Untitled - Luigi Antonello Armando

Transcript

Untitled - Luigi Antonello Armando
il paese
degli smeraldi
Testimonianze e riflessioni
sulla pratica e sulle ipotesi teoriche
dello psichiatra Massimo Fagioli
a cura di
Luigi Antonello AAS
Mimesis
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Indice
resentazione
P
Il sole di Eraclito: un «amatissimo blog»
e
una «ricerca straordinaria»
p.
9
1.Testimonianze e racconti
Nota introduttiva
Testimonianze e racconti
p.
p.
p.
23
23
26
2.Sul blog
Nota introduttiva
1. Il senso del blog e di una sua sintesi
2. Il blog e il problema del segreto professionale
p.
p.
p.
p.
55
55
64
70
3.Sulla cura
Nota introduttiva
1. Sulla pratica terapeutica dei “seminari di analisi collettiva”
Terapia o ideologia, transfert o carisma?
Dipendenza, interminabilità e altro
Sulla “seconda generazione”
Cura, formazione, ricerca: continuità o confusività?
Sul pagamento
2. Sulla pratica terapeutica nei piccoli gruppi
p. 77
p. 77
p. 84
p. 84
p. 88
p. 94
p. 97
p. 100
p. 101
4.Sui rapporti
Nota introduttiva
1. All’interno: Amicizie, amori, comportamenti, timori
Sei casi emblematici
Come un’eresia diventa istituzione
2. Con il mondo esterno: gli altri, l’Università, la politica
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
5.Sulla teoria
Nota introduttiva
1. Il problema della verifica della teoria
p. 145
p. 145
p. 153
105
105
116
116
121
132
137
2. Sulla sanità originaria e sull’istinto di morte
3. Sulla percezione delirante
4. Sull’identificazione proiettiva p. 156
p. 172
p. 175
6.Alcune opinioni a confronto
Nota introduttiva
1. Sulla “politica della rimozione”
2. Sull’autoreferenzialità
3. Sulle motivazioni di un assenso e di un dissenso
4. Mare azzurro o mare verde?
5. Sette, madrasse e gruppi di lavoro
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
7.Sulla storia
Nota introduttiva
1. Prima, poi, quando, perché 2. Da Il potere della psicoanalisi al potere
dell’analisi collettiva?
p. 219
p. 219
p. 223
Glossario
Riferimenti bibliografici
p. 241
p. 249
177
177
178
183
185
201
212
p. 230
Contributi di
Adelmo; Alessia; Amatamari; Annuncio veloce; Anonimo 8; Antonio; Antonio Balbino; L.A. Armando; Astrantia; Ater; Barbara; Baruch Spinoza; Beppe*; M.P. Banchini Nigra; Brown; Buio;
Carola; S. Casini; Catone; 59,9; Cinziotta; Claudio*; Clessidra*; Complicatus*; F. Cotti; Cristina; Dinamite; Domande; Dr Carter; Enrico; Ex Illusa; Ex 68*; Frà*; Franco; Freeasabird*;
Ghery; Hammer; Ida; Illusa; Incredibile; Interlocutore; Jigoro; Karl Marx; G. Lago; N. Lalli;
Lavinia*; Lettor; Lettor 2; Lettore*; Lettore empatico*; Lettore indignato*; Lettore perplesso*; Libero; Light Blue; Luca; Mary*; Marziò; S. Mazzoni; Mistral; Nargaroth*; Nautilus;
Nioden; Noi tre; Nota a pedica; OK; A. Orlandini; Orsola Anna*; Ottavo; Penny; Pellegrino;
Perplessissimo; Piero*; Reduce*; Ros*; Risposte; Rowan*; Rudra*; Sandro A.C.; Sarli; Scampato*; Scampato secondo; R. Sciommeri; A. Seta; Settimo*; Simplicius; Sisammo; Sociologo; M.
Togna; I. Tomassi; Toni; Toyo; Una donna; Un altro dei tre; Un amico; Un quinto; Uno*; Uno
al di fuori; Uno dei tanti; Uno dei tre; Uno psicologo; Valerio*; Vera; Viandante; Vinicio;
Viola; G. Zampieri1
1I nick seguiti da asterisco appartengono a persone che hanno dichiarato la propria
identità.
9
Presentazione
IL SOLE DI ERACLITO:
UN «AMATISSIMO BLOG»
E UNA «RICERCA STRAORDINARIA»
1. «Una corsa sull’autostrada per arrivare a scrivere un saluto... spero di avercela fatta. Il mio primo intervento è del 10 giugno. Mi ricordo: il 9 era un sabato, e
vagavo sul web nella tipica ricerca di una cosa che, fatta come ti serve, non la trovi
mai. Cliccando e ricliccando su vari link ecco che ti spunta “Bollicine 2007. Commenti”, “Il punto di vista di un malato” scritto da Rudra [cfr. cap. III]. Dovevo
uscire quel pomeriggio... sono rimasto rapito nella mia stanza dalla serie di interventi. Qualcuno proponeva riflessioni che qualche volta avevo pensato, ma che mi
ero ben guardato dall’esternare, qualcuno scriveva che l’incontro con Bertinotti
[cfr. nota 3] pareva un incontro tra sordi... Ho pensato: questi esagerano, questi
so’ avvelenati, io non scriverò mai niente qui sopra, ma ti pare! Come potrei poi
andare alla seduta del mio gruppo? Passata la mezzanotte mi sono detto: scrivo
una sola volta e mai più. Ma mentre scrivevo già sapevo che quello non sarebbe
stato il mio unico intervento... avevo passato un pomeriggio particolare, senza
aver parlato con nessuno, avendo solo letto interventi che potevano anche essere
inventati, ma si capiva benissimo che non lo erano. Sentivo che non mi sarei più
staccato dal blog, troppa era la “sete di conoscenza”. E quindi per tutta questa
estate, un’estate per me diversa dalle altre, blog compreso, sono stato risucchiato
da questa esperienza: serate che non vedevo l’ora di tornare a casa per vedere
quanti e quali interventi nuovi c’erano. Ho imparato a conoscere e ad apprezzare
(in ordine temporale) lo stile colto, profondo e pungente di Antonello, la concretezza, la chiarezza e l’efficacia delle parole di Nicola, la passione e la generosità
nelle spiegazioni di Romeo, la puntualità e l’obiettività di Claudio, poi l’ironia
tagliente e le ragioni di Complicatus, le motivazioni e la serietà di Piero, le ampie
argomentazioni di Albertina, la lucidità di Beppe e di Freeasabird, la spontaneità
di Mary... e tutti i bellissimi interventi come, ad esempio, quelli di Marco Togna e
di Giuseppe Lago. Mi scuso con chi non ho citato... ma mentre scrivo temo che da
un momento all’altro non sia più possibile inserire interventi in questo amatissimo
blog. Grazie a tutti. Rowan».
Con queste parole si conclude, non per esaurimento, ma per l’avvertita
necessità e la scelta di realizzarne una sintesi, un confronto di vissuti e idee
svoltosi in uno spazio virtuale; e nulla vi sarebbe da aggiungere a esse per
10
Il paese degli smeraldi
presentarla, se non per dire come quel confronto è sorto, su cosa verteva,
perché sia stato vissuto con l’intensità restituita dalle parole riportate.
2. Quel confronto è conseguito a un movimento inatteso e spontaneo. Da
più di due anni il sito di uno dei curatori di questa sintesi proponeva in una
sua sezione brevi considerazioni su svariati argomenti, tra i quali l’ormai
quasi quarantennale attività dello psichiatra Massimo Fagioli, solitamente
indicata nella sua globalità con l’espressione “analisi collettiva”. In tale
sezione erano da tempo affluiti commenti alle considerazioni su quest’ultima; ma da fine maggio 2007 essi diventavano sempre più numerosi fino
a oltrepassare i tremila nell’arco di tre mesi, dando vita a qualcosa che
poteva, nel gergo informatico, essere chiamato “blog”.
I motivi di questo inatteso movimento sono in parte legati alle caratteristiche della nuova forma di comunicazione resa possibile da internet1, che,
essendo un mezzo per ora poco addomesticato, lascia spazio a forme di aggregazione spontanea e non gestibile in termini tradizionali. Tuttavia il fatto
che quel movimento si sia prodotto proprio nel suddetto momento fa pensare,
oltre che a situazioni contingenti2, all’imporsi di un’esigenza e di un dato.
L’esigenza è stata quella di alcuni, tra quanti in qualche modo hanno
avuto o hanno esperienza dell’analisi collettiva, di interrogarsi su di essa
e confrontarsi con i dubbi insorti in loro al riguardo; il dato è stato quello
dell’avere tale analisi mostrato, con sempre maggiore evidenza negli ultimi anni, aspetti problematici corrispondenti a quei dubbi.
L’analisi collettiva ha intrattenuto da sempre con il pubblico un rapporto contraddittorio: se da una parte ne ha sollecitato l’attenzione, dall’altra
ha con crescente determinazione eluso ogni confronto critico, accentuando il
proprio arroccamento in un’autoreferenzialità che il blog non ha mancato di
rilevare. Tale accentuato arroccamento può essere in parte ricondotto a un
certo modo di intendere la psicoterapia e alla difficoltà di coniugarlo con la
ricerca (Armando, 2007, pp. 102-107), ma in maggior parte va ricondotto
1Su questo punto si veda anche la nota introduttiva al capitolo secondo “Sul
blog”.
2 «L’impennata, che costituisce il grosso degli interventi su questo blog, si è cominciata ad avere un decina di giorni prima dell’incontro all’Auditorium [per la
presentazione della rivista di Fausto Bertinotti “Alternative per il socialismo”].
E questo concorderebbe con ciò che è stato scritto da molti, ovvero che i “primi
scricchiolii” cominciarono col “famoso” incontro di Villa Piccolomini [cfr. cap. I,
XVIIII] ed evidentemente sono diventati crepe dai primi di giugno. Ovviamente le
motivazioni che hanno spinto a una critica sempre più articolata sono per ognuno
personalissime e affondano le radici lontano nel tempo (vedi Napoli 1999, su cui
molti hanno insistito) e in periodi diversi tra loro». Hammer.
Presentazione
11
all’essersi appunto resi sempre più evidenti i suddetti aspetti problematici e
alla scelta di imporre su di essi il silenzio. Questo però ha potuto essere mantenuto fin quando doveva valere per un pubblico estraneo che, pur mostratosi
sempre curioso verso l’esperienza in questione, non aveva grande interesse a
contrastarlo, e le cui critiche avevano peraltro scarsa incisività perché facilmente attribuibili a preconcetti o a non adeguata conoscenza della cosa; non
ha però più retto nel momento in cui doveva valere contro l’esigenza di non
tacere oltre i propri dubbi avvertita da chi, per aver dato il proprio assenso
a quell’esperienza, non poteva essere tacciato di tali preconcetti o di tale
inadeguata conoscenza.
Tuttavia l’inatteso movimento merita l’attenzione necessaria a renderlo
in questa sintesi anche per altri motivi: perché costituisce una novità, non
solo per la storia dell’analisi collettiva di Fagioli, ma anche per la psicoterapia in genere, per lo meno quella del nostro paese, generalmente poco
avvezza al punto di vista dei pazienti3; e soprattutto perché, a considerare
le cose in un ambito più vasto e se ci si concede il paradosso, non rappresenta qualcosa di nuovo dato che ripropone nell’attualità un fenomeno
ricorso più volte nella storia delle ideologie. Esempi di tali ricorsi sono
menzionati nel blog; qui però ci soffermiamo brevemente su quelli riscontrabili nella storia della scienza, prendendo spunto da una prossimità di
date tanto casuale quanto significativa.
3. L’analisi collettiva si fonda su un libro pubblicato nel 1972 (Fagioli
M., 1972), nel quale lo psichiatra sopra menzionato esponeva un’ipotesi
teorica4 sull’origine della psiche umana e sul suo funzionamento nella totalità della realtà relazionale, ipotesi che, in successivi lavori (Fagioli M.,
1974; 1975; 1980), articolava e presentava come rivoluzionaria rispetto
sia a quella freudiana sia ad altre vigenti quali quelle religiosa, esistenzialista, marxista; e nel 1969 era stato tradotto in Italia un altro libro, La
struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Khun, divenuto poi un
classico della storia e della filosofia della scienza.
Il libro di Khun sorgeva in parte dall’esigenza degli Stati Uniti negli
anni Sessanta di afferrare il segreto del progresso scientifico in modo da
avvalersene per acquisire la prevalenza tecnologica sull’URSS; ma accoglieva in sé anche un’intensa ricerca sul concetto di scoperta alla quale
3
“Il punto di vista di un malato” si intitolava il primo di questa serie di messaggi
[cfr. cap. III, 2].
4Per una breve sintesi di questa ipotesi teorica si veda oltre, la nota introduttiva al
capitolo sulla teoria.
12
Il paese degli smeraldi
avevano contribuito studiosi appartenenti a più discipline come, per citarne alcuni, Fleck, Koyrè, Meyerson, Boring, Piaget.
Khun muove dalla critica ai tentativi di comprendere l’avanzamento
della ricerca scientifica nei vari campi come conseguenza di una continua
«accumulazione di singole scoperte e invenzioni» (Khun, 1972, p. 12) o di
improvvisi sbalzi e strappi rivoluzionari. Si propone, invece, di analizzare il
complesso meccanismo di quell’avanzamento, di riconoscerne, appunto, la
“struttura”. Utilizzando numerosi esempi storici, tra cui quello del passaggio dalla cosmologia tolemaica alla copernicana, descrive anzitutto come
una data ipotesi teorica o, per usare la sua terminologia, un dato “paradigma”, si affermi su un altro per avere reperito la possibilità di risolverne
le “anomalie”, cioè fenomeni che quello non riesce a declinare o problemi che crea; come il nuovo paradigma, una volta affermatosi, determini
il procedere della «scienza normale» e cerchi di consolidarsi procedendo
nella declinazione del reale, per imbattersi però anch’esso in fenomeni che
gli risultano indeclinabili o creare nuovi problemi. Khun prosegue la sua
analisi descrivendo come, in seguito a ciò, quel paradigma passi a cercare
di consolidarsi non più per via della ricerca e dei risultati, ma di operazioni
riassumibili nella costruzione di un apparato istituzionale. Tale apparato
ha il duplice compito di esaltare la funzionalità del paradigma pianificandone l’uso alla soluzione di problemi che non comportano il confronto con
le anomalie, e di neutralizzarle rendendole silenti; fin che la loro pressione e l’imporsi dell’attenzione per esse, da un lato pone il paradigma di
fronte alla scelta tra un’autocritica aperta a ogni esito o l’obsolescenza e,
dall’altro, costituisce l’inizio di una «ricerca straordinaria (extraordinary
research)»5 volta alla costruzione di altri paradigmi.
L’inatteso movimento dei commenti che confluiscono in questa sintesi
merita dunque attenzione anche in quanto va compreso riferendosi a questa descrizione del percorso di avanzamento della scienza: esso corrisponderebbe al momento in cui la sopra menzionata ipotesi teorica, o paradigma, del 1972 si imbatte in anomalie che non riesce più a mantenere silenti
e ha inizio la «ricerca straordinaria» su di esse e su di esso.
4. Khun descrive il suddetto percorso in termini generali, ma ciascuno
dei suoi momenti, e in particolare l’ultimo, ha coinvolto, ogni qual volta si
5
L’espressione inglese significa semplicemente una ricerca che non segue più le vie
di quella ordinaria corrente. La corrispettiva espressione italiana è meno sobria,
implica un significato di eccezionalità, di particolare valore. I motivi per cui preferiamo servirci di essa in questa introduzione risulteranno dal seguito.
Presentazione
13
è presentato, sia determinate anomalie sia determinati soggetti con i loro
vissuti, pensieri, comportamenti. Quali anomalie, soggetti e loro vissuti,
pensieri e comportamenti sono coinvolti nel caso in esame?
L’ipotesi teorica di Fagioli ha sempre avuto, per la sua tendenza all’autoreferenzialità (cfr. oltre, VI, 2), uno statuto pubblico ambiguo. Da un lato
non è mai stata pienamente accettata dalla comunità scientifica, tanto da
non potersi dire che si sia costituita come fondamento di quella che Khun
chiama «scienza normale»; dall’altro, all’interno della suddetta autoreferenzialità, nel contesto definito dal consenso ottenuto, si è costituita come
fondamento di una tale scienza.
Khun nota come le anomalie che interrompono il procedere della scienza normale compaiano sempre nell’esercizio di una professione sulla base
di un dato paradigma, ovvero si incontrino anzitutto sul piano della pratica6; solo in un secondo momento la ricerca straordinaria che consegue
alla loro presa d’atto procede a verificare in che misura esse discendano
da una debolezza del paradigma stesso e a criticarlo.
Il campo professionale applicativo è, nel caso in questione, quello della
psicoterapia; ma, trattandosi di una psicoterapia di un gruppo avente il
fine dichiarato di “lavorare”7 per curare-trasformare altri gruppi e l’intera società, si estende ai rapporti che s’instaurano nel gruppo in connessione con quel fine e a quelli che esso instaura con altri gruppi, cioè con
la società in generale. Non è quindi un caso se il blog e questa sua sintesi
si sono soffermati anzitutto sulle anomalie che insorgono nel procedere di
quella particolare scienza normale nei due campi della cura e dei rapporti
interni ed esterni della comunità che si fa carico di quel procedere.
Il primo capitolo della sintesi raccoglie testimonianze e racconti di
soggetti che sono venuti a diretto contatto con la pratica del paradigma e
ne hanno sperimentato su se stessi l’efficacia o l’inefficacia. Tali testimonianze e racconti vanno compresi come aventi la stessa funzione che in un
qualsiasi scritto scientifico ha la presentazione di dati su cui si basa; o, più
propriamente, la stessa funzione che in qualsiasi studio medico hanno i
cosiddetti casi clinici, con la differenza che, nella fattispecie, tali casi non
sono presentati da medici, ma da pazienti o ex pazienti. Questa differenza è
interessante e potrebbe essere ulteriormente commentata8; qui basta però
6
«Nel merito l’esperienza di Fagioli si può discutere (…), ma è la pratica di Fagioli
che è inaccettabile». Antonio.
7 Cfr. nel cap. VI la discussione sulla possibilità di parlare di “gruppo di lavoro”, e
in quale senso, a proposito dell’analisi collettiva.
8Si potrebbe porre qui il problema dell’attendibilità delle testimonianze e dei racconti
sulle anomalie, quindi dell’esistenza di queste ultime. Il problema è noto a ogni
14
Il paese degli smeraldi
notare come tali casi costituiscano un materiale grezzo il cui contenuto,
dopo un capitolo in cui si discute, tra l’altro, la legittimità del loro uso
(cap. II, 2), viene riproposto nei due successivi capitoli in forma ordinata:
i problemi irrisolti o creati, le anomalie, che in quel primo capitolo figuravano sparsi e solo enunciati, vengono in questi altri raccolti sotto temi
dominanti unitamente a domande e riflessioni su di essi.
Come si può desumere dall’indice di questa sintesi, e come si costaterà, i suddetti temi corrispondono a punti nodali di ogni pratica psicoterapeutica e di ogni rapporto che una comunità costituitasi intorno ad essa
instaura al proprio interno e con gli altri, nonché ad aspetti caratteristici
della pratica in questione. Solo dopo, nel cap. IV, le domande e le riflessioni vengono a vertere sul paradigma. In tale capitolo appare più che
negli altri una varietà di orientamenti valutativi, ancor più riconoscibile in
quello successivo. L’«amatissimo blog», la ricerca straordinaria, restano,
per questo aspetto, indefiniti. La sintesi ne rende questo effettivo stato attuale e ciò rappresenta, ad avviso dei curatori, il valore dell’accettazione,
da parte di ciascun orientamento, di coesistere con altri, di non cedere a
quella tendenza ad affermarsi come unico valido propria del paradigma in
oggetto e responsabile della sua deriva totalitaria.
5. La presa d’atto, da parte dei partecipanti a questa ricerca straordinaria, delle anomalie che si presentano nella pratica del paradigma e il
suo tradursi in un articolato confronto, oltre che su di essa, sul paradigma
stesso, coinvolge - si diceva poco sopra - più soggetti e in ciascuno di questi sollecita più vissuti, pensieri e comportamenti.
I soggetti coinvolti vanno ricondotti a due insiemi: quello composto
da chi presta attenzione alle anomalie e si interroga sul loro significato e
quello composto da chi, anche quando le rileva, le dichiara insignificanti
scienza come quello dell’attendibilità dei dati e delle fonti. Esso in medicina e in
psicoterapia assume la particolare forma del problema dell’attendibilità dei casi clinici sulla cui base un ricercatore formula le proprie ipotesi teoriche. Esso si è posto
subito all’autore del libro del 1972 che lo ha risolto rivendicando la validità della
creatività del narratore (Fagioli M., 1972, pp. 11-12). È sorto anche a proposito dei
casi clinici di Freud, rispetto ai quali la creatività è risultata essere manipolazione
(Meyer 2005, pp. 25-66). Qui però la situazione è diversa; il fatto che siano pazienti e non medici a presentare casi clinici rende superflua quella giustificazione
e improbabile quel risultato. D’altro canto dà adito al sospetto che i dati forniti
siano solo fantasticherie e pettegolezzi, travisamenti coscienti o inconsci dettati da
malevolenza o malattia. I sostenitori del paradigma in questione non hanno mancato
di tentare questa strada per screditarli e riasserire l’inesistenza delle anomalie. Su
questi problemi si sofferma più per esteso la nota introduttiva al cap. I.
Presentazione
15
per assicurare il normale procedere delle pratiche fondate sul paradigma
del 1972 e confermare la sua validità. Sia gli uni che gli altri esprimono un’ampia fenomenologia di vissuti, pensieri e comportamenti. Le due
fenomenologie sono ben rappresentate nel blog e nella sintesi, ma non è
superfluo darne qui indicazione sommaria.
Per quanto riguarda i vissuti di quanti attribuiscono significato alle
anomalie, già il post riportato all’inizio mostra la sorpresa («ecco che ti
spunta…») nel vederle proporre; un movimento transitorio di opposizione,
accompagnato da un giudizio («questi so’ avvelenati…») su quanti le nominano; e, subito dopo, il rapimento nella ricerca straordinaria, la «sete di
conoscenza» che la anima, il senso di liberazione, di ampliato orizzonte, di
ritrovate corrispondenze nella partecipazione ad essa. Altri post mostrano
i vissuti dello smarrimento, dell’amarezza, dell’indignazione, dell’ira che
l’evidenza delle anomalie suscita; dai quali due ultimi sorgono pensieri
di denuncia, di negatività di tutto quanto presenta ora anomalie, di sua
similitudine con esperienze screditate; sorge il proposito di comportamenti
riparativi e punitivi, di fatto contenuti e riassorbiti nel movimento della
ricerca straordinaria in atto9. Anche i vissuti, i pensieri e i comportamenti
di quanti non riconoscono significato alle anomalie sono rappresentati nel
blog. Tali vissuti vanno dalla riconoscenza per i benefici ricevuti dalla
partecipazione alle pratiche del paradigma, all’ammissione di un disagio
a fronte di quanto non più taciuto, all’ammonimento solo apparentemente
benevolo espresso in termini che si dicono amicali ma di fatto sottilmente
intimidatori verso chi, non tacendo, sbaglierebbe gravemente10, allo sdegno, all’ira. Prevalgono i pensieri in cui sdegno e ira si esprimono: il
blog avrebbe un’intenzione esclusivamente distruttiva11, parteciperebbe
9
«Non è necessario arrivare a interessarsi al discorso della setta [cfr. cap. III], c’è
talmente tanta carne al fuoco (…), qui c’è un confronto che altrove pare (è) negato. Confronto scaturito dal racconto di esperienze dirette. È questa la straordinaria
novità che ha portato il blog e della quale tutti noi scriventi siamo orgogliosi».
Hammer.
10 «Caro Antonello, ti ho conosciuto, frequentato ed eri per me una persona seria
(…). Poi arrivo a leggere questo blog, lungo, noioso e molto confuso. Che ti è
successo? È la cosa più orrenda che non avrei mai pensato che tu avresti creato
(…). Non è da te il livello pseudo libero di questo blog. Brutta e banale dialettica.
Mi voglio fermare qui, soltanto una richiesta, d’Amico: levalo di mezzo e lascia
soltanto quello che tu pensi. Le polemiche e le critiche (…) servono soltanto per
confondere maggiormente persone che stanno già male e per farle stare peggio. Ti
saluto». Un amico.
11 «Non dubito che molte cose riportate in questo forum siano vere. Preferirei che
voi non foste uniti solo dalla critica verso l’analisi collettiva e gli psichiatri fagio-
16
Il paese degli smeraldi
di assenza di coraggio a confrontarsi nell’unico spazio in cui si sarebbe legittimati a farlo ovvero nel setting terapeutico, provocherebbe danno ai pazienti, non rispetterebbe il segreto professionale, chi vi partecipa
risentirebbe della sindrome del pentitismo12 o sarebbe affetto da malattia
mentale. Alcuni di questi pensieri implicano la minaccia di comportamenti
repressivi e punitivi cui dar seguito al modo in cui da sempre un potere
“spirituale” ha dato seguito a quella minaccia, e cioè autodeleggitimadosi
con il fare ricorso a qualche potere temporale.
6. Non possiamo qui analizzare in maggior dettaglio le due fenomenologie. Vi abbiamo accennato per poter dire delle loro somiglianze e differenze. In alcuni punti si sovrappongono ed è curioso che tendano a farlo
negli estremi dell’ira, dello sdegno, del pensiero totalmente negativizzante,
nell’intenzione punitiva, ma le differenze che presentano sono notevoli. Ad
liani. Se sulla parte destruens vi vedo bene su quella construens mi sembra abbiate
difficoltà». Nioden.
12 «La sindrome del “pentitismo” è tipica di un certo numero di soggetti che hanno
frequentato l’ambiente dell’analisi collettiva in senso lato. Possiamo individuarvi
diversi momenti e uno sviluppo coerente. Il primo momento è l’adesione più o
meno entusiastica e ideologica alla teoria di Fagioli (…). Naturalmente “l’adesione ideologica” e cosciente nasconde l’annullamento non cosciente del significato
trasformativo. Si arriva così (…) al secondo momento: la scoperta della “truffa”,
dell’inconsistenza, del culto della personalità, del plagio, ma soprattutto della
“degenerazione” dell’analisi collettiva rispetto a un’iniziale validità che l’idealizzazione impedirebbe alla maggioranza di “vedere” e che invece solo pochi “eletti”
hanno compreso. Il pentimento è un tentativo di elaborazione di una separazione
che spesso abortisce e porta a caratteristiche modificazioni della condotta e del
pensiero. Sul piano comportamentale “i pentiti” diventano avalutativi, perdono
cioè il riferimento a un sistema di valori “forti” da affermare e perseguire, pragmatici nel senso che accettano lo statu quo e perdono “il principio della speranza”,
cioè l’elemento di tensione utopica e ideale, “democratici” in quanto propugnano
un’eguaglianza astratta che, in modo non spesso evidente, cancella le differenze
e livella in basso le attitudini (…) ed eclettici in quanto visioni del mondo e linguaggi fra loro incompatibili (…) vengono fatti coesistere in modo “trasversale”
e apolitico (…) si tramutano in “critici”, accentuando l’aspetto dello scetticismo
che è insito nell’approccio razionale. La critica si esercita soprattutto nei confronti
del sistema di pensiero cui prima si era aderito e che continua a permanere comunque come riferimento costante e ineludibile. Il “pentito” dell’analisi collettiva
può diventare un “terrorista” ideologico che opera all’interno di vere e proprie
azioni di guerriglia culturale, sentendosi investito di una missione liberatrice nei
confronti delle “vittime”, che poi altro non sono che coloro che continuano a
lottare e pensare, pur in mezzo a difficoltà “umane”, alla possibilità della cura e
della trasformazione». Anonimo8.
Presentazione
17
esempio mancano nella prima l’amicale compassione, l’uso della diagnosi
e della criminalizzazione per discreditare il dissenso, l’insistita intimidazione; mancano nella seconda l’intolleranza per il silenzio, l’esigenza di
fare chiarezza, la «sete di conoscenza», il rapimento nella ricerca straordinaria che muove dalla constatazione delle anomalie.
È però della massima importanza, tenendo ferme queste sostanziali differenze, riconoscere un vissuto comune. «Cliccando e ricliccando… ecco
che ti spunta…». Chi in qualche modo prende atto delle anomalie di quanto aveva creduto non ne presentasse e non dovesse presentarne, vive un
momento di sorpresa e disorientamento che precede il “rapimento” nello
spazio e nel tempo indefiniti della ricerca straordinaria: al pari di Rowan,
che s’aspettava piuttosto «di uscire questo pomeriggio», non se l’aspettava. Anche chi mantiene intatto il proprio assenso al paradigma nonostante
le anomalie della sua pratica, o non le percepiva, o le riteneva irrilevanti,
o riteneva che potesse essere mantenuto il silenzio su di esse, non può non
vivere un momento di disorientamento e sorpresa: non si aspettava che
potesse essere detto ciò che fino a un dato momento non era stato detto,
non si aspettava la rottura del procedere di quella che per lui era la scienza
normale e della routine descritta in alcuni post.
Questo comune vissuto presenta due caratteristiche che lo rendono notevole. La prima è la novità. Non è una novità in senso seriale. Essa deriva
a tale vissuto dal suo inerire - come si è detto - a una vicenda che non è
nuova e dal non essere quindi neppure esso nuovo, pur possedendo la novità di ciò che non è nuovo. Il riconoscimento della non novità dell’inatteso
movimento del blog e di quanto comporta apre uno spazio e un tempo nuovi. Come mostra il libro di Khun, esso ripropone qualcosa già avvenuto nel
passato, ma nel riproporlo accende un vissuto che non è del passato, bensì
dell’attualità nella quale quanto già avvenuto ricorre. Ciò che ricorre è
antico, ma il vissuto acceso nel suo ricorrere è sempre nuovo, come il sole
di Eraclito che, pur sempre lo stesso, è sempre nuovo.
Il sole di Eraclito è sempre nuovo e dà sempre inizio a un nuovo giorno;
e la seconda caratteristica di quel vissuto è appunto la sua inizialità, il suo
porsi come assoluto in quanto sciolto sia dal passato sia da un definito
futuro, come occasione e condizione di inizio, ovvero, per usare una parola
che ha un ruolo importante nel paradigma qui in questione, di nascita.
Un vissuto dunque nuovo, assoluto e iniziale, che abbiamo designato
con parole correnti e poco evocative: “disorientamento”, “sorpresa”.
Ma, avendone presente appunto la caratteristica dell’inizialità, possiamo
ora usarne alcune che riportano all’inizio della storia, un’altra che riporta all’inizio della storia della modernità, e un’altra ancora che riporta
18
Il paese degli smeraldi
all’inizio della storia dell’analisi collettiva in rapporto alla quale lo vediamo ora acceso.
Le prime sono suggerite da un autore dimenticato e dalle pagine di un
suo grande libro della fine degli anni Cinquanta, nelle quali egli indicava con le parole strane di alcuni popoli primitivi - latah, olon, amok (de
Martino, 1958, p. 93 ss.) - un momento storico mitico iniziale della nostra
cultura, ove quanto abbiamo fin qui chiamato disorientamento o sorpresa,
che oggi si presenta eccezionalmente, era esperienza costante e diffusa.
Quando le anomalie erano le continue molteplici rotture di fragilissime
presenze e costituivano lo stimolo a costruirne altre più stabili e avanzate;
e, per prima, quella costruita da un sapere detto “magico” che avrebbe
anch’esso incontrato radicali anomalie, ma che aveva la qualità di non
lasciare troppo indietro, troppo rimosso, quel vissuto del disorientamento
e della sorpresa sul quale quell’autore riteneva necessario reinnestare un
sapere che, pur non essendo più magico, non fosse neppure più quello di un
logos che divide, la cui pratica aveva drammaticamente prodotto nell’oggi
allora più recente radicali e tragiche anomalie.
L’altra parola che si presta a meglio definire il vissuto in questione è
“sbigottimento”. Essa è stata introdotta nel blog da un intervento, omesso
nella sintesi, che la mutuava da un autore cinquecentesco, conferendole
perciò il significato che le derivava dall’uso fattone nel momento storico
in cui il passaggio dalla concezione tolemaica a quella copernicana del
mondo esterno si completava con la formulazione di un’ipotesi sul mondo
interno (Armando, 2008). Un completamento, una formulazione, nelle quali
più storici hanno appunto scorto l’inizio, la nascita, della modernità come
epoca attraversata da una ricerca straordinaria definita, da un lato, dalla
critica alla religione, dall’altro, dall’affermazione della capacità ideativa e creativa del soggetto umano, pur indicandola con termini diversi che
comportavano valutazioni diverse e opposte: individualismo (Burckhardt),
liberismo (Strauss), relativismo (Ratzinger; Pera-Ratzinger), manierismo
(Hauser).
Quest’ultima parola, “manierismo”, introduce, attraverso complessi
percorsi che non possono qui essere esplicitati, alla ricerca delle parole
che designano quel vissuto nuovo e iniziale in un terreno diverso da quello
dell’antropologia, della filosofia e della politica: quello della psichiatria.
Ivi incontriamo una parola meno usuale di “disorientamento” e “sorpresa”, meno esotica di quelle del libro di de Martino, meno antica, evocativa
e maestosa di “sbigottimento”, non meno strana però, come a dire del
tentativo di definire un indefinibile: “trema”. È una parola che indica «in
senso stretto, ciò che sente l’attore prima di entrare in scena» (Lazzeri,
Presentazione
19
1994, p. 22) e che gli psichiatri hanno usato (Conrad, 1958) per descrivere
un momento, un «carattere peculiare» (Fagioli M., 1962a, p. 381), di un
fenomeno designato con l’espressione “percezione delirante”; il momento,
successivo solo a quello del presentarsi dell’anomalia, cioè di qualcosa
che risulta estraneo a un dato assetto mentale, ne determina la crisi, disorienta, stupisce, sbigottisce e può indurre a fronteggiare questa crisi con
la produzione di vissuti, la costruzione di ideazioni e la manifestazione di
comportamenti che segnano una progressiva rottura del rapporto con la
realtà.
Gli psichiatri hanno per lo più osservato il suddetto fenomeno, e quindi
quel suo momento iniziale, nel suo presentarsi all’interno del loro campo
di indagine, tutto chiuso in esso. Hanno per lo più dimenticato, trascurato
o ignorato ciò che su quel momento avevano detto, pur designandolo altrimenti, altre discipline, l’antropologia, la filosofia, la scienza politica;
hanno dimenticato, trascurato o ignorato che quanto essi hanno chiamato
“trema”, poteva indubbiamente essere, e spesso era, inizio di una psicopatologia, ma era ed era stato anche inizio di una ricerca straordinaria che
aveva rotto il silenzio sulle anomalie della concezione religiosa del mondo
e dell’uomo, e acceso desideri di conoscere e volontà di agire per realizzare assetti sociali reperibili al di là del totalitarismo escludente della fede.
Tra quanti di loro avvenne di ricordare tutto questo, ve ne fu uno che nel
1972 avrebbe proposto il paradigma dell’inizio che si confronta ora con le
anomalie della sua pratica. Il problema di quali siano state le motivazioni
personali e le suggestioni culturali che lo condussero a ricordarlo, in che
misura egli abbia stabilito con queste ultime un rapporto di semplice mutuazione, o di elaborazione, o di radicale opposizione, è stato anch’esso
dibattuto nel blog e si ritrova nei capp. V-VI di questa sintesi. Qui registriamo che questo avere ricordato comportava: la messa in rilievo (op. cit., pp.
379-380) del momento iniziale del fenomeno della percezione delirante
indicato con la parola “trema”; il non limitarsi a considerare gli sviluppi
psicopatologici di quel momento fino a parlare esplicitamente, peraltro
sulla scia di altri (Matussek 1953; Fagioli M. 1962a p. 379), di più forme,
normali e no, di tale percezione; il conferimento alla parola “delirante”
di un significato meno definito di quello che aveva nella psichiatria e nel
linguaggio corrente e che comprendeva il riferimento a un’attività mentale
generalmente costruttiva e inventiva; l’avere perciò potuto parlare di un
«ponte», di una continuità, tra la creatività dello schizofrenico a quella
dell’artista (Fagioli M., 1962c) e proporre non solo una ridefinizione della
nosografia psichiatrica, ma anche un’idea di cura, di unità dell’esperienza
e di uguaglianza.
20
Il paese degli smeraldi
In seguito però egli tornò a parlare di quel fenomeno in termini esclusivamente psicopatologici13. Dimenticò ciò che aveva ricordato, introducendo così nella sua teoresi una contraddizione che sarebbe stata resa
evidente dalle anomalie non più taciute da quanti intervenuti nel blog.
