenza Francovich ha avuto modo di perfezionare le proprie posizioni. Il
Pag. 136
secondo, dato invece dalla giurisprudenza nazionale che, nelle espressioni della
Cassazione,
ha
finora
completamente
mancato
di
recepire
la
problematica
comunitaria.
Per quanto riguarda la giurisprudenza comunitaria, in tre diversi procedimenti,
alcuni lavoratori interessati ad utilizzare le previsioni di detta direttiva si opponevano
all’INPS circa la legittimazione passiva di quest’ultimo e l’ambito del risarcimento del
danno a seguito della tardiva attuazione della direttiva. Con le sentenze Bonifaci
(10.7.1997, cause riunite C-94/95 e 95/95), e Maso, (10.7.1997, causa C-373/95), la
Corte ha affermato che per quanto riguarda la portata del risarcimento del danno
derivante dall’inadempimento per mancata attuazione della direttiva entro il termine
prescritto, l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione della
direttiva ai lavoratori vittime dell’attuazione tardiva consente, in linea di massima, di
rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della violazione del diritto comunitario, a
condizione che la direttiva sia regolarmente recepita, e sempre che gli interessati non
dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi subiti per non aver potuto fruire a suo
tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva. Al contempo, è compatibile con
la direttiva che lo Stato preveda limitazioni dell’obbligo di pagamento dell’organismo di
garanzia, ma - precisa ancora la Corte - spetta al giudice nazionale, alla luce dei
principi che discendono dalla giurisprudenza comunitaria, far sì che il risarcimento del
danno subito dai beneficiari sia adeguato.
Con la sentenza Palmesani (11.7.1997, causa C-261-95), la Corte ha poi ritenuto
compatibile con il diritto comunitario che l’Italia abbia previsto un termine di
decadenza di un anno per la proposizione dei ricorsi diretti al risarcimento dei danni
subiti a seguito della tardiva attuazione della direttiva in questione, quale applicazione
del principio della certezza del diritto.
Al di là di alcuni punti trattati in modo analitico ed in coerenza con le premesse
sul regime della responsabilità extracontrattuale, le sentenze della Corte di giustizia
ora citate lasciano aperta la questione sui rapporti tra disciplina comunitaria e disciplina nazionale della responsabilità per violazione del diritto comunitario: se infatti, da
una parte, viene ribadito che è inerente al sistema comunitario il principio di
responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario; dall’altra, le condizioni
effettive per assicurare il risarcimento del danno sono rimesse al regime nazionale, su
cui la sentenza Palmesani, in particolare, rimane estremamente prudente: “la Corte
Pag. 137
non dispone di tutti gli elementi necessari per valutare più specificamente se un’azione
per risarcimento danni intentata da un singolo ai sensi dell’art. 2043 cc. italiano possa
essere diretta contro pubblici poteri per un’omissione o per un atto illecito loro
eventualmente imputabile nell’esercizio della potestà di imperio. Spetta pertanto al
giudice proponente procedere a tale esame”.
È poi intervenuta più volte la Corte di cassazione con decisioni difformi e che
mancano di cogliere la specifica e nuova connotazione comunitaria della questione.
Secondo la sentenza 11.10.1995, n.
10617, nel nostro ordinamento non è
configurabile un diritto soggettivo del singolo all’esercizio del potere legislativo, e di
conseguenza non è importabile allo schema dell’art. 2043 cc. la mancata trasposizione
di una direttiva comunitaria da parte del legislatore, e la relativa pretesa di
risarcimento ha in verità carattere indennitario consentendo solo un adeguato ristoro.
L’apoditticità della posizione della Cassazione dimostra la mancata considerazione
delle posizioni comunitarie, ben espresse dalla sentenza Brasserie du Pècheur e dalle
conclusioni dell’avvocato generale Tesauro secondo cui nel sistema comunitario “una
pretesa e generale irresponsabilità del legislatore nazionale sarebbe priva di
giustificazione. L’idea stessa della responsabilità dello Stato legislatore in rapporto agli
obblighi imposti dal diritto comunitario, è invece perfettamente coerente e per ciò
stesso inerente ai caratteri fondamentali e tipici del sistema giuridico comunitario”.
Merita infine segnalare che, sulla questione dell’attuazione della direttiva 80/987
in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro,
è intervenuta di recente anche la Corte costituzionale (sentenza 16.12.1998, n. 409).
Chiamata a giudicare sull’eventuale incostituzionalità del decreto legislativo di
recepimento di detta direttiva in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. la Corte ha
dichiarato infondata la questione in riferimento alla mancata copertura del caso dei
datori di lavoro non assoggettabili a procedure concorsuali. Il ragionamento della
Corte costituzionale appare sicuro in riferimento ai dati nazionali, ma la questione
avrebbe potuto avere conclusione del tutto diversa ove il giudice remittente avesse
adito la Corte di giustizia.
16. LA QUESTIONE DELLA RISARCIBILITÀ DEGLI INTERESSI LEGITTIMI
Pag. 138
Gli sviluppi del diritto comunitario in tema di responsabilità extracontrattuale
influenzano anche un’altra problematica del diritto nazionale: quella della risarcibilità
del pregiudizio patrimoniale sofferto dal titolare di un interesse legittimo. A ciò
concorrono tanto le numerose sentenze assunte dal giudice comunitario a partire dal
caso Francovich, quanto varie previsioni contenute nelle recenti direttive sugli appalti
pubblici che assicurano un risarcimento del danno connesso a violazioni delle nuove
procedure per l’affidamento degli appalti pubblici a rilevanza comunitaria.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che abbiamo esaminato due sono i
punti che maggiormente rilevano a questo fine: da un lato, l’affermazione che qualsiasi violazione del diritto comunitario da parte dello Stato, inteso nel senso più lato
come sopra detto, determina la responsabilità nei confronti di coloro che a cagione di
ciò abbiano subito dei danni; dall’altro, lo specifico riferimento alla responsabilità per i
danni causati dall’illegittima attività amministrativa. Dalla posizione della Corte di
giustizia consegue che sono risarcibili anche i danni per negato rilascio di
un’autorizzazione amministrativa, ovvero a fronte degli interessi che la nostra dottrina
ha
definito
pretensivi,
in
quanto
incentrati
sulla
pretesa
ad
ottenere
dall’amministrazione delle specifiche utilità. Inoltre, che l’ampliamento delle ipotesi di
risarcimento alle varie possibili violazioni del diritto comunitario non è tanto
determinato dalla esigenza di riaffermare l’effettività del diritto comunitario quanto di
assicurare la piena tutela delle posizioni degli interessati.
Il
combinarsi
delle
novità
comunitarie
tanto
di
diritto
scritto
che
giurisprudenziale, convergenti nell’ampliare la portata del principio di responsabilità
anche per la violazione di situazioni qualificabili in termini nazionali come interessi
legittimi, non poteva non contribuire ad alimentare il dibattito sulla risarcibilità degli
interessi legittimi, già molto vivo per ragioni di carattere interno.
Il danno ingiusto, che per l’art. 2043 ce. è a fondamento della responsabilità di
chi lo ha prodotto, non potrebbe dunque configurasi che nei casi in cui l’ordinamento
protegga direttamente e personalmente un bene della vita; ovvero, in termini di
situazioni giuridiche soggettive, quando l’interessato è titolare di un diritto soggettivo.
Nei casi di interesse legittimo la tutela è data solo dai poteri esercitabili dal giudice
amministrativo,
e
quindi
normalmente
con
l’annullamento
del
provvedimento
amministrativo contestato.
Pag. 139
La dottrina è per lo più su posizioni diverse, riconoscendo che non vi sono ragioni
di diritto positivo, né di tipo concettuale, per escludere che il risarcimento possa
configurarsi anche a fronte di interessi legittimi. Le disposizioni costituzionali sugli
interessi legittimi non prevedono espressamente tale circostanza ma neanche
escludono la generalizzazione della tutela risarcitoria; semmai, la considerazione
congiunta dei diritti e degli interessi negli artt. 111 e 113 Cost. dimostra la necessità di
assicurare in entrambi i casi la medesima tutela sostanziale. Così avviene del resto in
Spagna, ove l’art. 24 della Costituzione, identico all’articolo di pari numero della
nostra Costituzione, è stato inteso come una tutela anche per le situazioni diverse dal
diritto soggettivo e fino ad allora ad incerta garanzia.
Lo stesso dicasi per la normativa ordinaria, a partire dal fondamentale art. 2043
cc, che è stato volutamente scritto a maglie molto larghe onde non comprimere
l’evoluzione dei casi di responsabilità, neanche quando autore del danno sia una
pubblica amministrazione nell’esercizio di poteri pubblicistici.
Che le lesioni degli interessi legittimi siano non risarcibili è dunque solo il frutto di
una tenace giurisprudenza della Cassazione civile, con una interpretazione del rilievo
giuridico delle situazioni giuridiche soggettive e della natura dei rapporti tra pubblica
amministrazione e soggetti dell’ordinamento del cui fondamento sia generale che
specifico si può a ragione dubitare.
La posizione tradizionale è però in fase di evoluzione. Così è da qualche tempo
affermata in giurisprudenza una diversa soluzione a seconda che trattasi di interessi
legittimi a carattere pretensivo oppure a carattere oppositivo.
Nel primo caso, si ha un interesse del soggetto ad acquisire beni, situazioni o
status giuridici attraverso l’azione dell’amministrazione. Tali interessi si denominano,
dunque,
pretensivi
in
quanto
mirano
ad
ottenere
dall’amministrazione
un
provvedimento amministrativo che attribuisce nuove utilità che ancora non si hanno.
Nel secondo caso, invece, il soggetto intende demolire un provvedimento che gli ha
tolto o compresso un bene od un diritto che in precedenza vantava: si pensi, come
esempi, all’annullamento della concessione edilizia o di una licenza di pubblico
esercizio, ed al ritiro di un’abilitazione.
Mentre in passato la conclusione era per la irrisarcibilità in ambedue i casi di
illegittimità provvedimentale, la più recente giurisprudenza ammette la soluzione
Pag. 140
positiva in base alla teoria della riespansione del diritto soggettivo a seguito
dell’annullamento del provvedimento amministrativo che lo aveva illegittimamente
compresso od eliminato. Il cd. affievolimento del diritto è giuridicamente da ritenersi
come mai avvenuto, e pertanto il provvedimento illegittimo lede un diritto soggettivo.
