Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla disciplina

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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla disciplina
FRANCESCO ROTONDI
LABLAW Studio Legale
Licenziamento
per giustificato motivo
oggettivo: dalla disciplina
vigente al progetto di riforma
In attesa della riforma e delle modifiche previste all’art. 18 della L. n. 300/1970 in merito alle conseguenze scaturenti dall’accertamento, in sede giudiziale, dell’illegittimità del licenziamento, appare utile ripercorrere in questa sede, brevemente,
le caratteristiche proprie del licenziamento individuale per
giustificato motivo oggettivo. Tipologia di licenziamento alla
quale il progetto di riforma riconnette ora conseguenze specifiche, in parte diverse dalla previsione della reintegrazione nel
posto di lavoro per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
La nozione del licenziamento
per giustificato motivo
oggettivo è riconducibile,
entro certi limiti,
all’ipotesi di licenziamento
per motivi economici.
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Va innanzitutto rammentato che non esiste una nozione di licenziamento per motivi economici, mentre è riconducibile, entro certi limiti, a tale ipotesi la nozione del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo che si ricava dall’art. 3 della L.
604/1966: “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta di un’ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro che scaturisce, prioritariamente, da
vicende e/o eventi che, incidendo sulla realtà aziendale in cui
il lavoratore è inserito, cagionano una effettiva e oggettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro.
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Si tratta di un’ipotesi di licenziamento che prevede comunque
un preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità o che, in mancanza comporta la corresponsione della relativa indennità:“in mancanza di
preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità
equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata
per il periodo di preavviso.
La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro” (art. 2118 c.c.).
Sono solitamente riconducibili alla fattispecie in parola ad
esempio, alcune ipotesi di riassetto organizzativo per una più
economica gestione dell’impresa purché caratterizzate da
presupposti oggettivi e non frutto di mera arbitrarietà (cfr.
Cass. 6 luglio 2005, n. 14215): la modifica dell’organizzazione
del lavoro mediante l’introduzione di nuovi macchinari, la informatizzazione dei servizi (cfr. Cass. 14.06.2005, n. 12769), la
riduzione del numero dei dipendenti (Cass. 11 giugno 2004,
n. 11124) ma anche la cessazione dell’attività produttiva (cfr.
Cass. 3.10.1996, n. 8670), la fine lavori in un cantiere (cfr. Cass.
22 ottobre 2008, n. 22417), la chiusura di una filiale o di un
reparto (cfr. Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068), con i limiti che
tali ultime fattispecie determinano dal punto di vista della prova datoriale di non poter impiegare il dipendente altrove (c.d.
onere di repechage - Cass. 14 giugno 2005, n. 12769). Inoltre,
il licenziamento può rendersi necessario anche per l’esigenza
di raggiungere una migliore efficienza produttiva attraverso la
redistribuzione delle attività sia all’interno del reparto o settore interessato dalla riorganizzazione, sia direttamente in capo
allo stesso imprenditore (cfr. Cass. 18 aprile 1991, n. 4164).
Secondo la giurisprudenza,
il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo
può derivare sia da ragioni di
mercato, estranee
alle scelte imprenditoriali,
sia da riorganizzazioni e
ristrutturazioni
operate dall’imprenditore.
In altri termini, secondo la giurisprudenza, il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo può derivare sia da ragioni di mercato che attengono a motivi estranei alle scelte imprenditoriali
e che sono quindi, in senso stretto, produttivi, sia da ragioni che
conseguono direttamente da riorganizzazioni e ristrutturazioni
operate dall’imprenditore. Va, tuttavia, considerato che, sempre
secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, il licenziamento giustificato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui
ambito rientra l’ipotesi del riassetto organizzativo, attuato per
la più economica gestione dell’impresa, è sottratto a valutazioni di merito da parte del giudice, perché frutto del principio di
libertà nell’esercizio dell’impresa sancito dall’art. 41 Cost. (cfr.