7. Il blog ha ospitato più e diverse prospettive su questa dimenticanza.
Per alcuni il problema non sussiste. Non è stato dimenticato nulla perché
nulla è stato ricordato (Lalli, 2007). Le anomalie e le incoerenze derivano
dal fatto che non è stato formulato alcun nuovo paradigma; che quello che
è stato presentato come tale è solo un assemblaggio di elementi di paradigmi già esistenti per cui le anomalie che si presentano sono analoghe a
quelle che si sono presentate ad essi.
Altri ammettono la formulazione di un paradigma che presenta novità
rispetto alle precedenti formulazioni filosofiche e psichiatriche sulla natura della psiche e ritengono che la dimenticanza di quanto gli conferiva
novità non consegua da esso, ma da qualcosa intervenuto nel corso della
sua applicazione. Tale dimenticanza sarebbe intervenuta per un eccesso
di urgenza nell’ottenere la soddisfazione del riconoscimento, che forse ha
qualche nesso o radice con un precoce interesse per il male sacro (Fagioli M., 1962b). Oppure si è imposta o è stata subita per il configurarsi
del transfert e del controtransfert nel rapporto terapeutico con un grande
gruppo: lo sbigottimento può infatti svolgersi nella meraviglia che rapisce
alla ricerca, oppure decadere in angoscia e terrore; tra questi due estremi si presentano altre forme del suo svolgimento; non è facile stare nella
meraviglia, reggere il desiderio di conoscenza, restare rapiti nella ricerca;
la paura di perdere il fragile bene che costituiscono, l’impulso a conservarlo, può tradurre la meraviglia in ammirazione per chi l’abbia suscitata
rompendo silenzi pregressi; e, quando l’ammirazione e la responsabilità di
mantenere accesa, mantenendola accesa, l’illusione di vivere la meraviglia, sono tanto grandi, può accadere che chi è investito dall’ammirazione
aggiunga a quella degli altri per lui quella sua per se stesso. Così la dimensione dell’inizio, della nascita, della meraviglia e del rapimento nella
ricerca si perde nelle acque stagnanti e splendenti della fede: è il paese
degli smeraldi; e l’ingenuità di Dorothy che chiede di vedere quanto ha
13Ad esempio: «La percezione delirante è quella certa qual cosa in cui il malato
percepisce esattamente il mondo e le cose per quello che sono, ma crede che al di
là del direttamente percepibile ci sia qualche altra cosa; questa credenza è delirio,
perché questa altra cosa non c’è o c’è una cosa diversa da quella che il malato
crede che sia» (Fagioli F., 2001, pp. 58-59).
Presentazione
21
ammirato è la stessa di quanti nel blog hanno rotto il silenzio che impediva
di dire quanto avevano visto.
Altri ancora pensano che quella dimenticanza sia conseguita necessariamente a un limite presente già in quell’iniziale avere ricordato e nel
paradigma da esso dedotto. Si riferiscono a una confusione, mai sciolta
e cronicizzatasi, radicata nella personalità, tra avere ricordato e avere
creato. Chiamano in causa la scelta di formulare il paradigma servendosi
del modello della fisiologia della nascita. Tale scelta rispondeva all’esigenza di conferire forza al paradigma dandogli un fondamento nella fisiologia e nella biologia, ma questa forza manifestava due debolezze: la
prima dovuta al fatto che quel modello era stato pensato nei termini in
cui era possibile pensarlo, resi poi obsoleti dalle successive acquisizioni
della neurofisiologia (Lago, 2006); la seconda dovuta al fatto che il ruolo
conferito nel suddetto modello all’istinto di morte e l’affermazione della
varietà dell’intensità di tale istinto, e quindi di tale ruolo, da nascita a nascita, introducevano un principio di contraddizione nell’idea della possibilità della cura, dell’unità dell’esperienza e dell’uguaglianza (Sciommeri,
1998; Armando, 2000, pp. 247-250).
Il blog lascia aperta questa indagine sulla dimenticanza. È però certo
che l’impatto con le anomalie di una pratica che ha risentito di essa riconduce oggi a un inizio anche chi, da quanto aveva ricordato, aveva dedotto
un paradigma dell’inizio. In altri termini, quell’impatto riporta sia lui sia
quanti lo seguono a una condizione nella quale può riaccendersi il vissuto dello sbigottimento: neppure loro si aspettavano quell’impatto, proprio
come non se l’erano aspettato gli autori dei commenti che nel blog non
l’hanno taciuto; anche chi riteneva non ci fosse più nulla di cui sbigottirsi
perché credeva che il paradigma avesse detto tutto su quel vissuto, vengono ricondotti sulla sua soglia e restituiti a un’eguaglianza negata, che è
quella del confronto, non tanto con le anomalie o con chi le ricorda loro,
quanto con quel vissuto.
Il problema che questo «amatissimo blog» pone sembra infatti essere
quello della necessità di continuare a indagare quel vissuto e di stabilire
un più esatto rapporto con esso; e, se è forse irrealistico credere che il
blog e la sua sintesi inducano a ciò chi nel 1972 aveva estratto da esso un
paradigma dell’inizio, può non essere troppo ritenere che inducano tanti i
quali, come in passato era accaduto a molti degli intervenuti, hanno perso
nell’ammirazione la possibilità di meravigliarsi, a ritrovarla e a vivere il
rapimento in una ricerca straordinaria che dura da cinquecento anni costituendo il senso della modernità, e riproponendosi ogni qual pur minima
volta ciò che è nascosto viene svelato e ciò che è taciuto viene detto.
23
1
TESTIMONIANZE E RACCONTI
Il precetto secondo cui quanto riferito a un terzo esterno a proposito
delle sedute o del rapporto con un dato terapeuta va accolto con riserva è
senz’altro da rispettare, allorché il racconto riguardi un singolo addetto ai
lavori. Il lavoro terapeutico consiste infatti in gran parte nell’elaborazione
di fantasie e la commistione con dati di realtà può, qualora non condotta
correttamente, portare a fraintendimenti colossali. Nell’elaborazione di
queste fantasie rientra peraltro il rapporto di transfert che, come è noto,
può contenere elementi di forte ostilità, se non di vero e proprio travisamento degli atti del terapeuta. La cautela d’obbligo nell’entrare ex abrupto dall’esterno anche in una qualsiasi relazione interpersonale - che ha
un suo lessico, suoi punti di riferimento simbolici, un suo percorso storico
- che permette di evitare un’intrusione illegittima e forse molesta, diventa
ancora maggiore se il rapporto è delicato come quello professionale tra un
paziente e un terapeuta.
Tuttavia bisogna anche tener conto delle contestazioni, che da molte
parti oggi vengono rivolte alla psicoterapia in genere, ossia di essere una
disciplina scarsamente trasparente quanto a procedimenti e verificabilità
dei risultati. Contestazioni che negli ultimi tempi hanno portato anche i più
ortodossi difensori di una tradizione tetragona a ogni forma di cedimento
su questo terreno, a convenire che andrebbero cercati sistemi di confronto
e verifica della pratica clinica in grado di rendere pubblici e visibili metodi, procedure e risultati che, tenuti ermeticamente chiusi nella stanza di
terapia, convaliderebbero un’immagine della stessa come pratica esoterica e suggestiva, ossia poco o nulla scientifica.
Il fatto nuovo è che il materiale in questione non è comparso nell’ambito specialistico, in qualche modo ristretto degli addetti ai lavori, ma in
forma pubblica, su un blog, alla portata di tutti. Potenza e novità di internet, forse, ma anche effetto dei tempi e può darsi della stessa storia cui si
riferisce, ma forse più ampiamente, qualcuno potrebbe dire parafrasando
Pier Francesco Galli in polemica con la moda americana della self disclosure, un segno del passaggio storico della psicoterapia dalla stagione
24
Il paese degli smeraldi
della «mummia ridens» a quella dell’«analista in mutande» (Galli, 1996;
2006). In altre parole, il terapeuta che imposti gran parte della propria
attività sull’esternazione dei fatti propri, ivi inclusa la propria partecipazione emotiva o fattiva a iniziative extra analitiche, o episodi che riguardano la propria appartenenza a questo o a quel gruppo ideologico, o che
addirittura in queste attività coinvolga regolarmente i propri pazienti, può
aspettarsi una sorta di nemesi nell’essere poi da questi “messo in mutande”. Queste ragioni, a lungo ponderate, hanno portato alla decisione
di pubblicare il materiale come stimolo a una discussione il più ampia
possibile.
Tutta la problematicità della questione è stata presente fin dal suo inizio
all’interno dello stesso blog. Spazio selvaggio, ma consapevole, in esso
fin dalla comparsa dei primi messaggi di denuncia ci si è preoccupati di
definire il contenuto del blog chiedendosi come considerarlo: fantasie, pettegolezzi o testimonianze?
Delle fantasie abbiamo già detto. Quanto ai pettegolezzi, questa dizione
in verità non ha trovato molti contenuti cui essere applicata: tutte le affermazioni che per il loro carattere di inattendibilità, parzialità, intenzione
puramente denigratoria e pretestuosità potevano rientrare in questa categoria, sono state stigmatizzate da una decisa opposizione nel corso della
discussione sul blog e poi espunte da questa raccolta. Bisogna anche dire
che queste caratteristiche non si riscontravano tanto nei post di pazienti o
ex pazienti, quanto piuttosto in quelli di coloro che intervenivano di tanto
in tanto a screditare il blog e chi ci scriveva. Non si è ritenuto invece di
accettare per principio l’assunto che ogni tipo di riferimento a sedute di
psicoterapia, pur espresso in forma colorita come si addice a un blog,
fosse di per sé da considerare una sorta di indiscrezione o pettegolezzo.
Soprattutto quando tali riferimenti davano in ogni modo da pensare e risultavano corrispondere a una realtà da molti ampiamente riconoscibile.
Si andava accumulando infatti materiale riguardante le sedute dei piccoli gruppi tenuti da terapeuti fagioliani o del grande gruppo tenuto dallo stesso Fagioli, che presentava caratteristiche simili pur provenendo da
fonti diverse e senza che si potesse supporre una qualche forma di accordo
tra chi interveniva, che andava componendo una sorta di campione prezioso per rendersi conto di come funziona un dato procedimento terapeutico e
per interrogarsi su di esso; e che quindi non poteva rimanere segreto, naturalmente nel rispetto dei caratteri di non riconoscibilità che garantiscono
pazienti e colleghi nella pubblicazione dei casi clinici e inserendolo in una
cornice consona di dibattito e riflessione. Inoltre, il carattere non isolato,
ma in qualche modo corale e diffuso di tali comunicazioni, le collocava
Testimonianze e racconti
25
immediatamente fuori dall’ambito dell’indiscrezione e del pettegolezzo ponendole piuttosto in quello della protesta, consegnando all’attenzione di
tutti, professionisti o no del settore, una serie di informazioni e di dati che
chiedono di essere accolti e commentati.
“Testimonianze” ci è sembrato dunque il termine più adatto a connotare
l’aprirsi di queste esperienze dirette a un pubblico vaglio e commento. Il
termine, preso dalla tradizione politica e sociale più che da quella psicoterapeutica, appare inoltre particolarmente adatto a sottolineare il carattere
non solo professionale dell’intera vicenda.
A questo proposito sono da specificare ancora alcuni elementi. In particolare, per quanto riguarda il riferire di esperienze relative ai seminari
tenuti da Fagioli, seminari frequentati da centinaia di persone, che ai più
sono noti per l’esplosione del fenomeno attorno agli anni Settanta, il rapporto terapeutico tra Fagioli e Bellocchio, mai tenuto segreto o riservato
da nessuno dei due, le ultime uscite in politica dello stesso Fagioli, che più
volte hanno condotto a incontri pubblici dei partecipanti all’analisi collettiva con esponenti del mondo politico.
A chiunque risulterà dunque difficile pensare che si possa parlare di indiscrezioni o pettegolezzi se all’esterno trapela qualcosa di quanto avviene
nelle sedute di psicoterapia collettiva. È infatti veramente arduo, visto il
numero e la mancanza di qualsivoglia forma di contratto o di accordo dei
partecipanti con il conduttore di questi grandi gruppi-massa, controllare
che i contenuti della seduta non vengano riferiti all’infuori di essa.
È caso mai singolare che mai prima di ora quanto avveniva in queste
stesse sedute abbia avuto una diffusione pubblica. Non che di certe cose
non se ne parlasse, anzi, come testimoniano alcuni degli interventi qui riportati, nell’ambiente della stessa analisi collettiva informazioni di questo
genere avevano e continuano ad avere un’ampia diffusione. Ma pubblicamente no, non se ne era mai parlato, neanche nei numerosi convegni e
incontri promossi nel corso del tempo dall’analisi collettiva e nonostante
l’esistenza di strumenti di approfondimento quali una rivista specialistica.
In queste situazioni “il punto di vista dei pazienti” non ha mai trovato,
almeno finora, molto spazio, neanche come oggetto di studio. Paradossalmente si potrebbe dire che il blog, e ora questa pubblicazione, siano
la prima occasione per fare uscire il mormorio prodotto sia dagli stessi
partecipanti sia da sporadici commentatori esterni, attorno alle sedute di
psicoterapia di Fagioli, dall’ambito del pettegolezzo per inserirlo in quello, critico, di una discussione sulla psicoterapia.
L’altro termine che è stato scelto per connotare la raccolta è quello di
“racconti”, riferito non a ciò che può avvenire nello specifico di una sedu-
26
Il paese degli smeraldi
ta, ma a fatti o avvenimenti da collocare nello spazio che ruota attorno alla
pratica (alle pratiche) di psicoterapia. Qui si apre un mondo sicuramente
sconosciuto e difficilmente comprensibile per chi di Fagioli sa poco o niente, ma anche per chi, pur conoscendo lui, la sua storia, la sua produzione
di pensiero, non abbia alcuna dimestichezza con il mondo dell’analisi collettiva, che oltre alle sedute comprende una serie di occasioni di incontro
e partecipazione le quali, come ben descritto da alcuni interventi, possono
arrivare a occupare, e perfino saturare, l’intera esistenza quotidiana dei
partecipanti.
Il contrappunto dei due termini “testimonianze” e “racconti” è sembrato appropriato per proporre una differenza tra due piani. Da una parte
ci sono pazienti che raccontano le loro vicende, che devono destare l’attenzione di chiunque, e massimamente degli addetti ai lavori, per i pericoli rispetto ai quali mettono concretamente in guardia. Dall’altra parte ci
sono fatti che comunque, anche se probabilmente influenzati da dinamiche
transferali, riguardano non pazienti, ovvero un ambito di frequentazione
diverso da quello del rapporto strettamente terapeutico. Rispetto a questi
ultimi, nonostante la loro gravità, riteniamo che ci sia una possibilità per
chi ne sia coinvolto di difendersi o di sottrarsi che nel primo caso è molto
ridotta. Parimenti riteniamo che ci sia, se pure in teoria, la possibilità di
diverse versioni degli stessi fatti, possibilità che ci penseremmo due volte
a invocare in prima istanza a proposito delle testimonianze. Testimonianze
e racconti sono comunque complementari nel dare un quadro di ciò che
caratterizza complessivamente l’esperienza dell’analisi collettiva. Proprio
per consentire questa visione d’insieme sono stati inseriti anche quegli
interventi che parlano a favore di quell’esperienza. Tutti insieme costruiscono un panorama esauriente e veritiero per chi ne abbia conoscenza
diretta o ampiamente informata.
Per chi ne sa poco o niente e non si ritiene neanche interessato al fenomeno Fagioli e analisi collettiva, il loro valore è di sollevare una serie di
questioni che rimandano a problemi trattati nei successivi capitoli.
I. Per la prima volta, a 30 anni, avevo un disturbo, non avevo dormito
qualche notte, avevo problemi con la mia donna. Pensai che avrei dovuto
sentire qualcuno, lei per tutta risposta mi diede un libro. Dopo un po’ mi
ritrovai dal Maestro e poi anche da un “ministro”. Il primo impatto è stato
sconvolgente: pensavo che avrei potuto parlare di me e della mia situazione
di rapporto, non sapevo più cosa fare, avevo necessità e allo stesso tempo
timore di una separazione che pure sentivo necessaria. Niente di questo:
la prima interpretazione che ricevetti sentenziava che le mie difficoltà con
Testimonianze e racconti
27
quel rapporto non c’entravano con il mio malessere, ma che esso era dovuto all’ uscita di non so quale delle decine di edizioni di non so quale libro
del Maestro. Rimasi sconvolto da tutto ciò, che causò un notevole aumento
del disagio: all’insonnia si aggiunse l’ansia e poi l’angoscia, tutte cose a
me prima sconosciute. Avevo solo due strade: scappare subito e andare da
un dottore che parlasse come un dottore, o pensare che ero stato fortunato a
capitare da un genio che non parlava come un dottore; scelsi questa seconda e fui fregato. Poi, anni dopo, mi sono alzato e me ne sono andato con le
mie gambe. Piero
II. Sono una delle persone che seguono Fagioli. Ho letto i post e in un
certo senso posso capire da dove arriva l’acredine di quanti criticano l’analisi collettiva, ho visto più di una volta succedere quello di cui parlano e la
mia reazione sulle prime è stata di insofferenza. Persone prima portate sul
palmo della mano e poi criticate aspramente. Mille volte ho pensato che
io non avrei retto quel trattamento. Però non sono andata via e questo mi
ha dato modo di vedere l’evoluzione di certe situazioni; ho visto, e vedo,
persone che affrontano anche le critiche più feroci, pubblicamente, e vanno avanti e controbattono e prendono la cura, l’interpretazione, la ricerca.
Vanno avanti e si trasformano sotto gli occhi di tutti, e diventano più belli.
Perché ancora seguiamo uno che dice di fare tutto lui, di aver capito tutto
lui? Mah, forse perché sotto quella superbia senza pari ci sta un medico, un
uomo che sente, vede e ci piglia nel profondo. E cura. Massimo Fagioli mi
mette in crisi, mi fa stare male, non lo sopporto, certe volte lo appiccicherei
al muro, a volte mi fa ridere, altre volte penso che ha un culo stratosferico
perché spara certe cose e poi la storia gli dà ragione (fortuna o genio?). Ma
poi torno, perché a forza di odio e di lotte mi vengono fuori le immagini, la
vitalità, la forza, viene fuori la mia identità. Barbara
III. Ho vissuto tutte le tappe: la disperazione precedente l’incontro con lo
psicoterapeuta, la diffidenza, il trasporto entusiasta, l’adesione alla teoria,
il rinnegamento di teorie precedenti, religioni e filosofie, l’ossessione per la
persona di Fagioli, il fanatismo, il rifiuto di genitori e amici trasformatosi
ben presto in violenza, l’odio e la paranoia; infine, grazie a un momento
di crisi profonda, la riapertura dei miei occhi, la scoperta di un tradimento
profondo da parte del mio terapeuta e l’allontanamento.
Qual è il tradimento? Il fatto di essere uno strumento, di conferma che la
teoria cura, è efficace, che il pensiero di Fagioli è rivoluzionario. Uno strumento necessario affinché lo psicoterapeuta stesso non si spezzi. A lui non
importa se stai bene o no, se stai bene realmente, importa solo quanto più
28
Il paese degli smeraldi
profondamente sei entrato dentro questo pensiero, con quanto più trasporto e meno autonomia hai letto i libri, visto le lezioni, seguito il percorso
rivoluzionario del suo maestro. Dopo due anni di terapia sono nella merda
più di prima, sono disperata perché la mia depressione, le mie ansie sono
identiche, se non più forti, e nello stesso tempo sono sfiduciata su tutti i
miei rapporti... immensamente sola.
Uno dei fenomeni che da subito mi ha colpito e spaventato nel piccolo
gruppo è il pensiero magico mostrato dal mio terapeuta e dagli altri membri
del gruppo nei confronti della persona, dei detti e dei fatti di Fagioli: sogni
su di lui che rievocherebbero momenti della sua vita e della vita dell’analisi collettiva in persone ignare di tali momenti, sogni sincronici, sogni
premonitori. Come se esistesse un inconscio collettivo fatto di immagini
archetipiche che riguarderebbero però solo queste realtà, e come se le immagini di questi eventi eccezionali nella storia umana avessero il potere di
trasmettersi in uno speciale modo non cosciente (o soprannaturale). Queste
almeno le spiegazioni implicite e non date dal terapeuta.
L’esperienza con questo tipo di psicoterapia fa terra bruciata su tutto il
nostro passato: scelte, pensieri, relazioni amorose, amici, genitori: «L’uomo vecchio deve essere buttato completamente nella spazzatura» (così disse un giorno il mio terapeuta). Da tutto ciò deriva, in chi non ha esaltazione
cieca, una profonda reazione depressiva e sentimenti paranoici persecutori
nei confronti di tutto ciò che appartiene al passato, a quella parte del passato che vive ancora nel presente (amici, genitori, scelte), alla costruzione
del futuro.
Una domanda fondamentale ne risulta: quanto di ciò che abbiamo appreso può essere considerato valido? Quanto e cosa dobbiamo disimparare?
Come ritrovare la spontaneità del vivere e la corretta visione della realtà,
quando le stesse sono state imbrigliate in schemi apparentemente precisi
e funzionanti? È un percorso che può essere fatto da soli o per qualcuno
potrebbe esserci il rischio di non farcela? Riallacciarsi alla propria storia di
prima e del di fuori è difficile soprattutto perché tale storia è stata violentemente e sistematicamente distrutta. Rudra
IV. Nella terapia di gruppo dei terapeuti fagioliani (sicuramente nel mio
gruppo, che frequento da diversi anni) non ci si confronta con gli altri, bensì con il terapeuta, o meglio con la sua immagine interna che emerge nelle
sedute. Perché, come tutti sanno, l’analisi si basa sul transfert. La centralità
delle sedute del mio gruppo non è certo costituita dagli articoli, dalle aule
magna o dalle lezioni a Chieti di Fagioli, ma dalla dinamica di gruppo e
dal rapporto personale con il terapeuta. Sicuramente la teoria fagioliana è il
Testimonianze e racconti
29
fondamento su cui si basa l’interpretazione dei sogni o dei comportamenti
raccontati o evidenziati durante la seduta, ma in fondo nel gruppo “te ne
puoi anche fregare” di Fagioli, nella misura in cui l’importante è che tu
riesca a “fare la nascita” e soprattutto a mantenerla, che significa riuscire a
farla in ogni situazione per te significativa. Oppure a fare una separazione
o, al limite, a fare ricerca. Spesso il mio terapeuta ha interpretato sogni in
cui c’erano immagini su Fagioli o sull’analisi collettiva come negazioni
per non parlare del rapporto gruppo-terapeuta. Rowan
V. Questa è una delle prime interpretazioni che ricevetti (ero ancora in
individuale, in attesa di entrare in un piccolo gruppo): «Questo sogno vuol
dire che tu credi che dietro questa storia ci sia anche una questione di soldi,
è una colossale negazione e ti spiego anche il perché». E giù spiegazioni sulla libreria, la cooperativa, la copertura degli eventi. Non ci avevo
mai pensato, consciamente, che dietro ci potesse stare anche una questione
di soldi, per cui rimasi allibito: «Ma possibile che io abbia pensato una
cosa del genere? No, non è vero, non lo penso». «Certo che no, non consciamente, ma l’annullamento è inconscio». «Ah, bene». Ovviamente, da
quel momento non mi balenò più per la testa la cosa, né consciamente né
inconsciamente. Tanto potenti sono questi mezzi. Non posso però negare
che un salto la mia terapeuta me lo abbia fatto fare, tanto da dirle che era il
momento che io me ne andassi. La sua reazione mi ha fatto un po’ impressione, non me l’aspettavo affatto, ma sono fatti miei e suoi. Ecco perché,
paradossalmente, penso che ci sia “qualcosa” da qualche parte che un minimo cura. Forse proprio questa capacità di opporsi che ricresce piano piano
nel confronto continuo. Claudio
VI. Mi bastano i 25 anni che ci ho già lasciato e alcune cose che, alla
rinfusa, voglio elencare qui sotto: aver passato, all’interno dei 25 anni, cinque anni su un lettino, identico a quello di Freud, a sentir uno che diceva
che Freud non aveva capito niente (i piccoli gruppi sono un’invenzione
recente); aver visto una terza di copertina sulla quale era scritta la parola
“moglie” che poi è sparita; aver visto il titolo di un libro che cominciava
per “Psicoanalisi” e che ora si chiama in un altro modo, anche se il contenuto è lo stesso; vedere questo Signore, intervistato dopo qualche fatto di
cronaca drammaticissimo, dare a intendere che lui, e Lui solo, sa per filo
e per segno quello che è successo e come si potrebbe fare per evitare fatti
così efferati; ascoltare adepti, fra i quali anche persone che si potrebbero
reputare in gamba, dire in continuazione: «Qui dentro si fa la storia».
30
Il paese degli smeraldi
Mi pare che la distanza tra quello che è il mondo dell’analisi collettiva
e quello che crede o dà a intendere di essere, sia pari soltanto alla distanza
fra la promessa di una cura della malattia mentale, in tempi ragionevoli,
e la creazione di un mondo di spostati. La prossima volta che starò un
po’ male prenderò un’aspirina prima che qualcuno mi convinca di avere
il cancro: “niente paura” perché qui c’è la cura, e non era vero niente, né
il cancro (per fortuna) né tanto meno la cura. La pena che porto nel cuore
è che qualcuno lo ha davvero il cancro e qualcun altro, da 30 anni, gli sta
promettendo... promettendo... e, come accadeva in una vecchia barzelletta,
se il paziente migliora è merito suo, di Lui, ma se peggiora è colpa del
paziente, sempre e comunque. Ero convinto di aver abbracciato un mondo
grande grande e invece mi ero chiuso in uno piccolo piccolo. Antonio
VII. Dopo avere preso rapporto con la Storia, la “nostra storia” come la
chiamano in analisi collettiva, ti accorgi che c’è una spira avvolgente che
ti tira dentro. Ti fanno e ti fai terra bruciata intorno: non più madri, padri,
sorelle e fratelli, che se non ti seguono nel cammino sono tacciati come
pazzi, violentatori o violenti, ciechi neganti, schizoidi. Poi, un bel giorno,
un’idea, un’intuizione o un malessere profondo che nulla ha di patologico:
è solo che hai iniziato, avendo ancora intelligenza, sanità e soprattutto buon
senso (sì, quello del panettiere, delle persone comuni), a capire che qualcosa non torna nel modo di fare delle persone e, se leggi ancora e ti confronti
con il mondo fuori dall’analisi collettiva, basta poco e vedi che anche nella
tanto decantata “teoria” qualcosa non torna! Niente è stato detto, ma soprattutto pensato prima di lui! Reazioni: disorientamento, sconforto, confusione. E poi senso di libertà, di poter di nuovo e totalmente ricominciare
a pensare con la propria testa che, anche se magari non geniale, è sempre
la tua. Sarli
VIII. L’altro giorno, il primo gruppo di due ore dopo l’incontro con
Bertinotti di venerdì è stato incentrato sulla grandezza e importanza di
quell’incontro. Io avevo provato a parlare di un argomento che mi angosciava e a esigere un intervento terapeutico, ma lo psicoterapeuta mi ha
mandato a... dicendo che ero un negatore, un annullatore, un malato e che
dei miei fatti personali non fregava niente a nessuno. Ho letto i vostri post
e molti dei miei dubbi si stanno chiarendo. È un po’ triste perché non so
cosa fare. Franco
IX. È dal 2001 che seguo questa ricerca, ora so che un figlio nasce sano,
la malattia mentale non è organica, il pensiero cosciente di una madre può
Testimonianze e racconti
31
rendere il figlio pazzo così come la sua assenza psichica, la sua anaffettività. Quando un bambino si ribella ci sta chiedendo qualcosa e non di essere
addomesticato come un animaletto. Quando le maestre di mio figlio mi
convocarono dopo circa un mese dall’inizio della prima elementare rimasi
perplessa: «Suo figlio ha un disagio», mi dissero, si rotolava per terra e
urlava. Provai un senso di smarrimento e d’impotenza, mi spaventai. Ripensai alle notti in cui, a pochi mesi di vita, lo chiudevo in un’altra stanza
perché urlava troppo, a quando (a circa due anni) perdeva i sensi diventando cianotico.
La mia terapia individuale durò circa due anni. Uno tra i primi sogni
significativi: mia madre voleva darmi dei panini rifatti, in cambio avrei dovuto darle una cifra corrispondente alla parcella della seduta. L’interpretazione fu: «Le mie interpretazioni non sono vecchie (i panini rifatti) perché
non le leggo sui libri di testo, ma nascono dal nostro rapporto e soprattutto
io non sono tua madre». Avevo identificato la mia psicoterapeuta con mia
madre perché temevo mi fregasse come lei. Compresi che la bramosia aveva uno stretto legame con la rabbia che avevo accumulato per anni nei confronti di mia madre e con l’invidia. Iniziai per mia scelta a leggere i quattro
libri considerati la base della teoria fagioliana.
Dopo la lettura di Istinto di morte e conoscenza sognai che qualcuno
aveva aperto i due cassetti segreti della toletta ottocentesca regalatami da
mio padre per il mio 18° compleanno; l’interpretazione fu che con la lettura di Istinto ero riuscita a cogliere l’annullamento riguardo alla morte di
mio padre: il giorno del suo funerale non avevo versato una lacrima. I due
cassetti aperti erano gli occhi della mia dimensione psichica. Dopo Teoria
(a quel tempo Psicoanalisi) della nascita e castrazione umana sognai che
una donna con la quale anni prima avevo seguito un corso di “meditazione”, mi leggeva un libro dalla copertina azzurra, quando improvvisamente entrava mio figlio e mi mandava a “quel paese”. La donna mi chiede:
«Fa così perché è nato in ritardo?». «No», rispondo, «è nato in anticipo».
L’interpretazione fu che mio figlio fin dalla nascita mi ha mandato a “quel
paese” difendendo la sua identità, solo che io non volevo permettergli la
separazione da me. Dopo la lettura di Bambino donna e trasformazione
dell’uomo, sognai di essere al mare e di usare una crema con protezione
43. L’interpretazione fu che con questo sogno avevo elaborato appunto il
quarto testo, in particolare chiedevo aiuto riferendomi a ciò che è espresso
nella domanda 43 che tratta delle masturbazioni mentali.
Spero di essere riuscita a esprimere che la teoria fagioliana non può
essere analizzata razionalmente, né accettata da replicante. Oserei dire che
è da “sperimentare” sulla propria pelle in modo del tutto irrazionale, come
32
Il paese degli smeraldi
penso che all’interno dell’analisi collettiva ognuno sia libero di seguire e
prendere ciò che vuole e quando lo vuole. C’è stato un periodo, dopo circa
due anni di seminari, in cui ho sentito l’esigenza di chiedere nuovamente
aiuto alla mia psicoterapeuta, la quale mi inserì in un gruppo per circa
un anno. Fu per me un’altra guarigione e non trovai affatto imposizioni o
interpretazioni dei seminari. Attualmente frequento ancora l’analisi collettiva e se non ci posso andare non vado in crisi. Marziò
X. Sono indirettamente entrato in contatto con l’analisi collettiva circa
tre anni fa e subito ho avuto l’impressione di avere a che fare con una specie di “mondo a parte”, dove il pensiero di un illuminato è la guida di tutto,
anche fuori da quello che pensavo fosse il rapporto terapeutico (libri da
leggere, riviste da comprare, film e dvd da vedere, artisti da apprezzare e
financo gli interventi da fare in pubblici incontri). Molti hanno raccontato
aneddoti e esperienze che confermano questa mia impressione.
A lungo ho ritenuto il tutto come un aspetto folcroristico di un fenomeno
che dava comunque i suoi frutti: centinaia e centinaia di persone che stavano meglio e che riuscivano a curare i loro disturbi psichici. Gli interrogativi
a oggi restano, non riesco a pensare che i fagiolini siano plagiati o stupidi
e non ho alcun fondamento scientifico per valutare la validità della teoria.
Fatto sta che “rosico” per come nel passato quest’esperienza abbia potuto
influire sulla mia vita e per come tuttora sia totalmente invasiva della vita
di una persona a me molto cara. Luca
XI. Anch’io ho avuto una lunga esperienza di psicoterapia fagioliana
individuale, e in seguito di analisi collettiva. Stavo molto male, non sapevo
cosa fare della mia vita e avevo un figlio piccolo. È stato un percorso lungo
e doloroso, ma alla fine ce l’ho fatta! Mi sono ricostruita una vita, creata
una professione dignitosa, ho recuperato gli affetti... Tutto questo, però,
è avvenuto grazie alla preparazione della mia terapeuta che non si è mai
limitata, a parte credo i primi anni, ad applicare esclusivamente la teoria
fagioliana, ma si è confrontata anche con altri autori.
Le cose sono cambiate con il mio arrivo all’analisi collettiva. Mi è stata
subito diagnosticata una depressione, dalla quale sarei guarita, a detta del
Maestro, appena giunta ai seminari! Aveva annullato in un colpo solo tutto
il lavoro della mia terapeuta! Io là per là l’accettai: ero felice di spellarmi le
mani alle aule magna, alle lezioni... ero entrata in un mondo dove per essere
felici bastava seguire quelle regolette, comprare le riviste, osannare il Capo,
che diventava sempre più narcisista. Io credo che qualcosa di buono ci sia
nella sua teoria, ma che alla lunga si sia fatto prendere la mano da una cosa
Testimonianze e racconti
33
cui non ha saputo resistere; ridimensionarsi è molto difficile, specie quando
hai un migliaio di persone che pendono dalle tue labbra... e allora vai avanti,
cerchi di prendere il più possibile. Da quando non vado più mi sento rinata,
libera, penso con la mia testa, nonostante sia anche un po’ arrabbiata! Mary
XII. Ho abbandonato l’analisi collettiva circa dieci anni fa. L’ho fatto
senza rancore, anzi quasi con sensi di colpa di “non essere all’altezza”, ma
con la ferma convinzione che davanti a tutto dovessi mettere un minimo di
sincerità con me stesso. La mia sensazione: ricerca troppo oscura e volatile,
dilettantismo diffuso, disegni sgraziati e rozzi presentati come opere d’arte,
seminari lunghi la cui fatica era dopo tutto scarsamente ripagata (sonno).
E poi un livello di rapporti umani bassissimo: tutto molto artefatto, lotte di
potere feroci quanto sproporzionate alla posta in gioco, arroganza e presunzione in dosi massicce. Mi sono detto: «Forse questi stanno veramente
meglio di me e io sono folle (anzi è probabile), ma per quanto mi riguarda
non può venire fuori niente di buono da questo autoinganno». Il rancore è
venuto dopo, man mano che, mi sono reso conto che il problema non era
nella mia scarsa capacità di seguire la ricerca.
Ho scritto queste cose per introdurre una domanda: quanti dei tormenti dei
“fagiolini” sono indotti da un uso ricattatorio, spregiudicato, privo di umanità della parola “follia”? Personalmente ho preferito bandire dal mio vocabolario questa parola, piuttosto che rischiare di ripeterne l’uso di cui sono
stato testimone. Vorrei ricordare che la storia dell’analisi collettiva è anche la
storia di migliaia di persone che sono passate di là (anche solo per una volta)
e hanno cambiato strada, e di altre decine di migliaia che hanno avuto a che
fare con i “fagiolini” e si sono subito messe le mani nei capelli, inorridite. Teniamolo presente: la società, con tutti i suoi difetti, è molto più libera e sana e
il “fenomeno Fagioli” lo ha collocato ai margini, fuori dalle sue correnti più
vive, già da molti anni. Questo forse potrà ferire il narcisismo di qualcuno
dei “liberati”: dopo tutto, molti di noi sono venuti su nella convinzione di essere sempre all’avanguardia e di avere un filo diretto, per diritto divino, con
le élites culturalmente dominanti (orgoglio sessantottino...) e non fa piacere
trovarsi improvvisamente alla retroguardia. Può dispiacere, ma secondo me
è la verità. Infine, non credo sia un caso (dopo tanti anni di qualunquismo e
indifferentismo militante praticato dall’analisi collettiva, mentre nella politica italiana accadeva di tutto) questa grande riscoperta dell’impegno politico,
proprio nel momento in cui la politica italiana sta toccando forse il suo punto
di massima crisi. Enrico
34
Il paese degli smeraldi
XIII. Sono un paziente di una psicoterapeuta della Scuola romana. Non
frequento i seminari dell’analisi collettiva. Mi preme solo dare una testimonianza diretta: non sono mai stato invitato dalla mia terapeuta a leggere
giornali, riviste o libri relativi al Prof. Fagioli, né tantomeno a frequentare
i seminari dell’analisi collettiva, né certamente a votare per Bertinotti. Sto
veramente bene, faccio cose che non avrei nemmeno immaginato nei miei
sogni più arditi di... prima della cura. E non solo... da quasi un anno vedo
che stanno molto meglio le persone che mi frequentano... che reagiscono
molto positivamente ai miei movimenti, ed anche questa è per me una vera
sorpresa. Non so se riesco a spiegarmi... quella famosa “paura” di vivere...
di morire... di impazzire... quella paura che io e tanti altri abbiamo sempre inutilmente cercato di esorcizzare con un continuo controllo razionale.
