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Ugo Zappa Mi chiamo Ugo Zappa e sono nato a Milano il 12 maggio 1921. Sono andato militare nel 1941 a Vipiteno e a Malles, dove è stata creata una compagnia di Arditi. Abbiamo fatto diversi corsi di addestramento alla guerriglia, il corso sciatori e rocciatori. Passati un po’ di mesi tra lo Stelvio, Merano e Dobiaco, la compagnia non funzionava più e ci hanno mandati a Napoli. Io ho firmato per diventare volontario di guerra e insieme alla compagnia Mortai di Ravenna ci hanno mandati in Russia. Ho fatto la trincea e ho avuto la grande fortuna di venire ferito da un colpo di katiuscia e di trovarmi quindi all’ospedale da campo mentre i battaglioni russi sfondavano il fronte. Nella trincea penso siano morti tutti, io dall’ospedale ho fatto in tempo a ripiegare, anche se ho dovuto camminare per molti giorni in mezzo alla neve e in mezzo ai cadaveri. Una volta rientrato, sono stati festeggiamenti. L'8 settembre , come tutti, sono scappato dall’esercito, ho attraversato le montagne per una quindicina di giorni e sono arrivato a Bellano. Lì c'era mia zia con cui ho sempre vissuto, perché ero orfano di genitori. Mi sono adattato un po' a fare il manovale in ferrovia, ma dopo un certo periodo hanno richiamato la mia classe. Io non ho voluto andare nella Republik e sono andato nei partigiani a Ca' Maggiore nella Compagnia Rosselli. Dopo un mese circa sono arrivati i Tedeschi che hanno fatto un grande rastrellamento. Siamo scappati tutti e scendendo per la valle io sono arrivato al ponte di Taceno. Probabilmente l'avrei fatta franca se non fosse stato per un tizio di Bellano, della milizia ferroviaria, che mi ha riconosciuto e mi ha additato ai Tedeschi, dicendo che non ero un boscaiolo come il gruppo in cui mi nascondevo. Mi hanno fatto i primi interrogatori con qualc he schiaffone e mi hanno portato nel teatrino di Casargo. Lì ho conosciuto Antonio Scollo, anche lui nei partigiani. Da lì ci hanno portato in una scuola a Dellebbio, dove conoscevo gente e sono riuscito a fare arrivare mia zia. Finalmente l'ho rivista ed è stata l’ultima volta prima di andare in Germania. Sui carri bestiame ci hanno portati a San Vittore, nel quinto raggio. La camera mi pare fosse la 221, una cameretta singola. Eravamo prigionieri politici ribelli e ci tenevano separati da quelli comuni. Siamo rimasti un paio di mesi, penso, durante i quali abbiamo vissuto una notte terribile, terribile per tutti perché è stata la notte che hanno prelevato i quindici da portare in piazzale Loreto. Eravamo tutti col cuore sospeso perché ogni tanto arrivavano a scegliere. Dopo non so quanti giorni ci hanno trasferiti tutti in pullman a Bolzano. Nei dintorni di Brescia sono riuscito a buttare un biglietto per terra per avvertire mia zia che stavo andando in Germania. Mi pare fosse il 24 giugno 1944. Siamo arrivati nel lager di Bolzano. C'era un enorme portone di ingresso, in legno, un grande cortile e sulla sinistra dei casermoni con una infinità di letti. Mi ricordo che alle spalle del mio letto c'era un muro divisorio che non arrivava fino al soffitto. Di là si sentivano le voci delle donne. La sera salivamo sulla spalliera del letto per osservare le donne che cantavano, ballavano e ci facevano schiamazzi. Nel lager di Bolzano c'era un fraticello che ci rincuorava tutti. Mi ricordo anche di una donna, una mia vicina di casa di Milano in Piazza Lega Lombarda, che era stata arrestata perché si trovava in un ufficio insieme a degli Americani. Io nel lager ero addetto alle pulizie, mi portavo dietro una carriola e andavo in giro a fare pulizie. Non ho fatto altro che questo, fino al giorno che mi hanno fatto smettere, mi hanno fatto prendere la mia roba e mi hanno portato alla stazione. Lì mi hanno messo sui carri e siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi, abbiamo camminato lungo un grande viale di terra e siamo arrivati davanti a un enorme cancello, con la famosa scritta in tedesco il lavoro rende felici, o qualcosa del genere. Flossenbürg era un normale campo di concentramento. Quello che ci ha colpito erano le docce, perché gli anziani del campo ci hanno avvicinato e ci hanno detto “attenzione alle docce, lì dentro gasano gli ebrei. Se voi non siete ebrei, ma siete partigiani non vi fanno niente”. Poi altra spiegazione degli anziani “là in fondo c'è il blocco 22, dei moribondi. Fra qualche giorno, quello che vi danno da mangiare non basterà, avrete fame. Andate vicino ai moribondi e prendetegli pure il cibo, a loro non