Cass. 29 novembre 2004, n. 22464).
Ciò significa, in definitiva, che l’imprenditore resta libero di assumere tutte le determinazioni più opportune per la gestione
dell’impresa, purché tali scelte siano verificabili nella loro effettività da parte del giudice ai fini della reale sussistenza del nesso
causale esistente tra l’esigenza organizzativa e il conseguente
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provvedimento di licenziamento. Tale principio è stato recentemente riaffermato anche in forza delle disposizioni introdotte
nel 2010 dal Collegato lavoro (L. 4 novembre 2010, n. 183): “in
tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui
all’articolo 409 del codice di procedura civile, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di
un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento
di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso
al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e
produttive che competono al datore di lavoro o al committente”.
Il datore di lavoro ha l’onere di provare:
- la sussistenza in concreto delle ragioni di carattere produttivoorganizzativo addotte;
- il nesso causale tra il motivo ed il recesso;
- l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili (c.d. obbligo di repechage).
Il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento
al prestatore di lavoro, salvo ulteriori requisiti di forma stabiliti dalla contrattazione collettiva. Il requisito della forma scritta
dell’atto di licenziamento non è soddisfatto da forme di comunicazione equipollenti (ad esempio, mediante affissione nei locali dell’impresa o sulla porta degli uffici ovvero sulla bacheca
del cantiere). In quanto negozio unilaterale recettizio, il licenziamento si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di
volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore,
anche se l’efficacia viene differita ad un momento successivo.
Il licenziamento intimato senza l’osservanza del requisito della forma scritta è nullo e, dunque, è inidoneo a determinare
l’estinzione del rapporto di lavoro: ne consegue il diritto del
lavoratore ad esperire le forme di tutela previste dalla legge.
Il licenziamento non sorretto
da giustificato motivo,
o intimato senza rispetto della
procedura, o contrario
a norme imperative,
può essere impugnato
dal lavoratore personalmente.
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Il licenziamento non sorretto da giustificato motivo, o intimato senza rispetto della procedura, o contrario a norme imperative (es. perché discriminatorio, o comminato nei periodi in
cui non è possibile recedere per tutela della lavoratrice madre) può essere impugnato dal lavoratore personalmente, ovvero dal sindacato cui questi è iscritto o da un legale munito
di procura speciale, entro il termine di 60 giorni dalla data del
licenziamento ovvero dalla successiva data di comunicazione
dei motivi, qualora richiesti (art. 6 L. 604/66). L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di
270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione
alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o
arbitrato. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti sia-
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no rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato
a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato
accordo (art. 32, c. 1 L. n. 183/2010).
Come è noto, le conseguenze giuridiche del licenziamento accertato giudizialmente come illegittimo, si distinguono tra la
cosiddetta tutela reale (disciplina più rigida, applicabile alle imprese con più di 15 dipendenti) e la cosiddetta tutela obbligatoria (applicabile alle imprese che occupano sino a 15 dipendenti).
Nel primo caso, in base alle ancora vigenti disposizioni dell’art.
18 L. n. 300/1970, la sentenza del giudice del lavoro comprende un ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente
nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro, oltre
al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, al
risarcimento del danno arrecato, pari alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire
dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione in
azienda. In ogni caso la somma dovuta a titolo di risarcimento
del danno non può essere inferiore ad un importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
Se il lavoratore non vuole
ritornare in azienda, può
scegliere di rinunciare alla
reintegrazione e richiedere il
pagamento di una indennità
sostitutiva.
Se il lavoratore non vuole ritornare in azienda, può scegliere
di rinunciare alla reintegrazione e richiedere il pagamento di
una indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della sua retribuzione globale di fatto. La scelta va comunicata entro 30 giorni
dalla comunicazione del deposito della sentenza. Qualora il
lavoratore, invitato a riprendere il lavoro a seguito di ordine
di reintegrazione, non si presenti in azienda entro 30 giorni,
ovvero non comunichi la sua volontà di optare per l’indennità
sostitutiva, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto (art. 18, c. 5, L. 300/1970).
