Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Da un soggetto già utilizzato per Uomo bianco va col tuo Dio (1971) Iñarritu ricava il suo ultimo film,
premiatissimo nei maggiori festival internazionali: prima della storia canonica dei pionieri alla conquista del
west, la nascita dell'America di oggi ha radici ancora più lontane e selvagge: tra queste storie di estrema
difficoltà e violenza c'è quella del cacciatore Hugh Grass e la sua terribile lotta con l'orso. Come in ogni buon mito
fondativo americano, lo scontro con la natura è anche l'incontro con se stessi e con la dimensione spirituale.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
effetti speciali:
scenografia:
costumi:
distribuzione:
156 MINUTI
USA
2015
ALEJANDRO GONZÁLEZ IÑÁRRITU
REVENANT DI MICHAEL PUNKE
ALEJANDRO GONZÁLEZ IÑÁRRITU, MARK L. SMITH
EMMANUEL LUBEZKI
STEPHEN MIRRIONE
RYŪICHI SAKAMOTO, CARSTEN NICOLAI, BRYCE DESSNER
RICHARD MCBRIDE, MATT SHUMWAY, JASON SMITH E CAMERON WALDBAUER
JACK FISK
JACQUELINE WEST
20TH CENTURY FOX
interpreti:
LEONARDO DICAPRIO (Hugh Glass), TOM HARDY (John Fitzgerald), DOMHNALL
GLEESON (Andrew Henry), WILL POULTER (Jim Bridger), FORREST GOODLUCK (Hawk), PAUL ANDERSON
(Anderson), LUKAS HAAS (Jones), DUANE HOWARD (Elk Dog), Brendan Fletcher (Fryman), KRISTOFFER JONER
(Murphy).
premi e nomination:
2016, premio Oscar Miglior regia a Alejandro González Iñárritu, Miglior attore
protagonista a Leonardo DiCaprio, Miglior fotografia a Emmanuel Lubezki, nove nomination tra cui Miglior film,
Miglior attore non protagonista a Tom Hardy, Miglior montaggio, Miglior scenografia, Migliori costumi, Miglior
trucco; 2016, Golden Globe: Miglior film drammatico, Miglior regista, Miglior attore in un film drammatico a
Leonardo DiCaprio; 2016, BAFTA Award: Miglior film, Miglior regista, Miglior attore protagonista, Migliore
fotografia, Miglior sonoro; 2016, MTV Movie Awards: candidatura per il miglior combattimento a Leonardo
DiCaprio e l'orso.
Alejandro González Iñárritu
Nato a Città del Messico, figlio del banchiere Héctor Gonzáles Gama e di L uz María Iñarritu, Alejandro Gonzáles
Iñarritu cresce a Narvarte, un quartiere della middle-class vicino al centro della capitale. È ancora bambino
quando suo padre dichiara la bancarotta, perdendo tutto. Il padre, nonostante le difficoltà economiche, trova la
forza per rialzarsi: diventato rivenditore di frutta e verdura al Mercado Central de Abasto, sarà fonte di enorme
ispirazione per Iñarritu, che vedrà in lui le doti di un guerriero. Fra i 17 e i 19 anni, Iñarritu attraversa l'Atlantico
su una nave da carico sulla quale lavora come mozzo. Visita l'Europa e l'Africa con solo mille dollari in tasca e vive
questi viaggi come una grande esperienza intellettuale e culturale. Appassionato di letteratura, divora i romanzi
degli scrittori esistenzialisti, e una volta tornato in patria decide di iscriversi all'Universidad Iberoamericana, corso
di comunicazione. Nel 1984 comincia a lavorare come annunciatore radiofonico in una stazione WFM messicana.