In questa ricostruzione giurisprudenziale, non si tratta perciò di un riconoscimento
della risarcibilità degli interessi, ma della riconduzione delle situazioni giuridiche
soggettive a base degli interessi oppositivi nell’ambito del diritto soggettivo; l’esito è
comunque l’ampliamento della tutela a fronte dell’illegittimo esercizio di attribuzioni
amministrative.
Per gli interessi pretensivi, invece, la posizione della Cassazione rimane negativa,
dato che l’unica utilità riconosciuta consiste nell’ottenere in sede di giudizio
amministrativo l’annullamento del provvedimento illegittimo e, di conseguenza,
eventualmente
ripetere
l’iter
amministrativo
necessario
all’ottenimento
del
provvedimento cui il soggetto ha interesse.
Nello stesso più recente periodo è inoltre più volte intervenuto il legislatore con
nuove disposizioni che espressamente prevedono casi di risarcimento del danno
derivanti dall’emanazione di atti o provvedimenti illegittimi, oppure dall’illegittimo
silenzio della pubblica amministrazione. È il caso in particolare delle procedure per il
rilascio delle concessioni edilizie, di aggiudicazione di appalti e di affidamento e
gestione dei servizi pubblici. Le innovazioni più nette sono comunque derivate dalla
trasposizione delle direttive comunitarie in tema di ricorsi e tutela per appalti pubblici,
che prevedono espressamente il risarcimento del danno. La prima e più nota
normativa di origine comunitaria è quella di cui all’art. 13 della legge n. 142/1992
secondo cui “i soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in
violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o
delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all’amministrazione
aggiudicatrice il risarcimento del danno”. Altre analoghe sono seguite ancora in tema
di appalti pubblici.
Per quanto le innovazioni legislative siano ora frequenti e di portata difficilmente
delimitabile ai casi espressamente considerati la Cassazione le intende come eccezioni
rispetto alla regola da essa determinata, e quindi di stretta interpretazione. Non ci
sarebbe bisogno, secondo la Corte, di espresse previsioni di legge pei riconoscere la
risarcibilità degli interessi legittimi se il principio fosse inerente al nostro ordinamento.
Pag. 141
Al più si potrebbe parlare secondo la Cassazione (SS.UU. civili, 5.3.1993, n. 2667), di
“linea di tendenza diretta alla introduzione della tutela risarcitoria della lesione di
interessi legittimi, tutela che, allo stato, non esiste”.
A nulla è valso il tentativo di far intervenire la Corte costituzionale che è stata
invocata due volte in modo analogo, ma in ambedue i casi è riuscita a defilarsi dal
difficile dilemma sia in termini procedurali, sia in virtù di alcune sintetiche espressioni
usate come obiter dieta. Tanto la sentenza n. 85/1980 quanto la ordinanza n.
165/1998 hanno constatato che il problema della responsabilità civile della pubblica
amministrazione per il risarcimento dei danni per lesioni di interessi legittimi è
“problema di indubbia gravità [...] che richiede prudenti soluzioni normative [...] non
solo nella disciplina sostanziale, [...] ma anche nelle scelte tra misure risarcitone,
indennitarie,
reintegrative in
forma
specifica
e
ripristinatorie
ed
infine
nella
delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti
della pubblica amministrazione”. In buona sostanza, la Corte costituzionale questa
volta non ha inteso intervenire direttamente per porre fine al secolare problema,
lasciando la responsabilità al legislatore, riconoscendo così che nel frattempo non è
rimasto inerte, anche se intervenuto solo con “interventi settoriali”.
In parallelo con la nostra Corte costituzionale, anche la Corte di giustizia ha
finora evitato di farsi coinvolgere nella disputa nazionale sulla configurazione delle
situazioni giuridiche soggettive da parte del diritto nazionale.
La posizione della Corte di giustizia è coerente con i principi del diritto
comunitario, secondo i quali la configurazione delle situazione giuridiche soggettive
rientra tra i poteri degli Stati ed è indifferente ai fini comunitari nella misura in cui non
metta a repentaglio la tutela dei “diritti” conferiti direttamente dal diritto comunitario,
oppure non dia a questi ultimi un trattamento giuridico peggiore di quello assicurato
alle equipollenti situazioni nazionali. Non sembra dunque molto produttivo insistere
nel richiedere alla Corte la soluzione diretta di una questione che, allo stato, è
comunitariamente irrilevante e comunque da impostare, come ora si dirà, in modo
diverso secondo le generali indicazioni della recente giurisprudenza comunitaria sulla
responsabilità extracontrattuale degli Stati.
In effetti, tanto il diritto comparato quanto il diritto comunitario offrono preziose
indicazioni per un definitivo superamento della posizione della Cassazione circa la
Pag. 142
irrisarcibilità, in via di principio, degli interessi legittimi.
Dal punto di vista comparatistico, vari ordinamenti conoscono la dizione interesse
legittimo o sue varianti linguistiche; il caso più similare è quello, già citato, della
Spagna, ove - nella Costituzione del 1978 - l’art. 24 riproduce alla lettera l’articolo
dallo stesso numero della nostra Costituzione. Ma l’espressione è ora molto diffusa
anche in Inghilterra, specie a seguito della particolare procedura di controllo
giurisdizionale sull’attività amministrativa introdotta nel 1978. Non è vera dunque la
tesi che l’interesse legittimo sia una nozione sconosciuta ad ogni altro ordinamento
diverso da quello italiano; è vero invece che solo il nostro ordinamento basa sulla
distinzione diritti soggettivi/interessi legittimi il criterio qualificatorio della giurisdizione
e varie altre conseguenze importanti, come appunto quella in esame sulla risarcibilità
dei soli diritti (almeno, come detto, secondo la interpretazione della Cassazione). Negli
altri Paesi, l’emergere dell’interesse legittimo è collegato alla varietà dei rapporti che
si determinano con l’amministrazione e rispetto ai quali la sola nozione di diritto
soggettivo sembra limitativa; ma sempre al fine di assicurare in tal modo la rilevanza
giuridica e la piena tutela anche a situazioni giuridiche soggettive in precedenza non
tutelate adeguatamente. L’interesse legittimo è dunque un’occasione per ampliare le
garanzie dei soggetti dell’ordinamento, anche dal punto di vista della responsabilità
extracontrattuale.
Da qui una serie di conseguenze. Primo, la questione della responsabilità
extracontrattuale per fatto degli Stati (intesi nel modo ampio che si è detto) in
violazione del diritto comunitario è ormai questione comunitaria. Secondo, quale
questione comunitaria, le posizioni al riguardo assunte dalla giurisprudenza hanno uno
speciale valore nei confronti dei diritti nazionali, orientandone l’interpretazione ed
eventualmente determinandone anche la disapplicazione ove contrastante. Terzo,
sono oggetto di “diritti” risarcibili anche situazioni giuridiche che nel nostro diritto
risultano sicuri esempi di interessi legittimi a carattere pretensivo: il più netto
esempio, in diritto comunitario, è dato dalla disciplina della partecipazione delle
imprese alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, che in caso di violazioni di
tali regole prevede espressamente il diritto al risarcimento per il soggetto leso. Il
“danno
ingiusto”
in
diritto
comunitario
non
si
limita,
dunque,
alle
lesioni
dell’equipollente del nostro diritto soggettivo, ma copre anche la parte degli interessi
legittimi a carattere pretensivo, per cui anche la più liberale dottrina italiana ha
Pag. 143
perplessità nel riconoscere il diritto al risarcimento. Quarto, i principi comunitari della
responsabilità hanno ormai assunto una connotazione tipicamente garantista degli
interessi dei soggetti comunitari, quale espressione tipica dell’altro grande principio
comunitario per una tutela piena ed effettiva dei diritti degli interessati. Quinto,
l’espresso riconoscimento del risarcimento a fronte di interessi pretensivi, come nel
caso delle procedure di appalto pubblico, apre la via ad una qualificazione del ristoro
patrimoniale per il danneggiato in termini indennitari o reintegrativi, più che
strettamente risarcitori.
Alla luce di questi principi, la conclusione non può che essere per la decisiva
rilevanza del diritto comunitario in tema di responsabilità extracontrattuale al fine di
risolvere l’annosa questione nazionale della risarcibilità degli interessi legittimi.
Una realistica considerazione sulla capacità del nostro sistema di recepire presto
ed adeguatamente le indicazioni comunitarie ora dette, senza necessità di modifiche
legislative generali, porta però ad auspicare una più rapida soluzione tramite
l’intervento del legislatore per la modifica dell’art. 2043 ce, nel senso di aggiungervi
l’inciso, tanto breve quanto dirompente per la posizione tradizionale, che “è ingiusto
anche il danno derivante dalla lesione di interessi legittimi”.
17. CASI DI GIURISDIZIONE PIENA DI MERITO DEL GIUDICE COMUNITARIO
Dopo
aver
esaminato
alcune
delle
principali
conseguenze
che
il diritto
comunitario della responsabilità amministrativa determina per il nostro diritto
nazionale, conviene ritornare alle azioni proponibili davanti ai giudici comunitari e
concluderne l’esame.
In tal senso, rimangono da considerare principalmente le azioni avverso le
sanzioni che le istituzioni comunitarie possono irrogare per violazioni del diritto
comunitario, ed il contenzioso del pubblico impiego comunitario.
L’azione di impugnazione di sanzioni comunitarie è prevista all’art. 229 [ex art.
172] Tr. CE e all’art. 36 Tr. CECA. Secondo la prima disposizione, i regolamenti
possono attribuire alla Corte di giustizia una competenza giurisdizionale anche di
merito per quanto riguarda le sanzioni previste dai regolamenti stessi. Si tratta
Pag. 144
dunque di una mera eventualità, connessa a quanto stabilito dai regolamenti e, più
precisamente, dai regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio
e da quelli adottati dal solo Consiglio. Diversa e più precisa è la previsione del Trattato
CECA, dato che essa si riferisce alle sanzioni pecuniarie ed alle penalità inflitte anche
secondo le disposizioni di quel Trattato, e l’azione è qualificata come “ricorso di piena
giurisdizione”.