Quando il licenziamento illegittimo è intimato da aziende occupanti sino a 15 dipendenti, la sentenza stabilisce un obbligo
alternativo in capo al datore di lavoro (art. 8 L. n. 604/66), il
quale può scegliere tra riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza ovvero pagare all’ex dipendente una indennità risarcitoria, compresa tra 2,5 e 6 mensilità (estensibile sino a 10 per i lavoratori con almeno dieci
anni di anzianità, e fino a 14 per i dipendenti in servizio da più
di venti anni). La misura dell’indennità è stabilita dal giudice
sulla base dell’anzianità di servizio, delle dimensioni aziendali,
nonché dal comportamento tenuto dalle parti.
Qualora il datore non provveda alla riassunzione nel termine
di legge, egli è tenuto a pagare l’indennità prevista, oltre all’indennità di mancato preavviso.
Il progetto di riforma interviene sulle conseguenze previste in
caso di riconoscimento della illegittimità del licenziamento con
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Il progetto di riforma
interviene sulle conseguenze
previste in caso di
riconoscimento della
illegittimità del licenziamento
e
prevede un altro elemento di
novità per le ipotesi di
licenziamento per giustificato
motivo oggettivo.
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riferimento alle aziende rientranti nel campo di applicazione
della tutela reale, ossia rientranti nel campo di applicazione
dell’art. 18 L. n. 300/1970, il cui testo viene completamento rivisto distinguendo tra diverse fattispecie.
In particolare, per quello che ci occupa, nel caso in cui il Giudice accerti la manifesta insussistenza del motivo oggettivo di
licenziamento, potrà disporre la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità che non potrà superare,
nel massimo, le dodici mensilità. Negli altri casi di annullamento del provvedimento per accertamento della non ricorrenza
del giustificato motivo, potrà invece essere disposta la sola
condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di
ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenuto conto delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità
di servizio del prestatore di lavoro, delle iniziative assunte da
questi per la ricerca di altra occupazione e del comportamento
delle parti nell’ambito della nuova procedura di conciliazione
preventiva prevista dall’art. 7 L. n. 604/1966. Tuttavia, qualora
nel corso del giudizio emerga che il licenziamento sia stato determinato da ragioni discriminatorie potranno trovare piena
applicazione le nuove previsioni della norma prevista per tali
eventualità che mantengono il pieno diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro per come lo conosciamo oggi.
Va infine ricordato che il progetto di riforma prevede un altro
elemento di novità per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – o per motivi economici – prevedendo una procedura di conciliazione preventiva. Infatti, non si
potrà procedere a tale tipologia di licenziamento, senza aver
preventivamente ed obbligatoriamente esperito un tentativo
di conciliazione presso la competente Direzione Territoriale
del Lavoro. Le modifiche introdotte all’art. 7 della L. n. 604/66
prevedono che, a fronte di un recesso motivato dalle disposizioni di cui all’art. 3, seconda parte della L. n. 604/66, il datore
di lavoro debba dichiararne l’intenzione, i motivi e le eventuali
misure di assistenza alla ricollocazione alla Direzione Territoriale del Lavoro. Quest’ultima entro sette giorni convoca le
parti, le quali possono essere assistite dalle OOSS o dai propri
legali o consulenti e tenta la conciliazione. La procedura deve
concludersi entro 20 giorni dalla convocazione. Se la conciliazione ha esito positivo, si avrà la risoluzione del rapporto. Se
invece il tentativo fallisce si aprirà il contenzioso e, nell’ipotesi in cui dovesse essere accertata la non giustificatezza del
recesso, potranno trovare applicazione le nuove disposizioni
dell’art. 18, così come riformato, con l’avvertenza che il Giudice valuterà il comportamento complessivo tenuto dalle parti
così come desumibile dal verbale di mancata conciliazione.
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