Dopo due anni diventa direttore della stessa radio che, simbolo della divulgazione della musica elettro-rock, per
ben 5 anni sarà la stazione più ascoltata in tutta la capitale. Entrerà nel mondo del cinema grazie alla musica:
firma infatti le colonne sonore di alcuni film messicani diretti da Víctor Manuel Casto e Hernando Name. Negli
Anni Novanta, crea con Raúl Olvera la Z Films che gli permetterà di approcciarsi a sceneggiatura, produzione e
direzione di cortometraggi, filmati, annunci, programmi televisivi. Già nel 1995, la Z Films arriva a essere una
delle più grandi case produttrici di cinema in Messico. Lui stesso dirige alcuni spot pubblicitari per Televisa, la
televisione messicana. A questi si aggiungono i cortometraggi Detrás del dinero (1995) con Miguel Bosé e El
timbre (1996). Inizia a lavorare con quello che sarà uno dei collaboratori con cui supererà la frontiera: Guillermo
Arriaga. Il primo risultato del loro lavoro è Amores Perros (2000) con Gael García Bernal e Adriana Barraza, un
thriller sanguigno e carico di tensione che descrive il Messico come una terra di contrasti e contraddizioni
violente. La pellicola ottiene un BAFTA come miglior film straniero, il Gran Premio della Critica a Cannes e il Young
Critics Award. Nel 2002, partecipa al film corale 11 settembre 2011 lavorando tra gli altri con Sean Penn e Ken
Loach. La pellicola otterrà il Premio Unesco e l'esperienza sarà così interessante che Iñarritu la replicherà nel
2007 con A ciascuno il suo cinema, dove invece lavorerà con grandi nomi come David Cronenberg, Jane Campion,
Michael Cimino, Las von Trier, Wim Wenders, Manoel de Oliveira, Joel e Ethan Coen, Nanni Moretti, Roman
Polanski, Théo Angelopulos e non solo. Ormai notato da Hollywood, il suo film seguente è un melodramma dalla
struttura a mosaico, 21 grammi, con un grande Sean Penn. Il film ottiene molti premi, fra cui la Coppa Volpi a
Sean Penn. Ormai dimostratosi come un regista su cui scommettere, il nuovo progetto di Iñárritu è l'ambizioso
Babel, del 2006. Quattro storie vengono collegate tra loro da individui distanti migliaia di chilometri. L'ossessione
per le coincidenze del destino e i giochi d'incastri valgono a Iñárritu la candidatura all'Oscar: è il primo autore
messicano a ricevere una nomination all'Oscar come miglior regista. Babel ottiene inoltre la Palma d'Oro a
Cannes. Il 2010 è l'anno di Biutiful, girato in una Barcellona popolare e dura con Javier Bardem, è la prima
pellicola in cui non collabora con Arriaga. Nel 2014 Iñarritu ottiene finalmente l'ambita statuetta con Birdman,
storia surreale di un divo in declino che annovera tra i suoi interpreti Michael Keaton, Edward Norton ed Emma
Stone. Il film apre la 71a Mostra del Cinema di Venezia e vince quattro premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia,
Miglior sceneggiatura originale e Miglior fotografia) e due Golden Globes. La vittoria si ripresenta l'anno
successivo con Revenant - Redivivo.
La parola ai protagonisti
Intervista a Alejandro González Iñárritu e Leonardo DiCaprio
Alejandro, come sei venuto a conoscenza della storia di Hugh Glass?
A.G.I.: È una storia leggendaria, di cui si sanno pochissimi fatti certi. Avevo letto una prima stesura della
sceneggiatura di Mark Smith, e ho capito subito che si trattava di un’opportunità per creare qualcosa di
importante.
I registi spesso usano l’espressione “superare la pagina” per descrivere il modo in cui intendono migliorare la
sceneggiatura di un film durante le riprese. Revenant è un’esperienza cinematografica unica, che rende perfetta
quella frase.
A.G.I.: Sono d’accordo. È quel genere di film in cui è più importante far vedere, piuttosto che spiegare. Si tratta di
andare oltre le parole e i dialoghi. È l’esperienza originaria del cinema: raccontare una storia quasi
esclusivamente per immagini è l’omaggio mig liore che si possa fare a questo linguaggio.
Che ricerche avete fatto per prepararvi?
A.G.I.: Ho letto un ottimo libro di uno storico, Jon T. Coleman, intitolato Here Lies Hugh Glass: A Mountain Man,
a Bear, and the Rise of the American Nation, oltre a numerosi altri libri e diari di cacciatori di pellicce dell’epoca. È
un contesto storico e sociale che non è stato approfondito molto, specialmente al cinema, ma si tratta di un
momento parecchio interessante nella storia degli Stati Uniti. Quelle erano persone che vivevano avventure reali,
dentro territori inesplorati.
L.D.C.: Alejandro mi ha consigliato come riferimenti i western di John Ford, i film di Tarkovskij e di Kurosawa,
Fitzcarraldo di Werner Herzog e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Dal punto di vista letterario, inoltre, ci
siamo rifatti a Jack London e a Joseph Conrad, oltre che ovviamente a Here Lies Hugh Glass.
Il film è ambientato all’inizio del XIX secolo, ma molti dei temi affrontati sono validi anche oggi: gli effetti del
consumismo, i problemi razziali, il modo in cui reagiamo verso gli atti di violenza…
A.G.I.: Il contesto dell’inizio del XIX secolo è estremamente interessante, ma è stato poco raccontato, perché ci
sono scarse testimonianze. Non c’era ancora la fotografia, e tutto quello che sappiamo ha i contorni della
leggenda, compresa la storia di Hugh Glass. Sappiamo che è sopravvissuto all’attacco di un grizzly e ha cercato di
vendicarsi nei confronti di chi lo aveva abbandonato, ma prima e dopo questo episodio la sua vita è un mistero.
