Generare: via d`uscita della crisi

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A condizione di superare la rimozione che oggi ne cela la ricchezza,
l’esperienza antropologica originaria del generare può dare un contributo
prezioso nella ricerca di una via d’uscita dalla crisi economica, sociale e
morale nella quale ci stiamo dibattendo. Il generare, infatti, coglie alcuni
tratti dell’esperienza umana che, se recuperati, possono rivelarsi
strategici nel costruire quelle nuove condizioni culturali senza le quali
diventa molto difficile accedere al domani.
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di Mauro Magatti
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Italia è diventata un Paese per vecchi: poche nascite,
scarse opportunità per i giovani, invecchiamento della popolazione. Ma non si tratta di un caso isolato:
con un’intensità leggermente inferiore, tale tendenza
è generalizzata a tutti i Paesi avanzati. Al punto che
sembra possibile parlare di una relazione inversa: superata una certa soglia, la crescita economica tende ad associarsi al
blocco demografico. Quasi che il maggior benessere ci rendesse
più autocentrati e, di conseguenza, meno disposti – si potrebbe
arrivare a dire, meno capaci – a rispettare il patto implicito tra le
generazioni: nel corso della propria vita, ci si deve prendere cura
dei vecchi e dei bambini.
La questione è così profonda da travalicare il
versante biologico: è proprio l’esperienza del
Mauro Magatti
«generare» a diventare estranea.
è docente di Sociologia generale
all’Università Cattolica di Milano, dov’è
Un tale fenomeno ha moltissime cause, di cui si
preside della Facoltà di Sociologia; è docente discute molto ma di cui non ho qui la possibidi Sociologia della religione presso la Facoltà lità di occuparmi. Più limitatamente, in queste
Teologica dell’Italia settentrionale. Tra le sue pagine voglio concentrarmi su alcune delle impubblicazioni più recenti: Libertà
plicazioni più strettamente culturali che un tale
immaginaria. Le illusioni del capitalismo
fenomeno porta con sé.
tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009; The Negli ultimi decenni, l’idea di libertà che si è afcity of flows. Territories, agencies and
fermata in Occidente è stata tutta centrata sulinstitutions (a cura di, con L. Gherardi), Bruno l’Io e sull’aumento delle sue possibilità di azioMondadori, Milano 2010.
ne. Ci siamo convinti che più siamo indipen-
L’
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denti («autonomi») e più scelte abbiamo davanti a noi, più siamo
liberi. Al punto da considerare qualunque legame – affettivo, sociale, di senso – una limitazione insopportabile.
Un tale modello produce gli esiti che la crisi mette in luce: le società avanzate si ritrovano oggi indebitate, invecchiate, depresse e,
per l’appunto, inaridite. In questa situazione, la crisi demografica
deve essere letta per quello che è: un indicatore profondo di un
mutamento che deriva da un’idea sbagliata di libertà.
Di fronte alla crisi economica, sociale e morale nella quale ci stiamo dibattendo, la via d’uscita va cercata in un «nuovo immaginario della libertà», che ridefinisca il rapporto del soggetto con se
stesso e con la realtà circostante.
Per poter avere presa, questo nuovo immaginario non può essere
un’evasione o una smentita del mondo, ma una configurazione
del possibile, un’apertura al futuro e un’anticipazione del reale a
venire. Come scrive Paul Ricoeur, «l’immaginazione, dando consistenza al desiderio di un’assenza, apre all’orizzonte del volontario nel cuore stesso dell’involontario».
Generare
A condizione di superare la rimozione che oggi ne cela la ricchezza, l’esperienza antropologica originaria del generare – solo l’essere umano è in grado di generare, non limitandosi a riprodurre un
sistema che consente la continuazione della specie, ma essendo capace di trasformare il dato biologico, di creare, di innovare – può
dare un contributo prezioso nella ricerca di una via d’uscita. Il generare coglie infatti alcuni tratti dell’esperienza umana che, se recuperati, possono rivelarsi strategici nel costruire quelle nuove
condizioni culturali senza le quali diventa molto difficile riuscire a
superare la crisi. In modo schematico, ne indico qui cinque.