Ecco.. io non ho più “paura”! Questa sensazione è per me impagabile, mi
sembra di essere praticamente nato adesso! Sono assolutamente certo di
non essere il solo in questa condizione, sia nel mio gruppo che nell’analisi
collettiva. Inviterei pertanto a voler ricercare altre esperienze simili alla
mia e volerne dar conto. Gianluca Zampieri
XIV. Da certi aspetti della pratica mi sentii lontano da subito (erano gli
inizi, 1976-77) e in contraddizione rapidamente manifestantesi e crescente
con me stesso: il mio libro (Sciommeri, 1976) era andato a far parte attiva
di un processo i cui sviluppi non condividevo. Così mi sono sentito un
esiliato, come gli antichi dissidenti politici che venivano risparmiati, ma
allontanati da Roma per tempo indefinito.
Il punto che volevo toccare è questo: non pensavo di essere uno scampato. C’è una bella differenza tra scampato ed esiliato. Dico così perché ora mi
sento anche uno scampato. Non è stata facile la vita dell’esiliato, soprattutto
all’inizio, poi ho percorso vie mie, liberamente. Ho conosciuto altri modi di
intendere la psicoterapia e l’insegnamento di essa, ad esempio. E se leggevo
un libro era perché per fatti miei ero arrivato a desiderare di leggerlo, e mi
lasciavo portare senza render conto a nessuno al di fuori di me stesso. Avevo
rapporto con persone che continuavano a partecipare all’analisi collettiva,
e di loro mi impressionava come sapessero usare la fantasia di sparizione
dell’immagine dell’altro da psicokiller professionisti.
Chi ne paga le conseguenze, che diventano fisiche, comportamentali,
poiché a quel punto tu non sei più propriamente un essere umano, deve stare molto attento a non accettare la proposta di annullamento prima psichico
e poi materiale, deve saper attingere a una forza di vita precedente, riallacciarsi alla propria storia di prima e del di fuori: cosa non facile, perché
Testimonianze e racconti
35
quella vita precedente o al di fuori era stata indicata al proprio disprezzo, il
quale è magari stato agito apertamente oltre che mentalmente.
Anch’io sono stato un ragazzo ricoverato: non in una clinica, bensì in
giro per il mondo, lontano da Roma di cui, la sera, da Montecompatri,
dove ero finito ad abitare per tutti i cambiamenti che comporta la perdita
del proprio gruppo di amici e i legittimi risentimenti di coloro che sono
stati disprezzati, vedevo brillare le luci come un lontano gioiello perduto.
Ora scopro, con una certa tristezza che sta nelle cose, di essere uno scampato. Soprattutto negli ultimi anni ricevevo dai contatti con persone che
facevano parte di quell’esperienza sensazioni sempre più forti e precise di
una deriva del loro essere, sentire e pensare, unita a un’adesione sempre
più cieca alle indicazioni e direttive di Fagioli (e famiglia, anche questa
era una novità) e a una loro crescente aggressività verso il resto dell’umanità estranea a quella teoria, sempre più vistosamente ignorata e ridotta
a formule propagandistiche o analisi collaterali di intelligenza attraverso
le sbarre. Aggressività da labbra improvvisamente tremanti verso il resto
dell’umanità estranea a quella prassi: passato storico, preistorico e diversità antropologiche, etnologiche e culturali incluse, incluse forse anche le
forme di vita eventuali di altri pianeti, non si sa mai.
Con dolore avvertivo la possibilità della deformazione di un’esperienza
di cui conservo ancora il ricordo di momenti di forza, speranza, bellezza.
Avrei dovuto essere più preparato a quello che ho visto e capito in questi
ultimi tempi. Invece è accaduto che, nonostante alcune precise percezioni
avute già alle origini negli anni di frequenza diretta e quelle avute successivamente nel corso del tempo, nonostante la preparazione culturale
consapevole di movimenti umani nati con passione trasformativa e poi deformati in altro, nonostante l’età, l’esperienza politica, sindacale, sociale e
amorosa, nonostante ciò, ogni tanto, nel corso degli ultimi anni e mesi, mi
sono ritrovato a far fatica ad accettare la realtà. La realtà emergente della
trasformazione di quella che è stata una realtà da me amata, e della quale
sono stato un’intelligenza credo meno monca, meno condizionata, meno
sbarrata di tante delle successive che ho avuto modo di sentire attraverso i
loro scritti e le loro parole parlate. Romeo
XV. Prima di arrivare davanti a Fagioli, non solo mi ero studiata la sua
teoria, ma avevo alle spalle sei anni di psicoanalisi freudiana. Mi intendevo
abbastanza bene di innamoramento da transfert. Sono stata “usata” a lungo
al seminario e anche “circuita”, ma non ci sono “cascata”: fuori ero io che
non conoscevo Fagioli. Ho potuto elaborare abbastanza bene il suddetto
transfert erotico.
36
Il paese degli smeraldi
Sono a lungo andata al seminario del mercoledì. Nella seconda metá
degli anni Ottanta venivo chiamata “la radicale”, “signora radicale”, “radicale intelligente”. Fui “cacciata” una volta dal seminario. Non mi era mai
successo, in vita mia, di essere maltrattata in maniera così incivile e oltraggiosa. Forse ero diventata pericolosa perché cominciavo a capire chi era?
Sono tornata dopo un certo tempo, dovevo finire di capire... Il nome mi fu
cambiato in “signora”, a volte “signora bionda”, il suo estremo opposto!
Fino a che, il 17 dicembre 2003, mi investì con un «quella là». Dopo aver
detto alcune cose che gli parvero interessanti, me ne uscii con quel «Sì»
alla sua domanda «Ti faccio pena?». Mi diede della “schizoide”.... Con
quella medaglia al valore, me ne sono andata definitivamente. Reduce
XVI. Posso solo raccontare la mia esperienza con uno psicoterapeuta
fagioliano. Molto spesso il mio malessere era solo contenuto e interpretato
come annullamento e negazione di questo o quell’evento. Quando stavo
in crisi, questo non dipendeva mai dalle mie dinamiche con amici, partner
o altri: tutto veniva riportato al fatto che non avessi letto o comprato per
tempo l’ultimo numero della rivista. I miei sogni erano sempre riferiti a
qualcosa che avevo visto, mi sembrava di non poter mai parlare di me.
La confusione aumentava perché io qualche problema lo avevo davvero.
Col tempo riuscii a cogliere difformità e contraddizioni in tutto il discorso.
Ci ho messo tempo ad andarmene, per la paura che, se avessi lasciato il
terapeuta, mi sarei sentita male; ma forse, anche, per la paura di venire
abbandonata dagli “amici”. Dopo un periodo di esitazione ho preferito rivolgermi a un altro terapeuta. Perdonatemi un po’ di acredine, ma deriva
dalla sensazione di essermi sentita usata. Alessia
XVII. Tutto parte dalla mia adolescenza travagliata (sicuramente non
sono stato l’unico), la vita non andava come volevo e la depressione aumentava di giorno in giorno. Qualcuno mi consigliò di iniziare “un lavoro
personale”. Premetto che da anni ero a conoscenza dell’analisi collettiva
e di Fagioli: l’avevo sempre ritenuto di una noia mortale, non tanto lui,
perché non lo conoscevo, ma le persone che lo frequentavano e che i fine
settimana popolavano casa mia. Comincio questa terapia, che dura quattro
anni. All’inizio pensavo di aver intrapreso la strada giusta, ma molte volte
mi sono chiesto come mai sentivo sempre forte, da una parte, l’esigenza di
andare a fondo nelle mie cose (puntualmente delusa), dall’altra molta confusione perché bombardato di date, eventi, libri, articoli, “assiomi teorici”,
definiti dal mio analista fondamentali per la mia agognata guarigione. A un
certo punto mi rendo conto che non aveva più senso continuare (preciso
Testimonianze e racconti
37
che per pagarmi le sedute lavoravo nelle ore di non studio): guarda caso,
di fronte alla mia ennesima perplessità mi viene detto che ormai ero pronto
per i “seminari”. Esco dall’ultima seduta un po’ perplesso, mi riprometto di
pensarci bene. Il bello viene quando a casa comunico la notizia: se mi fossi
laureato, la festa sarebbe stata sicuramente minore. Forse per ingenuità, per
curiosità o anche per superficialità, un giovedì inizio la mia avventura.
Ora sarebbe troppo lungo raccontare, mi sia però concessa una riflessione da ex. La cosa che mi ha sempre colpito era la sensazione di vivere
dentro una sfera dalla quale, una volta entrati, era quasi impossibile uscire.
I rapporti umani erano quasi sempre con persone dell’analisi collettiva,
i discorsi in un modo o nell’altro andavano a finire sempre sugli stessi
argomenti e con le stesse modalità (che a me non sono mai piaciute), il
“tempo libero” doveva necessariamente essere occupato nella lettura, visione, ascolto, di tutto ciò che era inerente, altrimenti c’era il forte pericolo
della “negazione” del fatto accaduto, che magari ti era sfuggito perché quel
giorno avevi altro cui pensare.
Poi il rapporto con le donne: come si fa ad amare una donna per la quale
tu sei il “secondo uomo”? Come si fa ad amare una donna che ti ama alla
follia solo se sei entrato nelle grazie del suo primo uomo? Come si fa ad
amare una donna che da un giorno all’altro ti molla e cancella un rapporto,
magari duraturo, perché il suo “primo uomo” gli ha interpretato che il suo
secondo uomo non va più bene, che lei merita di più? Nell’analisi collettiva ho conosciuto una donna per la quale sono stato da subito il suo primo
uomo. Risultato? Lei, dopo ovvie controversie, ha deciso di andarsene, io
l’ho seguita e l’amo ancora! Uno dei tanti
XVIII. Partecipo all’analisi collettiva da diversi anni. Faccio subito una
prima considerazione, che in realtà è una domanda a me stessa: come mai
non mi sento affatto ritratta in nessuna delle vostre descrizioni dei partecipanti all’analisi collettiva? Eppure ne sono state fatte di osservazioni e descrizioni di questo micro-popolo plaudente, plagiato, osannante, omologato
nel vestirsi e nel farsi belle per piacere al leader maximo (questo vale ovviamente per noi donne).... Devo subito dire che in tutti questi anni io sono
sempre stata una voce “un po’” fuori dal coro. Molti atteggiamenti, diciamo
anche adoranti, mi sono sempre stati sulle palle, ma ho sempre pensato che
colui o colei che in quel momento stava “adorando” non mi rappresentasse
per niente. Cos’è? Forse non mi sono mai sentita “appartenente a”. Forse
ho sempre e solo visto tanti individui e mai una massa, individui antipatici
o simpatici, comunque individui. Ecco, io questa massa di gente omologata
proprio non riesco a vederla. Ma, chissà, forse è un mio limite.
38
Il paese degli smeraldi
C’è un punto che mi sta a cuore come donna, su cui molti hanno insistito: i rapporti extraterapeutici. Nel corso degli anni vi assicuro che la cosa
non mi ha mai creato problemi. Né, tanto meno, ho pensato che si stessero
infrangendo codici deontologici. Per un motivo semplice: credo che quelle
donne non fossero affatto così malate, almeno non nel senso che gli date
voi, ossia pazienti e in quanto tali in uno stato mentale limitato. Non mi
risulta che alcuna di loro abbia mai sofferto per una violenza subita, e di
anni per elaborare la cosa ne sono passati. Una donna
XIX. Il tuo intervento, Una donna, mi ha ricordato qualcosa di me, che
ho provato fino a non molto fa. Mi ha colpita. Anche io, come te, per lungo
tempo mi sono sentita distante, non omologata. Provavo la sensazione di
trovare la gente dell’analisi collettiva normale, non troppo diversa da quella che potevo incontrare tutti i giorni. Persone simpatiche o insopportabili,
a volte allegre o tristi, ma pur sempre banali. Perdonami la presunzione:
non era per una sorta di snobismo, ma per quella che credevo essere una
mia aristocrazia. Una piccola rivalsa contro una mia fragilità. Ci tenevo a
coltivare nella diversità una mia idealità, una mia immagine, che non avrei
cambiato con nessun altra. Riconosco l’ingenuità. Di queste storie sono
pieni romanzi e rotocalchi; è roba da posta del cuore e me ne vergogno. Ma
questa era la mia realtà e lì chiedevo una cura. Non cercavo la folla delle
manifestazioni pubbliche. Il mio interesse era rivolto a lui, anche se la mia
fascinazione non è stata immediata. All’inizio lo trovavo un po’ antipatico
e in diversi casi molto irritante. Non sopportavo il suo modo di fare e di
trattare la gente. Più volte dentro di me lo avevo mandato a fare in ...
Con il tempo qualcosa cambiò. Avevo dapprima apprezzato il suo modo
affascinante di parlare delle cose più varie, la sua fantasia, anche qualcosa
che credevo di aver colto della sua teoria. Altre iniziative le trovavo più
opinabili, ma non me ne curavo. Finii per trovarlo colto, intelligente, sagace, coraggioso, a volte stronzo, ma soprattutto bello! Il mio era un amore
segreto, qualcosa che non doveva essere mostrato. Non aveva niente a che
vedere con i comportamenti di quelle “esaltate” vocianti, pronte a tutto pur
di strappargli qualcosa di dosso, trofeo da mostrare alle amiche. A volte
provavo invidia per la donna che gli si avvicinava, ma mai per la persona:
quello che invidiavo era il rapporto con lui. Cercavo un rapporto con lui
che fosse solo mio. Non temevo di essere ridicola, volevo solo la mia autenticità. È stato ciò che ha reso anche piena quella ricerca e che oggi, in
parte, me ne restituisce un senso.
Non ti preoccupare, non te lo auguro, ma un giorno lui ti noterà. E allora
verranno i momenti migliori. Prima uno sguardo furtivo, poi un incorag-
Testimonianze e racconti
39
giamento, il segnale di una complicità. Non sempre sorrisi, a volte anche
graffi e incompresibili scapaccioni, ma sempre per un riguardo e comunque
un interesse. Proverai lentamente la sensazione di un’ebbrezza dovuta al
percepire quell’intimità. È quello che avevi sempre desiderato e che in altri
rapporti non avevi mai realizzato. Lui ci sa fare, sa farti sentire particolare
e bella e, pur tra le altre, ha sempre un pensiero per te. E scusami se ti
sembra melassa, ma verrà, come per Cenerentola, il tuo giorno. Ti noterà e
tirerà fuori dalla cucina chiamandoti vicino a lui. Un seminario dopo l’altro
qualcosa cambierà. Porterai in regalo sogni più belli e profondi. Troverai il
coraggio di esporti, poi sarà lui a parlarti.
Qui le nostre storie si dividono, ognuno ha la sua. In un momento,
all’improvviso, questo finirà: un mancato assenso, una frase sbagliata, negazione, annullamento, nascita, svezzamento. Non importa, tanto non lo
comprenderai. È questo il segno di una malattia che sta a te comprendere,
e che lui non ti spiegherà mai. E solo allora capirai che nessuno di quella
massa, che tu dici non omologata, ti rivolgerà la parola. I più ti ignoreranno, gli stupidi ti scanseranno come un’appestata. Se ti è rimasta un’amica ti
dirà: «Non te la prendere, è successo a tutti; vedrai che poi questo ti cura».
Non voglio spingermi oltre, non so dirti di più. Illusa
XX. Ritengo di essere uno di quelli salvati dalla droga e dalla distruzione, un reduce del ‘77, da cui uscivo confuso, angosciato, consapevole
di essere malato e senza alcuna idea su come uscirne. Conobbi una donna
che frequentava i seminari di Fagioli e la mia vita cominciò a cambiare
decisamente. Sono stato molti anni nell’analisi collettiva senza mai diventare un fanatico, sentendomi distante da certi comportamenti decisamente
censurabili (vedi file intere di sedie occupate all’aula magna, ma questo è
il meno). Riconosco a Fagioli una trasformazione reale del mio modo di
essere, soprattutto dei miei sogni e della mia sensibilità.
Devo dire, però, che ci sono aspetti dell’analisi collettiva che non mi
sono mai piaciuti, a partire da un certo modo di vivere “totalizzante”
quest’esperienza, per non parlare dei continui, incessanti acquisti di libri,
dvd, locandine, calendari, riviste e qualsiasi cosa nomini Fagioli. Vorrei
chiedere se ha senso che una persona abbia tutte le edizioni dei libri (tutte!)
e che riacquisti Una vita irrazionale (Fagioli M., 2007) cinque mesi dopo
la sua prima uscita... forse sarò un po’ razionale, ma a me questo sembra
fanatismo.
Un altra cosa che non ho mai sopportato è quel continuo affibbiare etichette di malattia o stupidità a tutto il globo terracqueo, quel modo veramente sessantottesco di rapportarsi con l’esterno (perfino Mirò fu definito
40
Il paese degli smeraldi
dissociato...). Da un po’ mi sono allontanato dall’analisi collettiva e, guarda caso, quasi tutti gli “amici” sono spariti, cosa che mi fa molto riflettere
sulla reale sostanza di certi rapporti. Io non me la sento davvero di sparare
a zero su questa storia per i motivi che ho detto, ma certo ho molte perplessità. Nautilus
XXI. Ho lasciato l’analisi collettiva nel 1998-99 dopo lunghi anni, cioè
dal settembre ‘77, e dopo un’analisi individuale con uno psichiatra fagioliano uscito anche lui dall’analisi collettiva da vari anni prima di me. Sono
uscita inizialmente con vaghi sensi di colpa, ma fondamentalmente per
un’insopprimibile esigenza di libertà. Mi dicevo: «È possibile che la mia
vita di relazione sia riferibile unicamente a Fagioli, all’analisi collettiva,
alle edizioni dei libri, e non abbia più un riferimento personale?». Mi sembrava, anni fa, che lo spazio nell’analisi collettiva fosse ampio e dilatato
rispetto al “fuori”, invece mi rendevo conto che il mio specifico spazio psichico si era ristretto fino al punto di vivere in funzione di... avvertivo uno
“strangolamento” dal quale mi volevo liberare. Una volta fuori, vissi per un
po’ uno strano dualismo: da una parte affioravano sensi di colpa, dall’altra
una sorta di felicità per la decisione presa. Da “fuori” cominciavo a ritrovare quell’autonomia di giudizio che negli anni avevo perso. Cominciavo a
focalizzare che negli anni passati, ma da un certo momento in poi, che non
so individuare, ero vissuta nella paura. Paura di una diagnosi di malattia
dalla quale temevo non sarei più uscita. Paura paralizzante di non farcela
da sola senza il sostegno dell’analisi e della realtà in cui vivevo. Una sorta
di mediazione con la vita reale. Cominciavo a pensare che la dipendenza
indotta da Fagioli era anche, e forse soprattutto, una sua spaventosa voglia
di potere sulle persone. Mi sembrava impossibile che chi per tanto tempo
ci aveva indicato la trappola dell’alienazione religiosa, l’avesse costruita
proprio lui all’interno dell’analisi collettiva. L’uomo nato sano (ma perché,
noi no?), cresciuto sano (ma sarà poi vero?), invecchiato sano (non ci credo
più), aveva creato il culto della sua personalità. Orsola Anna
XXII. Per anni nella mia infanzia la mia collezione di cassette Disney
diminuiva, lasciando il posto a immagini di un uomo (sempre lo stesso) e ai
suoi discorsi che, almeno per l’età che avevo, non erano divertenti come il
granchio Sebastian che scappa dal cuoco ne La sirenetta. L’adolescenza mi
ha incastrato! Con mia madre sempre più affannata nel tentativo di farmi
avvicinare a questo “mondo”, fui io che mi avvicinai a lei nella mia confusione adolescenziale per un consiglio. Ricordo la sua espressione «Miracolo!»... e andai in analisi. Ora, quando mia madre venne da me due mesi fa
Testimonianze e racconti
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e mi parlò di questo blog, beh... la mia reazione fu di assoluta perplessità...
anzi, mi incazzai come una bestia! Non era concepibile: dopo tanti anni
che mi ronzava intorno parlandomi di Fagioli, ora dovevo sorbirmi discorsi
sempre sugli stessi soggetti, ma con diversi attributi affiancati. Io, mai stato
ai seminari, mai troppo immerso nella teoria. Volevo solo entrare, arraffare
ciò che mi poteva servire e uscirne “sano”; il mio solo problema è quello
della fiducia persa in una speranza... ma mi saprò rifare.
Penso invece alle persone che per anni hanno vissuto, condiviso, partecipato, facendo dei seminari e del Gran Legume una bandiera. Vederli
in fila all’entrata della Sapienza come il serpentone di contadini russi che
si radunavano sotto il palazzo di Ivan il Terribile, e ora sapere che alcuni
di loro intraprendono la rivoluzione. Alcuni dei fatti citati in questo blog
sono inquietanti. Ora rimarrò con questo dubbio atroce, se i sogni a sfondo
religioso sono una negazione o un campanello d’allarme. Nargaroth
XXIII. Ho iniziato a frequentare i seminari di analisi collettiva nel 1995,
me ne sono andato tre anni fa. Ci sono arrivato un po’ per caso, come molti
per il mio amore di allora. Mi piacque: una forte personalità a dirigerla,
una risposta per ogni cosa, questo sentirsi parte di un’avanguardia, di una
“ricerca”. E poi i sogni, la fascinazione più potente. Non sono mai stato un
esaltato: ero uno della massa, con il mio bravo (e carino) soprannome. Per
me era psicoterapia: la prima della mia vita, e di sicuro ne avevo bisogno.
In questi otto anni ho ricevuto un’interpretazione fondamentale e alcuni
pensieri che non avevo: non molto, in fondo, per tanta assidua presenza,
cui si aggiungono le trasferte estive, i sabati all’aula magna, le attese notturne di un breve passaggio televisivo. Credo che avrei potuto raggiungere i medesimi risultati con una qualsiasi altra terapia: oggi mi circondano
persone che si sono curate con le scuole più diverse, non stanno peggio di
me, né sono meno sensibili. E ho scoperto che anche loro hanno indagato
l’inconscio e raccontato sogni, ricevendo interpretazioni simili alle migliori che ho ascoltato ai seminari.
Con il passare degli anni questa storia mi si è rivelata sempre più oppressiva. Non potevo frequentare e basta: no, dovevo partecipare, sfilare,
applaudire, militare. Ma trovavo le occasioni pubbliche perlopiù noiose,
i disegni veramente bruttini, lo stile degli scritti più recenti ampolloso e
retorico, le lezioni ripetitive e inutili. Il cielo della luna (Fagioli M., 1998)
l’ho visto una decina di volte: qualche bella immagine perduta in un’opera
piatta e sgrammaticata, assolutamente non rispondente all’esaltazione che
ne fece il seminario. Come tutti, ho anche avuto modo di conoscere Massimo personalmente, assieme alla sua vasta corte. Nel mio ricordo di oggi è
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Il paese degli smeraldi
un anziano signore, non sprovvisto di una certa ieraticità, ma esibizionista
e borioso, scortese e sinceramente antipatico; e un codazzo di figli e famigli
convinto di essere al di sopra di ogni regola del vivere civile. La delusione
è stata enorme: come poteva chiedermi tanta dedizione un uomo così privo
di stile?
L’analisi collettiva, si diceva. Mi guardo intorno e quel che vedo non
mi piace. I più insulsi sono i più omaggiati, le interpretazioni diventano
con gli anni sempre più forzate (a volte vere e proprie manipolazioni), si
costruiscono miti su fatti mai accaduti o del tutto stravolti. «Siamo noi che
non capiamo», ripetono i compagni giustificando così le affermazioni di
Fagioli più incredibili: non è vero, io capisco benissimo. Insomma: pensavo di entrare in sedute di psicoterapia, mi accorgo di far parte di un gruppo
paranoico, convinto di essere il centro del mondo, di produrre l’unica cultura della storia umana.
Si, la cultura. Dei seminari all’inizio mi colpì quell’aria da laboratorio
intellettuale. Si citavano filosofi, libri, film, fatti storici. Ma era solo un
gigantesco “bignami”: la conoscenza era apparente, i nomi citati scatole
vuote, titoli e nulla più. Nessuno sapeva nulla, e i pochi che sapevano o
stavano zitti o venivano marginalizzati. La stessa cultura era oggetto di
dileggio: in otto anni non ho mai sentito Fagioli spingerci a leggere un
libro, visitare una mostra, guardare un film. E quando lo ha fatto era soltanto per dimostrarci le altrui nullità, tornando così con più convinzione a
tuffarci nelle sue molte attività che tutto contenevano. Fagioli ci ha tenuto
nell’ignoranza, questo è per me il delitto più grande, la sua stessa cultura è
ormai logora, nozionistica e del tutto lontana dalla contemporaneità.
Con incredibile supponenza siamo stati tutti promossi: il bidello è diventato professore, il centralinista esperto di comunicazione, l’infermiere insigne
biologo. Avere la “ricerca” è così diventato un lasciapassare per discettare
di tutto senza sapere nulla, dando del cretino a chiunque. Per un certo periodo ho anche provato ad attuare questa famosa “separazione” tra seminari e
mondo fuori. Debbo dire che non è possibile, ed è proprio Fagioli a renderla
tale, riportando e interpretando dentro al setting fatti e libere espressioni che
avvengono all’esterno. Non si è liberi dentro, non si è liberi neanche fuori.
Me ne sono andato per occuparmi di me. E ho fatto bene. Sono stato
fagiolista, non intendo ora essere anti. Non mi piacerebbe diventare un
“dis-convertito”, mantenendo il medesimo furore ideologico dell’ideologia
che abbandono. Ne ho avuta una, e già liberarmene mi sembra un compito
per la vita. Anche perché di questa storia sono corresponsabile, e non in
astratto. Marco Togna
Testimonianze e racconti
43
XXIV. Ciao Marco, non ti conosco direttamente, ma con te mi sembra di
condividere molto. Un percorso simile in tanti punti: l’aver conosciuto la
“teoria” più o meno negli stessi anni (1995-96), l’invio di un’allora collega
di studi di medicina a uno psicoterapeuta dell’analisi collettiva per «l’unica
possibilità di cura-formazione-ricerca» esistente, e poi, nel 1997, l’approdo ai seminari dove iniziò una giostra di eventi, per me allora laureanda
in medicina e aspirante psichiatra: convegni, aula magna come relatorereplicante. E poi feste, amici tanti, anche perché ormai facevo parte del
giro... provavo la stessa ebbra sensazione di cui parli tu, “consapevole di
far parte di una storia unica” e di essere circondata da persone speciali,
valide, corrette, profonde. Poi succede che, da una parte, leggo e approfondisco con troppa dovizia il libro del lui sì Prof. Armando Percezione
delirante idea della cura unità dell’esperienza (Armando, 1999), dall’altra
parte, frequento ancora lo psicoterapeuta individuale che proprio allora se
ne era andato dai seminari. Mix esplosivo: stimavo, frequentavo e leggevo
due tra i più invisi a quel tempo.
Ero un nome inventato che a volte aveva anche un volto per poi sparire
nell’oblio, soprattutto quando il mio non capire, o meglio la mia voglia di
conoscenza critica, venne così definita da Fagioli durante una seduta di
analisi collettiva: «Non ci siamo, sei confusa, c’è bisogno di fare chiarezza» e poi basta... alla faccia della chiarezza! Mi sono chiesta per un mese
dove potevo aver sbagliato, dove era la confusione, cosa c’era stato nelle
mie parole di fumoso o frammentario. Poi ho compreso che, tra le righe,
gli avevo detto che dopo aver letto articoli di altri autori avevo capito che
la percezione delirante non l’aveva certamente scoperta lui per primo! Me
ne andai poco dopo, anche grazie a un amico scampato....
Il bello è che quanto avevo in partenza di mio, l’entusiasmo, una buona
dose di intelligenza unita a spirito critico e voglia di conoscere ambienti
nuovi, teorie e metodi diversi, è cresciuto, migliorato e si è rafforzato, e
quanti rappresentavano per me allora dei punti di riferimento, maestri, li
ritrovo oggi tutti qui nel blog.... Il bello è che in questi mesi l’esistenza del
blog, il confronto con voi tutti e la consapevolezza delle mie scelte e dei
miei progetti personali ha delineato in modo ancora più netto la linea che
separa i tre anni all’analisi collettiva dai tre anni fuori. Freeasabird
XXV. Purtroppo anche io faccio parte di coloro che hanno avuto un’esperienza nell’analisi collettiva. Una triste vicenda che mi ha condizionato più
a lungo e in profondità di quanto pensavo. In quella parentesi, in cui non
mi mostrai molto, non fui mai chiamato. Anche se capitava che abbassavo
la testa per il timore di essere “visto”, in fondo avevo la speranza di essere
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Il paese degli smeraldi
nominato un giorno con un nuovo nome, che mi sarei portato dietro nel
nuovo mondo trovato e non più fantasticato. Il battesimo non avvenne,
tuttavia il condizionamento di ciò che veniva detto in quel di via Roma
Libera si faceva sempre più incisivo. Stando a contatto con il creatore cominciai piano piano a sparire io, perché il nuovo pensiero si era insinuato
a dismisura dentro di me. Accadeva a volte che alcune cose affrontate nei
seminari mi lasciavano perplesso: mi accorgevo, però, che quei pensieri
non avevano forza e voce perché ormai ero troppo “preparato” a non “negare”, e perché il belato unanime della melodia faceva sentire me la nota
stonata dell’orchestra.
E così non mi rimaneva che, come un bravo apostolo credente, evangelizzare il nuovo verbo e “giocare” al piccolo analista. Non era importante
come stavo realmente, perché intanto prima o poi sarei salito sul carro
della razza sana diretto alla Terra Promessa. Poi, dopo un periodo in cui,
per vari problemi, mi allontanai dai seminari senza abbandonare del tutto
l’idea di ritornarci, arrivò il trauma. Prima la recensione alta di Armando
(Armando 2007), poi il blog con i suoi post importanti e con i fatti incredibili emersi. Il masso che teneva legato lo scrigno in fondo all’oceano
era stato tolto, con esso cominciarono a riaffiorare ricordi soffocati da
tempo.
«Chi fallisce qui, finisce in manicomio!»: non posso scordare quella frase
detta dal “genio”, perché in manicomio non ci sono finito. Ricordo con quale
disprezzo si criticavano film come, ad esempio Titanic, e non comprendevo
il motivo di tanta acrimonia. Dire “ti amo” a una persona era qualcosa da cui
stare lontano e io, a volte con slanci romantici, mi sentii in quelle circostanze un appestato. Ho visto azzittire una donna solo perché aveva raccontato
della morte del padre e “forse” ne avrebbe voluto parlare, ma probabilmente
nel fare questo avrebbe minato la riuscita dell’analisi collettiva. Una volta
un uomo fu cacciato via perché cambiava di posto gradualmente sempre più
avanti verso il terapeuta e questo era inammissibile.
Tante cose avevo riversato lì dentro, tanti sogni, tante speranze, come
quella di mettere per sempre da parte un triste passato che il caso aveva
previsto per me (e che non sto qui a raccontare). Dopo essermi annullato una volta per amore, mi annullai una seconda volta per quell’idea, ma
come tutte le storie finite, dopo il dolore e una dose di tempo dobbiamo
riprenderci quello che era nostro, soltanto nostro, messo in qualcosa che
per caso o per sbaglio lo aveva rappresentato.
Ora mi sono ripreso la mia capacità di pensare, di dire o non dire ti amo a
una persona, le mie inclinazioni, la mia fantasia. Già, quest’ultima era una
cosa che mi capitava di sprigionare tramite la scrittura, ma che cominciai
Testimonianze e racconti
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a mettere in crisi perché in qualche modo quello che potevo scrivere non
era conforme con il pensiero unico e perché faceva parte di quel passato
dal quale bisognava separarsi. Se non avessi avuto una psichiatra e psicoterapeuta che, passo dopo passo, mi ha aiutato ad aprire gli occhi di fronte a
tutta questa storia, ora non starei qui a scrivere quanto scrivo.
In quello scenario ho avuto la fortuna di vedere Rashomon (il film “sapientemente” utilizzato dal Maestro) nella sua interezza e non il racconto di
un personaggio soltanto. Come dire, una visione senza omissioni di punti di
vista. Agli addetti ai lavori, con rispetto e umiltà, oserei dire di continuare a
ricercare sempre e di non rinunciare mai al confronto, perché il confronto
può dirti qualcosa o se non altro te la può confermare. Ros
XXVI. Mi è stata raccontata ora una vicenda che riporto senza commenti. Alcune settimane fa una ragazza, da anni compagna dell’analisi collettiva, si è tolta la vita impiccandosi. Arrivata a Roma per il seminario con
le sue amiche, ha seguito le quattro ore, per poi intraprendere il viaggio di
ritorno alla sua città. Nessuna di loro si è accorta di nulla, neanche l’amica
del cuore. Tornata a casa si è tolta la vita. Il suo ragazzo, anche egli da
moltissimi anni ai seminari, l’ha trovata il giorno dopo a disgrazia avvenuta. Sia le amiche sia il ragazzo, lui dopo un po’ di tempo, sono tornati a
riprendere il ciclo settimanale delle sedute. Nessuno ne ha parlato finora,
anche se tutti i compagni dell’analisi collettiva sono al corrente del fatto, e
non solo loro. Uno
XXVII. Sono un paziente in analisi presso lo studio privato di Fagioli
da oltre nove anni. La storia raccontata ieri su questo blog io l’ho vissuta
sia da analizzando all’interno delle quattro ore settimanali, che come libero
cittadino una volta terminata la seduta. La storia di E. l’ho appresa qualche
giorno dopo la disgrazia: da subito non ci ho creduto, non la conoscevo di
persona e non avevo mai sentito parlare di lei. Ho chiesto in giro se il fatto
fosse vero e più di uno me lo ha confermato. La notizia mi ha sconvolto e,
grazie a coloro che ne hanno parlato, ho potuto capire finalmente ciò che
non avevo neanche il coraggio di pensare, ovvero perché in tutte queste
settimane trascorse dall’evento tragico né Fagioli né le persone che conoscevano da vicino E. né tutti gli altri, compreso me, abbiano mai speso un
briciolo della loro umanità per portare alla luce un fatto così grave. Mi sento un vigliacco e chiedo scusa a E. e a tutte le persone che le hanno voluto
bene per questa mia mancanza di coraggio e umanità. Scusatemi tutti, una
sola cosa vorrei dire, tutta la storia accennata è vera. Sandro A.C.
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Il paese degli smeraldi
XXVIII. Vorrei riproporre la lunga lettera indirizzata tempo fa a Giulietto Chiesa. «Caro Giulietto, non ti stai sbagliando nell’attribuire quanto
accaduto a “Left” a Fagioli. Ti posso raccontare qualcosa, per aggiungere
qualche elemento di giudizio a ciò che hai già intuito. Quello che è accaduto a me è accaduto anche alle circa mille persone (e loro parenti, amici, conoscenti, fidanzati) che costituiscono l’entourage di Fagioli. È stato sufficiente avere un momento di crisi, di depressione, tanti anni fa, per delusioni
personali, per le delusioni che la sinistra ci ha regalato spesso, soprattutto
negli anni Settanta, è stato sufficiente parlarne con qualcuno che magari faceva già parte della storia di Fagioli per ritrovarsi da uno psichiatra del giro
che per anni non fa altro che “prepararti” per poter accedere direttamente
alla corte di Lui stesso. Già, perché all’analisi collettiva, se uno sta male
davvero, non può entrare, deve prima stare bene e poi semmai....
Cos’è l’analisi collettiva? Un’istanza dove c’è Lui che parla, sempre,
e gli altri, duecento persone alla volta, che ascoltano senza replicare mai,
se non per manifestare ammirazione, consenso, stupore per le sue grandi
capacità. Se qualcuno prova a proporre una critica, anche velata, viene cacciato o messo in un angolo e probabilmente in un anno intero non parlerà
più, neanche quei 20 minuti che normalmente vengono concessi. E intanto
Lui parla, parla, e tutti ascoltano. Se dice di andare a vedere un film, tutti
vanno a vedere quel film; se dice che una cosa è bella, per tutti è bella; se
dice che vuole una pagina su quel giornale, dove qualche “replicante” ha
un’influenza, il “replicante” gli dà la pagina senza considerare le conseguenze di quello che fa; se dice che fa il professore tutti ci credono, anche
se tutti sanno che Lui dal 2002 tiene a Chieti lezioni che gli ha procurato un
“replicante” di quella università. Cioè, ha un incarico della facoltà di Lettere (non psicologia o psichiatria) dell’università di Chieti di 14 ore all’anno
per lezioni che non frequenta nessuno studente, ma l’aula è sempre piena.