Per dare un’ idea del contesto: la principale fonte di reddito dell’epoca erano le pelli di animali. Questo prima del
petrolio, prima dell’oro, prima ancora della conquista del West. Le uniche persone che avevano attraversato il
Paese erano state Lewis e Clark, anni prima. Il Paese era un crogiuolo di francesi, inglesi, messicani, spagnoli e
tribù di nativi americani. La legge non esisteva. Questi uomini hanno gettato le basi del nostro rapporto con la
natura. Di base, erano molto ignoranti. Erano mossi soprattutto da avidità. Non vedevano la natura come
qualcosa da rispettare, ed erano pronti a infrangere qualsiasi accordo con le tribù native. Era un mondo brutale. E
se siamo onesti, non possiamo non sentire un’assonanza con il nostro mondo. Il razzismo era ovunque e la
schiavitù era legale: avere la pelle di colore diverso cambiava ogni cosa. Fino a oggi, è sempre stato “buoni contro
cattivi” e “indiani contro cowboy”. Ma era più complesso di così.
L.D.C.: Dal momento in cui ho iniziato a informarmi mi sono reso conto che era un tassello importante nella
Storia americana, perché prima che il presidente degli Stati Uniti James K. Polk definisse i confini del paese “from
sea to shining sea”, quest’area era ancora una terra di nessuno, non regolamentata. Nel 1820, l’intero Oregon era
abitato da cacciatori di pelli francesi e inglesi, ma anche dagli indigeni: le tribù Arikara e Pawnee, che vivevano
ancora libere. Quella era un’America quasi senza legge, dove le persone agivano seguendo il proprio istinto di
sopravvivenza. E Hugh Glass doveva integrarsi con queste comunità indigene, aveva anche avuto un fig lio con
una donna Pawnee; ma allo stesso tempo lavorava per i bianchi come scout.
Revenant è un film senza compromessi, ambizioso e artistico. Come regista, quanto è stato difficile realizzare il
film che avevi in mente, restando all’interno delle logiche dell’industria?
A.G.I.: Onestamente, credo di avere fatto il film che volevo fare, che tutti desideravamo fare. Non c’è stato alcun
segreto, alcun trucco. Era chiaro a tutti che tipo di storia sarebbe stata. Ho passato anni a scrivere questo film.
Per tutta la mia vita ho avuto la fortuna di fare i film che volevo. Ho avuto il supporto e la passione di tutto lo
studio. Questo ci ha dato il film che volevamo. Non siamo mai scesi a compromessi e ne vado fiero. Nel contesto
di oggi, fare un film così è un privilegio.
La performance di Leonardo è straordinaria. Alejandro, com’è stato lavorare con lui?
A.G.I.: È stata un’esperienza bellissima. È un attore fantastico, che pensa come un regista. È stato sempre
presente, sensibile, coraggioso, intelligente. Non potrei essere più contento dell’esperienza che abbiamo vissuto.
Leo è in grado di farti capire tutto soltanto con gli occhi. E in questo film, che ha così poco dialogo, lui doveva
essere in grado di esprimere paura, freddo, tristezza, rabbia e tante altre emozioni simultanee soltanto con il
linguaggio del corpo. È stato affascinante come ha rapportato il suo corpo al personaggio.
Come hai espresso i sentimenti di Hugh senza parlare, visto che per la maggior parte del tempo sei solo nel bel
mezzo delle terre selvagge?
L.D.C.: Quella è stata per me la parte più eccitante del film, perché nella mia carriera ho interpretato molti
personaggi davvero chiacchieroni, quindi Revenant: Redivivo è stato un esperimento. Quando ho letto lo script
ho addirittura chiesto ad Alejandro di togliere ancora più battute, perché per me a importare era la
raffigurazione. Hugh Glass è un uomo che non spreca parole, che va dritto al punto, perché non vuole dover
necessariamente comunicare con le persone. Quello che attraversa lo vediamo nei suoi occhi, è così che viviamo
la sua storia. Non servono parole. Inoltre, molto del mio agire nel film non è stato programmato, perché volevo
cercare di reagire il più onestamente possibile a quello che la natura offriva.
Hugh Glass sopporta sofferenze indicibili, camminando per oltre 200 miglia attraverso le montagne innevate per
raggiungere il forte. Ma il suo è anche un viaggio spirituale, guidato da un fantasma.