Il caso più rilevante di regolamento che ha previsto un ricorso avverso le sanzioni
irrogate dalle istituzioni comunitarie è quello sulle infrazioni alle regole sulla
concorrenza (reg. del Consiglio n. 17/62 del 6.2.1962), secondo cui avverso le
sanzioni per tali infrazioni è ammesso ricorso in esito del quale il giudice comunitario
può sopprimere, ridurre o maggiorare l’ammenda o la penalità di mora inflitta.
L’altro importante caso di giurisdizione piena di merito è il contenzioso del
pubblico impiego comunitario, previsto dall'art. 236 [ex art. 179] Tr. CE e dall’art. 152
Tr. CECA. Tali controversie sono ora esaminate in primo grado dal Tribunale, della cui
attività tendono ad essere una parte rilevante: nell’ultimo periodo, da una media di
novanta casi per anno, si è passati a circa centocinquanta casi per anno, su un totale
di seicento ricorsi.
I limiti e le condizioni della giurisdizione in esame sono più dettagliatamente
previsti dallo statuto del personale, con la particolarità di un necessario previo ricorso
amministrativo quale condizione di ricevibilità del ricorso giurisdizionale. Il termine per
il ricorso giurisdizionale è di tre mesi, dalla notifica della decisione sul previo ricorso
amministrativo o dal formarsi della decisione implicita. Le domande proponibili sono le
più diverse, al fine di garantire in principio la piena tutela delle posizioni giuridiche
degli interessati: la casistica mostra azioni di annullamento di atti, azioni di
accertamento, azioni di condanna ed anche azioni costitutive.
18. LA QUESTIONE DI VALIDITÀ DEGLI ATTI COMUNITARI TRAMITE LA
PROCEDURA DI RINVIO PREGIUDIZIALE
Il Trattato CE si è preoccupato di completare le forme di tutela degli interessati
aggiungendo alle vie di ricorso ed all’azione di responsabilità un’ulteriore possibilità di
contestare in via incidentale la validità di un atto delle istituzioni comunitarie o della
Pag. 145
Banca centrale europea. Si tratta della procedura di rinvio pregiudiziale prevista
dall’art. 234 [ex art. 177], la quale consente appunto ai giudici nazionali di sottoporre
alla Corte di giustizia la questione di validità degli atti compiuti dalle istituzioni o dalla
BCE.
La medesima procedura è altresì finalizzata a richiedere alla Corte di giustizia
l’interpretazione del Trattato e degli atti comunitari. In tal caso, il rilievo primo della
sentenza della Corte è nella definizione del significato e della portata del diritto
comunitario, mentre rimane proprio del giudice nazionale valutare la compatibilità del
diritto nazionale con gli atti comunitari così interpretati.
Merita iniziare l’esame della procedura di rinvio pregiudiziale dalla parte relativa
alla questione di validità degli atti comunitari, che si lega strettamente ai problemi di
tutela degli interessati esaminati nei paragrafi precedenti.
L’applicazione del diritto comunitario è, nella gran parte dei casi, affidata alle
autorità nazionali il cui operato può formare oggetto di controversia giurisdizionale,
civile od amministrativa. Nel corso di tali controversie le parti ed anche, d’ufficio, il
giudice
possono
rilevare
la
possibile
illegittimità
dell’atto
comunitario
che
è
direttamente applicabile nella fattispecie o che è giuridicamente alla base del
contestato comportamento nazionale. Stante la già nota esclusività della Corte di
giustizia per ogni questione relativa al controllo di legittimità degli atti comunitari, è
coerente con la premessa generale che il giudice nazionale debba, in tale caso,
sospendere il giudizio e rinviare alla Corte la questione pregiudiziale circa la validità
dell’atto comunitario di cui si contesta la legittimità.
I presupposti ed i motivi del rinvio sono gli stessi che valgono per l’azione di
annullamento di cui all’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE, ma con la differenza rilevante che
in sede nazionale le opportunità di tutela giurisdizionale degli interessati sono
maggiori di quelle offerte ai singoli dall’azione di annullamento, di cui all’art. 230 [ex
art. 173] citato; in particolare, per la configurazione della legittimazione processuale
dei ricorrenti in modo più ampio che nel sistema comunitario. Se maggiori sono le
occasioni nazionali di azione a tutela dei propri diritti, correlativamente maggiori
risultano le occasioni per sollevare incidentalmente la questione di invalidità degli atti
comunitari. Rimangono esclusi da tale opportunità solo coloro che, essendo destinatari
diretti ed individualmente considerati di un atto, non lo abbiano tempestivamente
Pag. 146
impugnato in modo diretto (sentenza 9.3.1994, causa C-188/92).
La sentenza della Corte di giustizia ha diversi effetti a seconda che abbia
concluso per la validità o per l’invalidità dell’atto comunitario sottopostole. Nel primo
caso, la sentenza ha effetto solo per il caso deciso e quindi la questione può essere di
nuovo sottoposta con nuove argomentazioni ed in diverso contesto. Quando invece la
conclusione sia stata per la invalidità dell’atto, si determina l’effetto sostanziale della
cosa giudicata e quindi una situazione di fatto simile a quella dell’annullamento, in
esito all’azione di cui all’art. 230 [ex art. 173] Tr. CE. È evidente infatti che la
sentenza della Corte - pur avendo carattere dichiarativo della invalidità di un atto, e
non di annullamento dello stesso -non può valere esclusivamente per il giudice che ha
rimesso la questione, ma per ogni altro soggetto, anche pubblica amministrazione,
che possa avere il problema di applicare l’atto in questione.
Per quanto attiene agli effetti nel tempo della sentenza pregiudiziale, nulla è
detto nell’art. 234 [ex art. 177], a differenza che nell’art. 231 [ex art. 174] per le
sentenze di annullamento. In principio, la sentenza pregiudiziale sulla validità, per il
suo carattere dichiarativo, ha valore retroattivo ex tunc. La Corte ha comunque
elaborato una propria posizione, estendendo alle sentenze assunte su rinvio
pregiudiziale la facoltà di limitare nel tempo gli effetti di una declaratoria di invalidità.
19. L’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO ATTRAVERSO LA
PROCEDURA DI RINVIO PREGIUDIZIALE
L’esigenza di un’interpretazione uniforme del diritto è un essenziale profilo del
principio di certezza del diritto, e dunque è propria di qualsiasi ordinamento giuridico.
Nel caso europeo assume tuttavia uno speciale valore, date le caratteristiche del
sistema comunitario ed i suoi rapporti con gli ordinamenti degli Stati membri. Da qui
la previsione nei Trattato CE di un particolare procedimento per assicurare
l’interpretazione uniforme, basato sulla cooperazione delle autorità giudiziarie nazionali con la Corte di giustizia.
Il meccanismo è definito dall’art. 234 [ex art. 177] come procedimento di rinvio
pregiudiziale, in quanto prevede che i giudici nazionali nell’applicare il diritto
comunitario pongano alla Corte di giustizia, prima di decidere il caso, la questione
Pag. 147
dell’interpretazione del diritto comunitario rilevante per la decisione stessa, ma di cui
non sia chiaro il corretto significato. In tali casi, la Corte - e solo essa, dato che è
prevista al riguardo una sua competenza esclusiva - stabilisce l’interpretazione del
diritto comunitario che vincolerà il giudice che ha rimesso la questione e, alle
condizioni che vedremo, anche gli altri soggetti tenuti all’applicazione del diritto
comunitario.
Occorre prestare attenzione alla diversità tra la procedura in esame e quella,
propria di molti Stati membri, come anche l’Italia, in cui esiste un controllo di
costituzionalità concentrato nella Corte costituzionale. In questo secondo caso viene
chiesto alla Corte costituzionale di accertare la compatibilità o meno di una
determinata norma con la Costituzione; quando si verifica l’incostituzionalità della
norma, questa è direttamente annullata dalla Corte. Nel caso del rinvio pregiudiziale ai
fini di interpretazione, invece, ciò che il giudice del rinvio chiede alla Corte di giustizia
è l’interpretazione del diritto comunitario rilevante per la causa che sta trattando, e
non il giudizio sulla compatibilità del diritto nazionale applicabile con il diritto
comunitario; profilo che rimane di competenza del giudice del rinvio, una volta che la
Corte avrà emesso la sua sentenza interpretativa degli atti comunitari richiamati.
Inoltre, la Corte di giustizia non interpreta solamente il diritto “costituzionale”
comunitario, e quindi principalmente i Trattati, ma il complessivo ordinamento
comunitario, secondo un concetto di “legalità” estremamente ampio che ricomprende
il diritto derivato ed anche gli atti comunitari atipici.
La procedura ha assunto nel tempo un ben più significativo valore quale
procedura chiave per lo sviluppo della giurisprudenza comunitaria che ha “creato” il
sistema giuridico comunitario. In una feconda interazione tra le Corti nazionali e la
Corte comunitaria, è da questa procedura che sono derivate le sentenze celebri della
Corte di giustizia in tema di caratteristiche dell’ordinamento comunitario, di definizione
dei soggetti comunitari, di effettività del diritto comunitario, di efficacia diretta delle
direttive, e di molte altre questioni che si sono esaminate nel corso dei precedenti
Capitoli.
La
competenza
della
Corte
per
giudicare
su
questioni
pregiudiziali
di
interpretazione è stata affermata anche per il Trattato CECA (sentenza 22.2.1990,
causa C-221/88), considerando che l’art. 41 di quel Trattato mentre riconosce
Pag. 148
espressamente il sindacato sulla validità degli atti, non può non essere interpretato
anche come comprensivo del potere interpretativo pregiudiziale.
L’oggetto della pronuncia pregiudiziale può essere, come detto, tanto il diritto
comunitario primario che quello derivato, e quindi tutti gli atti capaci di produrre
effetti giuridici, comprese le decisioni. Per la ricordata rilevanza dei principi generali di
diritto comunitario (cfr. Capp. Ili e V), la Corte ha esteso il proprio raggio di
riferimento interpretativo anche a tali principi. È proprio in riferimento ai principi
generali che si sono avuti i più rilevanti sviluppi del diritto comunitario sia per le sue
connotazioni caratterizzanti che per i diritti fondamentali.