Generare è, prima di tutto, l’esperienza fondamentale dell’essere
attraversati dalla vita. In questo senso, esso è grazia, capacità di ricevere, ascoltare, custodire e poi di darsi e spendersi, rispondendo
e andando oltre. Come tale, generare ha a che fare con la genialità
dell’arte, non vista come pura espressione di una soggettività individuale, ma come sguardo «situato» (in una storia, in una tradizione, in una cultura) e tuttavia originale; uno sguardo premuroso su una realtà amata e per questo capace di accrescere in qualche
modo quella realtà, di farla fiorire nelle sue potenzialità ancora
inespresse. In questo senso, generare è sempre espressione di una
gratuità, cioè di un’eccedenza, e insieme della consapevolezza del lidialoghi n. 3 settembre 2011
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mite e della capacità di rispondere in modo originale alla realtà concreta che non è stata scelta, ma nella quale ci si trova immersi. Per
questo, il generare non si riduce mai alla volontà (di esprimersi, di
realizzare, di sfruttare), ma nasce da un «invito» che viene dalla situazione; per generare occorre capacità di ascolto, di attenzione e
di accoglienza, che per realizzarsi necessita di un decentramento,
di una messa tra parentesi di sé, di un’apertura, di una premura, di
una iniziale «buona passività». Paradossalmente, dunque, per essere generativi bisogna accettare il fatto che non si è all’origine
della vita, ma ci si fa attraversare e si dialoga con essa. Diversamente, si resta accecati e imprigionati dalla volontà di potenza e si
finisce per distruggere il mondo.
Nel dare inizio ci sono due elementi: l’origine e l’emergenza. La
prima è invisibile e ha radici lontane; è tutto ciò che precede l’intervento del soggetto e lo rende possibile. La seconda è il portare
all’essere e alla visibilità, e qui il ruolo dell’individuo è fondamentale. Solo in questa tensione tra prima e ora, tra invisibile e visibile, tra soggetto e altro da sé ha luogo la generatività.
Il generare si sviluppa a partire da una radice con la quale occorre
fare i conti. Ogni vita comincia nel passato, e così anche il processo generativo. L’eredità del passato è fonte di ricchezza, ma anche di
condizionamenti, a volte potenzialmente distruttivi. Da qui la sfida della fedeltà creatrice: la fedeltà è il legame che consente di far
fluire nel presente la ricchezza del passato, e la
La fedeltà non è creatività è il contributo del genio individuale
conservazione e riproduzione. alla sua attualizzazione, alla valorizzazione delle
Per essere veramente fedeli sue promesse inespresse. Si tratta di passare alla
bisogna saper essere liberi; libertà uscendo dall’«io prefabbricato» dall’erebisogna purificare le eredità dità, dall’ambiente, dall’educazione ricevuta. La
ricevute dalle componenti fedeltà non è conservazione e riproduzione. Per
potenzialmente distruttive; essere veramente fedeli bisogna saper essere libebisogna saper innovare. ri; bisogna purificare le eredità ricevute dalle
componenti potenzialmente distruttive; bisogna saper innovare. La creazione non scaturisce mai solo dall’individuo, ma la tradizione da sola non è in grado di produrre innovazione e creazione. La fedeltà creatrice non può dunque non scontrarsi con i limiti dell’eredità, ma anche con le contraddizioni del
presente (che rendono difficile l’«ascolto») e con il rischio e la realtà
del fallimento. La dimensione gratuita del generare tiene in conto
la possibilità della non-riuscita, ma da un lato non la valuta come
un impedimento all’azione e dall’altra riesce a guardare secondo
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un orizzonte temporalmente più ampio: uno «sguardo lungo»
consapevole che il fallimento di oggi può indicare una via ora prematura, ma di successo domani; o che può rendere più chiara, per
altri, la direzione da prendere.
Da questo punto di vista, pur in relazione ad esso, il generare non
rimane prigioniero del passato. Come suggerisce S. Petrosino, «vi
è paternità solo laddove il soggetto generante riconosce e si consegna (si abbandona) ad un tempo che, prendendo l’avvio dall’istante e talvolta dal caso della generazione, anche se ne distanzia
accogliendosi e coinvolgendosi in una storia che riguarda sempre
la vita di un altro, di un figlio come altro, come eteros. Il tempo all’interno del quale vive la paternità è sempre il tempo dell’altro, è
il tempo del figlio come altro». Far nascere qualcosa che ha tempo
in un mondo in cui tutto è istantaneo e nulla sta insieme è il primo e fondamentale atto rivoluzionario.
Dispiegandosi nella durata, il generare tiene aperti i legami tra le
diverse dimensioni del tempo, offrendo una via per sfuggire all’episodicità. Dentro la sua prospettiva, il puro sfruttamento dell’opportunità immediata, fino al suo esaurimento, è privo di senso.