L.D.C.: Alejandro ed io volevamo mettere in scena un viaggio esistenziale. La sceneggiatura è favolosa, ma la
storia in sé è davvero molto lineare: un uomo viene aggredito da un orso e abbandonato dai compagni, quindi va
alla ricerca del tizio che gli ha rovinato la vita. Questi per noi erano una sorta di grossi ‘segnalibri’, partendo dai
quali abbiamo iniziato a pensare alla poesia di quello che quest’uomo attraversa, suggestionato da tutto ciò di
cui fa esperienza nella natura selvaggia. Non è solo una survival story, né solamente un revenge movie: tratta
della lotta interiore di un uomo che combatte per ritrovare la volontà di sopravvivere dopo aver perso tutto ciò
che aveva.
A.G.I.: Ci sono due motori in questo viaggio. Il primo è la vendetta. Qualcuno ha sottratto a Glass la cosa a cui
tiene di più: suo figlio. Ma oltre la vendetta c’è l’amore per questo figlio e per l’altra persona che ha perduto, sua
moglie. È l’amore a farlo andare avanti. Ho voluto che Glass trovasse una risposta a questa domanda: che cosa c’è
dopo la vendetta? Non ti ridà mai indietro ciò che hai perso. E dunque se lo scopo della tua vita è la vendetta,
una volta che riesci a ottenerla, la tua vita non avrà più significato. Io volevo esplorare quel vuoto. Dentro di sé
Glass ha qualcos’altro, ed è amore.
Il film è stato girato in ordine cronologico?
A.G.I.: Sì, perché volevo imparare con il procedere delle riprese. Girare in sequenza fornisce a me e agli attori
l’opportunità di adattarci, riscrivere, levigare, trovare qualcosa da aggiungere mentre il viaggio continua. Dopo un
anno, ci si ritrova persone diverse, e le riprese di questo film sono durate un anno. Avere l’opportunità di scoprire
e comprendere un film lungo la strada è grandioso.
Viste le condizioni in cui avete girato hai fatto tu stesso esperienza di alcune delle sensazioni provate da Glass?
L.D.C.: Durante le riprese, immersi nel freddo delle montagne, abbiamo dovuto adattarci a ogni tipo di
circostanza, e la nostra stessa lotta interiore, causata della frustrazione per i cambiamenti climatici, per le
difficoltà legate al budget e per le altre complicazioni, è visibile sullo schermo: non c’è finzione, in questo film.
Perciò girarlo ha rappresentato una sorta di percorso esistenziale sia per me che per Alejandro, ed è stato anche
un viaggio spirituale per noi in molti sensi, perché rappresentava la perfetta fusione di violenza e bellezza, ed è
proprio questo che volevamo: mettere in scena la brutalità e la bellezza della natura.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
Periodo tra i meno frequentati del genere western, quello della prima colonizzazione ebbe per protagonisti i
"mountain men" o "trapper", uomini che vivevano a contatto con la natura selvaggia cacciando gli animali da
pelliccia e incontrando i nativi americani, o battendosi con loro. (...) il film si concentra sul calvario dell'uomo e
sulla sua sovrumana ostinazione a sopravvivere - solo, senza cibo, nell'ostile paesaggio invernale - e a vendicarsi
del fellone che lo ha tradito. (...) Revenant è un film epico che intreccia i filoni del survival e del revenge-movie
con straordinaria efficacia drammaturgica ed emotiva. Non dimentica, intanto, temi mitici tra i fondativi del
genere western, a cominciare dall'incontro, nelle terre incontaminate, tra l'uomo bianco e l'uomo rosso; né
trascura di far cenno alle stragi perpetrate al tempo delle guerre coloniali tra inglesi, francesi e relativi alleati
pellerossa. C'è - è vero - un punto più debole nel film, e sono le visioni oniriche del protagonista, troppo in linea
col "precedente" Iñárritu; e tuttavia non valgono a mozzarne il respiro epico, che prevale largamente sul resto.
Veniamo alla regia. Il virtuosismo di Iñárritu dietro la macchina da presa, il suo talento per il piano-sequenza (già
ampiamente dimostrato in Birdman) diventano qui più necessari, più organici a ciò che narra, dando vita a
sequenze en-plein-air maestose e indimenticabili: soprattutto la battaglia iniziale tra i cacciatori e gli indiani Ree e
la scena, quasi insopportabile per brutalità ma eccezionale, dell'orso che aggredisce Glass. Però è l'intero film,
nella superba fotografia di Emmanuel Lubez ki, a risultare immersivo e monumentale insieme; qualità che non
molti registi (a parte Terrence Malick e un pugno di altri) sono in grado di sommare.