Di chi? Ma degli stessi che frequentano tutte le settimane l’analisi collettiva. Quando c’è la “lezione” tutti si trasferiscono a Chieti, la seguono poi
battono fortissimo le mani e vanno a casa.
Ci troviamo di fronte a una persona convinta di aver fatto scoperte sensazionali circa la realtà umana, quindi di essere portatore di un “pensiero
nuovo”, mai formulato prima. Il “verbo” va diffuso, e per questo esiste tutto un apparato: una schiera di psichiatri, circa 150, che non fanno altro che
impartire ai pazienti il suo verbo, tanto che molte cure terminano con l’ingresso della persona all’analisi collettiva, e la persona prende questo come
una sorta di promozione; una rivista trimestrale della quale è proprietario,
il cui direttore è il genero e nel comitato di redazione ci sono anche le sue
due figlie, psichiatre anche loro; le cosiddette “Aulemagne”, cioè riunioni
Testimonianze e racconti
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di 4-5 ore che si tengono qualche volta l’anno all’Università di Roma, dove
diversi oratori leggono quello che Lui ha preventivamente scritto, parola
per parola; le “lezioni” di Chieti dove, sempre gli stessi che partecipano ai
seminari, che leggono la rivista, che vanno all’aula magna, vanno a sentire
altro “verbo”. Tutte queste cose vengono poi raccolte in libri, cassette, dvd,
filmati vari, che vengono (come la rivista) venduti.
Il problema è che tutti vivono con grande giubilo queste iniziative dove
sentono sempre le stesse cose, ma questo ormai riempie loro la vita e tanti
non saprebbero più farne a meno. Forse per persone messe male tutto ciò
un po’ funziona davvero, ma che ne sarebbe di loro se Lui venisse a mancare? Ogni tanto lo dice pure («se mi succede qualcosa voi siete tutti persi!»),
e via tutti terrorizzati ad adorarlo e ad augurargli lunga vita.
Poi, non contento di diffondere il verbo solo a questa platea, ha iniziato a
usare altri mezzi. L’architettura: disegna case, palazzi, quadri, oggetti vari
che poi alcuni architetti, uno dei quali è un altro suo figlio, realizzano; il
cinema: nel ‘98 ha fatto un film, che ognuno di noi ha visto 80 volte, che
con l’aiuto di Marco Bellocchio è arrivato anche al Festival di Locarno, di
cui è regista, sceneggiatore, attore principale, autore delle musiche e non
so quant’altro. Ultimamente, la perla: scende in campo.
Nel novembre 2004, a Villa Piccolomini, viene organizzato un convegno con Bertinotti e addirittura Pietro Ingrao. Parlano diverse persone dei
seminari: tutti gli intervenuti, anche stavolta, leggono cose scritte da Lui e
nessun altro può intervenire. Bertinotti risponde, Ingrao anche, non senza
qualche nota polemica, ma la serata è cordiale e scorre così - anche se uno
dei suoi a un certo punto (il dibattito era sulla non violenza) chiede-afferma
che anche lo sciopero va considerato un’azione violenta. Da questa giornata scaturiscono un libro, un dvd e soprattutto quest’affermazione: d’ora
in poi qui facciamo la teoria della sinistra, perché la sinistra non ne ha più
una, e Bertinotti la metterà in pratica. Ed è proprio qui che le mie convinzioni, già scricchiolanti, hanno preso la piega che hanno ora; è come se, in
un tratto, scopri che qualcuno ti ha rubato 22 anni di vita e di pensiero, che
pure non erano male; è altresì vero che c’è stata anche una mia responsabilità, io non sono stato circuito, sono capitato dentro spontaneamente, ma
per questo avrò tempo per capire.
Dopo poco tempo Bertinotti si trova, forse un po’ ingenuamente, a lanciare le sue primarie proprio nella libreria Amore e Psiche, dove sono tutti
di Fagioli. Si ripete la scena delle domande: Lui non chiede niente, ma
quelli che parlano recitano domande sue, che nei giorni precedenti hanno
provato e riprovato fra di loro. Veramente diabolico. Le domande vogliono
dimostrare che la sinistra sa cosa fare finché si tratta di cose materiali, ma
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Il paese degli smeraldi
non prende in considerazione la realtà non materiale umana. Insomma: se
non si prende la teoria di Fagioli la sinistra perderà sempre, e questo Lui lo
ripete ai suoi continuamente. La verità è che qualche intuizione sulla realtà
psichica c’era nei primi tre libri, ma questo non ha portato alla scoperta
della cura della malattia mentale, che tutti hanno fallito, Fagioli compreso,
visto che dopo 20 anni di seminari molte persone, a detta di lui stesso, sono
ancora malatissime.
Vuoi sapere come si diventa un automa? Ti descrivo la vita dei partecipanti ai seminari nei prossimi giorni (ricevo ancora i messaggi e il tam
tam degli appuntamenti): oggi, uscita di “Left”, correranno tutti in edicola,
già si sa nell’ambiente che è un numero favoloso; domani tutti a Chieti ad
applaudire il Maestro; domenica tutti in libreria Amore e Psiche: esce un
libro di Fagioli con tutte le “lezioni” di Chieti del 2002; lunedì al seminario, chi lo ha il lunedì, gli altri martedì o mercoledì o giovedì; martedì tutti
chiedono cosa è successo il lunedì e così via gli altri giorni; mercoledì, per
chi la ha, magari la seduta di analisi individuale, o giovedì o venerdì; alla
fine del mese esce la rivista “Il sogno della farfalla”, poi forse una cassetta
o un dvd di Chieti o dell’Aula Magna». Piero
XXIX. Sono una delle committenti del Palazzetto Bianco, unica ad aver
frequentato l’analisi collettiva. Arriviamo al termine della costruzione.
Scrivo un biglietto a Fagioli, invitandolo a vederlo terminato. Mi stavo anche lambiccando il cervello per scegliere un regalo che potesse riconoscere
il suo intervento, anche se non dovuto, poiché mai richiesto e avuto solo
per interposta persona. Gli chiedo anche di venire da solo. Mi telefona, mi
ringrazia per l’invito e mi dice che si sarebbe fatto accompagnare dal figlio
perché lui non aveva la macchina. All’appuntamento, invece, viene con
figli, fidanzate dei figli, sua “fidanzata” del momento, amici e amiche delle
fidanzate, insomma il solito codazzo. Ma io sono contenta comunque.
Inizia la visita. Il Palazzetto Bianco gli piace molto, se lo guarda molto
bene e, arrivato all’attico, comincia a fare progetti abitativi, indeciso se
è meglio il piano terra, l’attico o entrambi. A un certo punto un membro
della Famiglia mi prende da parte e mi chiede come intendo riconoscere
il lavoro del padre. Vi assicuro che ci ho messo un bel po’ per capire cosa
intendesse dire, tant’è che la frase me la sono fatta ripetere più volte, tanto
era lo sconcerto e l’incredulità. Il povero membro della Famiglia, vedendo
che non rispondevo a tono, ha smesso di chiedermelo, pensando, forse,
che stesse parlando con una deficiente. Arriviamo in terrazzo: «Se compro
mi fai uno sconto?», «Senz’altro, tutto quello che posso lo farò, ma sappi
che non ho la maggioranza nella Società e che non decido da sola». Alla
Testimonianze e racconti
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fine della visita andiamo tutti a osservare il Palazzetto Bianco da una via
sovrastante e nel salutarmi, quando ero già a una ventina di metri da lui,
esclama con voce alta e perentoria: “Lo sai che non ho avuto neanche una
lira per tutto ciò?”.
Avevo s” lasciato diversi anni prima l’analisi collettiva, ma spontaneamente, senza traumi e senza, forse, troppo approfondire la fine di una storia
che era stata per me anche positiva. Mi ricordavo un uomo che mi aveva
indicato il modo di separarmi da persone sbagliate, avevo apprezzato il suo
rigore e la sua coerenza... dove era finito l’uomo che pensavo di conoscere,
che gli era successo? Era sempre stato così e io non me ne era mai accorta,
o era realmente cambiato a seguito di qualcosa che ignoravo? La domanda
non ha ancora trovato una risposta certa. Anna Orlandini
XXX. Mi sono avvicinata a una terapeuta fagioliana per un motivo che
ritenevo valido: curano senza prescrivere medicine e mi piaceva (mi piace
tuttora) la loro tesi di individuo che nasce sano. Non posso negare di essere stata aiutata a capire alcuni dei miei “pensieri malati” e di aver avuto
benefici nell’umore e nella capacità di affrontare la vita durante il periodo
in cui facevo terapia individuale. Ho trovato anche valida la loro “durezza”
nello spronarti anziché compatirti perché mi ha aiutato a reagire meglio
ai momenti di depressione. Mi hanno aiutato i discorsi sulla separazione,
sull’identificazione, sull’accettazione del diverso ecc. Non lo posso negare: stavo effettivamente meglio (o mi sembrava di stare meglio?).
Ho trovato invece fastidiosa e inutile la terapia di gruppo. Mi piaceva
confrontarmi con gli altri, ma non sopportavo gli argomenti che spesso
(non sempre) si trattavano durante la seduta. A volte avevo la sensazione
che si facesse salotto! Non sopportavo sentirla parlare di Massimo Fagioli
tutto il tempo come se stesse parlando di dio in terra (criticano la religione
ma hanno il loro dio). E poi: Fagioli in quasi tutti i sogni, il nuovo libro di
Fagioli, descrizione della opertina dell’ultimo libro di Fagioli, monologhi
della terapeuta sull’articolo di Fagioli su “Left” o sul palazzetto bianco, e
naturalmente mano spazio per noi pazienti. Soprattutto mi infastidiva: la
terapeuta che fa propaganda politica; la terapeuta che parla di froci con
tono dispregiativo (anche se sono d’accordo nel considerare l’omosessualità come una malattia); la terapeuta che parla del politico tal dei tali, frocio
anche lui, cc. E infine la terapeuta che sentenzia con sicurezza assoluta che
gli accusati di pedofilia di Rignano sono colpevoli! Per essere intervenuta
affermando che siamo in una società di diritto in cui non si possono condannare persone senza prove (e il che non vuol dire che io difenda i pedofili
come mi sono sentita rispondere) sono stata cacciata! Io non so se le ma-
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Il paese degli smeraldi
estre di Rignano siano colpevoli o innocenti, ma penso ce le persone non
si possano condannare con l’intuito e so anche che voglio pagare una terapeuta che faccia il terapeuta e non l’opinionista. E soprattutto: è malattia
non essere perfettamente allineata con tutti i suoi pensieri da “sana”? Come
può un terapeuta, in una seduta, spacciare le proprie idee personali (perché
di questo si tratta) per verità assolute e incontestabili? Come può permettersi di cacciarmi per un motivo del genere? Dimenticavo: mi ha accusata
di impaurire il gruppo? Ma se le mancava solo la svastica sul braccio. La
cosa che più mi ha impressionato è stato il silenzio dei miei compagni di
sventura; completamente terrorizzati, incapaci di formulare uno straccio di
pensiero autonomo. Cinziotta
XXXI. Vorrei raccontarvi una piccola storia di anni fa, quando ero in
individuale e guardavo “quelli dei seminari” con incondizionata ammirazione: incontrai un tipo, lo chiamerò L., fu amore a prima vista! Parlava di
letteratura, di filosofia, di rapporti umani, insomma, un principe azzurro!
Lo seguii a occhi chiusi, ero una novellina e gli aprii il mio cuore. Mi fu
fatale: dopo poco tempo cominciò a comportarsi stranamente, cercava di
interpretare ogni cosa, ogni frase, ogni movimento. Se ballavo perché mi
sentivo felice mi criticava perché ci vedeva falsità; se facevamo l’amore,
proprio quando mi lasciavo andare si interrompeva perché gli sembrava
una ripetizione della volta prima; se gli facevo un regalo, doveva scovarvi
un secondo fine... Poi assumeva atteggiamenti strani, del tipo che, a parte
le cene e le scopate, per il resto del tempo doveva dormire: Fagioli dorme molto, diceva! Cominciai a sentirmi più fragile e confusa che mai, e
proprio per questo mi lasciò, all’improvviso. Piansi a lungo, non solo per
l’abbandono, ma per il mio sentirmi inadeguata, non all’altezza, ma senza
riuscire mai bene a capire in cosa consistesse questa mia inadeguatezza e
quanto ancora avrei dovuto lavorare su di me per permettermi un rapporto
con colui che agli occhi miei era ancora una specie di mito.
Lo incontrai casualmente a una festa, era passato un anno, gli chiesi:
come stai? Mi rispose: cos’è, mi stai controllando? Rimasi avvilita. Dopo
diversi anni lo vedo a un’Aula Magna: non mi riconosce! Sono venuti altri
uomini dopo di lui, ma “quelli dei seminari” avevano bene o male queste
caratteristiche, uomini col pallino della teoria, incapaci di vivere una storia
d’amore liberamente, identificati fino al midollo con Fagioli. Pochi giorni
fa, raccontando queste cose a un mio carissimo amico, mi sono tornate le
lacrime agli occhi, ma erano lacrime diverse, lacrime consapevoli delle
violenze subite, che mi hanno segnato per parecchi anni, nella ricerca di un
rapporto pulito e sano, che lì non ho mai trovato. Mary
Testimonianze e racconti
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XXXII. Sono un medico, ma non mi occupo di psichiatria. Ho conosciuto l’analisi collettiva negli anni 1977-78 e l’ho frequentata per un
breve periodo. Allora quell’esperienza non mi convinse, anche se diedi
una valutazione troppo superficiale per un fenomeno che richiedeva una
riflessione articolata. Ma i conti con “l’oggetto” li avrei dovuti fare, e per
bene, quasi dieci anni dopo. Per motivi professionali ho conosciuto un
certo numero di pazienti in cura con diversi psicoterapeuti che facevano
riferimento a quell’esperienza e con diversi partecipanti all’analisi collettiva. Conosco tuttora persone che vi partecipano o vi hanno partecipato.
Persone che hanno parenti stretti in cura e interi - se così li vogliamo
chiamare - “nuclei familiari” che si sono avvalsi o si avvalgono di tale
“prassi”. Di diversi sono stato in grado di seguire l’evoluzione nell’arco
di due decenni. Ho raccolto storie personali e vissuti della persona, dei
parenti e dei partner.
La mia posizione professionale mi ha portato ad avvalermi della consulenza di diversi professionisti nel campo sia degli psicoterapeuti della
scuola romana sia di altra formazione. Dopo l’affiorare delle mie prime
perplessità sul fenomeno e alcuni suoi esiti preoccupanti, ho intrapreso una
formazione specifica in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, confrontandomi con le più moderne tendenze della psichiatria e psicoterapia e con le
convergenze sempre più evidenti con le neuroscienze.
La valutazione a distanza degli esiti della “cura” è sotto gli occhi di molti, le testimonianze del blog credo siano significative e non possono essere
cancellate. Tutti sappiamo che, se non sono precise nella forma per ovvi
motivi di riservatezza, sono vere nella sostanza.
Nel mondo medico scientifico è ormai invalso l’uso di una validazione
dei risultati e di una “medicina basata sull’evidenza”. Questo è più difficile
in un campo come quello in questione, ma è comunque ormai accettato da
tutti non solo in ambito psichiatrico, ma anche psicoanalitico. Negli ultimi
anni il problema della validazione delle psicoterapie è divenuto prassi comune ed è al centro dell’attenzione di tutti gli operatori del settore. Pensare
di sfuggire a questo nodo è ormai impossibile per chiunque voglia dichiararsi terapeuta. Ciò vale per Fagioli come per gli psicoterapeuti della sua
“scuola”, che lavorano nel chiuso dei loro studi fuori da qualunque verifica
e confronto. Ex 68
XXXIII. Vorrei partecipare con la mia testimonianza di come ho vissuto
Fagioli nella mia famiglia. Non sto a raccontarvi i lunghi anni trascorsi a
osservare un mio familiare fagiolino, ma certo ho potuto trarre molte conclusioni negative. Penso che Fagioli sembra essere diventato onnipotente,
52
Il paese degli smeraldi
un potere dato dalla massa che lo venera in tutto come se fosse un oracolo
divino. Ho visto da parte di chi lo segue comportamenti per me inaccettabili: persone annullate, negato il loro talento, l’intelligenza, in una gara
per ottenere consensi da un dio esaltato che, in fin dei conti, è un essere
normale con più difetti che pregi. Un dio ingiusto, che in vari casi sembra
approfittare dei successi lavorativi di alcuni suoi “sudditi”, non solo prendendosene il merito, ma anche infierendo su di loro con atteggiamenti tipo
“esclusione improvvisa dalle feste”, o dichiarandoli malati e di conseguenza trattandoli come appestati.
Un dio che comanda, decide la vita professionale ed emotiva di chi
in buona fede si affida a lui. A lui, con tutto il seguito di persone che si
dicono adulte e consezienti e che in realtà sembrano incapaci di ragionare
con il proprio cervello o non avere il coraggio di dire quando qualcosa è
sbagliato. O anche persone che se ne vanno e hanno paura di dover dare
giustificazioni delle proprie scelte di vita all’inquisizione fagiolina! Sarò
esagerata, ma ho visto persone che non erano malate, e forse sono state
infelici nel seguire analisi che alla fine non hanno portato a nulla se non
a peggiorare la propria esistenza con inutili pettegolezzi e carriere ostacolate.
Ora ho 30 anni, ma le intuizioni che avevo da piccola su Fagioli mi si
sono dimostrate esatte già da qualche anno. Aggiungo che dopo la morte di
mio padre mi sono trovata ad avere accanto persone che mi hanno dimostrato, e continuano a farlo, il loro sincero affetto in quanto figlia di Alessandro, nel rispetto della persona che era, indipendentemente che io condivida o no Fagioli. Al contrario, i suoi grandi amici di sempre (fagiolini)
non sono stati capaci di farlo. Forse con la morte di una persona si cancella
tutto? Ci si cura da questo? Ma che razza di rapporti sono? Un ambiente di
ipocrisie, falsità, amicizie di comodo. Fiammetta Cotti
XXXIV. Cara Fiammetta, ho conosciuto tuo padre e lo ricordo con grande, grandissimo affetto, e anche riconoscenza. Lui ha fatto tantissimo per
me, spontaneamente, sinceramente e non chiedendomi mai nulla in cambio. Era una persona veramente speciale, con una grandissima generosità.
Mi ha aiutato tante volte (all’epoca io studiavo architettura), l’averlo conosciuto mi ha aperto importanti occasioni professionali che si riverberano
ancora oggi nella mia vita. Il periodo delle mostre de Il coraggio delle
immagini (AA.VV., 1994b) fu un momento significativo per la mia vita. E
oggi posso affermare che senza l’impegno, la passione e la generosità di
tuo padre queste non ci sarebbero mai state. Lo dimostrano i fatti succes-
Testimonianze e racconti
53
sivi alla scomparsa di tuo padre. Tutto si è fermato, nessuno di noi è stato
capace di portare avanti il lavoro che lui aveva fatto.
Vedi, Fiammetta, c’è gente, come me, che pur andando ai seminari ha
mantenuto sempre una capacità di critica. Se una cosa non mi piaceva, l’ho
pure detto. Certo, qualche volte ne ho subito le conseguenze, ma questo
non mi ha mai portato a perdere me stessa e il senso della realtà. Questo
non vuol dire che non mi renda conto che la tua storia (così come altre che
ho letto in questo blog) possa essere stata piena di amarezze, se non di dolore. Credimi, mi dispiace veramente. E dicendoti della stima e della riconoscenza che io ancora oggi provo per tuo padre spero di poter contribuire
a rendere i tuoi ricordi un po’ più sereni. Con profondo affetto, ciao. 59,9.
55
2
SUL BLOG
È stato interessante assistere all’impatto del blog osservando le reazioni
dei partecipanti all’analisi collettiva alla sua comparsa nel panorama dei
mezzi di comunicazione interessati a quella loro realtà.
Fin dagli inizi dell’analisi collettiva, dai tempi in cui i seminari di Fagioli si svolgevano in via di Villa Massimo, la questione della stampa è
stata rilevante: negli anni 1976-77 i seminari costituirono una notizia e
per qualche tempo ne parlarono diversi giornali; attorno al 1980-81 ci fu
anche un intenso scambio con “Lotta Continua” (Armando 1997, pp. 311319), con invio di numerose lettere a quel giornale che allora teneva una
rubrica di dibattito epistolare piuttosto seguita. In quegli anni, la sensibilità nei confronti delle reazioni della stampa era, “all’interno” dell’analisi collettiva, particolarmente viva e corrispondeva a un certo interesse
“dell’esterno” sostanzialmente per due fattori: sedute liberamente aperte
al pubblico e seguite da centinaia di persone e il fatto che a condurle fosse uno psicoanalista da poco espulso dalla Società italiana di psiconalisi
(SPI) e che criticava apertamente Freud. In esse si analizzava l’atteggiamento dei giornali, che veniva interpretato allora, utilizzando il linguaggio
dei libri di Fagioli, come dovuto all’“annullamento” in cui era consistita
la reazione della SPI, e in genere della cultura dominante, alla comparsa
della “teoria”, ossia dei suoi tre libri all’epoca pubblicati: indipendentemente dal fatto che le opinioni in merito fossero favorevoli o contrarie, era
difficile infatti che qualcuno approfondisse i termini della critica di Fagioli
a Freud o gli elementi principali delle sue stesse ipotesi teoriche. Naturalmente si riconoscevano delle eccezioni (op. cit., pp. 171-174; 344-346).
Rivolgendo oggi lo sguardo ad allora, appare evidente che in quegli
anni si parlò in realtà moltissimo dei seminari di via di Villa Massimo. La
vicenda del rapporto con “Lotta Continua” e la partecipazione a qualche
festival dell’Unità costituirono ulteriori occasioni di menzione pubblica,
ma la pubblicazione del quarto libro di Fagioli (Fagioli M., 1980), che
avrebbe dovuto rappresentare l’apertura di quell’esperienza a una dialet-
56
Il paese degli smeraldi
tica con la cultura della sinistra italiana non sortì gli effetti sperati (Armando 1997, pp. 327-328).
Nel novembre del 1980 i seminari si spostarono dalla sede universitaria
di via di Villa Massimo allo studio privato di Fagioli in via di Roma Libera.
La cosa non avvenne senza crisi e si può pensare che il bisogno di consolidare il gruppo, insieme al suo ritiro nel privato, abbiano contribuito a una
temporanea uscita dalla scena mediatica. A questo si potrebbero aggiungere altri elementi, tra i quali il fatto che le generazioni sessantottina e settantasettina, che costituivano allora il grosso della composizione dei seminari,
erano parimenti scomparse da quella stessa scena, o vi apparivano in ben
altre vesti rispetto al recente passato quando i giornali sembravano ancora
interessarsi ai destini del movimento. Nel giro di pochi mesi si era passati
dalle manifestazioni di piazza agli “anni di piombo” e della resa dei conti
giudiziaria e non solo, comunque drammatica, di quelle generazioni, che si
dispersero in varie direzioni alla ricerca di una via d’uscita dalle pastoie
in cui erano incappate. Alcuni, nella bufera, rimasero aggrappati all’esperienza dei seminari allora e per i decenni successivi (Lalli, 2007). Si può
aggiungere che un interesse specifico della stampa per l’analisi collettiva
come quello manifestato in quei primissimi tempi non si è più verificato; anche se i recenti clamori attorno alle vicende del settimanale “Left/Avvenimenti” e degli incontri con Bertinotti hanno potuto far pensare a una sorta
di ritorno al passato e/o a un suo riscatto, la realtà è oggi molto diversa.
Durante tutti gli anni Ottanta e un po’ oltre, i giornali riparlarono di
tanto in tanto di Fagioli, generalmente in coincidenza con le uscite di alcuni film di Bellocchio, in particolare: La visione del Sabba (1985), Diavolo in corpo (1986), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994),
ai quali Fagioli aveva collaborato in prima persona. In quelle occasioni
però la notizia era rappresentata dai film e dalla persona dell’artista. Il
rapporto di Bellocchio con “il suo psicoanalista” rimaneva, indipendentemente dai giudizi in merito, sullo sfondo, nonostante il regista facesse di
tutto per ascrivere a quello ogni sua riuscita e cercasse di togliersi di dosso
l’etichetta di “ribelle con i pugni in tasca”, ossia di dire che nel corso del
tempo era cambiato rispetto a quel suo memorabile film del 1965, aveva
rivisto le proprie idee, non era più un violento, e questo grazie alla terapia
con Fagioli. La stampa sembrava impermeabile a queste sue proteste e
insisteva nel relegare Fagioli in secondo piano.
Intanto, anche in questa fase di sostanziale lontananza dai media, ogni
minima uscita su giornali e tv continuava a essere commentata e interpretata e a divenire oggetto, all’interno dei seminari, di una ricerca nel
tempo sempre più approfondita e minuziosa, fino a svolgersi come esegesi
Sul blog
57
letterale delle espressioni verbali usate dai giornali. La cosa è comprensibile se si considera l’esigenza di un gruppo, in qualche modo chiuso, di
sapere come viene percepito dagli altri e, ancora di più, come se ne valuti
il consolidamento intervenuto nel tempo che all’interno è percepito come
frutto di una battaglia eroica.
Nel 1989 Antonello Armando scrive il libro sopra citato che raccoglie le
posizioni del mondo culturale, inclusa la stampa, nei confronti della teoria
della nascita di Fagioli e della sua pratica terapeutica, e rappresenta in
parte questo modo di vedere cercando di fornirne una storia circostanziata
e completa. In quel libro non si parla più semplicemente di “annullamento”,
ma di “percezione delirante”, come chiave di interpretazione di quelle posizioni. In altre parole, il fenomeno/i fenomeni in causa non sono annullati,
fatti sparire, ma sono percepiti esattamente, solo, però, con un significato abnorme. Sulla questione nascerà un dibattito interno (Armando, 1999,
2003; Fagioli F., 2001) che non è qui il caso di affrontare poiché riguarda
aspetti specifici come la nozione fagioliana di “pulsione di annullamento”;
fatto sta che la chiave con cui si interpreta l’atteggiamento dei media sembra
cambiata: un tempo si lamentava che la stampa cancellasse radicalmente
tutto quello che riguardava Fagioli, adesso ci sarebbe un cambiamento, non
lo fa sparire radicalmente ma lo altera, dando a ciò che accade significati
abnormi. Tanto per fare un esempio: a sentire i giornali, Bellocchio sembra
più importante di Fagioli e questo rappresenta un’alterazione evidente della
realtà a chi, all’interno dei seminari, ha invece la percezione di Fagioli come
terapeuta e personalità autorevole, considerata vicina alla perfezione, e di
Bellocchio come paziente e dunque uomo perfettibile.
Nel corso degli anni Novanta le cose cambiano ulteriormente: attorno
a Fagioli si erano da poco formati alcuni gruppi di studio e di lavoro extra analitici - gruppo degli psichiatri (1988-89) e gruppo degli architetti
(1991) - che, per la collaborazione di docenti universitari interni o vicini
all’analisi collettiva, iniziavano a dar luogo a una certa attività convegnistica, che nel tempo si intensificherà peraltro mutando sensibilmente
caratteristiche, e per la quale si cominciava a produrre materiale di discussione e divulgazione. È in quegli stessi anni che, con la libreria Amore
e Psiche e la rivista “Il sogno della farfalla”, Fagioli inizia a dotarsi rispettivamente di un centro di documentazione e di una rivista di psichiatria
e psicoterapia che accoglie inoltre contributi su cinema, arte, letteratura.
È sempre in questo periodo, nel momentaneo fiorire e venire allo scoperto
delle professioni all’interno del mondo, fino a allora omogeneo e in qualche modo anonimo, di semplici pazienti della seduta di grande gruppo, che
emerge anche qualche giornalista.
58
Il paese degli smeraldi
Si tratta di un momento importante: il termine per altro contestato di
“gruppo di lavoro” sottolinea un passaggio di cui lo stesso blog si è occupato (cfr. cap. VI), e su questo punto le valutazioni di quel momento, e
soprattutto di quello che è successo dopo, possono divergere moltissimo. A
parere di chi scrive - senza entrare nel merito delle ragioni più o meno profonde di ciò - la stagione dei gruppi di lavoro appena aperta si esaurisce
subito prendendo piuttosto la strada di una svolta autarchica, probabilmente la principale artefice della costituzione di quel “mondo parallelo”
al quale si fa riferimento in molti post. Non che il mondo parallelo non
esistesse anche prima, ma negli anni precedenti aveva, almeno per chi vi
partecipava dall’interno, caratteristiche, ovvero giustificazioni, comuni a
quelle di tanti altri gruppi, ossia le stesse di ogni realtà che, a torto o a
ragione, ritiene di doversi difensivamente chiudere per rafforzarsi e svolgere in tranquillità la sua pratica. Ora invece si era già a più di quindici
anni rispetto all’inizio dei seminari e si stava assistendo a una disponibilità all’apertura al mondo esterno, dunque all’occasione di realizzare
un’autentica riuscita. Per lo meno questo era il sentimento di molti, che si
sentivano di affrontare quel mondo riprendendo la propria identità messa
da parte per anni per curarsi. Se non che intervenne qualcosa per cui, in
poco tempo, la prospettiva di istanze di reale confronto si risolse nella
costruzione, tutta interna, di simulacri di rapporto con il mondo esterno
e, simultaneamente, di una sorta di apparato di gestione, piuttosto debole
anche se rigido, sottoposto al controllo di Fagioli che, anziché attenuarsi
per far spazio a un libero sviluppo, si proponeva con crescente determinazione.
È difficile spiegare perché questo passaggio, che non fu repentino ma
progressivo, si sia verificato; fatto sta che il rapporto con i media, anziché
seguire le vie più ovvie per una realtà che intende produrre cultura, ossia
quella di lasciare la stampa sullo sfondo per continuare il proprio lavoro
di ricerca, oppure quella di proseguire l’antica battaglia sulla visibilità
dotandosi di un ufficio stampa che intrattenesse con i media rapporti meno
ossessivi, ne intraprese una del tutto peculiare e convergente con la detta
costituzione del mondo parallelo.
Gli elementi che hanno contribuito a determinare questa scelta sono
molti, tutti presenti nell’analisi collettiva e tutti comprensibili se presi singolarmente, ma in grado di provocare un’evoluzione perversa se presi insieme. Tra questi: la grande voglia di far accorgere gli esterni di quello
che era avvenuto o stava avvenendo all’interno di quell’esperienza; il fatto
che il mondo della cultura, chissà perché assimilato in toto a quello della
stampa, si dimostrava a ciò cinicamente poco interessato; il bisogno di
Sul blog
59
compiacere Fagioli e assumere meriti ai suoi occhi; un pizzico di megalomania e avventurismo presenti nel DNA dei partecipanti ai seminari e
dello stesso Fagioli; la decisiva attitudine di quest’ultimo a vagliare personalmente e nei dettagli qualsiasi uscita pubblica. Tutto ciò ha fatto sì che si
delineasse un percorso che, per chi ancora lo sostiene, è l’unico possibile
per una storia da considerare eccezionale e radicalmente alternativa; per
chi lo critica, contiene tracce di ripetizione di altre esperienze connotate
da un vizio, in esse insito (e perciò insuperabile), di chiusura; per altri
ancora, rappresenta una forma di decadenza.
La via autarchica alla visibilità ha visto svilupparsi nel tempo diversi
fenomeni. Oltre alla pubblicazione di scritti e materiale audiovisivo relativo a ogni incontro pubblico cui interveniva Fagioli, quasi sempre accompagnato da centinaia di partecipanti all’analisi collettiva, ecco il metodo
del repetita juvant, ossia il fatto che questo materiale venisse quasi sempre
riproposto secondo la sequenza: incontro dal vivo, ripresa video in cassetta o dvd, pubblicazione scritta della sua registrazione in forma di volumi di
Atti o di articoli su “Il sogno della farfalla”. Seguiva poi la diffusione del
materiale a giornalisti o esponenti della cultura e della politica, il più delle
volte in forme personali e confidenziali. Altra caratteristica peculiare è che
tutte le attività relative a tali modalità venissero svolte da partecipanti alle
sedute - spesso tecnici dilettanti, solo in seguito professionalizzati - in ogni
modo preoccupati di non incorrere in alcuna omissione che potesse essere
interpretata come aggressiva: questo comportava un’organizzazione per
le varie forme di edizione ai limiti dell’ossessione; si può dire che, da un
certo punto in poi, non ci sia stato evento, anche minimo, che non sia stato
integralmente registrato, così come nella trascrizione delle registrazioni la
fedeltà letterale era stupefacente e dava luogo ad aneddoti risibili. Insomma mai una sintesi, mai un estratto, mai tagli sapienti, anzi episodi drammatici di stigmatizzazione di chi si era permesso di suggerire variazioni
alla ripetizione letterale.
Accanto a questo bisogna parlare dell’attivarsi di alcuni giornalisti interni con un’intensa promozione della citazione, non sempre a proposito,
di Fagioli o dell’analisi collettiva, in comunicati di agenzia, in articoli e,
successivamente, in “lettere al direttore”; nonché della sua presenza e di
quella di altri professionisti fagioliani in cicli di trasmissioni televisive
locali (in particolare, Telesimpathy e Telesalute) e in qualche programma
nazionale.
Quest’intensa attività, insieme al moltiplicarsi di occasioni pubbliche
sempre più solenni - convegni, aule magna (che dal 1997 avevano assunto
la forma di “rappresentazioni” dell’analisi collettiva interamente curate
60
Il paese degli smeraldi
da Fagioli; cfr. Lalli, 2007), lezioni all’Università di Chieti, tutte affollate
dalle solite migliaia di persone che venivano ritratte nelle riprese video,
sempre plaudenti, o pazientemente alla prese con lunghe code per entrare
in sale mai abbastanza ampie -, dava luogo a una quantità di materiale a
uso e consumo dell’analisi collettiva, visto che, nonostante il dispiegarsi
di forze, la stampa e il publico nazionale continuavano perlopiù a non
interessarsene.
All’interno, forse anche per reazione, l’esegesi si rivolgeva ora a queste
produzioni sviluppando una fortissima sensibilità ai loro particolari e al
linguaggio subliminale da esse veicolato, e purtroppo anche alle allusioni alla posizione di favore assegnata a questo o a quello nella gerarchia
del grande gruppo che venivano prese (da alcuni, da molti?) come precise indicazioni di comportamento. La mancanza di un interesse diretto
dei media veniva compensata da una disamina, in filigrana, dei principali
quotidiani, in sostanza “La Repubblica”, per cogliervi allusioni a discorsi
considerati propri dell’analisi collettiva, suggerendo, sia pure in ipotesi, che quanto rilevato confermava un interesse nascosto ma costante per
essa. Ogni tanto qualche intervista a Bellocchio o qualche apparizione
televisiva di Fagioli o di altri dava respiro e veniva accolta come conferma
di un mutato atteggiamento della stampa nei confronti dell’intera storia, e
del fatto che tutti seguivano tutto. Tutti, si diceva, avevano sempre seguito
ogni mossa dell’analisi collettiva e la posizione in merito da parte dei media era nel tempo enormemente cambiata, arrivando a un ampio e diffuso
riconoscimento dei suoi meriti e della sua riuscita. Da un certo punto in
poi questa versione è stata proposta oltre ogni evidenza, quasi a sancire
ulteriormente la separazione della logica del mondo parallelo rispetto al
mondo comune.
Dunque la via autarchica procedeva su due versanti: quello esterno
improntato a una sorta di avventurismo e di tentativo d’infiltrazione nei
mezzi di comunicazione e all’apparire in pubblico comunque e nonostante; quello interno di commento e lettura, con il sostegno di esperti membri
del gruppo, di eventi mediatici che potevano direttamente o indirettamente
riguardare l’analisi collettiva, talvolta con dissertazioni su titoli e impaginazione, scelta delle fotografie, presunte prese di posizione di intere redazioni, per confermare l’atteggiamento finalmente favorevole degli organi
di informazione.
Al lettore che ci ha seguiti fin qui non sfuggiranno le contraddizioni insite in questo modo di procedere: da una parte si continuava a perseguire
a tutti i costi la pubblica menzione, dall’altra si proponeva all’interno il
Sul blog
61
completo superamento del problema, da un’altra ancora si tendeva a tenere separati i due ambiti, interno ed esterno, mantenendo sotto controllo
tale separazione. Quest’ultimo aspetto trova una conferma nell’evidente
difficoltà ad accedere a molti esponenti dell’analisi collettiva, incluso Fagioli, cosi che, se pure qualche giornalista avesse voluto interpellare qualcuno, la cosa gli sarebbe risultata alquanto macchinosa (fino a poco tempo
fa, cosa menzionata nel blog, nella rivista “Il sogno della farfalla” non
compariva qualifica e recapito degli autori e la maggior parte di coloro
che ritenevano di rivestire un ruolo di una certa importanza aveva l’abitudine di criptare il numero di telefono, cose abbastanza singolari per chi
voglia aprirsi a un rapporto con il mondo dell’informazione). Infine, per i
partecipanti c’è da considerare l’aspetto che nessuno si è mai sentito certo
di un’autorizzazione di Fagioli a contatti ufficiali, il che ha fatto sempre sì
che si finisse con il viaggiare sul filo della sensibilità - a volte ipersensibilità - e del rischio personale.