serve più”. Mi hanno messo nel blocco 23 e dopo un po' di giorni ci hanno inquadrati. Ci hanno vestito con la divisa, che mi spiace di non essere riuscito a riportare a casa - sarebbe stato un bel ricordo - ma sono riuscito a portare a casa solo il triangolo rosso. Il mio numero era il 21.752. Poi hanno preso noi ragazzi più grandi e grossi e ci hanno portato a scavare sassi in una miniera a qualche chilometro da Flossenbürg. Lì ho passato circa una ventina di giorni a picchiare sassi, di cui dicevano di aver bisogno per fare gli argini alle strade. Dopo un certo periodo ci hanno messi tutti in riga e ci hanno chiesto chi era meccanico, chi era elettricista. I giovani li mandavano a Bergen Belsen. Io ho detto che ero un meccanico e mi hanno messo tra quelli che dovevano essere trasferiti nel reparto dei meccanici. Purtroppo, in attesa del trasferimento, nel frattempo mi è venuta la pleurite. Pensavo di lasciarci le penne. Fra di noi c'erano dei medici che mi hanno detto "non dire che hai la pleurite", perché se sanno che sei ammalato ti mandano al blocco 22. Quando facevamo la stufa - che voleva dire mettersi vicino alla parete del blocco per riscaldarsi a vicenda, prima quelli dentro il gruppo, poi quelli fuori - gentilmente tutti i compagni mi tenevano sempre dentro per via della pleurite. Una volta passata la pleurite ho cominciato a soffrire la fame e anche io andavo a prendere le razioni di cibo dei moribondi. Vivevamo nel terrore delle docce, perché purtroppo abbiamo assistito alla fine di un paio di gruppi di ebrei. Entravano vivi e uscivano cadaveri, portati fuori dai portantini. Una cosa impressionante. Un’altra cosa che non posso dimenticare è il fumo che usciva dal forno crematorio, schifoso. I primi tempi faceva venire la nausea, poi ci si è abituati a mangiare nonostante quell’odore. Quando recentemente qualcuno ha messo in discussione l’esistenza dei forni crematori, io ho risposto scrivendo su un giornale che inviterei volentieri questi signori nel blocco di Flossenbürg per sentire l’odore e capire cosa significano le parole lager e forno crematorio. A un certo punto mi hanno mandato come meccanico ad Augsburg per lavorare alla Messerschmitt. Siamo arrivati dopo un giorno o due di viaggio. Qui mi è stato dato il numero di matricola 117.064. Naturalmente non mi hanno messo a fare il meccanico, ma a trasportare bombole di ossigeno per le lavorazioni degli aerei. Poi mi hanno fatto fare il battitore, dovevo battere delle lastre di lamiera e dargli la forma di piccole portiere. Siccome ero debole e i capannoni erano freddi perché non riscaldati, ogni tanto mi addormentavo su questi pezzi e mi sono preso una fila di sberle. All’officina i primi tempi ci andavamo in treno, c’era un binario che partiva dal campo e arrivava direttamente alla Messerschmitt. Poi gli Americani hanno bombardato la ferrovia e ci dovevamo andare a piedi. La neve si appiccicava agli zoccoli e molti di noi cadevano, così le SS a legnate li facevano tornare in piedi. Nella fabbrica c'erano dei civili. Qualcuno ci passava anche le croste del pane, mentre altri, specie un capoccione civile, che ricordo bene perché mi ha lasciato qualche segno sulla schiena, controllava tutti i pezzi e se qualcuno aveva sbagliato indossava il camice bianco, si metteva i guanti, prendeva un randello di gomma ed erano bastonate che ti arrivavano. Come in tutti i lager, usavamo questo Gummi perché non lasciava ferite, ma poteva rompere le reni internamente. Il campo di Augsburg invece delle solite baracche aveva come dei capannoni, che d’inverno erano addirittura riscaldati. Nei letti si dormiva in tre. Anche il cibo era abbastanza abbondante e discreto. In tutto eravamo un centinaio. Noi Italiani una decina. Ho conosciuto un professore ebreo, mi pare ungherese, non ricordo il nome, che parlava tre o quattro lingue fra cui l'italiano. Era meraviglioso, ci teneva tutti allegri, anche se lui era conciato peggio di tutti. Per questo suo discorrere con tutti il capo blocco non lo poteva vedere e un giorno abbiamo saputo che l'avevano finito a legnate. Il sabato pomeriggio e la domenica ci facevano fare festa e allora dovevamo assistere alle impiccagioni. Augsburg era noto per le impiccagioni. Il sabato pomeriggio ci radunavano in un enorme capannone dove era la forca. Ci hanno fatto imparare il nodo scorsoio e una volta seduti ci spiegavano perché li impiccavano. In linea di massima erano Russi, qualche ebreo, ma soprattutto Russi. Era gente che tentava di scappare. Li prendevano e li