Per concludere, Leonardo DiCaprio. La sua performance quasi muta, tutta barba e occhi dilatati dalla sofferenza,
è un saggio di tecnica dell'"immedesimazione" perfettamente assimilata dall'Actors Studio. Però non sarebbe
giusto dimenticare, nella parte speculare del cattivo Fitzgerald, l'ottimo Tom Hardy; e vanno ricordate anche le
musiche di Ryuiki Sakamoto, che aggiungono un plus a un film ricco di qualità come non è dato incontrarne
spesso.
Marianna Cappi. Mymovies.it
(...) Iñárritu prende in carico il progetto che in prima battuta doveva essere di John Hillcoat e mette in scena un
film quasi essenziale rispetto all'arabesco formale e narrativo che è stato spesso la bandiera del suo cinema: un
film che ha la pretesa di affondare il coltello (e sono tanti gli affondi di lama) niente meno che nell'essenza,
appunto, della natura dell'uomo. L'universo di Revenant - Redivivo è un universo manicheo: c'è la neve che gela e
c'è il fuoco che scalda; c'è il rispetto della parola data e c'è il tradimento; infine, e soprattutto, ci sono due idee di
uomo: quella incarnata da Glass, cui fanno da specchio altre figure, più attutite, e quella rappresentata da
Fitzgerald, per cui Dio è un scoiattolo che compare quando ne hai più bisogno, e va divorato in fretta, senza
pensarci su. La performance di Di Caprio, in gran parte (la parte migliore) quasi muta, non andrebbe oltre la
sensazione dell'effetto speciale, ben assecondato ma costruito, se non fosse che il film, pur insistendo
sull'aspetto estremo della lotta per la sopravvivenza - col racconto visivo delle più ardite pratiche chirurgiche e
gastronomiche -, non lascia che il dolore fisico del protagonista superi lo strappo dell'anima, stringendoli in un
unico nodo. Il personaggio di Hawk, di cui non c'è traccia nel libro di partenza né nella documentazione storica su
Hugh Glass, è un'invenzione utilitaristica ma, in fondo, necessaria per scaldare la motivazione del protagonista e
farne un "Gladiatore" dei ghiacci. Ad un cuore narrativo pulsante, benché a dir poco basilare, primitivo come
l'ambiente geografico e umano in cui è ambientato, Iñarritu accompagna un'estetica di sangue misto, che
combina, da un lato, un'immersione letterale nella natura e nel western iperrealista e, dall'altro lato, un
immaginario sentimentale sopra le righe, non proprio originale. (...). Ai confini del mondo, il messicano Inarritu
non incontra né Herzog né Malick: ritrova le proprie convinzioni cinematografiche, rinnova l'arte dello sfoggio,
ma la semplificazione degli attori in gioco e la potenza dello spazio scenico, temperando il narcisismo, operano a
vantaggio del film.
Aldo Spiniello. Sentieri Selvaggi
Le drammatiche e straordinarie avventure di Hugh Glass, trapper ed esploratore, in cerca di vendetta, dopo esser
stato abbandonato, dai suoi compagni di spedizione. (...) È la stessa storia, vera, alla base di Uomo bianco, va’ col
tuo dio (Man in the Wilderness) di Richard C. Sarafian, romanzata da Michael Punke nel 2003, e riscritta da
Iñárritu e da Mark L. Smith, in cerca di un altro colpaccio. Perché il potenziale è devastante: una vicenda
appassionante, un uomo in lotta con la natura e con la parte oscura di sé, che attraversa il lato selvaggio e
leggendario della storia di una nazione che ancora non esiste. Il cinema al suo massimo grado di potenza.
L’occasione è allettante. Ed ecco che, dopo l’estenuante Birdman, Iñárritu si lancia in un altro tour de force.
Riprese effettuate in condizioni ambientali proibitive, tra i ghiacci del Canada e della Terra del fuoco, anche a 30
gradi sottozero. E poi l’utilizzo della sola luce naturale, con la fotografia di Lubezki che ancora una volta sparge
meraviglie. L’idea originale, inoltre, era di rispettare, in produzione, l’ordine cronolog ico delle vicende, obiettivo
poi in parte ridimensionato proprio per le difficoltà climatiche. Ma il senso della sfida rimane intatto. Il desiderio
cieco e ossessivo di un cinema che cerca il suo limite estremo, quell’utopica linea di coincidenza tra l’artificio e la
natura, tra la riproduzione “artistica” e il mondo così com’è (o come è stato), tra la finzione e la realtà. È quella
tentazione che attraversa, puntualmente, la storia del mezzo, che prova a fare il salto dall’universo ideale
dell’espressione a quello materiale delle cose concrete. Con tutti i paradossi e le condanne che ne conseguono.