Tutto questo racconto serve a chiarire come la posizione dell’analisi
collettiva rispetto al tema della comunicazione sia già di per sé, e per
storia, qualcosa di particolare e non privo di ambivalenze. Quanto alle
ambivalenze ne abbiamo illustrate alcune; quanto alla visione particolare, servirebbe il parere di un vero esperto, ma possiamo appellarci anche
a nozioni comuni su come il mondo dell’informazione non agisca attraverso logiche concordate e ferree, bensì spesso attraverso il caso e l’improvvisazione, idea questa che non trova molto seguito in quella realtà.
“Fuori” tutti sanno che la nozione che i giornalisti hanno di alcune vicende, a meno che non le abbiano studiate a fondo, è vaga, a volte affidata a nessi e associazioni che nascono non si sa bene dove e che, correndo
di bocca in bocca, vanno a costituire un “si dice” spesso non verificato.
Non parliamo poi della redazione di un giornale che può funzionare a
compartimenti stagni senza che nulla un redattore sappia di cosa avviene nel suo stesso settore, e/o in modo caotico, o del fatto che l’online ha
ulteriormente rivoluzionato il modo di procedere. Dunque l’idea ingenua
di un Grande Fratello al cui orecchio giunge tutto, che tutto filtra, e che
decide cosa far passare e cosa no è qualcosa che fa sorridere, perfino con
un po’ di amarezza, chiunque di questo mondo conosca le caratteristiche.
Un giornale, poi, ha parti importanti, come la prima pagina, e parti assolutamente accessorie alle quali non si fa quasi caso, a meno che non
abbiano realmente un significato cruciale che generalmente è chiaro solo
agli addetti. In analisi collettiva, invece, la stampa (compresa la tv) viene
ancora intesa come un insieme compatto e coeso, e talora si è fatta una
leggenda perfino di fugaci apparizioni in rubriche secondarie. Tutto ciò è
62
Il paese degli smeraldi
certamente servito a tenere compatto il gruppo, ma lo ha anche mantenuto in una sorta di stato di deprivazione rispetto alla conoscenza di come
funzionano le cose nel mondo dell’informazione.
Con queste premesse si giunge all’ulteriore svolta nel rapporto con i
media, che coincide con gli incontri con Bertinotti nel 2004, con le vicende
di “Left” e con la partecipazione a varie iniziative nell’ambito della costruzione della “nuova sinistra”: in breve con quella che è stata denominata la “scesa in politica”.1
Quest’ultima fase presenta molte vicende che andrebbero esaminate
più a fondo e che, per certi versi, seguono la falsariga dell’impostazione
autarchica, per altri rappresentano il tentativo di operare una forzatura
decisiva sul piano dell’immagine pubblica con un venire allo scoperto
dell’analisi collettiva sul terreno di una pratica sociale e politica che, peraltro, era stata dai suoi partecipanti abbandonata più di trent’anni prima.
È arduo solo azzardare ipotesi sulla natura di questo movimento: fatto sta
che l’“assalto al cielo” viene tentato questa volta attraverso l’accostamento mediatico di due figure come quelle di Fagioli e Bertinotti, i buoni
uffici di qualche giornalista interno e di una rivista compiacente2 e, forse
soprattutto, l’attivarsi dell’analisi collettiva in veste di massa numerosa e
plaudente, presente a ogni evento pubblico.
Non si sa, non si può dire, se fosse previsto o meno che quest’uscita
all’esterno provocasse cambiamenti nell’assetto del “mondo parallelo”,
ma è evidente che, tra il confronto pubblico e il mantenimento di quell’assetto, c’è una certa contraddizione, se non una vera e propria incompa1
2
Tale vicenda, enfatizzata dai media, iniziata ufficialmente a ottobre 2004, continua
ancora oggi. Gli ultimi avvenimenti hanno visto il nome di Fagioli accostato alle
vicende della vendita del quotidiano “Liberazione” e della scissione del Partito
della Rifondazione Comunista di cui si sono occupati molti quotidiani nazionali
tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 con diverse tonalità. Nel sito che fa capo
all’analisi collettiva (segnalazioni.blogspot.com) gli articoli particolarmente interessanti dal punto di vista critico (ad esempio quelli di M. R. Mancuso su “Il
Foglio” del 10.12. 2008 e di I. Dominijanni su “Il Manifesto” del 6. 1. 2009) sono
stati al momento eliminati dall’archivio.
Molto si è parlato del settimanale “Left”, nato dalle ceneri di “Avvenimenti”, che
ha visto avvicendarsi quattro diverse direzioni nel corso di poco tempo. L’interesse dell’analisi collettiva per questo settimanale è diventato via via crescente, e la
rivista è oggetto di analisi nel grande gruppo e nei piccoli gruppi, sia per la rubrica
fissa su di essa tenuta da Fagioli, sia per l’intervento di articolisti, esperti o persone intervistate ritenute interne o vicine a quella realtà. Questo stretto rapporto non
è sfuggito ai maggiori quotidiani nazionali che ne hanno parlato fin quasi come di
una sorta di house organ dell’analisi collettiva.
Sul blog
63
tibilità. In questo contesto compare anche il fenomeno dei blog: quelli di
“Aprileonline” e di “Rossodisera”, e in particolare questo.
A nostro avviso l’impatto con il blog rappresenta a questo punto della
storia nient’altro che l’impatto con la società civile, con la sua imprevedibile e spontanea attitudine alla ricerca della conoscenza attraverso le vie
più diverse, che da circa un decennio si è dotata, come strumento di dialettica democratica, anche di internet e dei blog. Infatti ecco che, alla vigilia
dell’affollatissimo incontro dell’analisi collettiva con Bertinotti all’Auditorium di Roma il 1 giugno 2007, i post nei siti sopra menzionati, fino
ad allora assai rari, cominciano a susseguirsi numerosi. Essi avanzano
critiche appassionate e denunce feroci, e immediatamente anche reazioni
incredule, sgomente, a volte manifestamente violente e intimidatorie, da
parte di sostenitori dell’analisi collettiva.
In questi scambi stupisce, da parte di questi ultimi, una sorta di inconsapevolezza del fatto che il presentarsi sulla scena politica con una certa
ambizione possa sottoporre a contestazioni. Stupisce altresì che le argomentazioni portate all’esterno, in un blog, siano tali e quali quelle in uso
nel gergo e nella vulgata interni al “mondo parallelo” dell’analisi collettiva, senza neanche preoccuparsi di verificarle. Infine è degna di nota l’impermeabilità al tema delle pratiche, secondo una sorta di assioma per cui
queste sarebbero emanazione diretta della teoria cui fanno riferimento. In
altre parole non sarebbe dato discutere di esperienze terapeutiche, poiché
queste devono restare riservate, se non segrete, e avere una legittimazione
d’ufficio sulla base dell’accettazione dei principi teorici su cui sarebbero
fondate, accettazione da decretarsi a questo punto a furor di popolo o su
fantomatici libri di storia ancora da scrivere.
I blog, questo blog, si presentano evidentemente come minaccia, ma
a cosa? Non già alla proposizione teorica, che come tale dovrebbe poter
essere discussa da chiunque, e neanche allo svolgimento in piena serenità
e serietà di attività terapeutiche, visto che le norme in merito appaiono in
esso totalmente rispettate e le contestazioni in questo senso pretestuose.
Non resta che pensare che essi minaccino di mettere in crisi l’assetto descritto del mondo parallelo.
Lasciando fiduciosamente aperta la possibilità che qualcosa muti in futuro, e che su questi temi possa aprirsi una dialettica meno faziosa, concludiamo proponendo due interrogativi suggeriti dalla lettura del blog.
Il primo è se dopo trent’anni ci si possa presentare in politica con lo
scopo tout court di accreditare direttamente una teoria della realtà umana,
se non è vero piuttosto che ciò potrebbe apparire come un modo proprio di
ideologie che sono state sconfitte e hanno fatto il loro tempo, anche per la
64
Il paese degli smeraldi
loro pressoché totale assenza di interesse per le pratiche nei settori con cui
di volta in volta si misuravano.
Il secondo, più malizioso, è se non sia stata invece l’ossessione mediatica a spingere Fagioli, e l’analisi collettiva con lui, a un rapporto forse
immaturo e precipitoso con la politica: affascinati dall’illusione della virtualità veicolata dal mondo dei media e dall’attenzione che in certe fasi
esso sembra dedicare a nuovi astri, hanno continuato, puntando ora su
questo ora su quel tavolo, a cercare di perseguire il lieto fine della favola
“del gatto con gli stivali”, dimenticando (e non sappiamo se è bastato loro
a ricordarlo il disastroso e da loro non previsto risultato delle elezioni del
2008) che essa è per l’appunto una favola e che, quantunque la virtualità
possa risultare seducente, non si può sfuggire indefinitamente al confronto
con il reale.3
1. Il senso del blog e di una sua sintesi
Finalmente si può commentare, rivedere e riflettere libera-mente. Carola
Siamo qui per fare chiarezza perché ce n’è assoluto bisogno nell’interesse di tutti, e sottolineo di tutti. Si parla di valori nuovi per la sinistra,
io penso che la chiarezza sia propedeutica a tutto quello che viene o può
venire dopo. Viola
Credo necessario conoscere la verità su fatti dei quali ad alcuni e giunta
solo una lontana eco. Conoscere la verità su questi fatti, attraverso testimonianze provenienti dalla cosiddetta “altra campana”, cioè gente che andava
ai seminari e che non ci va più, o gente che ci va, ma in una certa misura è
critica (se mai questo è possibile), mi aiuterà. Rowan
3La favola del gatto con gli stivali ci sembra una metafora appropriata a descrivere
il percorso fin qui della storia del rapporto dell’analisi collettiva con i media.
Come si sa, l’astuto gatto va in giro ad accreditare l’orfano del mugnaio, povero
in canna, come “Marchese di Carabas”, millantando suoi immensi possedimenti, e
riesce alla fine a procurargli un regno. All’interno dell’analisi collettiva per molto
tempo si è pensato a Fagioli come al magico gatto al servizio di un gruppo di
gente sperduta e senza futuro, in realtà negli ultimi tempi sembra più appropriato
pensare che la funzione del gatto sia passata ai partecipanti all’analisi collettiva,
che si sono generosamente spesi per procurare al leader un riconoscimento, con il
tempo più che ambito quasi preteso.
Sul blog
65
Con pazienza e non senza dolore si pongono domande che non cercano “vendetta”, non creano nemici da abbattere, non vogliono screditare o
ridicolizzare nessuno, ma sicuramente aggiungono per molti possibilità di
riflessione-ricerca su una parte di vita condivisa più o meno intensamente
con altri partecipanti a questo blog. Ghery
Qui respiro aria buona, di quando la gente si ritrova e ciascuno mette il
suo. E le cose anche gravi sono condivise: ci si sente meno soli. E se uno
dice una sciocchezza, dice una sciocchezza, chiunque sia. Potrebbe essere
questa la sciocchezza? Va bene: ci sto, è un bel gioco, quando l’errore non
si accompagna a qualcosa di simile al terrore - di cosa? di perdere tutto, che
di tutto era stato fatto prima terra bruciata con tanto di accattivante sorriso
sulle labbra? Romeo
È importante non sentirsi soli quando tutti gli “amici” ti voltano le spalle
e devi fare i conti con gli errori che sei conscio di aver commesso allorché
eri in preda all’onnipotenza che conseguiva da quel rapporto: separazioni
forzate, catechesi sui figli, indifferenza verso tutto quello che Fagioli declamava non essere importante! Questo per me è un appuntamento che rasserena, nonostante il dolore e la rabbia che mi prendono a volte, leggendo le
testimonianze e le analisi chiarissime degli altri “scampati”. Mary
Questo mezzo di comunicazione è prezioso, dà luogo a uno spazio di informazione e discussione mai esistito prima rispetto alle vicende dell’analisi
collettiva e non solo. Ma è pur sempre un blog. La protesta e la denuncia possono assumere forme non sempre condivisibili, a volte perfino incontrollate.
Come salvaguardarne il valore e il livello? Una cosa che mi viene in mente è
di restare fedeli al carattere di testimonianza diretta. In questi anni ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori e chiunque di noi potrebbe aggiungere carne
al fuoco, ma mi sembrerebbe arbitrario e perfino ripetitivo farlo. Il punto
vero, che trasmette a tutti emozioni importanti, è raccontare le cose per come
uno le ha vissute. È la testimonianza personale che conta. Un altro dei tre
Il mondo è cambiato da quando iniziarono i seminari e, anche se non sembra, gli spazi di libertà sono aumentati, i blog non li ferma nessuno. OK
Guardo questo fiume in piena che viene giù. L’importanza di tutto questo, che certamente percepiamo già da ora, dobbiamo ancora vederla nella
sua interezza. Il punto è rompere un muro e provare a parlare e a superare
l’ineffabilità, che a volte nasconde... aria fritta. Non importa se in maniera
66
Il paese degli smeraldi
inesatta o criticabile, l’importante è che ci siano obiezioni a un pensiero
che sembra non riconoscere possibilità di entrare in dialettica con chicchessia. Piero
Deve essere molto difficile per più di uno capire o solo ammettere l’esistenza del blog come fatto spontaneo e spazio libero di confronto. Spazio
di frontiera, acque extraterritoriali secondo le immagini di alcuni interventi
brevi ma intensi. Luogo di produzione di storie diverse da quelle che si è
abituati a sentire. Lo spazio selvaggio, seppure non privo di asperità, non
dovrebbe turbare chi ha fiducia in una fondamentale sanità degli altri, e
indurlo piuttosto all’ascolto e alla presa in considerazione di aspetti sconosciuti o tenuti nascosti in altri contesti.
Cosa c’è da meravigliarsi, cosa c’è di orribile nel fatto che nel blog abbiano
trovato un luogo provvisorio, non solo di denuncia, ma anche di elaborazione, storie altrimenti distruttive? E distruttive non per responsabilità di chi le
ha vissute, ma di chi le ha prodotte. Che si fa di queste storie? Si etichettano
come malate e si spediscono alla deriva su una barca lungo il Tevere, mentre
si invitano “i capi” e i resipiscenti anonimi a sedere al banchetto o alla cerimonia di vestizione dell’imperatore con abiti ormai così impalpabili da non
essere più visibili? L’incapacità a comprendere o accettare che fuori da un
certo contesto ognuno è libero e non etichettabile fa sorridere chiunque abbia
accumulato sapienza su come vanno le cose del mondo. Ma c’è qualcosa
di rivoltante nell’espressione di questa incapacità: mi sono chiesta cos’è, la
parola che lo esprime più compiutamente è “ipocrisia”. Albertina Seta
Data la giovane età di questo inaspettato blog, ci sarà certamente tempo
perché tutto venga svelato. Le denunce non fanno parte di questo momento
di raccolta collettiva, di riflessione comune, di riscrittura della propria storia personale e quindi dell’esperienza nell’analisi collettiva. Complicatus
Pubblichiamo il blog, non so quali possono essere le complicazioni editoriali rispetto a questi contenuti, ma se fosse possibile io lo pubblicherei,
considerato che di fatto è già pubblico. Ci sono testimonianze che, nel caso
corrispondano a verità (scusate se ci metto il condizionale ma mi sembra doveroso) inducono a un approfondimento nell’interesse di tutti, e per tutti, vista
la discesa in politica che sta per diventare “salita” in Parlamento. Dr Carter
Dopo aver trascorso 25 anni con questo incubo, non ho alcuna intenzione
di passarne altri 25 a parlarne. Cioè, a 50 anni ne avrei passati 25 da fagiolista
e altri 25 da antifagiolista, e non credo che a quel punto potrei essere soddi-
Sul blog
67
sfatta della mia vita. Ho imparato e condiviso su questo blog che la psichiatria è una cosa seria, è infatti una specializzazione medica; che dal medico ci
va chi sta male, si cura e va via dopo un periodo ragionevole, tornando alla
propria vita. Ho imparato e condiviso che mentre è ovvio che il medico, il
ricercatore in questo campo trascorra la sua vita, oltre che a curare i pazienti,
anche a fare formazione continua e ricerca, non è assolutamente ovvio che
una persona sana si curi a vita, né che faccia formazione continua e ricerca in
un campo che non è il suo: equivale a prendere antibiotici anche in assenza
di malattia. Un libro potrebbe restare lì, sul comodino di ognuno in ricordo
di questa splendida e difficilissima battaglia che per me finisce qui. La vita è
molto più bella di come sembrava. Il mondo è grande e ognuno può tornare
a casa, o trovarne una che certamente esiste, finalmente! Light Blue
Ricordo il mio primo impatto con Istinto di morte e conoscenza, i motivi
per cui diedi il mio assenso. Uno furono quelle prime pagine sulla differenza tra frustrazione aggressività e frustrazione interesse; non so se anche
altri ne avesse parlato prima, né mi interessa perché fu da esse che appresi
questa distinzione. Mancava però forse in loro la garanzia dell’obbligo, per
chi in un dato momento definisce cosa è e cosa non è frustrazione interesse,
a confrontarsi in un altro momento con una frustrazione interesse, elaborarla, prendere atto delle incongruenze intervenute, correggerle, rivisitarne
con coraggio le premesse, apprendere dall’esperienza, migliorarsi.
Si racconta che quando Il principe fu presentato in dono al duca d’Urbino, questi non ne tenne conto, distratto dall’altro dono di una coppia di
levrieri e più interessato a esso. Può darsi che anche il nostro principe si mostri distratto, magari non da una coppia di levrieri, ma diciamo da aragoste
e champagne portati in dono dalla corte che li ha acquistati con le gabelle
tratte dai sudditi. La storia allora si ripeterà, ma non va omesso che in ogni
ripetizione si dà anche, per un attimo, la possibilità di uno slancio nuovo.
Se l’attimo non venisse colto, resterà che avremmo ritrovato il piacere di
fare le cose per niente. Però, comunque, non sarà stato proprio per niente.
Le contraddizioni, le dinamiche interne, gli effetti dei silenzi, e altro ancora
di cui si è detto su quest’agorà virtuale, condannano di per sé già da oggi
il gruppo all’implosione futura. Se qualcosa si salverà sarà stato anche per
questo dono. Antonello
L’idea del dono va bene, io lo considero tale, soprattutto per i partecipanti all’analisi collettiva e in particolare quelli più giovani. Il livello
generale di possibilità critica dell’insieme della popolazione dell’analisi
collettiva è divenuto estremamente più modesto rispetto a un tempo, per
68
Il paese degli smeraldi
una somma di ragioni di diversa natura, per cui una voce critica di estrema
ricchezza come questa del libro, derivato da un blog spontaneo, non può
che aiutare un sacco di gente a capire che esiste un’altra campana, che non
è tutto lì il mondo della cultura o della politica o anche della psichiatria,
come si tende a far credere loro in tutti i modi. Per cui un dono va bene, ma
a patto che sia l’ultimo. Settimo
Ogni “accusato” ha diritto, in qualunque fase del procedimento, a una
difesa! È chiaro che ci sono almeno due precise e chiarissime linee di intenzioni e di conseguenti prossime azioni. Alcuni non vorrebbero che si
agisse al fine di attivare al più presto (diciamolo senza tante circonlocuzioni) la ghigliottina della “gogna mediatica”: sarebbe scorretto non concedere a colui, a coloro, che vengono accusati almeno un tempo e uno spazio
adeguati alla “replica”. Tutto questo comporta due conseguenze precise:
non chiudere il blog subito, ma lasciarlo ancora aperto fino al termine di
quest’ anno; evitare di dare al prossimo libro la forma di un “Libro Nero
dell’analisi collettiva”. Libro di cui, in questa forma, sembrano in ansiosa
attesa coloro che rappresentano la “seconda linea” e vogliono agire subito,
senza ulteriori riflessioni, più o meno decisi a spedirlo o a “suggerirlo” a
chi di dovere, nel palese intento di attivare, appunto, la ghigliottina della
gogna mediatica.
Una “ricerca collettiva” così impostata, che scavalchi le sterili e assurde
contrapposizioni lui-noi, loro-noi, potrebbe e dovrebbe essere il crogiolo
creativo (e non il forno crematorio!) per “ricercare insieme” gli sviluppi e
le inevitabili trasformazioni dell’analisi collettiva dopo ben 32 anni di esistenza. Sia la teoria della nascita che la straordinaria intuizione e intenzione originaria dell’analisi collettiva non possono essere o divenire, per loro
intrinseca natura, struttura e consistenza, proprietà privata di qualcuno,
quand’anche questo qualcuno fosse lo stesso ideatore originale dell’una e
dell’altra. Clessidra
Mi preme tornare sullo scritto di Clessidra perché ho l’impressione che
rappresenti una svolta importante. Sancisce la riuscita del nostro lavoro, il
fatto che abbiamo tenuto. Loro, le “clessidre”, pensavano che tutto sarebbe scemato in pochi giorni: «Lasciamo che si sfoghino, che gridino, poi
le voci si abbasseranno, tutto passerà in fretta». Niente! Le testimonianze
sono continuate. Allora: «Aspettiamo agosto, le vacanze, il mare, i fuochi
si spengono, la vis polemica si affievolisce». Niente! Proprio in agosto
il blog ha avuto una nuova impennata, nessuno lo ha abbandonato: chi
dall’Africa, chi dalla Norvegia, chi dal deserto di Roma lo ha mantenuto
Sul blog
69
vivo e fortificato. Poi hanno sperato: «Stanno cominciando a litigare tra
loro, hanno divergenze interne, vedrete tra poco andrà tutto a puttane».
Niente! Le differenze di vedute ci hanno arricchito e chiarito ancor più le
idee. Ecco allora la mano tesa: «Lavoriamo insieme, scriviamolo insieme
questo ‘maledetto’ libro». Niente! Il nostro netto rifiuto.
Non so ora cosa le clessidre stiano preparando. Però una cosa vorrei dire
loro, visto che ci seguono passo passo, passando al setaccio ogni nostro
intervento. A proposito di gogna mediatica. Non siamo giacobini, né siamo
incorruttibili. Siamo stati corrotti, eccome! Corrotti nel pensiero. La corruzione del pensiero si chiama ideologia. Ma anche le ideologie con il tempo
si corrompono e crollano. L’ideologia del ‘68 è stata corrotta dal pensiero
dei falsi maestri. L’ideologia del ‘77 corrotta dalla violenza estremistica.
Poi è arrivata l’ideologia della “teoria della nascita”, corrotta dal dogma
che solo “uno” era sano e noi tutti malati, dogma che ci aveva resi eterni
curandi. Infine, l’ideologia di un socialismo rinnovato con l’irrazionale incorporato, corrotta da attici e super attici.
Molti di noi, con difficoltà e dolore, sono usciti fuori dall’ideologia,
ritrovando identità e libertà di pensiero. Proprio per questa libertà di pensiero nessuno ha mai pensato a ghigliottine o chissà quali gogne, non c’è
nessuna linea giustizialista. Libero
Credo necessario passare dalle testimonianze, che pure continueranno, alle proposte, che sia arrivato il tempo di fare una sintesi. La critica
all’esperienza dell’analisi collettiva dovrà continuare, anche se per molti di
noi non ha più significato vitale, per permettere alle persone in crisi dopo
l’analisi collettiva di elaborarne l’esperienza. La cosa risulterà particolarmente difficile nel caso dei ragazzi della seconda generazione [cfr. cap.
III]. Deve risultare il più chiaro possibile che ciò non avviene “perché uno
ce l’ha con l’analisi collettiva”; non è un’operazione “contro”, è un dovere
“per” venire incontro a un’esigenza sociale, anche se circoscritta a un numero di persone limitato. Scampato
D’accordissimo sulla sintesi-rielaborazione che ognuno di noi può offrire per questo libro-documento, spero che per allora troverò la forza di
scrivere almeno il mio nome. È fondamentale, però, trasmettere la forza del
blog, ossia le testimonianze dirette. Mi preme sottolineare la necessità che
esse appaiano nella loro forma integrale, nella loro dirompenza, che è proprio ciò che mi ha spinto a intervenire invece di leggere soltanto. Leggere
tante esperienze dirette corredate da tutte le riflessioni fatte potrebbe essere
un ottimo mix. Hammer
70
Il paese degli smeraldi
2. Il blog e il problema del segreto professionale
Esiste il segreto professionale per il rapporto tra medico e paziente, rapporto che si svolge nello studio privato, ed infrangerlo è un grave reato
punibile con il carcere dai due ai tre anni. L’analisi collettiva si svolge
nello studio privato del Prof. Fagioli, medico, e ogni paziente, pur nella
collettività, svolge un rapporto personale con il medico cui chiede la cura.
Quando uno riporta all’esterno qualsiasi elemento di questo rapporto viola
il segreto professionale, interferendo nello svolgimento dell’atto medico.
Non bisogna essere medici per capire questa cosa, basta un semplice rapporto con la realtà. Quando io leggo su questo blog frasi dette all’interno
di uno studio medico, penso che chi le scrive non ha rapporto con la realtà,
non distingue tra dentro casa e fuori. Un amico
Qui non si raccontano fatti propri privati, ci si confronta su vissuti di
esperienze comuni. Ho letto la maggior parte dei post, non mi sembra che
qualcuno abbia mai fatto nomi di psichiatri o persone. Incredibile
Il segreto professionale è valido per il medico e non per il paziente. Basta
leggere la legge sulla privacy n. 675, del dicembre 1996 (che sistematizza e
sovraordina tutti i Codici di deontologia delle varie professioni interessate,
dal medico agli avvocati, tanto per intenderci; nella fattispecie recepita dal
Codice di Deontologia Medica del 1998) e gli articoli 326 e 622 del codice penale che ineriscono a questo tema. Non vi è alcuna norma di legge,
né interpretazione della Cassazione, che parli di obblighi del paziente in
relazione al segreto professionale. Le persone che rivelano argomenti del
proprio rapporto terapeutico non compiono reati di alcun genere, né sono
perseguibili in alcun modo. Sono quindi perfettamente aderenti alla realtà.
Sei tu che, ignorando totalmente le leggi e lo stato di diritto, non lo sei.
Perdonami una battuta: se dai del malato a chi non aderisce alla realtà,
ignorando qual è la realtà, te lo dai da solo. È logica “deduttiva”. Valerio
Mi spiegate di quale segreto medico state parlando? Se io vado a parlare di politica, architettura e cinema con un mio amico che è laureato in
medicina, la sera in un suo appartamento, e poi racconto quello che mi ha
detto, o anche lui racconta quello che gli ho detto io, quale segreto medico
è stato violato? Esistono documenti (fatture, prescrizioni, certificati) che
dimostrano che di attività medica in quelle ore si tratti? Claudio
Sul blog
71
Il segreto professionale lo conoscono bene anche gli psicologi iscritti
all’albo, in particolare quelli abilitati dall’Ordine a fare diagnosi e psicoterapia, diagnosi a partire dalla conoscenza approfondita di Psiche, della
sua vita normale, e terapia di Psiche quando si ammala. Il fatto che sia
stato accettato che alle scuole di formazione di psicoterapia possano adire
anche i laureati in medicina, come fossero alla pari con chi ha studiato per
tanti anni Psiche e la sua vita, non autorizza certamente nessun laureato
in medicina a sentirsi qualcosa di più! A meno che questo qualcosa di più
non lo si veda nella possibilità di prescrivere farmaci, ma questa, almeno
apparentemente, i fagiolisti sembra la considerino una cosa che non si fa.
Dico “apparentemente” perché ci sono equivalenti comportamentali dei
neurofarmaci, con effetti collaterali che possono essere considerati peggiori degli effetti secondari dei farmaci. Romeo
È un diritto di tutti esprimere liberamente la propria opinione e portare
dati a conferma delle proprie idee. Va fatto, però, nel rispetto delle norme vigenti. Questo è un punto fondamentale perché altrimenti ogni critica
perde valore e si entra in un tipo di rapporto lesivo della propria e altrui
immagine, anche se questa lesione non si configura apertamente come reato e anche se nessuno avrà voglia di intraprendere strade legali perché
impegnato in attività più importanti.
Voi dite che il paziente non è tenuto al segreto professionale, e questo
è vero. Però è tenuto al rispetto della privacy, a non diffamare e a non calunniare. La terapia di gruppo, in quanto attività medica riconosciuta anche
dall’Ordine dei Medici che non fissa un numero massimo di partecipanti,
deve svolgersi nel rispetto della legge della privacy. Uno può fare dei propri dati personali ciò che vuole, ma non è così riguardo a quelli degli altri.
Quanto poi al fatto che un’interpretazione sia da considerare violenza, è
difficile valutare il significato di una singola frase o parola nell’ambito di
un processo psicoterapeutico. Ciò non è in assoluto una difesa di pratiche
interpretative inadeguate, superficiali, violente. Dico solo che l’onere della
prova che tali pratiche siano lesive della dignità del paziente è a carico di
chi denuncia e non so quanto un sito internet, senza nulla togliere alla sua
importanza, e l’estrapolazione di frasi da un contesto, consenta una corretta
comprensione. Quindi credo che la critica in se stessa vada sempre accettata, ma deve essere come modalità e contenuti commisurata alla complessità
e alla natura del problema che vuole affrontare.
Ad esempio, il problema della psicosi nella seconda generazione di fagiolini [cfr. cap. III] è un “fatto” reale, molto serio, che va affrontato e
compreso. Anch’io me lo sono posto. Voi, però, giungete subito alle con-
72
Il paese degli smeraldi
clusioni o date l’impressione di cercare solo fatti che confermino opinioni
già costituite. Usate la tecnica della critica attraverso il caso clinico utilizzata a sua volta da Fagioli contro Freud. Direi che tale procedimento ha un
valore più persuasivo e suggestivo che sostanziale. Vi assicuro che potrei
portare centinaia di casi di segno contrario al vostro, allora saremmo punto
e daccapo. A meno che non si sia in grado di elaborare il caso clinico a un
livello tale da dimostrarne la pragmaticità rispetto a una teoria, sia nel senso della conferma sia nel senso opposto della disconferma.
Nessuno scambia verità e giustizia, ma il processo in internet, che è
mediatico, stabilisce la colpevolezza per il semplice fatto che c’è l’accusa;
o l’innocenza, per la sola dichiarazione d’innocenza. Questa, francamente,
mi sembra una scorciatoia pericolosa. Perché qui non si sta dicendo che il
tale è antipatico, ma che qualcuno distrugge psicologicamente centinaia se
non migliaia di persone. Le quali devono essere “liberate” da un manipolo
di volenterosi che si sono accorti di una gigantesca “truffa” che avrebbe
risvolti medici, psicologici, politici. È chiaro che, di fronte alla sola ipotesi
di così gravi e reiterati abusi, la denuncia su un blog è uno strumento inadeguato, soprattutto perché esiste una responsabilità penale del blogger, esiste la legge sulla privacy, e un forum non è il luogo più adatto per denunce,
per di più anonime, in cui si fa riferimento a persone e psichiatri che tutti
quelli di un certo ambiente individuano subito nonostante l’accorgimento,
non so se ipocrita o ingenuo, di non fare nomi.
Da ciò che ho letto, inoltre, s’interferisce in trattamenti psicoterapeutici
in atto attraverso la diffusione di notizie tendenziose e non verificate perché
non se ne conosce la fonte, rafforzando il transfert negativo e attaccando
direttamente e indirettamente l’immagine del terapeuta “fagiolista” (termine che trovo assurdo), considerando quest’ultimo nemmeno una persona
ma un replicante, un appartenente a una setta. Proviamo a rovesciare la medaglia: se qualcuno, magari più che certo della propria autonomia e identità
professionale, certo anche di non aver mai truffato nessuno, qualcuno con
le carte in regola, si fosse stufato di essere accomunato a Ron Hubbard o a
Ceaucescu, di essere trattato come una pezza da piedi da un gruppo di sconosciuti che, salvo alcuni, che sono psichiatri qualificati o psicoterapeuti,
non si sa bene che competenze abbiano? Anonimo8
Il tuo intervento, Anonimo8, mi è sembrato molto serio. Mi sembrava,
però, che non tenesse conto di un problema aggiuntivo a quelli indicati: la
con-fusione tra attività diverse all’interno dello stesso... gruppo-massa, si
potrebbe dire, visto di quanto viene oltrepassato nell’analisi collettiva il limite superiore abituale di un gruppo di psicoterapia, anche in assenza di un
Sul blog
73
limite fissato legalmente. Se il numero in sé non cambia necessariamente le
cose da un punto di vista legale - almeno così mi viene da dire, ma non ne
sono sicuro - mi chiedo e ti chiedo se le cambia il fatto che in quel gruppomassa si facciano tre cose, di cui una sola è la cura.
Dici poi: «Credo che con l’analisi collettiva noi siamo di fronte a situazioni più variegate a cui dovremmo forse dare nomi diversi senza ricorrere
ad analisi che a me, ma è solo un’ opinione, appaiono datate, superate dalla
capacità stessa dell’analisi collettiva di rispondere ad accuse di setta, gruppo religioso, dittatura ecc...». Giusto. Penso che tu abbia dato per scontato
che il superamento sia avvenuto nei fatti, nei comportamenti osservabili
all’interno e all’esterno, e non solo nelle parole. Penso che tu sappia che
una caratteristica dei gruppi a cui accenni è quella di produrre nei soggetti
che entrano a farne parte una specie di impermeabilità alle critiche che
possono essere loro rivolte.
Alcune persone, qui, si sono chieste: come è potuto accadere, per tanti
anni, che non mi accorgessi di certe cose? C’era una sorpresa dolorosa
in quelle parole. Di risposte ce ne sono tante, come sempre per Psiche e
sue vicissitudini. Una può essere in quella impermeabilità alle critiche che
accade nei membri di gruppi come quelli che hai detto e, pur senza fare il
corto circuito che identifica il gruppo-massa fagiolista con essi, ritengo che
quella specie di impermeabilità alle critiche possa essere una caratteristica
di molti fagiolisti. Romeo
Anonimo8, ti ricordo che la dizione è “seminari di cura-ricerca-formazione”. Viene così ad accadere che persone sane e persone malate si trovino
insieme nello stesso luogo nello stesso momento, senza sapere chi sono i
sani e chi i malati. Può accadere così che, quando il medico formula una
diagnosi, la sentano anche persone che non fanno parte del gruppo di terapia. Questo, visto che tu dimostri di conoscere così bene le normative, a te
sembra corretto? Sarà il caso di approfondire anche questo? Claudio
Confondere il piano della verità con il piano della giustizia è un errore
molto grave, equivale ad affermare che, se non hai prove materiali, il fatto
non sussiste. Le cose che avvengono, avvengono, anche se la persona non
procede per vie legali per incapacità, scarsità economica, convenienza o
molto semplicemente perché ha la possibilità di risolvere i problemi in
altro modo. Amatamari
Caro Anonimo8 diciamo la verità, e diciamola tutta. Questa vicenda
“dei blog e del segreto professionale”, da cui discendono tanti interventi
74
Il paese degli smeraldi
dei compagni dei seminari, ha una genesi precisa. La settimana seguente
all’incontro tra Bertinotti e l’analisi collettiva, sul blog di “Aprileonline” si
diffondono alcuni giudizi poco lusinghieri che Fagioli avrebbe espresso sul
presidente della Camera nel corso dei seminari. Le frasi riportate rimbalzano su altri blog, e ritornano dentro al seminario. Da lì parte la reazione:
si parla di criminali, si paventano anni di carcere, si diffidano i partecipanti
all’analisi collettiva a scrivere. Reazione che, a sua volta, si riverbera nuovamente sui blog, arrivando fino a te. Ma queste cose le sai perfettamente.
Ti riconosco una maestria: i tuoi predecessori riportavano quanto sentito
con una rozzezza senza pari, tu provi ad argomentare. Ma la sostanza non
cambia: i blog vanno fermati, o sterilizzati al punto da perdere qualsiasi
interesse.
La minaccia del penale è un’arma spuntata: lo sai anche tu. E non vale
neanche il discorso accennato dell’eventuale identificabilità delle persone:
non ci sono nomi, descrizioni fisiche, età, professioni, non c’è nulla che
possa far riconoscere quel paziente o quella psicoterapeuta. Se conosci la
storia puoi, forse, risalire a qualcosa; se non la conosci, è realisticamente
impossibile.
C’è un punto, però, che vorrei sottolineare. Le “notizie” apparse sui blog
provengono dall’interno stesso dei seminari. Questo accade perché per la
gran parte dei partecipanti all’analisi collettiva la separazione tra dentro e
fuori non c’è. Non c’è per Fagioli, abituato da sempre a interpretare “dentro” fatti ed eventi accaduti “fuori”, spesso riguardanti persone che non
sono suoi pazienti, perché dovrebbe esserci per coloro che lo seguono?