tenevano vivi fino al sabato pomeriggio. Ogni sabato ce n'erano quattro o cinque, che dovevano servire da lezione per noi. La domenica non si lavorava ed era buono per riposare, perché cominciavano ad arrivare i bombardamenti aerei e spesso di notte dovevamo uscire dai nostri capannoni, andare nei fossati che avevano scavato e passarci la notte, in mezzo alla neve. Gli Americani oramai erano vicini. Un giorno ci hanno evacuati. Ci hanno messi tutti in colonna, ci hanno dato la solita fetta di pane e margarina più un pezzo di salame, e ci hanno fatto camminare credo per un giorno e una notte. Ci siamo fermati in un posto in attesa di altri gruppi, perché dovevamo rientrare tutti a Dachau. Ci hanno poi spiegato che il famoso signor Himmler aveva dato l’ordine di mettere tutti quelli che rientravano dai vari campi su vagoni bestiame attorno a Dachau e di lasciarveli morire dentro. Lì purtroppo ho perso due amici, uno di Trieste e uno di Milano. Quello di Trieste aveva sui quarantacinq ue anni - la moglie mi ha scritto - , quello di Milano aveva solo vent’anni. Erano mezzo moribondi e mi hanno detto che li avrebbe caricati sui camion, invece abbiamo sentito la solita sparatoria quando noi eravamo a circa duecento metri. Abbiamo camminato per qualche giorno e una notte ci hanno fermati in un bosco. Qui ho pensato che andare a Dachau e crepare in un vagone bestiame non era una bella cosa, tanto valeva tentare di scappare qui. Al massimo mi avrebbero sparato. Invece ce l'ho fatta! Ho aspettato che le guardie dormissero. Anche qualche guardia ogni tanto cominciava a tagliare la corda, perché oramai gli Americani li avevamo alle spalle. Mi sono guardato in giro, tutto era tranquillo. Ho cominciato a strisciare per terra tra le piante e sono arrivato a un muro. “E’ una casa” ho pensato, sono saltato dall'altra parte e invece era un cimitero. Sono riuscito a spostare una lastra di tomba, ho visto che era vuota, “ mi nascondo qua” ho detto, e ci ho passato la notte. La mattina dopo ho camminato fino a un fosso. Lì ho trovato delle lumache. Con me avevo delle bustine di paprika. Non ho mai più mangiato niente di così meraviglioso. Dopo aver vagato per qualche giorno sono riuscito ad arrivare vicino ad una cascina, dove c’era un giovanotto, un polacco come dopo ho saputo. Ci siamo capiti con qualche parola di russo, francese e tedesco. Mi ha portato in salvo in una stalla. Mi ha detto “stai tranquillo, qui non ti tocca nessuno. Stanno arrivando gli Americani” e mi ha portato da mangiare e da bere, tanto latte e cibo da star male. Dopo qualche giorno mi sveglio e mi trovo davanti quattro spilungoni con la divisa americana. Il sergente parlava un po’ di italiano per cui gli ho potuto spiegare chi ero. Mi hanno portato in una casa dove con il mitra alla mano hanno obbligato delle persone a darmi abiti, scarpe e indumenti intimi. Lì ho lasciato la mia divisa di galeotto. Poi mi hanno portato in un campo dove mi hanno lasciato dicendo “questo è un reduce del lager, trattatelo bene”. Sono rimasto parecchi giorni, mi pare fino a maggio. Mi hanno dato un foglio di carta della Croce Rossa e finalmente sono riuscito a scrivere a mia zia. Mi hanno rimesso in forma bene, riabituandomi a mangiare piano piano, con i brodini e le zuppe. In molti erano già morti di indigestione. Sono rimasto fino alla fine di giugno. Poi sono andato a Monaco e di lì in treno fino a Brescia su un treno civile con le carrozze vecchissime, a cui mancavano anche i vetri. A Brescia di altri treni non ce n'erano, probabilmente non potevano continuare perché c'era qualcosa di rotto, e allora ho deciso di andare sulla statale per Milano e vedere se c’era qualche camionista. Combinazione, ho trovato proprio un camionista. Gli ho spiegato chi ero, da dove venivo, perché portavo il triangolo. Mi ha caricato e mi ha portato fino a piazzale Loreto. Lì quando hanno visto il mio triangolo tutti volevano accompagnarmi a casa. Così mi hanno portato fino a Piazza Lega Lombarda, dove la portinaia quando mi ha visto ha urlato “è tornato l’Ugo”. Finalmente ho riabbracciato mia zia. Di tutti quegli anni di sofferenza ho un diario. Quello relativo al periodo in Russia l’ho scritto proprio lì sul posto, quello della Germania l’ho buttato giù dopo. Ogni tanto mi veniva in mente qualcosa e la scrivevo. E’ sempre nel mio cassetto, non ne ho mai fatto nulla. Dei miei compagni partiti con me da Bolzano ci siamo salvati in pochi. Alcuni sono morti subito dopo il rientro per le malattie che avevano contratto nei campi.