Perché se nella purezza vergine di quelle foreste e montagne innevate, se nel ritorno ai sacri territori del Genere
dei generi, Iñárritu sembra sognare la rinascita a una nuova vita, quasi fosse un altro battesimo, è pur vero che
Revenant conserva tutti i limiti e le zavorre di un cinema che non sa mai liberarsi dalle pesanti architetture dello
stile.
Certo, dopo il pirotecnico spettacolo di Birdman, Iñárritu pare ridimensionare, in un certo senso, la complessità
pretestuosa dei discorsi, la sua ambizione autoriale. Quanto meno sembra concentrarla definitivamente sulla
forma, su un’estetica che aspira quasi alla dimensione morale della verità. Riesce anche a essere convincente,
soprattutto nel modo in cui si aggancia agli scenari e all’immaginario western degli anni ’70, in cui la frontiera
diventa innanzitutto una questione interiore e la durezza del mondo si riappropria degli spazi sottratti al mito.
Ma resta a metà del guado. Perché non sa rinunciare ai virtuosismi e ai trucchi della messinscena, alla tentazione
del tocco di classe, del movimento di macchina sinuoso tra gli alberi o dell’effetto speciale ammiccante.
Nell’attimo stesso in cui sembra toccare la densità della materia bruta, lascia spazio al sovrannaturale lubezkiano
che sembra ormai un marchio di fabbrica, a quelle voci che arrivano da un altro spazio tempo, come fossimo
ancora, sempre in Malick. Predica la purezza, ma non ha il coraggio radicale di liberarsi dall’ornamento per
arrivare dritto all’essenz iale. Ha bisogno del trucco, della performance, a cominciare da quelle di DiCaprio e Tom
Hardy, senz’altro straordinari, ma anch’essi sotto sforzo, per forza di cose. Resta l’impressione di un bellissimo
film e di un Iñárritu, heart of glass, che manca il bersaglio e continua a restare imprigionato tra le pareti finte
dello spettacolo. Forse, a questo punto, il più grande regista iperrealista.
Marco Lucio Papaleo. Everyeye.it
La storia del trapper ed esploratore Hugh Glass ha assunto, nel corso di due secoli, i contorni di una vera e
propria leggenda della frontiera americana, ispirando varie figure letterarie e pellicole per il cinema, tra cui
Uomo bianco, va' col tuo dio! (Man in the Wilderness) del 1971. Nel 2002 Michael Punke dà alle stampe The
Revenant: A Novel of Revenge, romanzo che da subito desta interesse a Hollywood. (...) Che non sia un tipo
qualunque, Iñárritu, l'abbiamo sempre saputo e, con Birdman o L'imprevedibile virtù dell'ignoranza lo aveva
certamente confermato: un film imperfetto, retorico, anche banale nelle sue conclusioni, ma avvolgente,
coinvolgente, tecnicamente sbalorditivo e ricco di interpretazioni straordinarie e personali. Revenant, per certi
versi, ne è un'evoluzione minimalista, astratta, sanguigna, che non fa sconti e non ha interesse nel divertire o
intrattenere lo spettatore, quanto nel rappresentare due semplici istinti: quello alla sopravvivenza e quello alla
rabbia. È un survival movie con accenni (e un'esplosione finale) di revenge movie, ma nonostante la regia tenga a
porre lo spettatore sempre al centro della scena, non c'è l'impressione di "vivere" la storia come succedeva in
Birdman, quanto di "subirla" in tutta la sua abbacinante bellezza e crudezza naturale.