20. LE “GIURISDIZIONI” COMPETENTI PER IL RINVIO PREGIUDIZIALE
La questione sull’interpretazione del Trattato e degli atti comunitari deve essere
sollevata davanti ad una giurisdizione nazionale ove si faccia applicazione della norma
comunitaria dall’incerta interpretazione. In tale caso, la giurisdizione adita se non è di
ultima istanza ha la facoltà di domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla
questione, se reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su quel
punto. Ove invece la giurisdizione adita sia di ultima istanza, ovvero sia una
giurisdizione avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di
diritto interno, tale organo è tenuto a rivolgersi alla Corte.
La ragione di questo diverso trattamento è duplice: da un lato, l’interesse
comunitario alla interpretazione uniforme deve tener conto del rischio di sommergere
la Corte con una massa di rinvii ove tutti i giudici fossero indiscriminatamente tenuti in
tal senso; dall’altro, l’obbligatorietà del rinvio per i giudici di ultima istanza assicura
comunque l’intervento interpretativo della Corte, che si inserisce poi nel contesto delle
sentenze nazionali più influenti.
Questa regola prevista all’art. 234 [ex art. 177], in modo apparentemente rigido,
è stata però intesa in senso flessibile dai giudici nazionali, con una serie di tecniche
interpretative mirate ad utilizzare il rinvio solo a particolari circostanze. Tali tecniche
sono state sostanzialmente confermate dalla Corte di giustizia, anche per mancanza di
strumenti
coercitivi
nei
confronti
dei
giudici
nazionali
recalcitranti,
con
una
giurisprudenza che è principalmente interessata a porre alcuni limiti alle facoltà dei
Pag. 149
giudici nazionali.
La dizione di “giurisdizione” nazionale usata dall’art. 234 [ex art. 177] richiama
immediatamente le nozioni di organo e di funzione giurisdizionale, che pur nelle
diverse previsioni nazionali, sono fortemente omogenee in tutto lo spazio giuridico
europeo. In tal senso, qualsiasi organo giurisdizionale cui possa riconoscersi la qualità
di giudice secondo il diritto dello Stato membro di riferimento ha il potere/dovere di
rinvio pregiudiziale.
Casi relativi all’Italia hanno confermato che così sono da intendere anche il
giudice istruttore, il giudice cautelare ed il giudice dell’ingiunzione. Se in taluni di detti
casi manca il contraddittorio, ciò non è da solo ragione ostativa all’utilizzo del rinvio,
data la pacifica funzione giurisdizionale svolta dall’organo in questione. E stata invece
considerata irricevibile la ordinanza di rinvio attivata da un tribunale nel quadro di un
procedimento di volontaria giurisdizione. Nel nostro ordinamento si pone poi il
problema se i giudici di ultima istanza cui incombe l’obbligo del rinvio siano i soli due
giudici di vertice della giurisdizione ordinaria e amministrativa (rispettivamente, la
Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato), oppure tutti i giudici che, quale che sia la
loro posizione nell’ordinamento giudiziario, assumono atti che in quel particolare
procedimento non sono oggetto di ricorsi giurisdizionali. L’art. 234 [ex art. 177] indica
con precisione che il giudice tenuto al rinvio non è solo quello di vertice ma anche
quello contro le cui sentenze non è esperibile ricorso giurisdizionale.
Sempre per l’Italia si è posto il problema se la Corte costituzionale possa
configurarsi organo giurisdizionale di ultima istanza. In un primo tempo la stessa
Corte costituzionale è stata favorevole, anche se ponendosi il problema solo in via di
principio (sentenza 168/1991). Successivamente, la Corte è giunta all’opposta
conclusione che in essa “non è ravvisabile quella giurisdizione nazionale alla quale fa
riferimento l’art. 177 [ora art. 234] del Trattato” (ordinanza n. 536/1995).
La Corte di giustizia ha poi esteso l’ambito dei soggetti legittimati al rinvio ben
oltre gli organi propriamente giurisdizionali, al chiaro fine di valorizzare al massimo le
opportunità offerte dalla procedura di rinvio pregiudiziale. Secondo una copiosa
giurisprudenza formatasi nel tempo, per “giudice” ai fini dell’art. 234 [ex art. 177]
deve intendersi qualsiasi organo che possegga i seguenti elementi: origine legale,
carattere
permanente,
obbligatorietà
della
sua
funzione
aggiudicativa,
natura
Pag. 150
contraddittoria del procedimento (qui requisito essenziale, a differenza che nei casi
precedenti),
applicazione
di
norme
giuridiche,
indipendenza
(tra
la
recente
giurisprudenza della Corte che ha ribadito tali elementi, cfr. la sentenza 17.9.1997, C54/96). L’approccio è di tipo sostanzialistico e finisce per comunitarizzare la nozione di
“giurisdizione” rilevante ai fini del rinvio pregiudiziale, in senso anche difforme dalla
disciplina nazionale.
Sono state dunque considerate “giurisdizioni” gli ordini professionali in sede di
decisioni contenziose, l’organo nazionale di controllo sulle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici, il Tribunale spagnolo della competenza, vari organismi arbitrali
con competenza obbligatoria. Di recente, è stato altresì considerato “giurisdizione” ai
fini dell’art. 234 [ex art. 177] il nostro Consiglio di Stato in sede consultiva, quando
emette un parere nell’ambito della procedura di ricorso straordinario al Presidente
della Repubblica, che secondo il diritto italiano ha carattere giustiziale, ma non certo
giurisdizionale; a dimostrazione non tanto della relatività delle qualificazioni giuridiche,
quanto della diversa rilevanza che le tradizionali qualifiche hanno quando sono in
gioco interessi comunitari. Una completa sistemazione della materia è stata data dalla
Corte con la sentenza 4.2.1999, causa C-103/97, relativa alla configurazione come
“giurisdizione”, ai sensi dell'art. 234 [ex art. 177] Tr. CE, dell’Ufficio delle
aggiudicazioni degli appalti del Tirolo.
Sono stati invece esclusi dal novero delle “giurisdizioni” di rinvio altri organi come
i collegi arbitrali a base convenzionale, numerosi collegi od autorità amministrative
nazionali del settore fiscale e valutario, nonché taluni degli stessi organi già
considerati “giurisdizione” nell’esercizio di talune funzioni aggiudicative, quando
esercitano
diverse
funzioni
(è
il
caso
ad
esempio
degli
ordini professionali
nell’ordinaria amministrazione della professione). Per il ricordato caso dei collegi
arbitrali, si è ritenuto che la libera scelta delle parti per una soluzione arbitrale,
alternativa alla risoluzione giurisdizionale della controversia, porti ad escludere la
qualifica in questione; a differenza dunque dei casi di arbitrato obbligatorio per legge.
Per le varie figure di organi amministrativi contenziosi, anche in presenza di garanzie
del contraddittorio e di altri caratteri giustiziali, si è considerato negativamente
assorbente la circostanza che si tratta di organi per definizione interessati alla
decisione, e quindi non terzi rispetto alle parti.
La giurisprudenza della Corte non è peraltro sempre molto coerente con la
Pag. 151
premessa generale, lasciandosi condizionare dalle specifiche caratteristiche dell’organo
del rinvio o da generali esigenze per soluzioni tempestive e ben motivate. Così per gli
arbitrati nel settore degli appalti pubblici, la posizione negativa iniziale è stata
temperata con la previsione che anche in tal caso trattasi di “giurisdizione” se le
decisioni siano suscettibili di ricorsi di fronte ad organi giurisdizionali ordinari.
21. LE CONDIZIONI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE
La decisione sul rinvio, facoltativa od obbligatoria secondo i principi già
richiamati, è assunta dal giudice che tratta la controversia in cui è emersa la
questione di interpretazione della norma comunitaria. La decisione può essere
proposta dalle parti con apposita domanda, o assunta d’ufficio dal giudice. Le parti che
hanno sollevato la questione non hanno alcun diritto ad ottenere il rinvio pregiudiziale,
dato che la richiesta deve comunque essere delibata dal giudice della causa. Se viene
assunta la decisione sul rinvio, è questo atto del giudice nazionale, assunto secondo il
diritto interno, che avvia la procedura comunitaria.
La formulazione delle questioni su cui è richiesta l’interpretazione della Corte
assume maggiore rilevanza in diritto comunitario di quanto sia in sede nazionale per
l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di costituzionalità. Il
giudice comunitario è intuitivamente meno esperto delle particolarità del diritto
nazionale e delle caratteristiche specifiche della fattispecie contenziosa, sì che la
questione va opportunamente presentata dai giudici nazionali; a tal fine, la Corte
emana periodicamente delle linee guida per le giurisdizioni nazionali, a mo’ di indirizzo
per la corretta formulazione dei quesiti. Sempre più spesso, poi, la Corte riformula
direttamente i quesiti, talora con una lettura additiva rispetto all’apparente intenzione
del giudice del rinvio, al fine di meglio evidenziare i punti chiave del diritto
comunitario rilevanti e garantire anche in tal modo il principio di effetto utile.
Tanto i giudici non di ultima istanza quanto le giurisdizioni superiori nei confronti
delle cui decisioni non vi sono possibilità di ricorso vedono attenuato l’obbligo di rinvio
da alcuni criteri che sono stati elaborati per filtrare l’utilizzazione della procedura
prevista dall’art. 234 [ex art. 177]. Così, l’obbligo di rinvio non sussiste quando il
punto è già stato oggetto di precedenti ed univoche sentenze giurisdizionali (teoria
Pag. 152
dell’atto acclarato); oppure quando l’atto comunitario è sufficientemente chiaro da
poter essere applicato senz’altro dal giudice nazionale (teoria dell’atto chiaro).
Sono evidenti i pericoli che la teoria dell’atto chiaro può arrecare all’applicazione
uniforme del diritto comunitario, principalmente per l’ampia soggettività della
valutazione del giudice del rinvio da cui discende la disomogeneità nell’applicazione
del diritto comunitario.
La Corte non aveva strumenti giuridici per opporsi all’applicazione della teoria
dell’atto chiaro da parte dei giudici nazionali, ed ha dunque subito tale giurisprudenza
cercando di limitare i danni attraverso la valorizzazione della cooperazione giudiziale e
con la previsioni di una serie di condizioni. Di conseguenza, la violazione di queste
condizioni potrebbe configurare un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale degli
Stati membri, per fatto della giurisdizione nazionale in questione, per violazione del diritto comunitario. Trattasi per il momento di un’ipotesi teorica.