Per questo, chi genera esprime uno sguardo di cura per l’ambiente,
in una prospettiva di lungo periodo che tiene conto del passato e
del futuro, comprese le generazioni a venire. Ciò richiede l’arte
difficile del saper cogliere, del saper lasciar andare, in un equilibrio difficile – e sempre da ritrovare – tra attaccamento (senza il
quale non si può «prendersi cura» di qualcosa) e distacco (dato dal
fatto che non siamo proprietari della vita, e che l’istinto del possesso uccide la gratuità di cui il generare si alimenta).
Intrecciato con la vita, il generare conosce e attraversa le tante tonalità dell’esistere: dedizione e lotta, impegno e passione, successo
e fallimento, speranza e ansietà, morte e rinascita. La proiezione
del passato nel presente e nel futuro senza trasformazione è il mito; il meccanismo di accrescimento di sé senza trasformazione è la
volontà di potenza. Fa parte dell’accogliere la forza trasformatrice
il fatto di rinunciare a qualcosa di sé. Ritroviamo qui la struttura
«pasquale» della scelta: qualcosa deve morire perché ci possa essere la vita piena. Non esiste crescita senza trasformazione; non esiste trasformazione senza morte e rinascita.
Generare ha strettamente a che fare con il desiderio. Esso non è
mai semplicemente una mera risposta tecnica ad un problema –
condizione pure necessaria –, ma è farsi coinvolgere, partecipare e,
per questa via, restituire un senso. Si genera per creare valore attradialoghi n. 3 settembre 2011
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verso l’appassionarsi, il prendersi cura, mescolando efficacia e affettività. In effetti, anche se ce lo siamo dimenticato, l’affettività è
fondamentale rispetto alla questione del senso della vita, consentendo, tra l’altro, di declinare in modo diverso il tema della autenticità, come ciò che ha un valore, un senso, una verità per noi. Viene il momento nella vita nel quale ci preoccupiamo di quello che
facciamo.
Nella sua teoria dello sviluppo umano, E. Erikson ha sostenuto
che l’età adulta si qualifica per la tensione tra generatività e stagnazione. Con tale espressione, lo psicologo americano ha inteso
affermare che la piena espressione del sé unisce la sua volontà di
potenza alla capacità di «essere produttivi» e di «prendersi cura».
Essere produttivi nel senso di riuscire a comporre la libertà di scopo con l’esigenza di lasciare traccia di sé. Prendersi cura come tratto che permette di personalizzare le esperienze che si compiono,
ricomponendo l’universale con il particolare. Sulla base di una decennale attività di ricerca sulla personalità generativa, lo psicologo
americano A. MacAdams conclude che «la generatività è buona
per sé e per gli altri. Motivata dal bisogno di avere un impatto positivo e di relazionarsi ad altri in modi amichevoli, gli adulti generativi appaiono più efficaci e implicati nelle attività che svolgono
come genitori, membri di comunità e cittadini, dispongono di reti sociali più grandi, hanno un migliore equilibrio psichico».
Generare rompe la limitatezza della mentalità utilitaristica,
creando lo spazio per la novità e l’imprevisto. Più in profondità,
questa azione spiazza persino la logica della reciprocità, consegnandosi totalmente alla libertà dell’altro. Il geGenerare è pensare la vita e le nitore, infatti, desidera essere riconosciuto e atsue espressioni come un centro tende la risposta del figlio. Ma egli sa anche che
di energia, pieno di promesse non mette al mondo il figlio in vista di questa riancora incompiute. sposta: non si diventa genitori perché si desidera
Diversamente da quanto si esserlo (la paternità e la maternità non sono un
pensa, questo senso del proprio diritto): ci si trova ad essere genitori in quanto si
limite è la condizione desidera il figlio al di là di ogni sua possibile ed
dell’autentica esperienza, ciò che eventuale risposta. In realtà, questa è la condici rende aperti, attenti, ricettivi. zione per «farsi incontrare dalle cose», perché
possa nascere qualcosa di nuovo. Per rompere
l’abitudine di guardare al mondo nel quadro ristretto dei nostri
calcoli, che spesso si rivelano sbagliati, o nei termini di un oggetto
da usare e dominare. Generare è, invece, pensare la vita e le sue
espressioni come un centro di energia, pieno di promesse ancora
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incompiute. Diversamente da quanto si pensa, questo senso del
proprio limite – che ci fa capire che non siamo onnipotenti – è la
condizione dell’autentica esperienza, ciò che ci rende aperti, attenti, ricettivi. «Il limite rafforza la nostra capacità di fare esperienza:
solo così l’esperienza resta in grado di sorprenderci». Generare significa lasciarsi provocare, e poi attraversare dalla vita. Come scriveva de Chardin, «è come una sorgente che scaturisce in noi senza
il nostro intervento; che possiamo utilizzare, incanalare, ma che
non siamo noi ad alimentare». In questo senso, il generare è un’esperienza che rientra più facilmente nell’universo dell’esperienza
femminile. Anche etimologicamente, esso significa produrre, far
esistere, ma in un modo che demistifica l’idea violenta di una libertà creatrice e assoluta, nella piena consapevolezza dell’essere
circoscritti dal «flusso imperioso delle motivazioni profonde» e
dal molto di ciò che non si controlla. L’illusione della coscienza di
poter disporre pienamente di sé viene così smascherata.