Quando si prende per verità assoluta tutto ciò che viene detto “dentro” ai
seminari, è naturale ripeterlo fuori. Valerio
Nessuno sta sottovalutando anche il tuo di disagio Anonimo8, nessuno
può sottovalutare il disagio di chiunque abbia creduto fino a ieri acriticamente e aprioristicamente nell’analisi collettiva. Non tanto per i suoi fallimenti, essi sono sotto gli occhi di tutti, come anche i successi; il problema
è il metodo dell’oblio, soltanto parzialmente sconfitto dalla recente realtà
dei blog. Il problema è che nessuno possa discutere nulla, ma questo non lo
permetterà più nessuno, almeno spero. Ottavo
Fagioli non ha mai fatto una diagnosi nell’analisi collettiva senza rapporto diretto con il/la paziente. Dimostrare, dire e sostenere che Freud è
un imbecille o un prete cattolico, ad esempio, non è diagnosi. Ripropongo
l’invito di andare più in profondità di queste questioni che riguardano
quello che è stato sempre negato: la malattia mentale, la sua esatta diagno-
Sul blog
75
si per una cura e guarigione. Queste due ultime parole dovrebbero fermare
almeno le masturbazioni mentali di chi “pensa” di fare critica e ricerca
su una teoria e prassi come questa di Fagioli. Il “povero malato”, vittima
dell’analisi collettiva, certamente non chiede una difesa come questa che
si sta tentando di fare su questo blog. Temo che attraverso questo blog,
con le critiche fatte senza rapporto dinamicamente diretto con il prof. Fagioli, si acceleri la “morte mentale” del “povero malato” che tanto amate.
Brown
I blog hanno portato alla luce, dopo anni di silenzio, le molte ombre di
Fagioli e della sua conduzione dell’analisi collettiva, aprendo forse gli occhi ai molti che non volevano vederle. Questo è un bene, ma porta con sé la
possibilità di essere molto male per le tante persone che, cadute le certezze
e la fiducia e con esse la speranza, si troveranno sole e nella disperazione
della solitudine.
La conoscenza di certe verità comporta crisi profonde e violente sofferenze: è necessario portare verità, ma è necessario anche proteggere chi la
verità non può sopportarla. Il “cosa fare” diviene pertanto più urgente e
lo spazio del blog, sebbene necessario, forse non riesce a portare l’azione
oltre la lettera. La responsabilità di ognuno in questa vicenda deve essere
compresa a fondo, quella di Fagioli, quella degli psicoterapeuti suoi seguaci, quella del demos. L’unico vero problema di cui dobbiamo occuparci è
quello dei pazienti in questo momento in cura, persone che, di fronte all’
emergenza di fatti così gravi, potrebbero spezzarsi.
Quando ho iniziato a denunciare la mia esperienza, mi sono interrogata
sulla responsabilità di quanto scrivevo, su come le mie parole potessero
incidere su persone meno forti di me nel trovarsi sole. Responsabilità significa rispondere a questa domanda: possediamo qualità di affettività, desiderio, interesse per la realizzazione dell’altro, o siamo pervasi da dinamiche
di dominio, svalutazione, bramosia, invidia, odio? Rudra
Non credo che compito di un blog sia preoccuparsi di eventuali ripercussioni della verità. Dovremmo tapparci la bocca perché qualcuno potrebbe
sentir venir meno le sue credenze? Ida
77
3
SULLA CURA
Il racconto di una comune esperienza di vita fin qui svolto si incontra in
questo capitolo con l’esigenza di una più specifica elaborazione del tema
della cura. Vengono riportate osservazioni critiche riguardo alla pratica
terapeutica nei seminari che Fagioli tiene a Roma dal 1975 e nei gruppi
condotti da terapeuti che fanno capo a lui, pratica, questa, inaugurata
molto più recentemente. A questo secondo ambito è specificamente dedicato il secondo paragrafo, ma si può dire che fin dal primo i temi proposti seguano l’andamento di una sorta di verifica incrociata tra esperienze
periferiche ed esperienza del gruppo dei “seminari”. Ne viene fuori una
visione di insieme la cui composizione non mancherà di interessare i lettori
più sensibili alle dinamiche relative ai fenomeni di un grande gruppo e
delle sue possibili articolazioni.
I piani di lettura che si propongono sono diversi. Mentre da una parte vengono sollevate tematiche familiari anche a un osservatore esterno,
dall’altra sono riferiti fatti che potrebbero sorprendere e episodi specifici
che richiedono un’introduzione a temi che per più di trent’anni hanno percorso l’analisi collettiva, ben noti a chi ne ha fatto parte per molto tempo,
meno a chi a essa sia stato iniziato attraverso le attività terapeutiche collaterali: queste esperienze, è significativo, non sono del tutto sovrapponibili,
come pure è significativo da quali aspetti i frequentatori delle situazioni
limitrofe vengano esclusi. L’interesse di questa raccolta consiste dunque
nell’accostamento di esperienze e tematiche in un certo senso omogenee
a qualsiasi gruppo terapeutico vasto e istituzionalizzato, e di aspetti particolari che pongono quesiti meno consueti, come quello di quanto sia legittimo coinvolgere i pazienti, a fini terapeutici, in movimenti culturali,
ideologici e addirittura di sostegno ad alcune formazioni politiche, ovvero
in quali circostanze, fino a che punto, secondo quali modalità ciò possa
essere accettabile.
La questione della cura è vissuta come cruciale dai redattori dei post:
tutti partono da un’esperienza terapeutica più o meno lunga e la passione
che li anima è rivolta principalmente alla pratica che li ha visti attra-
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Il paese degli smeraldi
versare un’iniziale fase di speranza, una di impegno rigoroso e diligente
nella messa in discussione minuziosa e finanche spietata di se stessi e, quasi sempre solo successivamente, la comparsa di incertezze e perplessità,
l’interrogarsi sui principi e sulla natura del processo terapeutico e sulle
discrepanze con ciò che l’esperienza metteva davanti, le disillusioni, le
obiezioni, la critica. Tutto ciò a fronte, anche questo non è secondario, di
un impegno economico comunque considerevole. L’esame di quest’ultima
questione è peraltro oggetto di una specifica sezione.
Il tema della cura si viene dispiegando come vasto e complesso, ma tra i
suoi tanti aspetti gli interventi si concentrano maggiormente su alcuni: un
po’ perché questi hanno rappresentato una costante dell’intera esperienza
vissuta, un po’ perché gli interrogativi su di essi non erano mai stati del
tutto soddisfatti da risposte o risolti, infine perché la nuova situazione del
blog consentiva finalmente di porseli, e di porli ad altri, nell’esercizio di
un’elaborazione comune e in un clima liberatorio rispetto a timori e scrupoli del passato.
Senz’altro è così per la questione dell’interpretazione quale si è configurata nel tempo all’interno dei “seminari” e, di conseguenza, ultimamente
anche nei piccoli gruppi. Nell’esame di questo aspetto, in particolare di
quello della “interpretazione della negazione”, pur considerando le differenze dovute alle personalità dei rispettivi conduttori, non si può non rilevare un movimento omogeneo o piuttosto cambiamenti nel tempo in seno
al grande gruppo che si sono riverberati sui gruppi minori, dove gli spunti
ricevuti dai seminari o da altre occasioni di incontro sembra vengano riproposti in modo imitativo. Questo stato di cose, per come viene presentato, autorizza la domanda se sempre di interpretazione si tratti o piuttosto
di un’attività che si è progressivamente spostata verso la formulazione e la
conferma di racconti di storie personali, presentati al gruppo generalmente in forma mitopoietica, per poi ancora rivolgersi in prescrizione spesso
non tanto velata di dettami di ordine propagandistico.
In altre parole, l’interpretazione della negazione, proposta per lo più
come interpretazione di transfert, un tempo consisteva in uno schema abbastanza semplice, ossia nel dire al paziente che in un suo sogno, in una
sua formulazione verbale c’era un’alterazione della realtà umana e/o professionale del terapeuta. Il paziente, negatore e dunque invidioso, veniva
riconosciuto come tale dai partecipanti al gruppo poiché la dinamica si
svolgeva su questioni evidenti e facilmente verificabili da tutti. Come i conduttori o semplicemente i partecipanti a un’attività terapeutica di gruppo
sanno, l’attività del terapeuta non si limita all’interpretazione, non tutti
i suoi interventi verbali (cosa che del resto avviene anche nella terapia
Sulla cura
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individuale) sono interpretazioni di contenuti di pensiero o di dinamiche
e, anche in relazione alla durata del gruppo e ad altre sue caratteristiche,
molti interventi sono finalizzati alla ricostruzione della sua storia e alla
costruzione di una sorta di mito delle sue origini e del suo perdurare; questo passaggio riguarda anche l’analisi del transfert che porta inevitabilmente al delinearsi di una immagine più o meno idealizzata (secondo gli
orientamenti) del suo conduttore.
Ora, sempre per presentare schematicamente il difficile problema con
cui i redattori del blog sono venuti a misurarsi, nella storia del gruppo
dell’analisi collettiva, forse fin dai suoi inizi (per la personalità di Fagioli,
da poco espulso dalla SPI e autore di libri innovativi), forse dai primi anni
ottanta (con la nuova “cacciata” dall’Istituto di psichiatria), l’attività interpretativa propriamente detta si è sempre accompagnata a quella di una
narrazione di elementi della storia professionale e di studioso del suo conduttore, all’inizio a dire il vero piuttosto contenuta. Con gli anni ottanta la
(auto)narrazione si è estesa ad aspetti della vita personale e poi è andata
sviluppandosi man mano che Fagioli si cimentava nel cinema, nell’architettura, nel disegno, fino a costruire un repertorio infinito di storie - a volte
quasi leggendarie per chi lo segue assiduamente - che ultimamente sono
andate a toccare aspetti dell’infanzia, della famiglia di origine, dei primi
amori, che per molto tempo erano state tenute fuori dalla portata degli
analizzandi. L’interpretazione della negazione, grazie agli intrecci legati
a questo sviluppo, è stata dunque estesa enormemente, venendo applicata
a comportamenti in situazioni definibili come extraanalitiche, che però diventavano “materia per la cura” anche per chi non vi aveva direttamente
preso parte.
La svolta - per così dire - ermeneutica, consistente nella riformulazione
del racconto di questo fiorire di eventi, ha dato luogo nel tempo a veri e
propri cicli narrativi, che si sono finora ripetuti a intervalli di anni andando a costituire una sorta di cosmogonia dell’analisi collettiva. In questo quadro, particolarmente importanti sono state le narrazioni di storie
d’amore del terapeuta proposte come rappresentazioni del rapporto di lui
con il gruppo secondo uno schema in sostanza sempre uguale: le figure
femminili cambiavano, ma ciò non faceva che rafforzare l’assunto che nonostante l’immagine del gruppo si fosse rinnovata, grazie anche al ricambio generazionale intervenuto nel frattempo, un’aggressione nei confronti
del terapeuta continuava a essere tentata e puntualmente sconfitta secondo
modalità analoghe: seduzione da parte della paziente, cedimento del terapeuta, smascheramento della donna, separazione, costrizione di lei alla
cura, guarigione di lei.
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Il paese degli smeraldi
Il fatto che le protagoniste femminili di queste narrazioni fossero indicate tra alcune partecipanti al gruppo terapeutico, anche se la cosa potrà
stupire, non ha in verità mai scandalizzato nessuno e nemmeno ha suscitato
domande particolari sulla natura della dinamica - evidentemente per la
capacità di presa della narrazione - ma si può intuire abbia notevolmente
condizionato la vita del gruppo stesso e delle sue istanze collaterali, determinando inevitabili giochi di potere e la costruzione di tante piccole corti,
che in virtù di un ingenuo e spontaneo - ma non per questo privo di ferocia
- istituirsi di una sorta di spoil system, si sono avvicendate negli anni.
Accanto a queste storie bisogna collocare un altro ciclo narrativo, quello che riguarda la famiglia stessa di Fagioli. L’immediata analogia che un
così intenso coinvolgimento personale suggerisce, anche per l’impegno
umano che richiede - al quale è dovuto il massimo rispetto - è quella con
la storia dei re francesi che, in connessione con il proprio potere taumaturgico, erano obbligati a nascere, consumare le nozze, morire in pubblico.
L’analogia serve a suggerire il nesso tra potere taumaturgico e obblighi a
un’esposizione messo in atto nell’ambiente dell’analisi collettiva, nonché
l’aura mitica che certi racconti hanno assunto all’interno di quella esperienza. Anche se su queste cose si scherzava e si ironizzava perfino, l’aura
mitica restava, insieme a un certo timore a raccontarle o a parlarne: un po’
per non incorrere nella negazione, un po’ - si diceva - perché gli altri, gli
esterni, visti sempre come negatori, non avrebbero capito, non potevano
capire o comunque avrebbero guardato a questi aspetti in modo malevolo;
soprattutto non ne avrebbero colto la valenza terapeutica.
Un’ultima articolazione ed estensione dell’interpretazione della negazione ha riguardato infine, in particolare negli ultimi anni, il suo volgersi in prescrizione - mai esplicita, ma indirettamente fortemente proposta
- di comportamenti volti al sostegno dell’immagine pubblica di Fagioli e
dell’analisi collettiva. Aspetto questo legato allo sviluppo che soprattutto
negli ultimi tempi - con quella che è stata definita la “scesa in politica”
- hanno avuto e continuano ad avere attività come le riedizioni dei libri,
l’uscita di pubblicazioni e filmati in cassette e dvd, la partecipazione a incontri nella libreria Amore e Psiche, a convegni, a lezioni, le apparizioni di
Fagioli e di altri in TV pubbliche e private, le citazioni di agenzie di stampa
e di giornali, anche se Fagioli di tanto in tanto sottolinea la non necessità
di una partecipazione. Tutti questi eventi vanno conosciuti e studiati da chi
partecipa alle sedute, assistendovi di persona o comunque informandosene,
per non rischiare un’interpretazione di negazione: della storia, della teoria, dell’immagine di Fagioli o dell’analisi collettiva e con ciò della cura.
Scorrendo gli interventi nel blog si coglie questo ulteriore passaggio che
Sulla cura
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si tradurrebbe talvolta in esplicita sollecitazione ai pazienti, da parte dei
terapeuti più maldestri, a trasformarsi in attivi fruitori del materiale prodotto. Parallelamente è avvenuto che l’analisi collettiva sia stata in alcuni
casi definita come un movimento nel senso politico del termine, movimento
in cui più o meno consapevolmente sono coinvolti come parte attiva sia i
partecipanti ai seminari sia quelli ai piccoli gruppi. Questi ultimi sono invece - a quanto pare - esclusi da approfondimenti e particolari sulla storia
suddetta taumaturgica che verrebbe così a costituire una specie di “mistero” cui solo i partecipanti al grande gruppo possono accedere.
Chi frequenta i gruppi minori, gente che a volte sta male, presenta patologie o sintomi, o semplicemente è alla ricerca di una propria identità,
sembra sia invitato abitualmente a discutere di argomenti di tipo intellettuale o di eventi molto distanti dai suoi interessi e dalle sue esigenze,
semplicemente perché prescritti dall’andamento del grande gruppo, evidentemente non potendo, o non volendo, il conduttore coinvolgerlo in una
personale e taumaturgica esposizione di se stesso sulle orme del maestro.
Questa saggia rinuncia però sembrerebbe accompagnarsi anche a quella
di svolgere la propria attività terapeutica in totale autonomia. Con questi
presupposti, il rischio che il processo terapeutico si trasformi in una pratica di indottrinamento, e di mera preparazione del paziente all’eventuale
incontro con l’analisi collettiva, sembra plausibile.
L’interpretazione della negazione così modificatasi finisce con il rappresentare qualcosa di molto simile a ciò che lo stesso Fagioli aveva stigmatizzato nella sua critica all’uso della freudiana “analisi delle resistenze”.
Le estremizzazioni del blog, a volte impietose, non smarriscono comunque la strada della ricerca di se, come e quando la cura della malattia come
valore portante dell’intera esperienza dell’analisi collettiva sia stata messa
in secondo piano o eliminata dalla scena. Per i suoi critici più radicali l’interesse per la cura non sarebbe mai stato presente all’interno dell’analisi
collettiva e quell’esperienza, più che terapeutica, andrebbe considerata, fin
dal suo inizio, come un’operazione di contenimento e suggestione di una
massa alla ricerca di un’ideologia che la compensasse dei fallimenti politici del ’68 e del ’77. Da tale massa sarebbero poi venuti ulteriori contatti
attraverso l’uso di forme di proselitismo, attuate all’interno della stessa
cerchia familiare e di conoscenze dei partecipanti e con i propri figli, sulla
base di una promessa, più che di cura, di salvezza. Un’operazione di stampo carismatico, dunque, tutta centrata sulla personalità di Fagioli.
Una specifica sezione prende in esame questi aspetti, con riferimenti al
rapporto con Fagioli che presenterebbe caratteristiche che vanno al di là del
transfert propriamente detto e rassomigliano piuttosto a un culto di ogni sua
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Il paese degli smeraldi
espressione nei più svariati campi. Alcuni elementi che confermerebbero tale
ipotesi sarebbero quelli relativi alle modalità di avvicinarlo, all’impossibilità non solo di avere con lui una dialettica e un confronto, ma semplicemente di contraddirlo, alla fedeltà letterale con cui ogni sua espressione viene
riportata, e in genere alle modalità di diffusione del suo pensiero e degli
avvenimenti che lo vedono protagonista, questo riferito non solo alle sedute,
ma a qualsiasi occasione di incontro e di scambio con lui. A ciò va aggiunto
che sempre di più, con il passare del tempo, dalla narrazione mitizzata di
aspetti della sua vita si è passati a racconti che hanno del “miracolo”, come
quello relativo a un periodo di malattia fisica poi superata: è a questo che si
riferiscono alcuni post che parlano di “uomo antibiotico”.
Oltre a questi elementi, se si vuole di colore o che alcuni potrebbero ritenere secondari, il vero problema sembra essere rappresentato dalla contiguità tra sedute di psicoterapia e altre occasioni di incontro e, per molti,
di gestione del proprio tempo libero, quasi tutto occupato da rapporti tra
gente che partecipa ai seminari, che contribuisce a connotare l’analisi collettiva e ciò che le ruota attorno più come un grande gruppo carismatico
che come un laboratorio culturale interessato alla cura.
È in questo quadro che va inserito il problema delle “seconde generazioni”, che rappresenta un aspetto del tutto particolare delle problematiche della iatrogenicità e della dipendenza, problematiche che all’interno
di quell’esperienza a quanto pare si tende a non affrontare. L’ingresso in
terapia, nell’ultimo decennio, di seconde generazioni, i cui genitori erano
stati o stavano ancora in quella stessa terapia, pone molti interrogativi. Il
punto non è tanto come alcuni di questi ragazzi si siano potuti ammalare
pur essendosi curati e continuando a farlo i genitori (a volte entrambi) per
decenni, bensì le modalità con cui questi eventi sono gestiti, ossia sempre
in funzione del mantenimento del carisma: a volte con l’enunciazione eclatante di episodi che potrebbero restare discretamente in ombra, a volte con
l’assenza o l’estrema esiguità di notizie certe circa il loro andamento. Anche
la prescrizione di una psicoterapia (nel grande gruppo, nei gruppi limitrofi)
non è chiara: le idee su patologia e nosografia psichiatrica che rappresentano la vulgata dell’analisi collettiva non coincidono con le comuni nozioni in
materia, anzi sembrano nel tempo sempre più staccarsi da queste, suggerendo che il più delle volte sia piuttosto la paura di essere malati o di ammalarsi
ciò che guida la scelta di intraprendere o far intraprendere a figli e congiunti
percorsi terapeutici peraltro lunghissimi. Aspetti più gravi riguarderebbero
l’eventuale comportamento di chi accetta in terapia questi giovani, sia quando si ammalano sia quando malati non sono affatto, poiché sembrerebbe che
alcuni non si assumano la responsabilità di una diagnosi verificata o di una
Sulla cura
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seria analisi della domanda. Viene da porsi il quesito di quanto ciò che sembra diventato l’apparato collaterale di un’impresa ideologica possa finire
con il funzionare come sua istanza di controllo.
Tutti questi elementi portano oggi a rivedere l’antico progetto di costruire nell’analisi collettiva un’inedita forma di continuità e armonia tra
cura, formazione e ricerca (Fagioli M., 1985) alla luce di pratiche che
tendono a giocare su questi tre elementi per giustificare gli effetti di una
gestione che, più che carismatica, appare autoritaria.
Cura, formazione e ricerca restano al momento esclusive del grande
gruppo, in cui la difficoltà di distinguere questi tre momenti nella seduta
di psicoterapia è notevole: a rigor di logica il rapporto tra partecipanti e
conduttore dovrebbe cambiare secondo i momenti terapeutici o formativi o
di ricerca comportando, almeno nel caso degli ultimi due, una situazione
di possibilità di disaccordo con Fagioli, ma questo non avviene, non può
avvenire per come la seduta è strutturata; nelle situazioni di incontro extraanalitico, poi, ossia in istanze in cui il rapporto dovrebbe svolgersi del
tutto liberamente e dove ci si potrebbe aspettare la possibilità di un’interlocuzione, questa raramente avviene. Viene detto continuamente che fuori
dalla seduta ognuno riprende la propria identità ed è libero di (anzi deve)
assumersene la responsabilità; ma, come il blog sembra confermare, alcuni psichiatri fagioliani intendono tale responsabilità e libertà in modo
molto riduttivo. C’è da chiedersi se ciò non avvenga in virtù di un doppio
messaggio che, mentre invita alla libertà, giudica negativamente e in un
certo senso sanziona forme di indipendenza.
Nel secondo paragrafo, specificamente dedicato ai “piccoli gruppi”
gestiti dagli psicoterapeuti della cosiddetta scuola romana, gli interventi
segnalano il concreto pericolo che la pratica di una teoria che è partita
dalla contestazione dell’analista freudiano in quanto “analista assente”,
non solo e non tanto per l’astinenza e la neutralità ma soprattutto per
l’identificazione dei terapeuti freudiani con Freud e la sua teoria, rischi
a sua volta di istituzionalizzare l’assenza, riponendo la fiducia di un buon
andamento del processo terapeutico unicamente nel far riferimento a idee
“rivoluzionarie”, “uniche”, dimenticandosi che queste sono comunque le
idee di un altro, e che andrebbe invece messa in campo la propria capacità
di pensare e fare, formatasi in un clima in cui studio, autonomia di pensiero e risposta in prima persona siano stati incoraggiati.
È fin troppo ovvio che il riferimento alla scuola romana non può riguardare tutti i terapeuti che singolarmente presi possono essere validi e
responsabili. Appare però altrettanto ovvio, da una parte, che anche pochi
esempi come quelli riportati possono bastare a rendere perplessi e, dall’al-
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Il paese degli smeraldi
tra, che il clima generale descritto può determinare un atteggiamento attento più alle ripercussioni dei propri atti all’interno del grande gruppo,
e alle ragioni della comune impresa ideologica, che alle modeste ragioni
della cura. Rovesciando completamente la prospettiva del blog, si potrebbe poi obiettare che tutto ciò nasce da una chiusura del gruppo giustificata
da un atteggiamento a esso contrario da parte della cultura psicoterapeutica e della cultura in generale, ma oggi queste obiezioni appaiono deboli
di fronte all’incalzare delle argomentazioni contrarie.
Alcuni interventi sollevano il problema se gli esempi di pratica terapeutica riportati consentano si parli ancora di psicoterapia: codice deontologico alla mano, si domandano se sia lecito chiedere un pagamento per prestazioni che sembrano sconfinare nel sadismo da un lato, nella catechesi o
nella propaganda dall’altro.
È chiaro che qui sono in questione situazioni delicate, da comprendere
secondo le logiche di un grande gruppo piuttosto che da liquidare come
un qualsiasi esempio di malpractice; ma i fatti riportati restano e con essi
le considerazioni che ciascuno vorrà fare nel confrontarli con il progetto
di voler costruire una nuova cultura non solo psicoterapeutica che, alla
loro luce, assume l’aspetto di qualcosa legato a un preciso periodo storico
ormai trascorso.
1. Sulla pratica terapeutica dei “seminari di analisi collettiva”
a. Terapia o ideologia, transfert o carisma?
Mi sembra cruciale la questione se la pratica derivante dalla teoriaprassi di Fagioli sia terapeutica o meno. Attualmente (lo dico senza ironia
o vena polemica) l’elettroshock, l’ipnosi, la farmacologia, la fede (anche
non religiosa), la magia, il lavoro, sono considerate pratiche terapeutiche.
C’è quindi da chiedersi cosa si intenda per terapia (in particolare per terapia trasformativa), se esista una terapia con caratteristiche “umanamente
universali” e se, e in che misura, a queste domande debbano rispondere i
terapeuti o i “terapizzati”. Molti di coloro i quali, in varie forme, “non ne
vogliono più parlare”, “hanno preso le distanze”, “hanno riconquistato la
loro libertà” o “sono usciti dall’incubo” dell’analisi collettiva conservano
una passione, un’intelligenza, un’eleganza, anche nella critica. Mi sembra
che non escano distrutti da questa storia (o nonostante questa storia). Si
può parlare di percorso terapeutico? Sisammo
Sulla cura
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Si può vivere bene anche nella convinzione che il sole ruoti attorno alla
terra, anzi, se l’universo fosse costituto unicamente da sole e terra sarebbe
difficile capire chi gira intorno a chi... ma non è così. Ammettiamo che “soluzione carismatica” e cura necessariamente non cozzino e teniamo fermo il
punto che una soluzione carismatica cozza sicuramente con il metodo scientifico. Pongo una questione: si può sostenere che in analisi collettiva alcune persone in determinate condizioni, in determinati momenti della propria
vita, si possano trasformare guarendo da una patologia, mentre contemporaneamente altre persone si possano ammalare e di conseguenza peggiorino la
propria situazione? Si può sostenere che in una certa fase della propria vita
l’analisi collettiva curi, mentre in un’altra faccia ammalare? Queste eventualità non cozzerebbero con la soluzione carismatica, anzi! Rowan
Il rapporto medico paziente (la cura), il percorso degli psicoterapeuti (la
formazione), il tentativo di scoprire terapie innovative (la ricerca), vanno
riportati nel loro ambito naturale. Qualora un non addetto ai lavori e non
paziente, ma talvolta paziente, venga coinvolto in maniera stabile e continuativa in una qualunque di queste attività, l’unico ruolo che potrà avere
sarà quello di cavia od oggetto di sperimentazione. Ciò avviene anche in
altri ambiti della scienza e della medicina, ma in maniera consapevole e
pagata. Il motivo per cui un non paziente, non medico, non cultore (almeno
inizialmente) di queste discipline debba pagare per fare cose che non si
sarebbe mai sognato di fare, ritrovandosi piano piano un interesse che non
aveva mai manifestato e occupandosi per molte ore al giorno di cose che
non fanno parte dei suoi interessi, non lo capirò mai. Scampato
Il punto cruciale è che questa è la “sua” psichiatria, e ogni persona può
accettarla o rifiutarla, ma “non” deve e “non” può essere diagnosticato come
malato, come quello che “non ha retto”, se decide di allontanarsene o semplicemente non se ne vuole interessare una volta venutone a conoscenza. Il solo
fatto di andarsene, ovviamente, non può far cessare la diagnosi che su quel
paziente aveva in quel momento il terapeuta. Però il terapeuta quasi sempre
si serve di chi si è allontanato per evidenziare davanti al gruppo (e qui mi
riferisco alla mia esperienza) le varie dinamiche di annullamento. Rowan
Quante volte ti è capitato di avere fatto un pensiero cosciente su questo o
quell’elemento della teoria o su idee e affermazioni sulle religioni, le politiche, le filosofie o anche solo i comportamenti umani che era di critica o dubbio o perplessità? E quante volte dopo aver raccontato un sogno, per te non
comprensibile, lo psicoterapeuta ti ha interpretato un pensiero non cosciente
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Il paese degli smeraldi
di critica o dubbio o perplessità su tali elementi, idee, affermazioni e quindi
(per lui) una “negazione di rapporto”? E quante volte dopo quest’interpretazione ti sei stupito e hai aderito maggiormente alla teoria senza chiederti più
se il tuo dubbio o perplessità o critica fossero validi e legittimi?
Cos’è la negazione? Cos’è quella negazione che, se presente nel sogno, sarebbe segno di malattia mentale, di scissione tra cosciente e non
cosciente? È un pensiero contro? O è un pensiero altro? Siamo sicuri che
quelle che lo psicoterapeuta interpreta come negazioni lo siano davvero?
Interpretare un’immagine onirica come negazione o come realizzazione è
strettamente dipendente dal valore che si dà al contenuto che quell’immagine nega o realizza. Ossia è strettamente dipendente dal valore che si dà
alla persona e alle idee dei membri del rapporto psicoterapeutico. Se lo psicoterapeuta ritiene che tutto ciò che dice, pensa e propone sia vero e giusto,
un pensiero fatto dal paziente che è difforme da tali pensieri e parole... non
può che essere considerato una negazione. Allora, anche se sogno di sposarmi, specie dopo che lo psicoterapeuta ha “parlato” della sua contrarietà,
e sono convinta prima e dopo che il matrimonio sia una realizzazione con
la persona che amo, io non faccio nessuna negazione.
Voglio fare capire che è proprio sul significato di “negazione” e sul suo
uso che può effettuarsi il condizionamento. È un pensiero contro le qualità
dello psicoterapeuta (nel caso specifico del rapporto psicoterapeutico)? O è
un pensiero altro, un pensiero diverso e non per questo contro lo psicoterapeuta? È una “negazione di rapporto” o è semplicemente una affermazione
diversa, una visione diversa e non per questo malata? Non si può rispondere
a questa domanda, nel caso specifico della psicoterapia di gruppo fagioliana, fino a quando non si smetterà di inserire nel rapporto psicoterapeutico
elementi che non ne dovrebbero far parte.
Nella prassi psicoterapeutica si dovrebbe basare tutto sul rapporto tra
paziente e psicoterapeuta e non tra paziente e Fagioli attraverso la maschera del terapeuta. Libri, considerazioni sulla politica, sulle religioni, sulle
psicoterapie non devono diventare oggetto di rapporto, perché altrimenti
un pensiero diverso viene considerato come negazione di rapporto e quindi
come malattia. Rudra
La validità della teoria e della prassi passa in secondo piano rispetto alla
non validità su cui ci stiamo interrogando. L’espressione prima della non
validità risiede nel diffuso culto della personalità del maestro, presente da
sempre, che non è stato mai frustrato. Piero
Sulla cura
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È vero che il culto della personalità è stato sempre presente fin dall’inizio? Perché non è stato mai frustrato dai maestri della frustrazione? OK
L’idolatria, il culto della personalità del Gran Maestro, sono stati sempre
presenti. Ricordo che ci feci caso fin dalle prime volte e rimasi stupito del
modo di alcuni di rivolgersi a Lui, soprattutto dal suo modo di bearsi e di
non reagire mai a certe forme di servilismo insopportabile. Perché non è
stato mai frustrato un simile atteggiamento? Mi viene una domanda: cosa
deve fare uno psicologo-psichiatra se si accorge che un paziente si rivolge
a lui come a una divinità, che non pensa ad altro tutto il giorno, che non
esiste discorso tra amici che non lo riguardi sempre e comunque, che tiene
sul comodino il suo ritratto da giovane, da adulto, da maturo signore e da
vecchio dicendo “che fico!” ogni volta che lo guarda, che parla dei suoi
figli come altrettante divinità? Una volta ho conosciuto una tipa che teneva
scritto su una specie di diario persino la data di concepimento di questi
figli. Cosa deve fare un professionista serio per stare dentro un codice di
comportamento sociale, oltre che deontologico? Potrebbe pensare che il
suo paziente sarebbe più malato se non facesse tutte queste cose? Potrebbe
pensare che, se su quel diario aggiungesse anche le date del concepimento
delle nipoti e di quando hanno messo il primo dentino, a quel punto il suo
paziente sarebbe decisamente sulla strada della guarigione? Settimo
Lo schieramento politico può comportare il non manifestare all’esterno
critiche e perplessità che indebolirebbero l’immagine e l’azione politica.
Ma all’interno del gruppo ci deve essere altro, qualcosa che tende verso
la forma di rapporti che chiamiamo “democratica”. Da quello che intuii, e
che sento raccontare, è possibile pensare che la democrazia è presente solo
nella mente di Fagioli, se lo è, se non pensa davvero quello che dice, che
tutto quello che ha detto e scritto è assolutamente vero, unico, originale e
salvifico per tutti gli altri comuni mortali - e “mortali” non è più il termine
generico che è, diventa “mortali vivendo”: tutti, come sappiamo, portatori
di una certa pulsione, di un certo istinto, di una certa malattia, iniziata alla
nascita e decisamente avviata alla prima poppata. Giochi di terrorismosalvezza? C’entra, col pretendere di suscitare amore, aspettarsi la sottomissione dell’altro? Questa sottomissione è solo nel momento dell’azione
verso l’esterno, oppure è altro, meno comprensibilmente altro? C’entra,
col pretendere di suscitare amore, il pretendere l’imitazione, l’identificazione collettiva, l’ignoranza degli stessi libri che sono diventati idoli, la
violenza reattiva a qualsiasi accenno di critica anche nei rapporti privati,
confidenziali, tra amici? E i falò per bruciare tutta la cultura del passato, i
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Il paese degli smeraldi
roghi dei dissidenti? Fare politica non mi pare debba comportare la rinuncia alla ricerca della verità e, soprattutto, al poterla rendere viva, operativa,
condivisa. Romeo
b. Dipendenza, interminabilità e altro
L’idea che ho di medicina, non essendo medico, è che quando e se (solo
se) mi sento male vado dal medico, se posso dallo specialista migliore in
dipendenza della patologia che ho e della sua gravità. Una volta guarito,
pago il medico e me ne vado. Forse ogni tanto ci penserò, se vedrò un articolo su un giornale che lo riguardi lo leggerò, ma finisce lì. Solo in caso
di malattia gravissima, probabilmente, mi ritroverei a vederlo spesso, forse
anche per molti anni, ma non tutte le settimane, non tutta la vita. Antonio
Molte persone sono arrivate all’analisi collettiva avendo già da “prima”
un bagaglio personale di rapporti ed esperienze valide sul piano personale,
sociale, professionale, poi hanno sposato la “teoria”. Questo spiega perché
qualcuno ha potuto, anche se lentamente, separarsi, lenire ferite e danni,
riordinare le idee, riappropriarsi di una precedente identità, fare addirittura
tesoro dell’esperienza vissuta e poi presentarsi qui in buone condizioni; non
per tutti è così, di interventi accorati e parzialmente confusi se ne sono visti,
anche se non meno efficaci di altri. Quelli che invece non avevano questo
bagaglio preesistente non è che non ne escano distrutti, ma non ne escono
proprio, nel senso che stanno ancora lì, non possono farne a meno. OK
Ho l’impressione che nell’analisi collettiva l’esistenza o meno di una
malattia non c’entri nulla, essa è ininfluente sul percorso che farà poi la
persona che vi si avvicina. Il trattamento, la “terapia” saranno sempre gli
stessi per tutti. Settimo
Il silenzio su un caso di suicidio pone in risalto che nell’analisi collettiva, dove si parla tanto di identità, l’invenzione dei nomi d’arte (nei seminari i presenti non vengono chiamati per nome, ma con una sorta di nick),
proposta come grandezza del maestro al quale non interessa chi sei, da
dove vieni e che titolo hai, serve solo a lasciare nell’anonimato e nell’oblio
tanti arrivati lì forse per curiosità, spesso per bisogno di risposte o, ahimé,
per curarsi. Il fine della cura è l’identità e la fine della cura spesso avviene
nell’analisi collettiva con perdita della stessa; se te ne vai, se dissenti, non
sei più padre, figlio, amico, ragazzo o ragazza, vieni inghiottito nell’oblio,
nel nulla della storia infinita. Sarli
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Uno scritto di Nicola Lalli sul rapporto tra Freud e Tausk (Lalli, 1979)
mostra come lo psicoanalista viennese consentisse l’intreccio perverso di
relazioni personali e “psicoterapia”. Alcuni racconti apparsi in questo blog
mostrano come, a distanza di circa un secolo, situazioni molto simili tendano a ripetersi e a essere agite da chi, per decenni, ha costruito il proprio successo dichiarandosi il Grande Fustigatore del “cocainomane” Freud. Certo,
qualche differenza si evidenzia: mentre Freud era un piccolo artigiano (nei
periodi di “alta stagione” seguiva al massimo 10-12 pazienti), il capo della
scuola romana lavora su scala industriale. Ma si evidenzia anche un’affinità: anche Freud faceva terapia, formazione e ricerca. Deve essere il modo
migliore per fare guai in assenza di qualsiasi responsabilità. Viandante
Da diverso tempo è noto, in campo psicoanalitico prima e psicoterapeutico poi, quanto influiscano nel rapporto terapeutico fenomeni come transfert, suggestione, carisma e “dipendenza emotiva” dal terapeuta. Questi
meccanismi si attivano e agiscono sia nei setting individuali sia in quelli di
gruppo, raggiungendo, tuttavia, in questi ultimi, livelli forse direttamente
proporzionali al numero dei partecipanti (figuriamoci quando il numero è
pari a 200 circa per volta). Inoltre, ognuno di noi sa che, soprattutto quando la psicoterapia è all’inizio, in particolari momenti della stessa in cui un
atteggiamento direttivo si rende più necessario, si potrebbe instaurare “una
dipendenza emotiva” del paziente nei confronti del terapeuta, visto come
punto di riferimento. Non è infrequente, infatti, che i pazienti ci raccontino
di essere, ad esempio, sul punto di avere una reazione incontrollata, ma
di essersi regolati perché, dicono, «mi è venuto in mente lei e quello che
mi dice sempre». Però, via via che la psicoterapia procede, se procede nel
verso giusto, tutto questo lascia il posto a un rapporto più autentico e paritario di confronto tra una persona che va da un’altra che, per formazione ed
esperienza, in particolare se nell’intervento include anche l’interpretazione
dei sogni, ha gli “strumenti” adatti per decodificare dinamiche relazionali,
emozioni, comportamenti e pensieri. Uno psicologo
Il fatto che un rapporto, per quanto di terapia, possa durare anche lustri è
di per sé particolarmente significativo della sua inefficacia? Non può darsi
davvero che per alcuni sia una ricerca personale (credo difficile distinguere in maniera netta cura, ricerca e formazione personale) e che quindi, in
quanto tale, possa essere portata avanti anche a vita? Sono dell’idea che
una relazione debba finire il prima possibile quando si è giunti alla conclusione che non vi è speranza che “funzioni”, ma che possa anche durare
all’infinito quando è valida. Adelmo
90
Il paese degli smeraldi
Nel libro di Fachinelli, Claustrofilia (Fachinelli, 1983), si parla del meccanismo dell’analisi interminabile. In quel libro, certo, ci si riferisce all’individuale e una terapia individuale che dura più di trent’anni, seguendo
quello che tu dici, è certamente un po’ sospetta, ma anche in questo caso
non potrebbero esserci elementi di formazione e ricerca per una persona
altrimenti molto sola? D’altra parte, i danni di questa tendenza claustrofilica, una volta evidenziati, non sarebbero estensibili anche a un gruppo?