Per quanto riguarda infine la valutazione della rilevanza della questione posta dal
giudice nazionale, il principio è che solo quest’ultimo è competente a determinare la
rilevanza e la pertinenza per il caso che dovrà decidere. Tuttavia la Corte ha
progressivamente assunto un ruolo di verificatore della rilevanza, in modo simile a
quanto effettuato nel nostro ordinamento dalla Corte costituzionale in tema di
valutazione dell’ammissibilità dell’eccezione di costituzionalità. Da qui varie decisioni
di irricevibilità e di non luogo a provvedere per carenza dei presupposti, quali carenza
nella motivazione di rinvio, confusione sui fatti presentati, incertezza sulla natura o
sull’applicabilità degli atti comunitari, carattere meramente ipotetico delle questioni.
In un caso celebre (le due sentenze Foglia 11.3.1980, causa 104/79, e 16.12.1981,
causa 244/80), la Corte è giunta a sindacare la qualità del giudizio a quo,
affermandone la natura puramente fittizia.
22. GLI EFFETTI DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI
Già abbiamo detto nel paragrafo 18 degli effetti delle sentenze della Corte di
giustizia sulla validità di atti comunitari assunte a seguito di procedura di rinvio
pregiudiziale. Esaminando adesso le sentenze interpretative, il più diretto effetto è
quello di vincolare il giudice del rinvio all’applicazione dell’atto comunitario come
Pag. 153
interpretato dalla Corte; con ogni conseguenza possibile, tra cui la eventuale
disapplicazione del diritto nazionale contrastante con l’atto comunitario.
La particolare forza delle sentenze della Corte fa sì che la statuizione
interpretativa assunta non abbia un valore limitato al caso che l’ha originata, e
dunque essa varrà in ogni altro caso, giurisdizionale od amministrativo, in cui il
medesimo atto risulti applicabile. Nello stesso senso vale il principio di leale cooperazione.
Come per le sentenze pregiudiziali sulla validità degli atti comunitari, anche per
le sentenze interpretative - la cui efficacia è tipicamente ex tunc afferendo all’esatto
significato di un atto comunitario - la Corte ha usato il criterio della possibile
delimitazione nel tempo degli effetti della sentenza, in riferimento al principio di
certezza del diritto. Ovviamente sono da intendersi comunque salvi i rapporti esauriti
ed i diritti di coloro che hanno tempestivamente attivato azioni giurisdizionali a propria
tutela. La Corte ha poi affermato che se una sentenza interpretativa non ha limitato
gli effetti nel tempo, ciò non incide sul diritto di uno Stato membro di apporre proprie
limitazioni ai fini interni, come nel caso di termini di decadenza previsti per azioni di
ripetizione di tributi riscossi in violazione della disposizione comunitaria interpretata
dalla Corte (sentenza 15.9.1998, causa C-231/96).
23. LA PROCEDURA DI RINVIO PREGIUDIZIALE E LA CREAZIONE DI UN
SISTEMA GIUDIZIARIO EUROPEO
La procedura di rinvio pregiudiziale che abbiamo esaminato determina un
rapporto circolare tra giudici nazionali e giudice comunitario, basato sul principio della
cooperazione.
I presupposti del rinvio pregiudiziale e gli effetti delle sentenze comunitarie
assunte ad esito di tale procedimento sono stati plasmati dalla Corte di giustizia come
solo una corte suprema può stabilire.
La Corte di giustizia ha dunque rivestito un ruolo tanto di corte costituzionale
quanto di corte di cassazione, secondo uno schema di integrazione giuridica e
giudiziaria di tipo federale in cui la Corte è il vertice del sistema giudiziario composto
dai giudici nazionali quali organi comuni del nuovo ordinamento.
Pag. 154
Per quanto meglio precisatasi col tempo, la funzione della Corte quale organo di
vertice di un sistema giudiziario composto era già ben definita nella più volte citata
sentenza Vari Gend & Loos del 1963. In tale occasione, vertendosi sul contrasto con
l’art. 12 [ora art. 25] Tr. CE di alcune disposizioni nazionali in tema di dazi doganali,
era stato eccepito l’abuso di procedura di rinvio pregiudiziale in relazione ad una
fattispecie concreta che avrebbe dovuto essere contestata solo tramite le procedure di
infrazioni di cui agli artt. 169-170 [ora artt. 226-227] Tr. CE, e non tramite una
sentenza che fittiziamente interpreta il Trattato. Ma la Corte aveva risposto che “la
vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce un efficace
controllo che si aggiunge a quello che gli artt. 169 e 170 [ora artt. 226 e 227] affidano
alla diligenza della Commissione e degli Stati membri”.
24. L’INFLUENZA SUL DIRITTO PROCESSUALE NAZIONALE
A seguito dell’ampliarsi della disciplina sostanziale comunitaria e delle forme di
tutela comunitaria, si è posto il problema della armonizzazione dei sistemi processuali
nazionali.
Nella fase istitutiva delle Comunità questo problema era stato lasciato da parte in
quanto apparentemente improponibile a causa dei così diversi punti di partenza dei
vari Stati membri e per l’evidente limitazione che ne sarebbe derivata per uno dei più
tradizionali profili della sovranità. In effetti l’Europa non ha mai conosciuto un sistema
processuale uniforme, neanche nei secoli di massimo sviluppo dello jus commune.
Diverse sono state le regole di procedura proprie dei vari ordinamenti giuridici e
diverso il modello del giudiziario.
La situazione appare oggi assai diversa. Vi sono esempi di direttive comunitarie a
contenuto processuale e vari principi generali di diritto comunitario elaborati dalla
Corte di giustizia che hanno diretta rilevanza processuale. I nuovi indirizzi esprimono
un mutamento profondo del diritto comunitario che da diritto di risultati sta
ampliandosi anche a diritto di mezzi (Caranta, 1993). In effetti, l’integrazione europea
contiene le premesse per la creazione di principi e standard comuni di diritto
processuale valevoli per gli Stati membri dell’Unione, parte essenziale dell’acquis comunitario che vincola gli Stati membri ed i vari Stati che progressivamente
Pag. 155
decideranno di aderire all’Unione stessa.
Al riguardo le questioni principali da esaminare sono: 1. le ragioni per la
creazione di un sistema processuale omogeneo; 2. le basi giuridiche degli interventi
comunitari; 3. i caratteri dei principi giurisprudenziali e delle direttive rilevanti; 4.
l’individuazione dei settori più coinvolti da questa tendenza.
Circa la prima questione, l’esigenza di creare un sistema processuale europeo
deriva principalmente dal principio di uniformità, proprio del diritto europeo, e dalle
tecniche giuridiche di integrazione seguite dalla Corte di giustizia e dalle altre
istituzioni.
La necessità di rimedi giuridici armonizzati è dunque inerente al concetto di
uniformità; in loro assenza, non sarebbe possibile una loro tutela uniforme nei vari
Stati membri (van Gerven, 1995).
In questo senso, i recenti sviluppi erano già impliciti nella citata sentenza
Simmenthal, quando la Corte affermò, da una parte, che le norme comunitarie devono
esplicare la pienezza dei propri effetti in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, in
quanto fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro che sono interessati;
Alla stessa conclusione portano le varie tecniche di integrazione europea, quali lo
strumento negativo dell’abolizione delle disposizioni interne che possono attentare alla
piena espansione dei principi di diritto comunitario; in positivo, con l’instaurazione di
un diritto comune agli Stati membri; in modo neutro attraverso il principio del mutuo
riconoscimento.
Una volta verificato che lo sviluppo di un sistema processuale armonizzato
corrisponde ad effettive esigenze del processo di integrazione europea, possiamo
passare all’esame delle basi giuridiche degli interventi comunitari in materia.
È pacifico che nei Trattati istitutivi il tema non sia esaminato, né direttamente né
indirettamente. Tale è stata anche la valutazione delle corti nazionali come ad
esempio la Corte costituzionale italiana, secondo le quali la materia processuale è
estranea ai Trattati.
E però altrettanto sicuro che non appena elaborati dalla Corte di giustizia i
principi generali di diritto comunitario, ne siano scaturiti evidenti implicazioni per la
sfera processuale. Come, ad esempio, dal principio di protezione effettiva per i diritti
Pag. 156
derivanti dal diritto comunitario, che secondo la Corte (sentenze Johnston del
15.5.1986, causa 222/84, e Heylens del 15.10.1986, causa 222/86) è alla base delle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Inoltre era chiaro che, malgrado le
molteplici
diversità,
esistevano
altre
tradizioni
costituzionali
comuni
in
tema
processuale, riassunte nell’idea di “processo equo” di cui all’art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo del 1950.
Tutto è poi divenuto più facile con l’Atto Unico del 1986 che ha introdotto il
nuovo art. 100A [ora art. 95] Tr. CE, ove si prevedono “misure relative al
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli
Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato
interno”. È su questa base legale che, tra l’altro, sono state approvate le citate
direttive 89/665 e 92/13 in materia di appalti pubblici.
Più di recente, ad opera del Trattato sulla Unione Europea si è introdotta la
cittadinanza europea che implica, tra l’altro, una sostanziale parificazione degli
strumenti nazionali di tutela dei diritti. Lo stesso Trattato del 1992, inoltre, ha istituito
il cd. terzo Pilastro, per cui la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri diviene uno
degli obbiettivi generali ai sensi dell’art. B [ora art. 2, modificato] TUE (“[...]
rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri
mediante la istituzione di una cittadinanza dell’Unione; sviluppare una stretta
cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni [...]”), che può realizzarsi
in modo significativo solo se si dà vita ad un sistema omogeneo di tutela.
Per quanto poi riguarda i caratteri del diritto processuale comunitario, occorre
distinguere tra le indicazioni scaturenti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e
quelle scaturenti dalle prime direttive in materia.
La posizione generale della Corte è che, per la garanzia dei diritti basati sul
diritto comunitario le regole di procedura sono determinate dal diritto nazionale, sia
per quanto riguarda l’individuazione del giudice competente che le particolari modalità
procedurali “spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascun Stato membro
designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi
giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle
norme
di
diritto
comunitario
aventi
effetto
diretto”
(sentenza
Peterbroeck,
14.12.1995, causa C-312/93; cfr. anche la sentenza Upjohn, 21.1.1999, causa CPag. 157
120/97).