Colui che genera si trova ad essere genitore, si sorprende ad esserlo. In questo senso, il genitore non attende la risposta del figlio per
essere tale; si è genitori anche laddove il figlio (per distrazione, ingratitudine, ignoranza e anche per una morte prematura) non riconosce e non risponde. In questo modo, il generare è l’«esempio
più limpido di ciò che si chiama azione deponente, nel senso che
l’effetto dell’azione va sempre al di là delle intenzioni e dei progetti. Il generare è accettare di mettersi costruttivamente su una strada che porterà al di là di se stessi, non per esporsi all’impulso di
morte dell’azzardo o dell’assurdo, ma per inserirsi nel fluire eccedente della vita». Un punto che già Aristotele, nell’Etica Nicomachea, aveva colto con chiarezza parlando della madre: «D’altra
parte, si ritiene che l’amicizia stia più nell’amare che nell’essere
amati. Prova ne sono le madri, che godono di amare: alcune, infatti, danno i propri figli a una balia, e li amano, ben sapendo che
sono figli loro, ma non cercano di farsi ricambiare l’amore, se non
siano possibili entrambe le cose, ma sembra che sia sufficiente per
loro vederli star bene, ed esse li amano anche se quelli, non conoscendo la propria madre, non le rendono nulla di ciò che ad una
madre si conviene rendere».
Il generare è concretezza, non teoria. Esso sa che le parole servono
a poco – se mai sono servite – e che ciò di cui c’è bisogno sono luoghi e contesti dove sia possibile far esistere esperienze capaci di
sfuggire alla tirannia dell’oggetto, dell’evento, dell’immediatezza,
pur stando dentro la carne della realtà, con tutte le sue sfaccettadialoghi n. 3 settembre 2011
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ture che impediscono sempre di chiudere il discorso una volta per
tutte. Da questo punto di vista, il generare è sensibile al valore dell’oikos, perché sa che nulla di buono può nascere se viene recisa la
complessa rete dei legami che gli hanno permesso di esistere. Ma
ciò non può portare ad assecondare la tentazione del restare puri,
incontaminati, o peggio, di separare ciò che viene fatto nascere
dall’esposizione al mondo. Esattamente come nel caso dei bambini che possono «nascere al mondo» solo grazie al calore di genitori che li accolgono, ma che tutto potranno essere salvo quello che
questi ultimi hanno immaginato. Generare vuol dire essere disposti a essere pazienti, cioè a partecipare in prima persona con la fatica del «portare a esistere». Legare la propria vita a quanto nasce.
Per questo, la generatività ha sempre a che fare con il riparare, a
partire da un’idea relazionale dell’esistenza: c’è un io che agisce,
ma ci sono altri agenti e poi l’intero mondo. Per quanto abbia a
che fare con una responsabilità, il generare sa che deve rinunciare
al controllo. Per questo motivo, generare ha sempre a che fare con
il perdono. Per generare occorre saper perdonare, cioè rigenerare,
nella consapevolezza che non c’è realtà che può essere esente dal
nulla a cui la libertà la espone. Virtù oggi non è pretendere una
coerenza assoluta in un tempo che non la concede. È piuttosto la
virilità di credere nonostante tutto, di mantenere fede a fronte di
condizioni che cambiano, di essere disposti a rimettere in discussione ogni certezza allo scopo di salvare ciò che era alla base della
propria vita e che ne segna la continuità. Virtù è fermare la catena
del risentimento e della vendetta, interrompendola attraverso l’atto non garantito per antonomasia, e cioè il perdono. Atto che, per
eccellenza, ha un carattere attivo e passivo, donativo e ricettivo,
capace di generare un nuovo inizio senza interrompere la continuità, fino ad assumere anche il male dell’altro, senza cioè contrapporre alcuna forma di violenza a qualsiasi tipo di violenza.
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