Per i gruppi ci sono vari orientamenti, anche un gruppo sempre uguale che
dura trent’anni non è tanto accettabile, ma lì c’è la storia del gruppo aperto
e gruppo chiuso, per cui se un gruppo è aperto la sua durata è considerata complessivamente come durata del gruppo e in questo modo potrebbe
sfuggire all’accusa di essere sempre uguale…
L’analisi collettiva è ancora un’altra cosa e l’ammirazione per la capacità
di Fagioli di proporre, e sottoporsi, a una pratica del genere viene vieppiù
confermata da una riflessione a distanza. Ma l’originalità dell’esperienza ci
autorizza a non prendere in considerazione, quanto ai problemi dell’interminabilità, la letteratura sul tema, inclusa quella sul grande gruppo, ovvero
sul gruppo-massa? Albertina Seta
Chi ti induce a rinnegare le tue “origini” ti induce a distruggere la tua
base di attaccamento, per potersi sostituire ad essa proponendosi come
nuova e unica base di attaccamento. Realizzando ciò, il “maestro” (così di
solito vengono chiamati questi signori) può disporre di te completamente
perché tu, ora, ti fidi ciecamente di lui. È a questo punto che ti viene proposta la seconda parte del programma: l’accettazione della sua identità come
unica identità possibile da realizzare e sostenere, a scapito della tua, finché
non ti accorgi che tu conti solo perché sei un pezzo di “lui”. Mistral
Sembra che la paziente che ha commesso suicidio [cfr. ante, p. 45] stesse in cura dallo stesso medico da 15 anni. Sono molti. L’analisi collettiva,
con tutto quello che ci gira intorno, può far bene a qualcuno e male ad altri,
ma i casi conclusisi positivamente possono compensare i casi evolutisi tragicamente? Cosa, in mancanza di diagnosi di partenza, ci parla di queste
evoluzioni? Come stava, clinicamente, la donna di cui stiamo parlando,
all’inizio del suo percorso, quanto e come è stata curata, quanto e come si
teneva sotto controllo il suo stato di salute, quante volte è stata visitata?
Comunque, nessuno sta minimamente ipotizzando responsabilità di alcun
tipo, quello che è in discussione è l’atteggiamento dell’oblio. Settimo
Sulla cura
91
Si può ipotizzare un’analisi e una ricerca sulle proprie dimensioni interne che sia collettiva? Mi sembra che di circa 200 partecipanti, alle sedute
vengano chiamate 15-20 persone, spesso sempre le stesse. So di molti che
per anni non vengono chiamati, alcuni ricordano con emozione l’unica volta che sono stati interpellati. Su 800-1000 frequentatori dei seminari, quanti
hanno ricevuto un’interpretazione? Ho saputo che comunque possono avvalersi dell’interpretazione data ad altri. Ma spesso queste interpretazioni
non sono ben comprese neanche dagli interessati e vengono reinterpretate
all’uscita da gruppi di volenterosi esegeti. Mi dicono poi che l’analista sia
dotato di intuito e sensibilità spiccatissime e, pur non sapendo quasi nulla
della persona che ha davanti, sa percepirne la “dimensione interna” e coglierne i movimenti inconsci. È in grado quindi da pochi elementi, come
il modo di entrare, di sedersi o di volgere lo sguardo, e senza sapere nulla
riguardo fatti privati o familiari delle relazioni esterne e del partner, di fare
una diagnosi psichiatrica e di dare un’interpretazione. Mi dicono che ciò
farebbe guarire, o almeno stare meglio, chi ne è oggetto diretto e anche parte degli astanti affetti dalla medesima patologia. Il terapeuta sarebbe così
geniale da cogliere in maniera esatta l’inconscio dell’altro e da somministrare la cura. Ma allora qualcuno mi può spiegare perché una persona, che
da molti anni frequenta i seminari ed è frequentemente oggetto di attenzioni, poco dopo l’interpretazione si toglie la vita? Lettore Perplesso
Non vorrei che un caso di suicidio venga fatto valere come “argomento
contro”. Nessuno può sapere e dire come eventualmente siano andate le
cose. Il fatto può essere trattato solo con pietà e rispetto per tutti. L’unica
cosa che può in questa sede essere discussa è il silenzio su di esso. In qualsiasi comunità, se su fatti del genere cade il silenzio, si pone un problema.
Vuol dire che quella comunità, familiare, politica, aziendale o quant’altro,
ha bisogno di gestire una politica dell’oblio; ma che nella specifica comunità questo bisogno esista ci sono molti altri fatti, fortunatamente meno
drammatici, a testimoniarlo. Se dobbiamo parlare di politica dell’oblio riferiamoci piuttosto a quelli.
Mi riferisco, in particolare, a qualcosa che mi ha sempre lasciato perplesso. Negli anni purtroppo di morti ce ne sono state più d’una, per malattia o incidente, quindi casi diversi da quello presente. E anche su di essi
non si è mai spesa una parola. Da un lato capivo (prescindere dai dati di
realtà... andare verso i significati... inseguire la vita...), dall’altro quel silenzio mi rimandava un suono agghiacciante, mi diceva di un ineludibile
troppo forzatamente eluso. Quando ho visto il film di Costanzo In memoria
di me, nel quale anche si dice del silenzio di una comunità religiosa su un
92
Il paese degli smeraldi
fatto luttuoso, mi sono chiesto dov’è la differenza. Perché indubbiamente
una differenza c’è, ma non è quella che avevamo creduto o eravamo stati
indotti a credere. Appunto, qual è la differenza? Antonello
Io non faccio nessuna difficoltà a dar credito a quanto riferito, cioè che
i molti psicoterapeuti dell’analisi collettiva si siano imposti un silenzio sul
caso di suicidio, intendendolo come un attacco violentissimo alla riuscita
di Fagioli e dell’analisi collettiva. Lo sapevo già prima, senza saperlo. In
effetti la “teoria” ha una logica ferrea, l’ideologia non permette spazi e
spaccia per interpretazione ciò che invece è appunto ideologia. Interpretare
quel caso in quei termini potrebbe essere definito soltanto demenziale se
fosse venuto da un singolo, rivela invece, ancora una volta, tutta la sua disumanità in quanto fa parte di un credo religioso aprioristico. Scampato
“Suicidio uguale attacco”. Uguale nel senso di significato, segno, manifestazione d’altro: siamo nel mondo delle interpretazioni della realtà. Qualsiasi interpretazione, corre il rischio di essere violenta, di essere un attacco
alle capacità di autonoma elaborazione dell’altro. L’interpretazione è stata
usata troppo spesso in modo acritico e inconsapevolmente violento dalla
psicoanalisi, ed è attività principalmente di ricerca, non di cura. L’interpretazione è un’ipotesi, e l’ipotesi è caratteristica della ricerca umana sulla realtà. Nel rapporto di cura l’interpretazione viene normalmente a porsi come
elemento forte di un quadro che pone l’altro in una condizione di minus, di
inferiorità o di malattia: io sono colui che sa, tu sei colui che non sa e non
può arrivare a sapere né da solo né in questa situazione di rapporto, né ora
né domani né dopodomani. Ti dico io, perciò, come stanno le cose, le tue
cose. Gli dici che? Gli dici un’ipotesi che proviene da un certo quadro teorico, e va a sapere se le cose stanno davvero così! Ci sono casi in cui questo
dire, questo fare ipotesi spesso assai strampalate, può servire, e vai a sapere
poi perché serve, perché ottiene un effetto calmante, un effetto di apertura,
di soluzione di una momentanea angoscia che rischia di diventare insopportabile: anche questo è ricerca, è fare ipotesi - magari, chissà, se azzecco
favola, può essere utile anche quella o un passo di quella, e molto dipende
da quello che provo, da quello che trasmetto dal mio comportamento e dal
suono della mia voce.
Nella storia della psicoanalisi c’è un passaggio quasi sempre poco capito: dall’analisi del racconto all’analisi del cosiddetto transfert. Quello
che mi racconti può essere “pettegolezzo”, quello che accade tra noi, invece, lo possiamo sentire e vedere e, se serve, parlarne insieme: fa parte
del percepibile qui ed ora, e possiamo accordarci sulle percezioni che ne
Sulla cura
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abbiamo - ma anche qui non può essere che solo io ho le percezioni giuste!
Si suppone che avendo avuto una formazione più o meno lunga, essendo
adulto esperto di vita in rapporto con un bambino o un ragazzo, e trovandosi l’altro in una condizione di difficoltà, le mie percezioni siano più vicine
alla realtà: resta che non posso pormi, se non in casi eccezionali, nella
posizione di una specie di dio che sa e dice la verità assoluta, e anche in
quei casi eccezionali la cosa ha da essere transitoria, altrimenti divento una
specie di polmone artificiale, o un apparecchio di dialisi, una protesi più o
meno indispensabile.
Nelle interpretazioni di transfert, che sono ipotesi come le altre con il
vantaggio di poter descrivere insieme realtà condivise e poi eventualmente tentare di fare ipotesi, l’errore tipico dell’analista è di arrivare a riferire tutto ciò che l’altro fa a lui analista, e ciò all’interno dello studio può
anche essere preso in buona considerazione, se fatto con animo tendente
alla parità umana; ma l’estensione compiuta è quella che va all’esterno,
quando anche ciò che viene raccontato delle cose fatte fuori dallo studio è
considerato come parte delle cose fatte all’interno dello studio. L’analista
diventa la realtà tutta, come una seconda mamma. Tutto quello che l’altro
fa viene riferito, nelle interpretazioni di transfert, all’analista. Può diventare un incubo, una follia. Gran parte di quell’inghiottimento del mondo
da parte dell’analista è determinato proprio dalla verbalizzazione delle interpretazioni di transfert; perché il povero paziente, anche se non vivesse
quella totalizzazione sostitutiva del suo libero rapporto differenziato con
realtà differenti, viene in qualche modo spinto verso quel vero e proprio
“buco nero”.
Ora posso dirti la cosa che volevo dirti, forse... Il suicidio, cosa in realtà
a mio parere impensabile, è stato spesso interpretato come un attacco al
mondo, o a “figure” particolari verso le quali la persona aveva sentimenti
invivibili di aggressività intensa o di persecuzione. Non bisogna perciò
sorprendersi più di tanto di quell’interpretazione, stupidamente e piattamente psicoanalitica, se fosse stata data, se verrà data. E anche volendo
entrare in quell’ottica, se la persona ha in sé da chissà quanto tempo, ad
esempio, una memoria attiva di persecuzione proveniente da chissà quale
rapporto, il rapporto di cura non dovrebbe mai trasformarsi in ricerca, e con
le interpretazioni questa trasformazione avviene sempre. Il silenzio rispetto
a quell’evento drammatico potrebbe essere una forma di rispetto. In ambiente iperinterpretativo, come quello in cui quel silenzio sta avvenendo,
la cosa può sembrarci discordante, anzi: un grido nella notte. Può essere
pensata più concordemente, invece, come manifestazione della politica del
silenzio. Romeo
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Il paese degli smeraldi
c. Sulla “seconda generazione”
Conosco alcuni casi di psicosi nella seconda generazione dell’analisi
collettiva. In sintesi, la seconda generazione si è ammalata perché la prima,
nelle situazioni specifiche da me conosciute, sicuramente non si è curata
a causa della sua adesione “ideologica”. Una cosa è andare all’analisi collettiva, un’altra essere capaci di utilizzare quanto viene detto e accade per
curarsi. Io non dimenticherei che abbiamo a che fare, nella psicoterapia,
con una dimensione irrazionale. Fagioli avrà tutti i difetti del mondo, ma
sicuramente ha aperto una finestra su questa dimensione non cosciente. A
me sembra che voi non ne teniate il debito conto. Anonimo8
Nel luogo dove è possibile tutto e il contrario di tutto, l’interpretazione
è finalizzata. Ovvero, una volta noto il fatto, ed esiste un unico fatto, tutto
ciò che accade deve confermarlo. Il fatto è che Fagioli è sano e inammalabile. Tutto ciò che accade nell’universo, accade con l’unico scopo di
confermare ciò. Se alcuni della seconda generazione si ammalano, quindi,
è per colpa della reazione invidiosa della prima, che, pur di negare la grandezza della teoria, agisce inconsciamente dinamiche anaffettive nei confronti dei figli pur di ammalarli, negando così la grandezza di Lui. Ecco
perché accade che la gente crede e perché quell’unico che ha coscienza
di ciò, non fa nulla per frustrare il credo e promuovere la conoscenza e il
confronto. Claudio
Non sono ancora riuscito a risolvere un dilemma che non mi ha più
permesso di andare all’analisi collettiva: questa storia dei genitori da cancellare in quanto, se non assassini, almeno castratori dei figli sempre e comunque. Io l’ho bevuta a suo tempo, ma l’ho sempre confinata al “prima”,
cioè all’epoca antecedente alla discesa sulla terra di Sua Maestà. Allora,
come mai “anche” questi genitori, curati in tutte le maniere dal più grande
psicoterapeuta di tutti i tempi, anzi dall’inventore della psicoterapia, sono
diventati come i nostri genitori, o peggio ancora, visto che i loro figli hanno bisogno di cure molto di più di loro stessi e talvolta qualcuno neanche
ce la fa? Non avendo modo di rispondere a questa domanda sono scappato, e quindi scampato a qualcosa che non torna. E per quanto posso, cerco
di evitare a tutti di fare l’errore che io feci tanto tempo fa. Settimo
Questi genitori si sono sentiti in un certo senso “garantiti” di essere buoni genitori per il solo fatto di appartenere ai seminari, in questo hanno agito
una “assenza” nei confronti dei figli rimandando il problema a quando, una
Sulla cura
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volta cresciuti, avrebbero avuto a propria volta avuto la possibilità di accedere ai seminari. Ho visto parecchie madri interpretare come gravi malattie
manifestazioni di normale vivacità, ma un giorno i loro figli si sarebbero
curati e tutto si sarebbe risolto. Mary
A me interessa in particolare il problema della seconda generazione:
ritengo che questa dizione comprenda la fascia di età tra i 18 e i 30 anni
riconosciuta dall’Oms come “adolescenza”. Vorrei sottolineare che questa
fascia corrisponde antropologicamente, culturalmente e psicopatologicamente, a una certa fascia di giovani (non tutti ovviamente) che sono i figli
dei “sessantottini”. Vorrei proporre alcuni loro punti caratteristici quali mi
si sono rivelati sia nella mia pratica universitaria sia in quella clinica.
1. Questi giovani (forse fin da bambini) sono vissuti nel racconto enfatico e trionfalistico di rivoluzioni compiute, di mondi cambiati, raccontati
come una sorta di epopea così esaltata ed esaltante da impedire ogni dubbio
o discussione. E mentre i genitori sessantottini raccontavano queste mirabolanti avventure, i giovani (forse anche da bambini) si trovavano a vivere
in una realtà sociale e familiare totalmente discrepante, anzi direi opposta.
È facile prevedere che una dissonanza del genere possa costituire un trauma e spiegare alcune fragilità psicologiche.
2. Poiché dai racconti dei genitori risultava che tutto era stato ormai
compiuto, a questi giovani non rimaneva nulla da fare. Le grandi conquiste
erano avvenute: a loro toccava solo ascoltarne il racconto, a volte vivendo
forse un senso di invidia verso questa “meglio gioventù”, a volte invece
una perplessità, anche intensa, quando si accorgevano di vivere in un ambiente familiare dissociato e in un ambiente sociale (quello che secondo
l’epopea era stato cambiato) totalmente appiattito e regredito. La percezione di questa evidente divaricazione tra il racconto dei genitori e il vissuto
dei figli spesso, per questi, rappresenta una fonte di confusione.
3. A questi giovani, inoltre, è mancata qualsiasi possibilità di un’idea
personale, perché ormai il “racconto” trasmesso dai genitori veniva ripreso
e amplificato da stampa e TV. Avete mai pensato a quanti ex-sessantottini
sono diventati direttori di importanti quotidiani, di patinate riviste o di TV
private e non? Ovviamente ai giovani viene a mancare qualsiasi fonte di
conoscenza e confronto dato che la “cronaca” (non oserei dire la storia)
viene raccontata da persone dai 50 ai 65 anni, che non hanno alcuna intenzione di mettersi in discussione. Ai figli, pertanto, resta solo la possibilità
di spegnere la TV.
4. Questa totale negazione dei fallimenti, unita all’ostinazione a ripetere sempre lo stesso racconto, inibisce i figli dei sessantottini a chiedere
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Il paese degli smeraldi
chiarimenti, anche perché non saprebbero a chi rivolgersi. Possono cercare
di capire come mai questa discrepanza sia possibile, ma possono finire anche per accettare il presente come “logica” conseguenza del passato, come
“sviluppo” del passato, quindi immergersi totalmente in questo clima in
assenza di qualsiasi critica e armati di un totale fideismo. Nicola Lalli
Ci sono due distinti problemi: quello di un bisogno di psicoterapia indotto nelle nuove generazioni dalla mitopoiesi in atto nell’analisi collettiva,
bisogno che riguarda persone che tutto sommato non stanno male e che rischiano solo (si fa per dire) di sprecare il proprio tempo dietro a un sistema
di valori autarchici; e un fenomeno più drammatico di ragazzi che si sono
trovati inseriti addirittura nel circuito psichiatrico, nonostante i genitori
provassero a curarsi essi stessi da tempo e senza che, da un certo punto in
poi, se ne potesse sapere niente. Un altro dei tre
Mi rompo la testa su come possano crederci, non tanto gli ex sessantottini che compongono la truppa originaria, quanto i loro figli. I vecchi, tutto
sommato, sono stati una specie di Nikita: dovevano morire tra il ‘68 e il
‘77, la grazia è consistita nel frequentare l’analisi collettiva, ma avevano
un conto in sospeso, questo l’hanno sempre saputo. I ragazzi no, non sapevano nemmeno di essere figli di Nikita, loro avevano tutte le possibilità,
avevano-hanno diritto a tutto. Quella frase di Anonimo8 sulla psicosi della
seconda generazione di fagiolini mi ronza nella testa. Ho vissuto con angoscia l’affollamento dell’analisi collettiva e, peggio, degli studi dei ministri
del culto, da parte di ragazzi, di figli, di questa “seconda generazione”. È
strano vedere gente che oltre al brevetto dell’annullamento, che appartiene
solo ad altri, possiede anche quello della sanità mentale, mandare i propri
figli dallo psichiatra. Scampato
Quello che mi fa ancora rabbia era vedere all’uscita delle aule magna
quest’atmosfera di artata ammirazione, di esaltazione, da parte di molti
“adulti” per i quali sembrava che l’orizzonte del mondo fosse quello, e
che quindi non potevano non coinvolgervi i loro figli. «Hai visto che fila
stamattina?». «Erano pieni pure tutti i gradini!», «Che spettacolo, quant’è
bravo Massimo!», espressioni mai sopportate, anche quando non ero critico nei confronti di questa storia. Ora comincio a leggere meglio il disorientamento o l’euforia di quei ragazzi (con qualche anno meno di me) davanti
all’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, alle 13,30 di sabato.
Hammer
Sulla cura
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I figli vanno liberati di carichi difficili da portare, che pesano assurdamente sulle loro giovani vite. Questo l’ho capito da qualche anno, ormai. Prima di tanti altri mi ero ribellato, e poi più metodicamente opposto,
all’idea, e la realtà, dell’istinto di morte che afferra e fagocita la nascita.
Ora, l’opposizione altrettanto netta, che deve essere altrettanto metodica, è
contro l’idea, e la realtà, dell’istinto di morte che afferra e fagocita la giovinezza. Anche la nostra, recuperabile, giovinezza. E Saturno? Il misterioso
Saturno che comincia a diventare sempre meno misterioso? Romeo
Il problema delle seconde generazioni è serio perché ultimamente è invalso l’uso di inviarle preventivamente in studi privati (e non in analisi collettiva, che sarebbe forse meglio), anche per problemi non evidentemente
patologici, in base all’idea che “anche se stai bene, è bene che tu faccia una
psicoterapia”. Accade, quindi, che una patologia che si evidenzia nel corso
della terapia sia di difficile definizione: si è manifestato qualcosa che prima
era latente? è stata mal diagnosticata? è addirittura iatrogena? La cosa è
ulteriormente complicata dal fatto che, se situazioni del genere vengono
all’attenzione dell’analisi collettiva, solo i terapeuti più forti, quelli con le
spalle più larghe, vengono chiamati a darne conto, e solitamente ne escono
bene, i più fragili e iatrogeni sono solitamente risparmiati. Albertina Seta
d. Cura, formazione, ricerca: continuità o confusività?
È una prassi accettabile che all’interno di un gruppo di psicoterapia sia
presente, come paziente, la donna del terapeuta? Sono convinto che anche i
più “strenui” frequentatori dei seminari si saranno più volte posti una simile
domanda. Hanno cercato e/o trovato una risposta? E se sì, qual è? Rowan
È lo statuto di eccezionalità del terapeuta che legittima l’eccezionalità del
“procedimento” (diciamo così) terapeutico. È chiaro che voi, non accettando
la “eccezionalità” del terapeuta, negate anche la legittimità del procedimento.
Però questo rischia di essere un cortocircuito, perché deducete l’illegittimità
della prassi dal non riconoscimento della validità della teoria. Toyo
La critica alla teoria, caro Toyo, non c’entra nulla. Qui si parla di una
prassi nata ed evolutasi negli anni, a partire dal 1980 con il viaggio in Grecia e la “deviazione” in Sicilia. Quello poteva essere ancora considerato un
episodio, una una tantum. Poi evidentemente è cambiato qualcosa perché le
storie si sono succedute con sempre maggiore frequenza e sempre con minore età delle protagoniste. La teoria è del 1971-1972. Le pazienti-partner
98
Il paese degli smeraldi
giovani cominciano una decade dopo. La ”eccezionalità” del terapeuta non
fa altro che indurre a pensare alla soluzione carismatica, purtroppo. Parli di
risultato terapeutico? Credi veramente che ci si possa curare con le storie
d’amore del tuo terapeuta con le giovani pazienti/partner che rappresentano in quel momento l’analisi collettiva? Magari qualcuno confrontandosi
con questa cosa si sentirà anche provocato, incazzato, in crisi e poi curato,
per carità. Magari se lo venisse a raccontare qui lo staremmo a sentire volentieri. Ma non hai pensato a tutti quelli che, con simili dinamiche, invece
si possono ammalare? Hammer
Credo che tutta la confusione sia generata dall’ambiguità del fare curaformazione-ricerca, tutti insieme allegramente. Per cui si potrà obiettare
con tranquillità che le donne del terapeuta, nel momento e per tutto il tempo in cui sono state le sue donne, non erano pazienti, ma in formazione e/o
ricerca. Il guscio, ancora un volta, tiene. Claudio
Fagioli non accetta malati gravi. Sono trent’anni che non li cura: questo,
per colui che si sente l’unico vero psichiatra al mondo, mi sembra assurdo.
Diciamoci la verità: eravamo tutti un po’ depressi o un po’ isterici, qualcuno
poteva avere un disturbo più serio, nulla di più. Ma nessuno di noi era pazzo, frocio, lesbica, killer, schizofrenico, non c’era nessuna “signora Cogne”
tra noi. Eppure per anni abbiamo visto il nostro vicino esposto alle diagnosi
più feroci, accusato di gravi nefandezze, spesso per motivi che ci apparivano incomprensibili. Io non posso non credere alle parole, alle interpretazioni
che fa il mio terapeuta: è consustanziale al rapporto, se così non fosse non
avrebbe alcun senso andarci. Delle due, l’una: o siamo tutti stati descritti
come non eravamo, oppure questa storia non è terapia, bensì un gruppo di
persone che si riunisce per affrontare temi di varia cultura. Cosa lecita, ovviamente, ma con la cura non c’entra niente. Al gioco delle tre carte (cura,
formazione, ricerca), cominciamo allora a toglierne una. Valerio
Quanto alle storie con le pazienti, esiste un codice deontologico degli
psicologi psicoterapeuti che non le ammette, mentre per quanto riguarda i
medici psicoterapeuti non sono ammesse fin dal giuramento di Ippocrate.
Ma le cose sono più complicate. So che alla questione è stato più volte
risposto con l’argomento della “ricerca”: l’analisi collettiva ha un setting
particolare, senza contratto, che autorizza comportamenti in altri contesti
perseguibili. Ora questo tipo di risposta è stata e potrebbe ancora essere
stimolante in sedi di ricerca, come pure nelle stesse sedi potrebbe essere
contestata. Un altro dei tre
Sulla cura
99
Esiste un’etica professionale, certo. Sia i medici psicoterapeuti sia gli
psicologi psicoterapeuti hanno un codice deontologico emanato dai rispettivi Ordini. Ma torna quella strana cosa della co-presenza di cura, ricerca
e formazione. Qui è già stato fatto notare come questo ponga problemi di
varia natura e, anche, un “guscio” entro il quale diventerebbero possibili
cose che altrimenti potrebbero essere lette come contrarie alle regole deontologiche. Esperienze dirette che non rientrano nelle dinamiche di cura potrebbero rientrare tra le esperienze di ricerca o di formazione? Si potrebbe
rispondere: no, sono cose da evitare, punto. Ma l’applicazione delle regole
deontologiche diventa più difficile. Romeo
L’art. 28 dice: «Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale
e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione. Costituisce
grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno
psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto
o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di
natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione
del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti
o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del
compenso pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che
assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini
estranei al rapporto professionale». Toni
Ho riletto il nostro codice deontologico e vorrei soffermarmi sull’art.
21: «Lo psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto
a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla
professione di psicologo, a soggetti estranei alla professione stessa, anche
qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche. È fatto salvo l’insegnamento agli studenti del corso di laurea in psicologia, ai tirocinanti e agli
specializzandi in materie psicologiche». Se non erro vuol dire che, laddove
si dichiari di fare formazione, gli incontri a questo finalizzati devono coinvolgere esclusivamente studenti dei corsi di laurea riconosciuti (psicologia
e medicina), tirocinanti e specializzandi in materia, tutti tenuti al segreto
professionale. Inoltre, il testo specifica chiaramente quanto sia pericoloso,
anzi vietato dal codice, insegnare o mostrare ai non addetti ai lavori l’uso
di mezzi conoscitivi e di intervento. Uno psicologo
100
Il paese degli smeraldi
e. Sul pagamento
Voglio parlare della questione economica. Non è “gratis” come spesso
ho sentito dire. Lì dentro c’è anche gente senza soldi o con uno stipendio da
operaio o impiegato, e non so come se la cava quando deve pagare analisi
collettiva, analisi personale, viaggio per Chieti, rivista, dvd, libri che escono in continuazione con nuove edizioni... Antonio
Pazienti-clienti. Sarei grato a chi sapesse/volesse illuminarmi sulla relazione tra cura psichiatrica e commercializzazione, da parte dello stesso
psichiatra-analista, dei suoi libri (fino all’ultima riedizione), video, dvd,
quadri, disegni, calendari, fino all’agognata, costosissima, ristrutturazione della propria abitazione, affidata alla sua impresa di fiducia. A quando
l’ingresso nell’Alta Moda? Quanto sarebbe bello poter indossare un capo
veramente firmato! Toni
Non credo si possa dire che c’è una relazione di tipo terapeutico, cioè
nessuno è obbligato o spinto a comprare. Viviamo fortunatamente in questo paese. Ognuno è libero di comprare quello che gli pare o di farsi ristrutturare casa da chi vuole, finché non crea problemi a me o a te, beninteso.
Claudio
Suppongo che Claudio sia della terza generazione e... vissuto in un’atmosfera “berlusconiana”. Non ha colto il titolo del post di Toni: pazienticlienti. È sotto gli occhi di tutti che un medico, tanto più psichiatra, se
continua a esercitare tale nobile professione, “non può” utilizzare i suoi
pazienti, fossero anche milionari, per un lucro extra professionale, e sfruttare il suo carisma per indurli, creando artatamente un forte “desiderio”,
ad avere nella loro casa una costosa immagine architettonica del loro terapeuta. È molto semplice: è una cosa che non si fa. E sai, Claudio, a cosa
mi riferisco? All’etica professionale del medico. Ti dico di più: qualora il
paziente, per motivi inerenti alla sua terapia, lo richiedesse senza esserne
indotto, il medico eticamente corretto dovrebbe rifiutarsi, e questo non per
moralismo ma per elementare serietà professionale. Orsola
Orsola, guarda che siamo sempre lì: finché continua il minestrone curaformazione-ricerca è permesso tutto e il contrario di tutto. Il guscio lo ha
inventato bene. Da quello che si legge, infatti, le ristrutturazioni di cui
stiamo parlando riguardano gli studi degli psicoterapeuti, che non sono
dunque suoi pazienti in quanto non malati. Una struttura del genere è fat-
Sulla cura
101
ta in maniera da giustificare tutto. Se queste cose accadono è grazie alla
sua struttura autoreferenziale, estremamente funzionale a tutti i fatti di cui
stiamo parlando. D’altronde è un fenomeno noto: quando alla base di un
sistema di pensiero viene tollerata, o addirittura voluta e mantenuta, la contraddizione, è possibile dimostrare come vero tutto. E il contrario di tutto.
Claudio
Vorrei parlare di soldi. Metto subito in chiaro che, a mio parere, il dott.
Massimo Fagioli non viola alcun articolo del codice civile e penale. Diciamo che ai seminari partecipano 600 persone a settimana. Diciamo che
le settimane di seduta sono 45. Assumiamo come valida la quota minima
fissata da un giornalista (Perna, 2007), 10 euro. Fanno 270.000 euro l’anno
(limite inferiore della stima). Assumiamo che ai seminari partecipino 800
persone alla settimana e che la quota media sia 30 euro. Fanno 1.080.000
euro l’anno (limite superiore alla stima). Senza fare il calcolo per 55 euro
a seduta, che mi sembra sia la cifra che si trova sul tariffario per la seduta
di gruppo. Diciamo che in medio stat virtus: se si afferma che nei famosi
sacchetti all’anno passano oltre 500.000 euro non si sbaglia di certo. “Offerte”, perché non possono essere chiamate diversamente da un eventuale
osservatore esterno, per oltre un miliardo di lire l’anno. Hammer
2. Sulla pratica terapeutica dei piccoli gruppi
Partiamo dal punto di vista dei pazienti, che sembrano essere dimenticati in tutte queste discussioni. Sappiamo tutti che, quando ci rivolgiamo
a uno psichiatra, siamo in una situazione di estrema fragilità, debolezza,
disperazione. Molto spesso non sappiamo nulla di psicodinamica, di Freud,
di Fagioli... eppure lo psichiatra fagioliano che abbiamo incontrato inizia
subito a parlarci della nostra fortuna, a indottrinarci sulla teoria, a invitarci
alla lettura dei libri, della rivista, di “Left”, a scagliarsi contro tutte le teorie psicodinamiche precedenti e successive alla teoria della nascita, a tutte
le altre cure psicoterapiche e psichiatriche, al cristianesimo, alle religioni,
alle politiche. Non possiamo controbattere, qualunque tentativo di dare
un’opinione diversa sugli argomenti suddetti viene violentemente frustrato
come negazione della cura. Mentre l’adesione al pensiero di Fagioli viene salutata come un principio della guarigione. A questo punto il paziente
deve scegliere: la speranza della guarigione e la resa totale al pensiero di
un’altra persona o la possibilità della disfatta, di una sofferenza ancora
maggiore, della morte. Molto spesso si tratta di persone ignoranti che non
102
Il paese degli smeraldi
hanno neanche la possibilità di fare una critica, molto spesso nella malattia
mentale vengono meno anche le nostre capacità critiche.
Con queste premesse si può parlare di un valido metodo di cura? La
scomparsa del sintomo conseguente al “prendersi cura”, all’instaurarsi di
un rapporto è seguita dalla guarigione dalla malattia mentale, dalla formazione di un’identità? Che identità è quella in cui vi è l’adesione totale
a un’altra persona, a un pensiero? In cui non vi è il cosiddetto confronto
di identità, perché ogni pensiero diverso da quello del terapeuta (e quindi
di Fagioli) è pensiero malato? Qui vi sono solo i semi del fanatismo, della
violenza, del totalitarismo. Sarebbe molto meglio se nella prassi terapeutica lo psicoterapeuta fagioliano non avesse la presunzione di volere ricreare
una piccola analisi collettiva. Ai pazienti non deve interessare nulla delle
dispute accademiche o di pensiero, nulla della lettura di libri iperspecialistici e difficili, nulla della rivista, di “Left”... Nella prassi psicoterapeutica
si dovrebbe basare tutto sul rapporto tra paziente e psicoterapeuta, non tra
paziente e Fagioli attraverso la maschera del terapeuta. I pensieri sulla politica, sulle religioni, sulle psicoterapie non devono diventare oggetto di
rapporto perché altrimenti un pensiero diverso viene considerato negazione di rapporto e quindi malattia. Qualunque persona sensata sa che non è
così. Rudra
Un altro meccanismo che si è evidenziato nei gruppi che ho frequentato:
ci sono persone che, dopo anche 10-15 anni di analisi collettiva, sono andate in crisi, lì dentro. Che hanno pensato bene di fare? Di andarsi a curare
da uno psicoterapeuta fagioliano per poi poter “rientrare” (non erano andati
via fisicamente dai seminari, ma non riuscivano a “riprendere il rapporto”).
Esiste anche questo circuito di ricircolo. Claudio
Utilizzano l’interpretazione del sogno solo come veicolo per la suggestione. Se ti opponi con dati di realtà, ti interpretano “di non saper stare
nel rapporto”: è una trappola senza uscita. Molti, comunque, riciclano
solo interpretazioni già sentite al grande gruppo, ne hanno una specie di
“repertorio”. Jigoro
Non so se il modo di interpretare i sogni di Fagioli sia esatto o meno,
quello che posso dire è che nei gruppi spesso si usano le interpretazioni
già sentite ai seminari per fare interpretazioni a chi ai seminari non è mai
stato, e non lo trovo corretto. Più di una volta ho avuto l’impressione che
il sogno venisse usato come contenitore da riempire con l’interpretazione.