Il principio è però sottoposto alla condizione che tali regole non siano meno
favorevoli di quelle concernenti la tutela di posizioni di diritto nazionale, e che
comunque non rendano impossibile o troppo difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal
diritto comunitario. Ne deriva che la Corte lascia spazio alla disciplina nazionale solo
quando non sia intervenuta un’espressa disciplina comunitaria.
In effetti, il controllo effettuato dalla Corte di giustizia sulla compatibilità delle
regole processuali nazionali con i principi di diritto comunitario ha portato ad una serie
di
importanti
sviluppi
il
cui
significato
non
sta
tanto
nell’aspetto
negativo
dell’eliminazione di regole nazionali in contrasto con il diritto comunitario, ma nelle
indicazioni positive per un diverso modello europeo. Se poi si considera che alla Corte
sono state portate le più cruciali questioni di procedura, si può comprendere che le
sentenze della Corte, pur limitate nel numero ed occasionali in quanto connesse alle
iniziative dei giudici nazionali, finiscono per assumere una rilevanza decisiva sia per i
diritti nazionali direttamente coinvolti, sia per la edificazione del sistema processuale
europeo.
È poi recente la corrente giurisprudenziale sulla responsabilità extracontrattuale
degli Stati membri per l’omessa, incompleta o cattiva esecuzione del diritto
comunitario (sentenze Brasserie du Pècheur, e Lomas, citate), nonché l’affermazione
(sentenza Peter-broeck, citata) che il giudice nazionale può, a certe condizioni,
valutare d’ufficio la compatibilità comunitaria di provvedimenti nazionali anche quando
il motivo comunitario non sia stato invocato dall’interessato entro un determinato
termine.
È stata infine portata a compiuto sviluppo la posizione della Corte circa la
generale disapplicabilità degli atti amministrativi nazionali che siano in contrasto con il
diritto comunitario. Il punto poteva già ritenersi implicito nella sentenza Simmenthal
del 1978, ma opportunamente la Corte ha voluto definire una discussione molto
accesa.
Passando dal diritto giurisprudenziale al diritto scritto, si può constatare che in
certi casi (come la cd. direttiva “ricorsi”, 89/665, per gli appalti di lavori) il legislatore
comunitario ha consolidato in un atto normativo i principi generali sulla tutela effettiva
dei diritti garantiti dal diritto comunitario e alcuni strumenti particolari di garanzia,
Pag. 158
come per la tutela cautelare. In altri casi, come nella direttiva 93/7 sulle azioni di
restituzione dei beni culturali illecitamente trasferiti in altro Stato membro, il
legislatore comunitario ha imboccato decisamente la via della creazione di nuove
forme processuali comunitarie, senza precedenti e ricche di peculiarità.
È evidente il salto di qualità che così si determina: le direttive vincolano il
legislatore nazionale ad una pronta e completa trasposizione e, a certe condizioni,
possono considerarsi ad effetto diretto anche in carenza di trasposizione; ferma
comunque la responsabilità degli Stati per omessa o parziale trasposizione, o cattiva
esecuzione.
Merita considerare che le prime direttive in materia hanno caratteri diversi. Da
un lato, la consolidazione in direttive di principi generali lascia agli Stati membri la
possibilità di definire i relativi strumenti processuali nazionali in conformità con i
caratteri del proprio ordinamento, secondo il modello originario di direttiva. Nel campo
del diritto processuale, le direttive di “consolidazione” di principi generali appaiono
appropriate in quanto bilanciano efficacemente le esigenze di uniformità con quelle di
flessibilità richieste dagli Stati in relazione alla “sensibilità” del tema per la loro residua
sovranità.
Dall’altro lato, altre direttive comunitarie introducono forme originali di azioni
processuali comuni per il momento solo per settori, come i beni culturali, in cui la
disciplina comunitaria è limitata e ove prevale la tecnica del mutuo riconoscimento che
sarebbe vanificata dalla assenza di efficaci forme di tutela comune. Sembra dunque
che a diritto sostanziale comunitario “debole”, si accompagnino regole processuali
“forti”; e viceversa.
La quarta questione attiene ai settori in cui maggiormente si afferma la tendenza
alla armonizzazione delle regole processuali.
Seguendo le iniziative della Commissione, si potrebbe pensare che nel prossimo
futuro vi sia la prospettiva di un genuino diritto processuale comune, come si ricava
dalla proposta di direttiva sul processo civile.
Non pare comunque possibile giungere a breve termine ad un vero e proprio
diritto processuale comune per l’Europa, formalizzato in una direttiva generale
equivalente ad un codice nazionale di procedura. Anzitutto, come la storia giuridica
degli ultimi tre secoli insegna, non è fortuito che alcuni Paesi non abbiano mai avuto,
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né sembrano oggi desiderosi di averlo, un codice di procedura. In secondo luogo,
occorre considerare che nell’ambito del diritto processuale molti Paesi hanno
importanti distinzioni tra il processo civile e il processo amministrativo, con diversi
giudici e diverse regole, difficili da armonizzare in modo sistematico. In terzo luogo,
una completa armonizzazione non risulta necessaria né utile nel contesto europeo.
25. L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA E GLI STRUMENTI CAUTELARI
L’influenza della giurisprudenza della Corte di giustizia per lo sviluppo delle
tematiche processuali è risultata ancora più incisiva sviluppando il tema della
effettività della tutela, intesa come tutela giurisdizionale efficace e satisfattoria.
A partire dalle due celebri sentenze Johnston, 15.5.1986, causa 222/84, e
Heylens, 15.10.1987 causa 222/86, viene affermato che il diritto ad un ricorso
giurisdizionale effettivo è parte dei principi generali di diritto comunitario, e
principalmente implica che sia garantito un ricorso efficace e quanto più rapido
possibile; che siano assicurati poteri cautelari capaci di rispondere ad ogni istanza
degli interessati; che siano risarcibili anche situazioni giuridiche soggettive qualificabili
come interessi legittimi secondo il diritto nazionale.
Il principio di effettività della tutela non è più solo inteso come strumento di
affermazione del diritto comunitario nei rispetti dei diritti nazionali, ma come aspetto
fondamentale di garanzia per le situazioni dei singoli nei confronti degli atti sia delle
amministrazioni nazionali che delle stesse istituzioni comunitarie.
La tutela cautelare è in effetti uno dei settori processuali maggiormente
influenzati dal diritto comunitario, sia per le novità direttamente apportate al nostro
sistema sia per l’averne messo in luce i molti limiti attuali.
Nel Trattato CE il problema della tutela cautelare nei rispetti degli atti delle
istituzioni comunitarie è espressamente considerato come detto, agli artt. 242-243 [ex
artt. 185-186]. Il primo prevede che “i ricorsi proposti alla Corte di giustizia non
hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando reputi che le circostanze lo
richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato”. Il secondo
prevede che “la Corte di giustizia, negli affari che le sono proposti, può ordinare i
Pag. 160
provvedimenti provvisori necessari” . Per l’art. 256 [ex art. 192], poi, la Corte può
sospendere l’esecuzione forzata di un titolo esecutivo.
I poteri cautelari previsti dal Trattato per la Corte di giustizia sono stati estesi
anche al Tribunale di primo grado. Le sentenze di questo Tribunale sono a loro volta
sospendibili dalla Corte di giustizia.
Si tratta di un impianto di evidente influenza del diritto amministrativo
continentale, che combina il potere di sospensiva tipico di molti giudici amministrativi
nazionali con il più ampio potere cautelare del tipo a noi conosciuto secondo il modello
dell’art. 700 c.p.c., che si concreta anche in misure innominate ed atipiche.
Ne consegue che la Corte può sospendere un atto o emanare un provvedimento
d’urgenza, ed in particolare sospendere un atto, solo nel quadro di una controversia di
merito che ha il potere conoscere. Per l’art. 83, c. 1, reg. proc. Corte, le domande
mirate ad ottenere la sospensione dell’esecuzione di un atto delle istituzioni sono
ricevibili se il richiedente ha impugnato tale atto con ricorso davanti alla Corte; ed
analogamente nel caso di richiesta di altri provvedimenti provvisori.
Circa le condizioni generali di ammissibilità dei provvedimenti d’urgenza, nel
diritto scritto della Comunità non è prevista alcuna indicazione. Hanno dunque
sopperito le esperienze nazionali, univoche nel prevedere come condizioni di tali
richieste la configurabilità del fumus boni juris e del periculum in mora. La Corte di
giustizia ha poi dato rilievo al criterio della necessaria valutazione degli interessi
coinvolti.
Per quanto riguarda la tutela cautelare che i giudici nazionali possono assicurare
in materie comunitarie, la questione si è meglio definita una volta che la Corte di
giustizia ha elaborato il principio generale dell’effettività della tutela, nel senso sopra
indicato. È divenuto infatti possibile ai giudici nazionali sottoporre in via pregiudiziale
alla Corte stessa varie questioni sull’interpretazione del diritto comunitario in
riferimento a disposizioni nazionali, anche in tema di tutela cautelare, che non paiono
in armonia con tale principio.
Si è così assistito alla rapida elaborazione di una giurisprudenza comunitaria, in
taluni casi tanto innovativa rispetto ai principi generali dell’ordinamento in questione
da far parlare di una vera rivoluzione giuridica. Tale è il caso di origine britannica
deciso dalla citata sentenza Factortame del 1990, ove la Corte ha affermato che il
Pag. 161
diritto comunitario osta alla applicabilità di norme nazionali che non consentano al
giudice di sospendere temporaneamente la vigenza di una legge nazionale nelle more
di un giudizio di pregiudizialità comunitaria.
Per i giuristi britannici, usi al dogma della sovranità parlamentare e privi di una
corte costituzionale, la possibilità che un giudice possa sospendere la vigenza di una
legge, per di più con motivazione connessa a principi dell’ordinamento comunitario, è
apparsa davvero una svolta epocale.
Vista invece nella prospettiva comunitaria, la sentenza Factortame appare uno
sviluppo logico delle premesse sulla supremazia del diritto comunitario e sull’effetto
utile dell’art. 234 [ex art. 177] Tr. CE: la piena efficacia dei diritto comunitario
sarebbe ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire ai giudici
chiamati a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere
provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia
giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. In una
situazione del genere il giudice è pertanto tenuto a disapplicare la eventuale norma di
diritto nazionale che osti alla concessione di provvedimenti provvisori.