Marco Minniti. Quinlan.it
Si esce con sensazioni contrastanti, dalla visione dell’ultima opera di Alejandro Gonzalez Iñarritu. Laddove non ci
si voglia schierare (aprioristicamente) tra gli estimatori o i detrattori del regista messicano, personalità
controversa e ingombrante del cinema dell’ultimo quindicennio, questo Revenant – Redivivo necessita una
riflessione più complessa di quanto si potrebbe pensare. Un lavoro che mostra, nella dimensione di un
blockbuster Academy oriented, un interessante elemento di evoluzione in un cinema tanto personale quanto per
molti, comprensibilmente, respingente. (...) In realtà, Revenant (oltre ad essere ennesima vetrina per le doti
tecniche del regista, e per quelle attoriali di Leonardo DiCaprio e Tom Hardy) si pone come tappa, per Iñarritu, di
un percorso che tra mille contraddizioni sta trasformando le premesse del suo cinema. E che qui trova forse la
dimensione più adatta per esprimersi. (...) Nella messa in scena sanguigna, nervosa, fisica, dello scontro tra la
spedizione e gli indiani Ree, le doti tecniche del regista messicano riescono a dispiegarsi nel modo più efficace;
senza che la tendenza alla sovrastruttura, da sempre limite e peculiarità del cinema di Iñarritu, intacchi la brutale
essenzialità richiesta dalla storia. La macchina da presa incollata a volti e corpi degli attori, l’abbondanza di piani
ravvicinati, l’uso insistito del piano sequenza (tecnicamente pregevole quello che anima l’assalto dei Ree),
evidenziano una ricerca formale che, supportata dal lavoro sull’immagine di Emmanuel Lubezki, si integra
felicemente con i ritmi e il mood richiesto dalla vicenda. L’attacco del grizzly, culmine narrativo che chiude
idealmente la prima parte del film, introduce l’odissea (nella sua valenza letterale di ritorno a casa e vendetta)
che sarà vissuta da un protagonista la cui prova passa inevitabilmente in primo piano. Ma in questa fase, oltre a
evidenziare in modo insistito il volto e il corpo deturpato di DiCaprio, Iñarritu stenta a tenere a bada, ancora una
volta, la sua tendenza al formalismo. Con tutti gli squilibri che ne conseguono. (...) un susseguirsi di parentesi
oniriche, frammenti di sog ni e visioni, simbolismi di difficile lettura e giustificazione che costellano il viaggio del
protagonista; componenti che mal si integrano con l’essenzialità di una vicenda morale e di vendetta, chiara nelle
sue premesse e basilare nelle pulsioni a cui rimanda. Accantonati, apparentemente, i temi del destino e degli
incastri del caso (nella doppia dimensione della narrazione frammentata delle prime pellicole, e dell’unità di
tempo e luogo del recente Birdman) Iñarritu sembra qui voler recuperare questi elementi sul piano metafisico.
Andando a porli deliberatamente nella struttura di un’opera dichiaratamente improntata al realismo e alla
fisicità, introducendo così un elemento di stonatura che il film, nelle sue due ore e mezza di durata, non si
preoccupa mai di spiegare e giustificare. Iñarritu, vien fatto di pensare, non è Terrence Malick, e il suo film
condivide con le ultime opere di quest’ultimo solo la fotografia di Lubez ki; ma, prima ancora di ciò, è la vicenda
che racconta a non giustificare un simile approccio. La tendenza del regista all’esibizione esplicita delle marche
autoriali, tenuta a bada e opportunamente instradata nella prima parte del film, torna sovente fuori controllo
nelle fasi successive. Rischiando a più riprese di debordare. (...) Revenant è un film che va approcciato evitando il
più possibile i pregiudizi; non lasciando che la diffidenza verso un autore evidentemente innamorato della sua
estetica (prestato qui alla Hollywood più magniloquente) intacchi la serenità della valutazione. Iñarritu, al
contrario, sembra trovare per larga parte del film una sua ideale dimensione, nella narrazione di una vicenda
apparentemente lontana dalle sue corde; mostrando un’evoluz ione che, al netto delle evidenti cadute di tono e
velleità “autoriali” (nel senso più deteriore del termine) potrebbe portare più di una sorpresa nei successivi
sviluppi del suo cinema. È invero questa, più che le poco entusiasmanti discussioni sul numero di statuette che il
film riceverà (e sul raggiungimento o meno di questo traguardo per il suo protagonista) la curiosità più stimolante
che la visione di questo film ci ha lasciato.
Gabriele Niola. Badtaste.it
In occasione dell’uscita di Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, Quentin Tarantino raccontò di aver amato molto
la prima scena, quella in cui il protagonista si rompe una gamba ma lo stesso riesce a trascinarsi fuori da una cava
d’argento e strisciare attraverso il deserto fino alla salvezza. In realtà noi lo vediamo solo iniziare a strisciare nel
deserto, per poi capire che ce l’ha fatta nella scena seguente, ambientata anni dopo. Tarantino diceva che in
quell’ellissi c’è tutto un altro possibile film non girato, uno su come quest’uomo così tenace non è morto ma ha
attraversato chissà cosa per tornare a casa solo armato della sua rabbia. Quel film ora esiste e si intitola
Revenant. L’opera di Iñarritu è in realtà una storia molto classica che viene distorta, manipolata e mascherata da
un esasperato realismo (raggiunto con molta computer grafica) fino a sembrare irriconoscibile. (...) a partire dalla
lavorazione e fino alle scelte di fotografia dalle sole luci naturali (e quasi solo al tramonto), mette in scena la
violenza e la brutalità, l’uomo come animale in mezzo agli altri animali, braccato dai suoi pari, dalla fauna e dalle
temperature. E forse questa è la parte più sorprendente di un film decisamente troppo lungo, la maniera in cui la
morte sia una presenza fissa, una sorta di andamento da road movie malato, simile molto alla spirale infernale di
Apocalypse Now!, durante il quale il protagonista, di stazione in stazione, incontra solo follia e morte, massacro e
sangue, organi interni e un freddo che sembra uccidere anche la flora. (...) Non ci sono dubbi riguardo alla
meraviglia del lavoro di Lubetzki, direttore della fotografia che fonde l’estetica maturata con Terrence Malick alla
fluidità di una steadycam che sembra fluttuare come nel Faust di Sokurov anche nelle molte scene d’azione
riprese come raramente si è visto. Di perplessità è invece forse lecito averne riguardo le esplicite aspirazioni
poetiche del regista, che tempesta il viaggio del protagonista di eventi clamorosi e premonitori, meteoriti che gli
passano sulla testa, valanghe dietro di lui e passaggi d’animali, una natura indifferente e più grande dell’uomo nei
riguardi della quale però c’è un esasperato piacere della contemplazione a fronte del minimo senso.
