Settembre 1943, fuga dalle carceri di Pola - Arena di Pola

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Settembre 1943, fuga dalle carceri di Pola - Arena di Pola
Arena di Pola
Settembre 1943, fuga dalle carceri di Pola
Settembre 1943, fuga dalle carceri di Pola
La Signora Edda Molinari Fròsini ha letto le tre versioni della fuga dei detenuti dalle carceri di Pola nel settembre 1943 che
sono state riportate sul numero di settembre 2013 de “L’Arena di Pola” e mi ha riferito una sua
personale testimonianza, al meglio di quanto può ricordare, autorizzandomi a pubblicarla. Chi avesse ulteriori notizie
sull’argomento è invitato a scrivere alla redazione.
Tito Lucilio Sidari
Io vidi una fuga di ben pochi detenuti, direi circa 20, che molto probabilmente avvenne prima della fuga di massa che si
svolse il 12 o 14 o 16 settembre, secondo le versioni che ho letto. O, forse, fu solo la prima parte di quella grande
evasione di circa 200 uomini, ma io non potei vedere la scena in tutto il suo sviluppo. La mia famiglia, composta da papà
Molinari, mamma, noi tre figli, una nonna e una zia, abitava in una bella villetta a due piani, costruita in solida pietra
lungo la Via Gerolamo Muzio, che saliva al Monte Paradiso, al numero 51, tra la Via Michele de’ Facchinetti a
valle e la Via Lodovico Ariosto, che prima si chiamava Via Metastasio, a monte. Dietro, c’era la Via Domenico
Rossetti, già Via del Pra’ dei Sette Moreri. A piano terra abitavano due famiglie, una del Signor Maren, uno dei
secondini delle vicine carceri, l’altra forse di un altro secondino. Al primo piano abitavamo noi ed avevamo un
terrazzino sopra la porta d’ingresso principale; sul retro avevamo un bel giardino pieno di fiori e di alberi da
frutto, curati personalmente da mio papà. Ricordo che una volta, durante la guerra, bussarono alla porta due soldati
tedeschi, penso due ufficiali; aprì mia mamma e i due, senza troppi complimenti, proseguirono verso il giardino per
esaminarlo; ella, che capiva perfettamente la loro lingua avendo frequentato da bambina le scuole tedesche di Pola,
intese che essi pensavano di poter portare nel giardino alcuni cavalli, ma che si rendevano conto di non poterlo fare
perché il corridoio di accesso aveva una porta troppo stretta; fu molto lieta che se ne andassero senza requisire il
giardino. Nello stesso isolato, di fianco alla nostra casa, si trovava la casa del Signor Pilìa, che venne totalmente
spazzata via da una bomba, ed abitava lì anche il Colonnello Caracciolo.
Le “Carceri Centrali” si trovavano a poco più di cento metri da casa nostra (dietro il palazzo che ora ospita
gli archivi originali del Catasto di Pola), in Via Ugo Foscolo, che prima si chiamava Via dei Martiri, ma che noi spesso
chiamavamo Via degli Arditi anche se questa via si trovava poco oltre, in discesa verso quello che era il Parco Marina.
Un giorno all’inizio di settembre 1943 avvenne la fuga; naturalmente era dopo l’8 settembre, quando tutti
o quasi tutti avevano inneggiato alla “fine della guerra”, mentre mio papà tristemente aveva detto: «Ma
quale festa? Solo ora per noi, qui a Pola, comincerà la vera guerra!». Io, che avevo nove anni, mi trovavo sul terrazzino
quando vidi parecchi uomini, vestiti in modo strano, scendere lungo quei pochi metri della Via Muzio, che era in discesa,
con mosse circospette ma veloci, rasentando i muri e cercando di raggiungere l’angolo con la Via de’
Facchinetti. Erano vestiti con le divise da carcerati, a strisce, ma io non le conoscevo; vennero fatti segno a molti colpi
d’arma da fuoco, probabilmente fucilate, ma io non vidi nessuno accasciarsi colpito; invece vidi molto bene che
uno di essi aveva una seria ferita ad un occhio ed un altro aveva un braccio ferito. Ripensandoci ora, potrebbe essersi
trattato forse di ferite ricevute nelle carceri o altrove, prima della carcerazione.
Mio papà era in casa ed appena udì i primi spari si precipitò sul terrazzino per trascinarmi via: «Via, via! Non capisci che
stanno sparando? Via, prima che ti colpiscano!». Infatti diverse pallottole colpirono il fronte della villetta e le loro tracce
rimasero ben visibili. Così, per forza di cose, si interruppe la mia visione diretta di quanto stava accadendo; tuttavia nelle
ore successive non si ebbe notizia di alcun morto o ferito steso a terra nelle vicinanze. La Via de’ Facchinetti,
anch’essa in discesa, terminava in un’ampia pineta nelle immediate vicinanze del Campo Littorio, il bel
campo di atletica della GIL, che si affacciava su Via Promontore. E’ molto probabile che nella pineta i fuggitivi
avessero fatto perdere le proprie tracce almeno per un breve periodo; comunque sia, sembra che nessuno di loro fosse
stato catturato nuovamente in quei pressi. Fu subito chiaro a tutti e chiarissimo ai tedeschi che i secondini avevano
deliberatamente lasciato aperte alcune celle, per pietà, per consentire di fuggire a uomini che altrimenti non avrebbero
avuto scampo con i nuovi padroni della situazione. Perciò i secondini, a posteriori, si sentirono terrorizzati del loro atto ed
ebbero ritorsioni dai tedeschi, sulle quali però non ho notizie precise. Io rimasi sconvolta da quanto avevo visto, tanto che
mi venne l’itterizia, con una forte febbre.
Sono tornata nel 2001 a vedere la mia casa in Via Muzio, oggi Via Radi: i muri sono ancora robusti, ma tutto è
nell’abbandono più completo; gli infissi non sono mai stati riverniciati in 60 anni; sul muro bianco frontale ho
ancora potuto vedere tracce del lavoro a martellina di mio papà, che aveva cancellato una scritta fatta di notte con il
catrame: «Živijo Tito! Pula je naš!». Ho chiesto il permesso di vedere il giardino: una cosa terribile. Ho chiesto in
italiano alla padrona un bicchiere d’acqua; mi ha risposto in slavo che per me non c’era acqua.
Edda Molinari Fròsini
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