I successivi sviluppi hanno riguardato la sospendibilità di un atto amministrativo
nazionale adottato dalla competente autorità amministrativa in esecuzione di un
regolamento comunitario di cui si discuta la validità comunitaria. È il celebre caso
Zuckerfabrik del 1991 (21.2.1991, cause C-143/88 e C-92/89) anche se ciò può
mettere a rischio uno dei dogmi del diritto comunitario, ovvero la applicabilità diretta
dei regolamenti in ciascuno degli Stati membri. Per la prima volta la Corte ha
affermato che “il diritto alla tutela giurisdizionale sarebbe compromesso se in attesa
della pronuncia giurisdizionale della Corte non fosse possibile paralizzare in via
provvisoria gli effetti del regolamento”.
Con la stessa sentenza Zuckerfabrik, la Corte ha poi posto in termini
decisamente comunitari il problema delle condizioni per l’emanazione di provvedimenti
cautelari. Al proposito si ricorda che i provvedimenti cautelari possono, per la Corte,
essere assunti quando il giudice nazionale ha seri dubbi - da esprimere con idonea
motivazione - sulla validità del regolamento comunitario su cui si basa l’atto
amministrativo nazionale; e che in ogni caso deve essere preso in considerazione
l’interesse della Comunità che un proprio atto non sia privato di tutto il suo effetto
Pag. 162
utile.
In un terzo caso, la sentenza Atlanta (9.11.1995, causa C-465/93), la Corte ha
poi definito il tema della tutela cautelare additiva, detta anche positiva, in cui
l’interessato può ottenere un provvedimento cautelare diverso e più appropriato alle
circostanze di quanto sia la semplice sospensiva dell’efficacia dell’atto. In particolare,
secondo la Corte l’art. 249 [ex art. 189] Tr. CE deve essere interpretato nel senso che
non esclude la competenza dei giudici nazionali a concedere provvedimenti provvisori
che modifichino o disciplinino le situazioni di diritto o i rapporti giuridici controversi in
ordine ad un provvedimento amministrativo nazionale fondato su un regolamento
comunitario che forma oggetto di un rinvio pregiudiziale per accertamento della
validità. È pertanto possibile che il giudice nazionale conceda qualsiasi provvedimento
urgente,
compreso
il
provvedimento
positivo
che
renda
provvisoriamente
inapplicabile, a vantaggio del singolo, il regolamento la cui validità è contestata.
Le prime direttive a carattere processuale confermano come la posizione
“pretoria” della Corte sia condivisa dalle altre istituzioni comunitarie.
L’art. 2 della direttiva n. 89/665 prevede che gli Stati membri assumano le
misure necessarie affinché i giudici competenti possano “prendere con la massima
sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la
violazione o impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i
provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione
pubblica di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità
aggiudicatrici”. Una formula simile, benché ancora più ampia, è adottata pure all’art. 2
della direttiva n. 92/13 che parla di altri provvedimenti “intesi ad impedire che dei
danni siano causati agli interessi in gioco, in particolare la facoltà di imporre il
pagamento di una somma determinata nel caso in cui l’infrazione non venga riparata o
evitata”.
Le due direttive sono state recepite dal nostro legislatore; in particolare nulla è
stato detto per il potere cautelare nella prospettiva che già il nostro ordinamento
disponesse di idonee forme di tutela. Ciò determina due questioni principali: primo, se
sia costituzionale, in riferimento al principio di eguaglianza, ragionevolezza e certezza
del diritto, che le innovazioni comunitarie siano applicabili ai soli casi in cui sono in
gioco situazioni giuridiche a base comunitaria; secondo, se è possibile mantenere
Pag. 163
invariata la disciplina attuale della materia, sulla quale si inserirebbe solo per la parte
direttamente trattata la disciplina comunitaria, oppure se è necessaria una riforma
generale della materia della tutela cautelare.
Nel primo senso, urta il senso comune di giustizia che casi in tutto identici, salvo
il valore patrimoniale, siano trattati in modo così differente, a seconda che si applichi
la tutela cautelare prevista dal diritto nazionale oppure dal diritto comunitario. Inoltre,
se è vera la premessa della Corte di giustizia che una tutela cautelale effettiva è
parte essenziale del più generale principio di tutela effettiva degli interessati, la
portata del principio non può certo essere limitata ai profili già disciplinati dal diritto
comunitario dovendo ricomprendere qualsiasi situazione analoga, indipendentemente
dal valore.
Il potere di sospensiva proprio del giudice amministrativo, per quanto esteso
intelligentemente dalla giurisprudenza, incontra insuperabili limiti negli aspetti positivi
che gli sono palesemente estranei; inoltre, è vincolato all’esistenza ed al merito del
ricorso, dato che il processo amministrativo non conosce misure cautelari scisse dal
merito del ricorso già presentato. Se questa circostanza appare del tutto normale nel
tipico processo impugnatorio, altrettanto non può dirsi nei casi di interessi pretensivi e
di inerzie amministrative. Risulta inoltre inadeguata nei sempre più numerosi casi in
cui la pubblica amministrazione agisce nelle forme di diritto comune.
La mancata modificazione nel nostro ordinamento della disciplina cautelare
amministrativa è stata indirettamente sanzionata dalla Corte di giustizia con la
sentenza 19.9.1996, causa C-236/1995 che ha deciso un ricorso della Commissione ai
sensi dell’art. 226 [ex art. 169] Tr. CE per inadempimento della Repubblica ellenica
nel recepire la direttiva n. 89/665 in riferimento alle misure cautelari. La Grecia
sosteneva che non vi fosse necessità di modificazione della propria disciplina dei mezzi
cautelari, in quanto il sistema greco già conosce il potere di sospensiva degli atti
amministrativi impugnati e che, comunque, tale potere di sospensiva è stato inteso
dal Consiglio di Stato ellenico in modo assai ampio, sì da non essere limitato alla mera
sospensione.
Una situazione apparentemente del tutto simile a quella italiana, ma che la Corte
di giustizia ha considerato in violazione del diritto comunitario per tre motivi:
anzitutto, perché è insufficiente rispetto alle disposizioni della direttiva la sola
Pag. 164
procedura di sospensione di un atto impugnato con ricorso di annullamento. In
secondo luogo, perché la procedura di sospensione presuppone l’esistenza di un
ricorso principale per l’annullamento dell’atto amministrativo impugnato, mentre ai
sensi dell’art. 2 della direttiva, gli Stati membri sono tenuti, più generalmente, a
conferire ai loro organi competenti a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare,
“indipendentemente da ogni azione previa”, qualsiasi provvedimento provvisorio,
anche oltre la sospensione. Infine, perché non costituisce un sistema di tutela
provvisoria sufficiente ai sensi della direttiva che la giurisprudenza nazionale interpreti
la legge conformemente alla direttiva, dato che secondo la costante posizione della
Corte di giustizia una semplice giurisprudenza non può soddisfare le esigenze di
certezza del diritto.
26. I NUOVI POTERI DEL GIUDICE NAZIONALE SULLE QUESTIONI
COMUNITARIE
Un altro tema processuale a diretta influenza comunitaria è quello della possibile
sollevabilità d’ufficio di motivi comunitari non presentati dalle parti, o presentati fuori
termine.
Per quanto riguarda la questione specifica dei poteri del giudice, alcune
importanti sentenze della Corte di giustizia (Vari Schijndel, 14.12.1995. cause C430/93 e 431/93; Kraaiieveld, 24.10.1996, causa C-72/95; oltre alla già citata
sentenza Peterbroeck) ne hanno dato una nuova lettura.
Il principio ivi affermato è quello della sollevabilità d’ufficio di motivi comunitari,
ma le sentenze sono strettamente collegate ai dati delle diverse fattispecie, ciascuna
molto particolare e non facilmente trasferibile in termini generali. Uno sviluppo cauto
del principio non deve stupire, solo che si consideri l’impatto che potrebbe avere negli
ordinamenti basati sul ben diverso modello del processo dispositivo, e corrisponde ad
una tecnica giurisprudenziale tipica del diritto comunitario ove la Corte ha iniziato da
sentenze apparentemente particolari per poi affermare il principio in via generale,
come definitivamente acquisito.
Vi sono diverse possibili letture di queste sentenze. La prima è che rappresenti
uno sviluppo giurisprudenziale così remoto rispetto alla possibile base giuridica
Pag. 165
comunitaria, da rappresentare un infortunio della Corte. La seconda che invece, a
determinate condizioni, il principio sia in linea con le premesse generali; in particolare
nel richiedere come requisito essenziale che il ricorso sia procedibile, dopo di che
sorgerebbe il potere/dovere del giudice di accertare comunque la legittimità o meno
della pretesa. I limiti processuali nazionali non possono infatti impedire al giudice di
contrastare condotte amministrative contrarie al diritto comunitario, a lui noto.
In verità, il principio della sollevabilità d’ufficio di motivi comunitari appare insito
nel sistema e quindi non condizionato dallo stato non ancora compiuto della
giurisprudenza della Corte di giustizia. Vi sono infatti almeno due disposizioni del
Trattato CE che rappresentano il fondamento di tale potere: l’art. 10 [ex art. 5] che
prevede l’obbligo di leale cooperazione degli Stati e di tutti i loro organi, compresi i
giudici, per la piena realizzazione degli obbiettivi comunitari; l’art. 249 [ex art. 189],
c. 3, che prevede l’obbligo per gli Stati membri di adottare tutti i provvedimenti
necessari per il raggiungimento dei risultati da raggiungere.
Certo
è
che
accogliendo
questa
interpretazione
vengono
ad
essere
sostanzialmente alterati i poteri del giudice amministrativo; in particolare, si
determinerebbe
l’appropriazione
da
parte
del
giudice
di
tutta
la
sfera
dell’accertamento del diritto oggettivo applicabile. Il giudice sarebbe, infatti, vincolato
nel petitum, ma libero nella ricerca della norma rilevante per la decisione del caso.
Non è peraltro superfluo richiamare la doverosa cautela circa i modi di
svolgimento dei percorsi richiamati. Se infatti la Corte è, da un lato, molto innovativa
anche su questioni ove per tradizione appariva sedimentata; dall’altro, cerca di
assicurare un certo self restraint.