Mario Bonaldi. Rolling Stones
Alcuni chef sostengono che la cosa più importante per un grande piatto, prima ancora di tecnica, originalità,
presentazione, sia la qualità degli ingredienti. Se applichiamo questa formula al cinema, possiamo affermare
tranquillamente che un film come Revenant-Redivivo ha ingredienti pazzeschi: un regista, Iñárritu, fresco di Oscar
per l’osannato Birdman; un direttore della fotografia, Lubecki, tra i migliori in circolazione (Oscar per Gravity e
Birdman); il più importante attore di questi anni, Leonardo DiCaprio, in cerca della performance definitiva che gli
darà finalmente quel benedetto Oscar che doveva vincere per The Wolf of Wall Street; una colonna sonora
altrettanto da Oscar (...) e, non ultima, una storia epica (ma perlopiù reale) come quella di Hugh Glass, cacciatore
di pellicce nell’America inesplorata d’inizio Ottocento, macellato da un grizzly e tradito dai suoi compagni, morto
e risorto e abbandonato dentro una natura ostile e bellissima, la sua pelle straziata tenuta insieme solo in virtù
del sentimento della vendetta. Il pregio maggiore di Revenant è riuscire a mantenere un equilibrio miracoloso tra
la tensione narrativa, che non diminuisce mai nelle due ore e mezzo di film, e un tono poetico/contemplativo in
stile Terrence Malick, che resta il più grande cantore della natura americana. Il riferimento più vicino a Revenant
potrebbe però essere il western metafisico di The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford
(2007), ma senza le sue lungaggini eccessive e i silenzi forzati. La macchina da presa di Iñárritu accompagna il
viaggio di Glass a distanza estremamente ravvicinata, senza timore di appannarsi per il suo fiato difficoltoso o di
macchiarsi del suo sangue: l’autore di Revenant è lì, con i piedi immersi nella neve e nell’acqua insieme al suo
protagonista, incurante del gelo, del dolore e della paura. E noi siamo con lui. A questo film qualcuno continuerà
a preferire Birdman, più programmaticamente artsy e ambizioso, ma altri (compreso chi scrive) rimarranno
convinti che Revenant sia il miglior film di Iñárritu: un racconto maestoso che non ha un solo dettaglio di troppo,
in cui tutto appare spontaneo, indispensabile, e al tempo stesso controllato in ogni sua minima parte.
Andrea Facch in. Bestmovie.it
È la scena più feroce (...) quattro minuti di pura ferocia, realizzati sì con le magie della CGI, ma non solo. Perché
dietro ai movimenti dell’orso c’è uno stuntman, Glenn Ennis, che ha raccontato il making of della scena. «Il mio
compito era replicare i movimenti di un orso in tutto e per tutto, su questo il regista è stato irremovibile – ha
spiegato – . Per questo ho passato ore a guardare filmati di attacchi per studiare le strategie d’attacco e
purtroppo c’è chi è abbastanza stupido e imprudente da avvicinarsi troppo a questi animali. In uno di questi
filmati ho visto un orso con le zampe sopra la testa di un povero malcapitato, così ho cercato di farlo anch’io sul
set, quando spingo DiCaprio nel fang o». Ennis, quindi, è diventato un Grizzly enorme solo in post-produzione, e
DiCaprio aveva attaccati dei cavi che lo strattonavano da una parte e dall’altra. «L’abbiamo girata mille volte, per
altro senza nessun tipo di montaggio (infatti è un piano sequenza, ndr)».