27. LO SVILUPPO DI FORME DI TUTELA NON GIURISDIZIONALE
Si può ora passare all’ultimo problema che dimostra la progressiva influenza
comunitaria sulla giustizia amministrativa. Si tratta della valorizzazione di forme di
tutela non giurisdizionale, ovvero in via amministrativa o affidate ad organi esterni
specializzati; così come della possibilità di tutela anche nei confronti di atti non
formalmente illegittimi, ma segnati da profili di cattiva amministrazione.
Pag. 166
Nell’affrontare il tema è bene ricordare che la valorizzazione di queste forme di
tutela amministrativa non è alternativa alla tutela giurisdizionale: il primo significato
del principio di effettività della tutela consiste nel diritto ad un giudice, ad un vero
giudice indipendente ed imparziale, che non viene assolutamente posto in discussione.
Si tratta invece di nuove forme di tutela pensate, da un lato, per deflazionare il carico
di lavoro dei giudici, per consentire loro di concentrarsi sulle questioni più rilevanti e
nuove in diritto, per assicurare tempi rapidi per le questioni che rimangono
inevitabilmente loro proprie; dall’altro, però, per dare una tutela a tutta una serie di
situazioni, in cui oggi i vizi di legittimità degli atti amministrativi non sembrano in
grado di offrire un’adeguata copertura. Nei due sensi, comunque, un rafforzamento
della tutela.
Sono dimostrazione di questa tendenza i lavori della speciale commissione di
studio sui sistemi per la risoluzione delle controversie alternativi rispetto all’azione
giurisdizionale; le procedure contenziose non giurisdizionali previste in tema di appalti
pubblici dalla direttiva n. 92/13 del 1992 e l’inserimento nei Trattati comunitari del
problema della maladministration e della figura del mediatore.
Le procedure contenziose non giurisdizionali per gli appalti sono un’esperienza
tipica di altri Paesi dove esercitano un efficace ruolo di garanzia degli interessati,
specie per le questioni dove il merito tecnico è particolarmente rilevante. Di recente, si
segnalano le varie iniziative francesi per “régler autrement les conflits” ed il
Administrative Dispute Resolution Act del 1990 negli Stati Uniti.
Da
noi
simili
procedure
non
hanno
tradizione
e
finora
sono
rimaste
sostanzialmente sulla carta, mentre non vi è appalto la cui aggiudicazione non venga
attaccata giurisdizionalmente, anche quando i profili di diritto sono del tutto secondari
rispetto agli aspetti tecnici o sostanziali. La portata di queste innovazioni sembra
essere stata colta finora solo in casi particolari, come per il tema delle ed. offerte
anomale
negli
appalti,
ove
una
recente
sentenza
della
Corte
costituzionale
(29.4.1996, n. 132) ha ribadito che il diritto comunitario vieta in via generale
l’automatica esclusione delle offerte anomale, senza che si proceda alla puntuale
verifica in contraddittorio con l’offerente (principio puntualmente ribadito dalla Corte
di giustizia con la sentenza Hera del 16.10.1997, causa C-304/96).
Ma va sottolineato, più in generale, che l’intero impianto della Comunità è
Pag. 167
incentrato sul principio del contraddittorio, di cui sono tipiche espressioni la procedura
di contestazione prevista all’art. 226 [ex art. 169] Tr. CE e le procedure di controllo
sulla concorrenza di cui agli artt. 81-85 [ex artt. 85-89] dello stesso Trattato.
La valorizzazione delle istanze di tutela amministrativa si può cogliere anche
dalla recente giurisprudenza comunitaria sulla definizione di “giurisdizione nazionale”
ai sensi dell’art. 234 [ex art. 177] Tr. CE, ovvero quali siano gli organi abilitati ad
attivare la procedura di rinvio pregiudiziale ivi prevista. Come si è visto nel paragrafo
20 di questo Capitolo, la Corte ha esteso il concetto di giurisdizione nazionale sino a
ricomprendere il Consiglio di Stato italiano in sede consultiva nella procedura di
ricorso straordinario al Capo dello e la Commissione tedesca di controllo sugli appalti,
tipico organo amministrativo contenzioso.
Pag. 168
SOMMARIO
CAPITOLO III ............................................................................................................................................................. 1
I CARATTERI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO............................................................. 1
1. La Comunità europea come ordinamento giuridico............................................................................................ 1
2. La preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale ............................................................................... 2
3. La diretta applicabilità delle norme comunitarie ............................................................................................... 3
4. L’efficacia diretta delle norme comunitarie ....................................................................................................... 4
5. La tutela dei diritti fondamentali ....................................................................................................................... 7
6. L’interpretazione del diritto nazionale .............................................................................................................. 9
7. La responsabilità extracontrattuale..................................................................................................................10
8. Questioni della preminenza del diritto comunitario sul diritto italiano ............................................................15
9. La non applicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto comunitario .............................................18
10. Verso una nuova disciplina dei rapporti tra ordinamento italiano ed ordinamento comunitario .....................19
CAPITOLO IV .............................................................................................................................................................22
DIRITTO AMMINISTRATIVO EUROPEO E DIRITTI AMMINISTRATIVI NAZIONALI ............................22
1. La Comunità europea quale Comunità di diritto amministrativo.......................................................................22
2. I caratteri principali del diritto amministrativo europeo ...................................................................................25
3. La dimensione europea delle scienze giuridiche e le peculiarità della scienza del diritto amministrativo .........27
4. Dalle divergenze alle convergenze nel diritto amministrativo ..........................................................................30
5.
La critica al fenomeno della convergenza ed i suoi limiti ...............................................................................32
6. Alcune conclusioni ...........................................................................................................................................34
CAPITOLO V................................................................................................................................................................37
LE FONTI ....................................................................................................................................................................37
1. Le peculiarità delle fonti nell'ordinamento comunitario ....................................................................................37
2. Il quadro delle fonti comunitarie ......................................................................................................................38
3. I Trattati comunitari .........................................................................................................................................39
4. I Trattati come “costituzione” comunitaria .......................................................................................................40
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5. Una “costituzione in trasformazione” ...............................................................................................................41
6. I principi generali..............................................................................................................................................43
7. Gli atti delle istituzioni comunitarie. I regolamenti...........................................................................................45
8. Le direttive .......................................................................................................................................................48
9. Gli altri atti delle istituzioni ..............................................................................................................................50
10. Le proposte per una sistemazione delle fonti...................................................................................................53
CAPITOLO X ..............................................................................................................................................................55
PROCEDIMENTI E ATTI AMMINISTRATIVI ....................................................................................................55
1. Il modesto rilievo iniziale della tematica del procedimento ..............................................................................55
2. Le ragioni della successiva evoluzione ..............................................................................................................57
3. Le disposizioni dei Trattati rilevanti per il procedimento ..................................................................................59
4. I principi generali elaborati dalla giurisprudenza comunitaria ..........................................................................63
5. Le fasi del procedimento ..................................................................................................................................67
6. Il diritto di accesso ............................................................................................................................................71
7. Procedimenti amministrativi nazionali e influenza comunitaria .......................................................................74
8. I procedimenti composti ...................................................................................................................................77
9. Il dibattito sulla codificazione del procedimento ...............................................................................................79
10. Disciplina comunitaria e modelli di procedimento ...........................................................................................80
11. Gli atti amministrativi comunitari. Le decisioni ................................................................................................81
12. Raccomandazioni e pareri ................................................................................................................................85
13. L’invalidità degli atti amministrativi comunitari...............................................................................................88
14. L’invalidità degli atti amministrativi nazionali in contrasto con il diritto comunitario ......................................91
15. Altri aspetti del regime degli atti amministrativi nazionali sotto l’influenza comunitaria .................................99
CAPITOLO XI........................................................................................................................................................... 103
LA TUTELA GIURISDIZIONALE ...................................................................................................................... 103
1. La rilevanza della tutela giurisdizionale nel sistema comunitario ................................................................... 103
2. La composizione della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado .......................................................... 104
3. La posizione dei giudici e l’organizzazione della Corte e del Tribunale............................................................ 107
Pag. 170
4. L’attività della Corte e del Tribunale e le prospettive per una diversa organizzazione giurisdizionale ............ 108
5. La tutela degli “amministrati”: ordine degli argomenti .................................................................................... 109
6. L’azione di annullamento ................................................................................................................................. 109
7. Il regime processuale ..................................................................................................................................... 114
8. L’eccezione di invalidità ................................................................................................................................. 119
9. Il ricorso in carenza ........................................................................................................................................ 120
10. L’azione di danno per responsabilità extracontrattuale. Questioni generali................................................... 122
11. La responsabilità extracontrattuale della Comunità....................................................................................... 124
12. La responsabilità extracontrattuale degli Stati membri.................................................................................. 128
13. I recenti sviluppi della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto
comunitario ......................................................................................................................................................... 129
14. La ricaduta della giurisprudenza comunitaria sul regime della responsabilità extracontrattuale nei diritti
nazionali .............................................................................................................................................................. 135
15. Gli sviluppi in Italia del caso Francovich ......................................................................................................... 136
16. La questione della risarcibilità degli interessi legittimi ................................................................................... 138
17. Casi di giurisdizione piena di merito del giudice comunitario ......................................................................... 144
18. La questione di validità degli atti comunitari tramite la procedura di rinvio pregiudiziale ............................. 145
19. L’interpretazione del diritto comunitario attraverso la procedura di rinvio pregiudiziale .............................. 147
20. Le “giurisdizioni” competenti per il rinvio pregiudiziale ................................................................................. 149
21. Le condizioni del rinvio pregiudiziale ............................................................................................................. 152
22. Gli effetti delle sentenze pregiudiziali ............................................................................................................ 153
23. La procedura di rinvio pregiudiziale e la creazione di un sistema giudiziario europeo .................................... 154
24. L’influenza sul diritto processuale nazionale .................................................................................................. 155
25. L’effettività della tutela e gli strumenti cautelari ........................................................................................... 160
26. I nuovi poteri del giudice nazionale sulle questioni comunitarie .................................................................... 165
27. Lo sviluppo di forme di tutela non giurisdizionale .......................................................................................... 166
Pag. 171