È la negazione, lo spettro agitato davanti a noi negatori, il grimaldello; è
Sulla cura
103
quella paura di essere noi i fautori del vuoto, descritta bene da Fagioli stesso, a permettere loro di presentarsi come salvatori. Il terapeuta fagioliano
“deve” interpretare qualsiasi pensiero che contrasti con la vulgata del momento come negazione, pena il decadimento della sua sanità. Claudio
Come si può dare retta alle proprie intuizioni quando per anni lo psicoterapeuta fagioliano dal quale sei in cura te le interpreta sistematicamente
come negazioni? Sono un’abbonata ai sensi di colpa, ma per lungo tempo
mi sono venuti perché non accettavo la teoria! Non rinnego tutto, per carità, ma con un altro metodo ci avrei messo molti meno anni, credo, e soldi,
e la faccia, e tante sofferenze… Mary
Una teoria basata su assunti di base discutibili (vedi interventi di Romeo), nonché su una prassi altrettanto discutibile e non codificata, se non
come imitazione degli atteggiamenti del capo, ha reso quella che sembrava
una promessa di innovazione una riproposizione del vecchio metodo di
costituire gruppi settari su base religiosa o pseudopsicologica. Gli errori
iniziali, nonché l’uso disinvolto del culto della personalità, sembrano aver
generato le anomalie che alcuni raccontano e che non si possono ascrivere
al solo rango di esperienze soggettive, ma rispecchiano altre esperienze che
stanno emergendo in questo e nell’altro blog di “Aprileonline”. I discepoli
dell’analisi collettiva sembrano avere l’unico obiettivo di ripetere le gesta
del capo. Dinamite
Io sono in cura da cinque anni. Fagioli è certamente un riferimento continuo, teorico, terapeutico e umano. Sono “io” che leggo i suoi libri, vedo le
sue lezioni, compro “Left” (compravo “Avvenimenti” anche prima); la mia
terapeuta interpreta queste mie scelte nel corso delle sedute, se necessario, e
quasi sempre molto a margine. L’analisi collettiva è un fenomeno storico e
scientifico assolutamente unico. Sarà studiato per decenni, e la sua immagine sconvolge molte persone, specie fra i frequentatori di questo blog. Tutto
umano e comprensibile. Ma da qui a sostenere che i terapeuti della scuola
romana fanno proselitismo per l’analisi collettiva (fra l’altro sarebbe inutile,
a meno di spostare le sedute al Colosseo: non entra più nemmeno uno spillo)
o invitano addirittura a votare per qualcuno... Gianluca Zampieri
Diverse volte ho avuto la sensazione che le interpretazioni su di me, ma
anche quelle verso gli altri, fossero strumentali a un tema che comunque
andava introdotto in quelle due ore. Forse perché il terapeuta le aveva sentite al suo seminario? Non sono medico, ma capisco che in qualche modo
104
Il paese degli smeraldi
ci debba essere una specie di “forzatura” nell’azione medica. Ma queste
“forzature” hanno ben precisi limiti, e questi limiti troppo spesso vengono oltrepassati. Non si può dare l’interpretazione riferendosi a parole di
Heidegger, Galimberti, Lombardi, Spinoza a gente che a mala pena sa chi
sono. Hammer
Leggo una delle “bollicine” di luglio di Antonello e arrivo alla fine: «Gli
psicoterapeuti della cosiddetta Scuola romana attuano una regressione dalla religione del figlio a quella del padre nella misura in cui risolvono il
problema del transfert del paziente con loro sostituendolo con quello del
paziente stesso con il loro terapeuta, con qualcosa posto fuori dal setting
immediato, in un setting più ampio, con qualcosa di irraggiungibile. Dio
figlio, dio padre, dall’idea della natura umana/divina a quella della natura
essenzialmente divina di Cristo». Dopo aver riletto più volte questo periodo, mi sono venute alcune domande:
1) Risolvere il transfert del paziente con il terapeuta, ponendo detto transfert fuori dal setting immediato, permette di risolverlo?
2) Se il transfert è posto all’esterno della relazione terapeuta-paziente,
possiamo parlare di intervento di cura, di psicoterapia, che nella sua composizione etimologica prevede l’esistenza di due o più partecipanti, presenti fisicamente e contemporaneamente nel luogo dove avviene il rapporto
terapeutico?
3) Nell’analisi collettiva Fagioli interpreta il transfert del chiamato di
turno nei suoi confronti, ma poi lo riferisce e lo risolve con qualcosa posto
contemporaneamente dentro e fuori dal setting, «in un setting più ampio,
con qualcosa di irraggiungibile»: l’immagine dell’analisi collettiva, l’analisi collettiva stessa. Si può risolvere così il transfert, se di transfert possiamo parlare, e soprattutto questa può essere psicoterapia?
4) Frustrazione-interesse e frustrazione-aggressività possono essere gli
ingredienti terapeutici per quella che viene chiamata “esperienza emozionale correttiva”? Freeasabird
105
4
SUI RAPPORTI
In questo capitolo ci si riferisce a esperienze di rapporto personale che
pongono il problema della definizione di un ambito che, pur non presentando le caratteristiche di una comunità religiosa o monastica, può essere
detto “comunitario” in senso relativamente ampio1.
Come si è avuto modo di raccontare, il gruppo, oltre alla frequentazione
delle sedute di terapia collettiva, ha in comune una lunga storia di rapporti
fuori dall’ambito terapeutico, che, per la sua durata, la sua composizione
in qualche modo costante, il riferimento continuo a un preciso corpus di
idee, ha dato luogo al costituirsi di modalità, stabilizzatesi nella consuetudine, che ne hanno dettato inevitabilmente codici di interpretazione della
realtà e di comportamento. L’uso di termini come “setta” o “chiesa” va
dunque inserito nel tentativo di esaminare questi aspetti comunitari e ha il
significato di analogie intese a sollevare interrogativi.
L’elemento centrale da cui partire è quello dell’aspettativa utopica, da
sempre presente nel gruppo dell’analisi collettiva, di costruire rapporti
personali diversi da quelli normali. Tale aspettativa, insita in misura maggiore o minore in qualsiasi attività gruppale e vista generalmente come
intralcio al suo corretto svolgimento2, ha in quel gruppo assunto caratteristiche particolari e stabili.
Come si accenna in altre parti di questo volume, i partecipanti ai seminari degli inizi si presentavano come orfani delle utopie rivoluzionarie
degli anni Sessanta e Settanta, eredi a loro volta delle grandi concezioni
utopiche del passato. Per loro, la possibilità di portare la ricerca di rapporti personali diversi e nuovi sul piano della realtà inconscia, proposta
1I partecipanti all’analisi collettiva costituiscono una comunità, non nell’accezione
ristretta di un gruppo che vive insieme 24 ore su 24, adottando una propria regola
e isolandosi rispetto al mondo, ma neanche in quella ampia che riguarda individui
che, pur non conoscendosi di persona, partecipano liberamente a una comune attività, talora in diverse parti del mondo.
2 Alcuni autori (Anzieu, 1979; Neri, 1995) l’hanno definita con il termine “illusione
gruppale”.
106
Il paese degli smeraldi
- insieme alla definizione delle dinamiche tra esseri umani - da uno psicoanalista eterodosso, alimentava la speranza di poter riscattare le angosce e
i fallimenti derivati dalla sperimentazione selvaggia di nuovi modi di stare
insieme condotta in proprio.
Bisogna ricordare che i giovani militanti di allora avevano prestato
orecchio a movimenti di liberazione che, soprattutto in altri paesi dell’occidente, seguivano con una certa attenzione la ricerca intellettuale di coniugare socialismo (e perfino marxismo), psichiatria e psicoanalisi3. In
Italia ciò diede luogo al successo delle idee di Basaglia che riuscirono
perfino a determinare un adeguamento delle istituzioni in tema di psichiatria. Quanto alla psicoanalisi, rimaneva in posizione riservata, lontano dalle piazze, ma il clima di contestazione l’aveva a un certo punto
raggiunta, probabilmente in modo significativo, sebbene con episodi (AA.
VV., 1973; Bolko-Rotschild 2006) poco noti al movimento politico. Anche
Fagioli emerge all’interno di uno di quegli episodi, per poi, grazie all’invito di Nicola Lalli, iniziare a Roma quei seminari che ne sanciranno la
notorietà.
Nei seminari presso l’Istituto di Psichiatria di via di Villa Massimo,
grazie anche alla novità rappresentata dal grande gruppo e dal libero
accesso, chi partecipa pensa che si incominci a realizzare la fusione tra
psicoanalisi e politica; la fama di antifreudiano di cui Fagioli gode, peraltro, lo rende molto interessante per militanti o ex militanti della sinistra che già hanno in qualche modo fatto propria la critica a Freud nei
termini di alcune componenti radicali del movimento (femministe, gruppi
di autocoscienza). Fagioli però propone alcune discriminanti un po’ fuori
dagli schemi dell’epoca: il rifiuto dell’omosessualità, da lui considerata
malattia grave, e il rifiuto della masturbazione come dinamica di perversione del rapporto.
È facile immaginare quanto provocatorie possano essere risultate allora queste proposizioni che, insieme a un dichiarato antibasaglismo, caratterizzarono immediatamente il gruppo come diverso da altri gruppi
psicoanalitici (come “Lo spazio” di Paolo Perotti), o variamente interessati alla psicoanalisi, che “pescavano” negli stessi ambienti di sinistra
nel medesimo periodo, e determinarono al suo interno il costituirsi di un
nucleo di radicalismo che lo caratterizzerà in seguito.
3All’epoca si discuteva in particolare del lavoro di una studiosa marxista, Agnes
Heller (Heller, 1974), sulla questione dei bisogni. Ricordiamo per esigenze di brevità almeno quello; in realtà c’è un’ampia letteratura in proposito, sia per quanto
riguarda la psichiatria sia per la psicoanalisi.
Sui rapporti
107
Nel parlare di questa attitudine, da molti ritenuta intransigente, bisogna inoltre menzionare la questione della “frustrazione” e del “rifiuto”.
La pratica di Fagioli veniva proposta come contraria a qualsiasi forma
consolatoria e basata sull’attività del terapeuta di netto rifiuto delle dimensioni negative del paziente: la frustrazione di tali dinamiche non avrebbe
affatto distrutto quest’ultimo, anzi lo avrebbe liberato da quanto gli impediva di realizzarsi pienamente come essere umano.
Questa dinamica, detta di frustrazione interesse (cfr. la nota introduttiva
al cap. V), rappresentava certamente un’ulteriore novità per persone cresciute nel clima assistenzialista e fortemente venato di cattolicesimo della
sinistra extraparlamentare italiana, e cominciava a modificarne e orientarne i comportamenti4. L’atmosfera, nell’analisi collettiva, era diventata
in poco tempo improntata all’austerità, al proibizionismo e al rifiuto di
ogni assistenza, cosa al di là degli eccessi probabilmente salutare, ma talmente repentina da lasciare sorpresi amici e conoscenti, soprattutto quelli
che rapidamente diventavano gli “ex“: ex amici, ex compagni di movimento (la cosa spesso coincideva, poiché all’epoca si viveva una dimensione
prevalentemente collettiva), ex partner non coinvolti o non coinvolgibili,
ex coniugi per i partecipanti un po’ più grandi d’età. Per i più giovani, che
già avevano consumato la contestazione dell’istituzione familiare, veniva
confermata la posizione di incompatibilità con la famiglia.
L’autorevolezza di Fagioli non era solo frutto di un fascino personale:
egli aveva scritto libri che proponevano ipotesi teoriche nuove, poi c’era
la sua attività terapeutica basata soprattutto sui sogni di cui si rivelava
interprete abile e instancabile; la sua capacità di condurre grandi gruppi
aveva inoltre un grande peso, contribuendo al clima di generale ravvedimento che vi si respirava. Personaggi di un certo spessore si sottoponevano ai suoi interventi, vigeva il principio per cui nessuna identità sociale
era riconosciuta - si era tutti alla pari nella situazione di pazienti - e una
ragazzetta o un ragazzino saccenti potevano diventare importanti mentre il
professionista o l’uomo di cultura se ne stavano in un angolo5.
La potenza dell’insieme era forte e determinava rapidi cambiamenti nel
modo di vivere dei partecipanti, grazie anche al fatto che la frustrazione
nella seduta di terapia spesso era diretta e toccava esplicitamente situazio4
5
Tra l’altro venivano stigmatizzati tutti i comportamenti trasgressivi, all’epoca invece largamente tollerati nel movimento; ad esempio l’uso di spinelli e soprattutto
i tentativi di realizzare una certa libertà sessuale.
Nei seminari erano tra l’altro confluiti pazienti di altri psicoanalisti, insieme ai
loro stessi ex terapeuti che avevano praticato una sorta di autoriduzione della
propria attività o avevano del tutto smesso di esercitarla.
108
Il paese degli smeraldi
ni di rapporto personale. È dunque fuori di dubbio che fin dall’inizio l’attività terapeutica si sia presentata come qualcosa che influenzava i rapporti
tra i partecipanti anche fuori dell’ambito delle sedute; ha presumibilmente
origine da lì il costume di adottare nella sfera personale, senza alcuna elaborazione, giudizi idealizzanti o sanzionatori desunti dalle interpretazioni
del terapeuta.
Qualcuno oggi “a posteriori” evoca in proposito modalità tipiche delle
sette, presenti fin dagli inizi. L’analogia, suggestiva, consiste nel rilievo di
modalità per cui si fa terra bruciata attorno all’”adepto”, costruendogli
intorno un nuovo mondo composto solo da altri adepti. Qualcun altro, con
linguaggio più psicoterapeutico, parla invece di pratiche di manipolazione, consistenti nella neutralizzazione della base affettiva costituita dalle
prime figure di attaccamento (genitori, fratelli) per far sì che a essa si
sostituisca il rapporto con il terapeuta e il gruppo. Più che di giudizi definitivi si tratta di spunti che emergono dal blog in modo interlocutorio, alla
ricerca di una o più tracce che aiutino a comprendere, riportandolo alle
stesse origini dell’analisi collettiva, un certo stile di rapporti che in molti
si sono trovati infelicemente a sperimentare.
Queste osservazioni, paradossalmente, non risultano completamente
calzanti rispetto alle origini; ripensando a quei tempi, infatti, viene in verità da riflettere piuttosto su come allora l’isolamento del gruppo fosse
provocato, o quanto meno facilitato, da alcune contingenze esterne, sociali
e storiche, oggi non più attuali. Le reazioni contrarie ai seminari nell’ambito della sinistra6 contribuirono indubbiamente ad accentuare la chiusura
del gruppo, come pure il fatto che la situazione sociale, dopo l’ultima euforia del ’77, cominciava a fare paura; e anche questo fece sì che i rapporti
tra i partecipanti si stringessero ulteriormente. Inoltre, l’attitudine settaria
di ex militanti abituati a considerare le cose in termini assoluti ben si sposava con la radicalità proposta da Fagioli.
6In quegli anni molti militanti della sinistra fecero una capatina, magari solo per
una volta, ai seminari in via di Villa Massimo e in molti fuggirono, spaventati
dal clima pesante delle sedute, come è stato ricordato nel blog. Alla domanda sul
perché invece alcuni siano rimasti sottoponendosi a tutto ciò possono esserci tante
risposte. Oltre agli elementi - già ricordati - dell’apprezzamento per Fagioli e le
sue idee, per chi rimase pesò indubbiamente il fatto di ritenersi una generazione
particolarmente colpevole di forme violente di ribellione, la necessità di tirarsi fuori immediatamente dalla confusione, la convinzione che le cose dovevano
seguire un’impostazione diversa rispetto al pressapochismo e al permissivismo
sessantottino. Si restava, anche quando si verificavano eventi particolarmente brutali quali l’espulsione (rara in verità negli anni di Villa Massimo) o la frustrazione
particolarmente dura di qualcuno.
Sui rapporti
109
Vale la pena sottolineare che nel blog non si è mai parlato di plagio. A
parte la dubbia esistenza di un fenomeno del genere, la credenza per cui
si possa essere completamente sottomessi alla volontà di qualcun altro è
troppo grossolana e vicina a un pensiero magico estraneo al blog. In esso
piuttosto prevale la curiosità su come si siano potuti verificare gli episodi
che vi vengono descritti e la ricerca di informazioni su cosa possa stare a
monte di situazioni spesso conosciute dai redattori dei post solo di sfuggita
e in epoche recenti. L’elemento della delusione, centrale negli interventi,
viene così inserito in una prospettiva di conoscenza e di scambio che cerca di spiegare e spiegarsi, tra l’altro, come mai ci sia voluto tanto tempo
per mettere in discussione situazioni che oggi appaiono immediatamente
inaccettabili.
L’ingenuità con cui ci si sorprende del cosiddetto fenomeno dell’endogamia, fortemente presente nel gruppo e nelle situazioni a esso limitrofe (piccoli gruppi), colpisce ad esempio chi nel regime suddetto è letteralmente
cresciuto, avviando un dialogo in un certo senso intergenerazionale nonché
processi di elaborazione per entrambe le parti. L’endogamia, in parte, per
quanto riguarda le origini, va inquadrata in quanto detto finora, ma è evidente che essa a un certo punto si è svincolata da quelle origini se, come alcuni dicono, è giunta oggi a venire presentata come condizione necessaria
per il proseguimento della terapia. A sostegno di tale prescrizione verrebbe proposto che per intendersi in una coppia è necessaria la condivisione
dell’esperienza terapeutica, così come verrebbe visto negativamente il rapporto con “esterni” le cui capacità di comprensione sono giudicate carenti o limitate.7 Per il grande gruppo, d’altra parte, la storia endogamica
appare oggi come una sperimentazione ad alto costo umano, terribilmente
complicata se all’uso di scegliersi tra loro si aggiunge l’abitudine dei partecipanti all’analisi collettiva di separarsi continuamente nei loro rapporti
di coppia. Sono tutti comportamenti accettabili se presi in sé e vissuti in
una situazione di libertà; ma che, visti in un ambiente in cui tutti - soggetti
in questione, ex partner, partner attuali - partecipano a gruppi di terapia,
sottopongono a un minuetto in cui ci si scambiano fidanzati e diagnosi dei
fidanzati, e si consumano veri e propri drammi nel doversi confrontare, magari nello stesso gruppo, con l’attuale morosa del proprio ex e viceversa. Si
può d’altronde immaginare il proliferare di intrighi e pettegolezzi, tanto più
che dell’endogamia, a partire dal 1980, partecipa, quanto meno a livello di
narrazione, anche il terapeuta del grande gruppo.
7La cosa non vale solo per l’endogamia, anche la separazione dalla famiglia o dai
partner verrebbe oggi proposta quasi d’ufficio.
110
Il paese degli smeraldi
Il 1979-80 rappresenta certamente una svolta a questo proposito.
È importante qui accennare a due fatti: uno riguarda un episodio del
1980 che è necessario riportare a grandi linee poiché costituirà il
canovaccio di tante altre analoghe storie; l’altro, che probabilmente
ne deriva, è una forte tendenza a imitare Fagioli nei propri comportamenti e nella gestione dei propri rapporti da allora in poi seguita da
molti.
L’episodio del 1980 ha come precedente alcuni incontri tra terapeuta
e analizzandi del grande gruppo attorno al 1979 e culmina in una vacanza in Grecia nell’agosto del 1980 con una quindicina di loro. Esso si
compone: della storia d’amore del terapeuta con una ragazza che prende corpo in quella vacanza; dei successivi sviluppi della storia per cui
lei cercherà di coinvolgerlo in un conflitto edipico con un rivale “malato” o comunque molto inferiore, se non “inesistente”, rispetto alle di lui
capacità umane; della complicità degli altri partecipanti alla vacanza
(salvo eccezioni) in questo tentativo; del riverberarsi di questa storia sul
grande gruppo di analisi nel quale anche verranno denunciate complicità dirette e indirette. L’intero episodio verrà adoperato a fini terapeutici
e comprenderà la pratica di allontanamento (definitivo o temporaneo)
di coloro a carico dei quali erano emerse complicità nella negazione
del rapporto amoroso con il terapeuta, considerata distruttiva per la
ragazza.
L’episodio sarà peraltro connesso, in maniera non banale, all’intera
vita del gruppo che in quel periodo si trovava a fronteggiare il passaggio dalla sede pubblica di via di Villa Massimo a quella privata di via
di Roma Libera, e con esso la sua prima grande crisi, resa ancora più
sconvolgente dall’allontanamento di decine di analizzandi. Il gruppo conoscerà in seguito altre crisi analoghe, connotate sempre dalla pratica
dell’allontanamento, che faranno sì che si stabilisca una notevole paura
di quella forma di sanzione e un diffuso atteggiamento di ripulsa verso i
sanzionati.
L’episodio del 1980, proposto, nei suoi minimi risvolti e non senza suspence, a persone che fino a poco tempo prima avevano vissuto la sperimentazione amorosa caotica e distruttiva propria del movimento politico,
ha un effetto enorme, forse anche salutare nel senso in cui può esserlo un
forte trauma, comunque emblematico. Gli analizzandi di allora ne approfitteranno per rivedere la propria superficialità e sicuramente alcuni ne faranno tesoro, per altri le cose andranno in modo diverso. Se ne continuerà
comunque a parlare per anni e lo schema narrativo suddetto verrà riproposto a ogni nuova storia d’amore del terapeuta; per fortuna le epurazioni
Sui rapporti
111
saranno sempre più contenute, ma nel 19998 con la malattia di Fagioli, e
poi nel 2004/2006 con la storia di una giovanissima paziente, sembrerà di
rivivere il clima di allora. Quest’ultimo episodio riproporrà la severità del
terapeuta, la radicalità delle sanzioni e le paure del 1980 alla cosiddetta
seconda generazione che non le aveva ancora mai vissute, essendo di quegli anni letteralmente figlia.
Il poter disporre di una parte importante della vita del terapeuta e il
disvelamento del suo modo di risolvere problemi di rapporto con una donna, ritenuto prezioso, deve aver fatto sì, sia in occasione dell’episodio del
1980 sia nei successivi, che nessuno si sia mai sognato di mettere in discussione quest’insolita pratica terapeutica. Nessuno si è mai ribellato a
che questa modalità potesse ridurre l’intero gruppo in una posizione voyeristica, alimentando a dismisura analoghe tendenze nei singoli, molti dei
quali da allora in poi si sono impegnati, attivamente e a volte principalmente, a carpire fatti e comportamenti della vita quotidiana del terapeuta
attraverso la partecipazione a situazioni private di rapporto con lui (cene,
feste, gite).
Tutto ciò può rappresentare un retroscena di un certo rilievo che sfugge
a molti che oggi si interrogano sul perché i rapporti con i partecipanti
all’analisi collettiva siano così difficili, come mai a fronte di una consuetudine di frequentazioni intense non si sia sviluppata una reale rete di solidarietà, ma al contrario situazioni ingenerose e sleali, separazioni violente
accompagnate da giudizi definitivi, esclusioni, tradimenti. In effetti si può
dire che lo stile dei rapporti tra i partecipanti abbia principalmente e generalmente (è ovvio che non sia stato così per tutti) quello di un discutibile
ideale di radicalità e perfezione mutuato dalla leggenda sorta attorno al
terapeuta, alimentata di volta in volta da chi aveva il privilegio di accedere
anche solo alle minime propaggini di essa. Tutto il resto contava meno e
le rare oasi di autenticità che si riuscivano a realizzare dovevano comunque con essa fare i conti. L’influenza della seduta di psicoterapia, unita a
questa realtà di rapporti personali sempre più condizionati dalla presenza
di una “corte”, o di varie corti succedutesi, e di posizioni personali costituitesi sulla base della frequentazione del maestro o delle persone a lui
ritenute più vicine, ha sicuramente condizionato la vita di tutti, prendendo
8L’episodio, al quale si fanno molti accenni nel blog, è quello di una polmonite
superata da Fagioli; anch’esso è divenuto materia di analisi accurata in terapia
con l’assegnazione, sebbene in ipotesi, di responsabilità individuali e di parte
del gruppo nella sua genesi. A esso poi sono state in qualche modo ricondotte le
rotture con alcuni personaggi eccellenti nella storia dell’analisi collettiva come
Armando e Lalli.
112
Il paese degli smeraldi
molta parte negli episodi raccontati in questo capitolo. E dando ovviamente luogo a processi imitativi al limite del caricaturale.
È da queste considerazioni che prende corpo la domanda se i partecipanti all’analisi collettiva siano persone sane, come loro stessi dicono di
sé, o normali, come sembrerebbe dal loro comportamento, o siano tutti
“malati”, visto il livello di inautenticità e compromissione dei rapporti che
instaurano. La protesta del blog è forte e il dolore che traspare non può essere equiparato alla semplice delusione/castrazione dell’escluso: ciò che
viene espresso è la disillusione profonda verso un mondo che tende invece
a rappresentare se stesso come luogo di realizzazione altissima della realtà
umana.
Qualcuno accomuna il comportamento dei partecipanti all’analisi collettiva a quello di alcune situazioni psicopatologiche, in particolare dei
borderline: per loro, viene detto, non sei che un oggetto da utilizzare per
i propri scopi, sono anaffettivi, disumani, calcolatori, incoerenti, inaffidabili. Ed è vero che certi racconti che rimandano a episodi noti, dei quali
peraltro si conoscono o si possono prevedere anche le giustificazioni, possono portare a queste conclusioni.
È a questo punto che viene proposta un’ipotesi di lettura che consenta
di sfuggire al manicheismo che tutta questa storia sembra inevitabilmente
portare con sé: o tutto bello o tutto da buttare. E se fosse fondamentale
per valutarla la prospettiva del grande gruppo? Ossia, non si può capire
se si guarda solo ai singoli, piuttosto va considerato il modo in cui l’identità personale di questi si articola con quella dell’appartenenza al grande
gruppo. È il grande gruppo nel suo insieme che si presenta in assetto simile
a quello di un’organizzazione patologica borderline, ossia funziona come
potrebbe funzionare un unico soggetto borderline in una fase di stabilizzazione che può durare per un tempo indefinito (Steiner, 1987): esso guarda
al mondo senza sfumature, ci sono buoni e cattivi divisi in modo netto, per
definire questi ultimi vengono messi in moto meccanismi di identificazione proiettiva con la creazione continua di capri espiatori, si sviluppa uno
pseudopensiero che somiglia piuttosto a una ferma convinzione con preoccupanti caratteristiche di concretezza. Quanto ai singoli, sarebbe un po’
come i seguaci di un credo religioso o ideologico: tutto bene finché non si
rientra nella sfera di tale credo, che coincide con quella del gruppo, possono essere brave persone, simpatiche, avere un comportamento normale,
a patto di non toccare la sfera suddetta, altrimenti si trasformano in fanatici. Naturalmente quanto ognuno di essi possa instaurare rapporti validi
dipende dal grado di autonomia dall’identità di appartenenza; per alcuni,
che identificano la propria identità con quella, ciò non sarebbe possibile:
Sui rapporti
113
sarebbero i fanatici tout court, i pasdaran, i cosiddetti borderline, molto
diversi peraltro da un borderline in stretto senso clinico9.
Le successive sezioni di questo capitolo prendono in esame alcune situazioni di rapporto, emblematiche perché ampiamente note nell’ambiente dell’analisi collettiva: il loro racconto s’intreccia in gran parte con
l’ulteriore questione dei rapporti con l’esterno. Per meglio comprendere
questi aspetti bisogna però raccontare come nel corso del tempo si sia
andato precisando il funzionamento della delega, che aveva attraversato
precedentemente una fase di relativa ambiguità. Non è facile comprendere i fatti cui si accenna nei post se non si conosce l’evoluzione di questo
discorso.
Alla fine degli anni ottanta, come già detto in un’altra nota introduttiva,
usciti dall’oscuro periodo dei lavori di consolidamento del gruppo, si respirava un altro clima. Le iniziative erano allora affidate al volontarismo
per cui chiunque poteva proporre un incontro o un convegno o la partecipazione a un evento. Agli inizi degli anni novanta, ad esempio, la libreria
Amore e Psiche, che aveva tra i suoi soci anche altri (rari) esterni, cominciò a promuovere incontri con esponenti della cultura e anche qualche
piccolo convegno. Il volontarismo si accompagnava per gli interni, forse
troppo ingenuamente, all’idea che si cercasse di diffondere idee valide che
sicuramente facevano capo al lavoro di studioso e di pensatore di Fagioli
e alla sua insostituibile identità di conduttore del grande gruppo, ma anche alla messa alla prova di identità più piccole, scaturite dal processo
di cura, in grado di iniziare a misurarsi con la realtà sociale e culturale.
In un certo senso ricalcando le vecchie aspettative utopiche, si riteneva
che esistesse un patrimonio comune, smisurato, al quale ognuno poteva
contribuire secondo le proprie possibilità e attingere secondo le proprie
esigenze. Naturalmente sempre in un’ottica collettiva e non personalistica.
Se non che, evidentemente, non si era capito bene o non si era abbastanza
considerato il modo di Fagioli di intendere il copyright.
Qui ci si addentra in una questione delicata, che necessiterebbe della
penna di un vero storico e profondo conoscitore di tutta la vicenda; la
cosa peraltro meriterebbe un capitolo a parte. Fatto sta che ben presto
ci si dovette rendere conto che ci si muoveva su un terreno minato in cui
avevano peso due fattori: il primo era che Fagioli probabilmente intende9I veri borderline difficilmente possono essere accettati dal grande gruppo perché
troppo fuori dal richiesto schema di comportamento che è di docilità e acquiescenza o di grande equilibrio nel seguire l’andamento delle sedute anche quando
non se ne condividano totalmente i contenuti.
114
Il paese degli smeraldi
va il diritto d’autore pressoché su tutto, non solo sui suoi libri, non solo
sulle sue produzioni, ma su qualsiasi espressione dell’analisi collettiva o
lontanamente riconducibile a essa. A quell’epoca la libreria e la rivista “Il
sogno della farfalla” sembravano, o sembrava potessero diventare, realtà
un po’ separate, e così veniva detto, ma alcuni segnali cominciarono a indicare che anche esse ricadevano sotto questa forma di diritto di autore e
come tali andavano preservate: solo Fagioli o un suo diretto delegato (preferibilmente un familiare) potevano disporne, altrimenti si sarebbe potuta
profilare l’accusa di volere derubare lui o l’analisi collettiva, di volerne
approfittare a fini personali.
Il secondo aspetto, a questo connesso, era quello della legittimazione che andava facendosi strada: in una situazione in cui si diceva, e si
continua a dire, che non c’è alcuna forma di riconoscimento ufficiale
di chicchessia, cominciavano a poter prendere la parola o a figurare in
pubblico solo alcuni prescelti, in un’ottica di vera e propria legittimazione di fronte al grande gruppo. Questo assetto in realtà è rimasto ambiguo per molto tempo, consentendo così cose che vengono stigmatizzate
in alcuni post: innanzitutto il mandare avanti i volontari e lo sfruttarne
in un certo senso l’opera, poi l’attribuizione alla loro responsabilità
degli eventuali insuccessi, l’accusa di volersi appropriare dell’immagine e dell’identità dell’analisi collettiva e di Fagioli per le persone che
potevano a un certo punto apparire inopinatamente in vista, l’abitudine
di designare come rappresentanti dell’analisi collettiva i più malleabili,
ovvero “immagini” create direttamente da Fagioli, facilmente controllabili ed esautorabili.
Questo stato di cose, che non si è mai chiarito e a tutt’oggi non è chiaro,
è andato progressivamente radicalizzandosi: il gruppo viene ancora chiamato a difendere la propria identità da pretesi attacchi esterni, quantunque
si cominci a capire che l’impresa “comune” di fatto non esiste.
Sono cose comprensibili: un uomo che ritiene di aver dedicato la propria vita a un’opera altruistica, e di aver richiesto anche sacrifici alla
propria famiglia pur di portarla avanti, è evidente che poi ne rivendica il
marchio pensando che tutti gli altri ne abbiano comunque ricavato qualcosa: dalla cura “gratuita” a un mestiere, a guadagni più o meno lauti, a
una notorietà. Dunque presumibilmente Fagioli si considera un benefattore e considera che tutti i partecipanti all’analisi collettiva gli debbano
dei ringraziamenti e un comportamento adeguato al debito che avrebbero
contratto con lui: dal suo punto di vista chi non si attiene a questo schema
è evidentemente in mala fede e vuole appropriarsi di qualcosa che non è
suo.
Sui rapporti
115
È in questa chiave che vanno visti i sei casi emblematici illustrati in
questo capitolo10 e le reazioni al blog, nei confronti del quale potrebbero
perfino ricorrere accuse di strumentalizzazione e appropriazione di una
storia. Dell’impresa collettiva, di ciò che ne è stato, non è dato invece
discutere.
Ed è conoscendo questi risvolti che si può meglio capire anche la vicenda dei rapporti con le istituzioni e i personaggi esterni all’analisi col10I sei casi sono detti “emblematici” per due motivi: perché attestano in modo incontrovertibile una pratica di utilizzazione di altrui competenze e identità, e perché mostrano i meccanismi di tale pratica e la sua ripetitività.
Per quanto concerne l’incontrovertibilità, è particolarmente impossibile riguardo
a quei casi sostenere quanto in analisi collettiva viene affermato riguardo alle
testimonianze raccolte nel primo capitolo di questo libro, e cioè non avere esse
diritto ad esistere trattandosi di pettegolezzi, maldicenze, falsità sostenute da un
intento diffamatorio. Tranne uno purtroppo scomparso, i soggetti dei sei casi stanno lì con le loro vite ad asserire il loro diritto a dare la propria versione dei fatti
oltre che a comprovare la veridicità dei dubbi aspetti della pratica in cui sono stati
coinvolti, veridicità comunque sostenuta da atti pubblici e dichiarazioni di terzi.
Per quanto riguarda i meccanismi, preme qui sottolinearne uno fondamentale.
Esso risale al fatto che tutti i soggetti in questione, tranne uno, hanno intrattenuto
con Fagioli, per un periodo più o meno lungo e in una o altra forma, un rapporto
di terapia, e che sta nelle cose che di tale rapporto egli si sia servito prima per
convogliare le identità e competenze di quei soggetti alla realizzazione di sue
finalità dichiarate collettive ma in realtà private e poi per motivare e giustificare il
loro allontanameno e la loro demonizzazione quando quelle competenze e identità
non gli servivano più o minacciavano di fargli ombra.
Per quanto riguarda la ripetitività, essa va vista sotto due aspetti: il meccanismo
posto in atto è facilmente riscontrabile nella storia di altri movimenti e ideologie e
il numero stesso dei casi coinvolti mostra che non si tratta di qualcosa di sporadico
motivato dai comportamenti di qualche singolo, ma strutturale e ripetitivo. E, a
proposito di ripetitività e a sua conferma, oltre ai sei casi menzionati nel blog
ne va sia pur rapidamente menzionato un altro, di particolare emblematicità e
spessore, delineatosi nel tempo intercorso tra il blog stesso e la pubblicazione di
questa sua sintesi. Quello per cui la titolare della Casa editrice che per trenta anni
ha sostenuto la pubblicazione e la presenza di quei libri senza i quali Fagioli sarebbe stato nulla ha visto sottrarsene i diritti a favore di una neonata Casa Editrice.
Ancora una volta l’operazione è giustificata con il fine di prevenire anche la semplice possibilità di una appropriazione di un bene che dovrebbe restare pubblico e
collettivo; ma, guarda caso, la nuova Casa editrice, denominata “L’asino d’oro”, è
gestita da un membro della famiglia del terapeuta. Pubblico-privato. A commento
viene bene citare queste parole di Todorov (1997): «Tre grandi caratteristiche di
ogni regime si presentano agli occhi di chi lo voglia analizzare: 1) si richiama a
un’ideologia; 2) usa il terrore per orientare la condotta di una popolazione; 3) la
regola generale di vita è la difesa dell’interesse privato e il regno illimitato della
volontà di potenza».
116
Il paese degli smeraldi
lettiva, nel cui svolgimento le accuse di strumentalizzazione e appropriazione sono sempre rivolte agli altri e mai viste come proprie modalità.
Ogni personaggio che ha a che fare con l’analisi collettiva viene presentato secondo uno schema ormai consolidato: grande entusiasmo iniziale,
atteggiamento seduttivo e plaudente in sua presenza, sorrisi e cordialità,
poi, se all’interno dei seminari qualcuno dimostra stima e apprezzamento, o adombra un confronto di immagine o di identità, si va giù in modo
duro con critiche a volte velate («non ha capito niente», mentre l’ultimo
dell’analisi collettiva è un genio poiché partecipa a una storia geniale), a
volte esplicite («è un frocio, un vecchio rincoglionito, non sa quello che
dice»), oppure si passa al doppio binario («sì, ma queste cose è meglio
non dirle in pubblico, sono troppo avanzate perché le possano capire»).
Decine di personaggi pubblici sono stati passati così al setaccio, sfruttati
per il nome o l’impatto sulla stampa e poi abbandonati (il caso, pubblico,
di Bertinotti docet) fino a divenire sinonimo di gente magari anche onesta,
ma incapace di capire veramente. Il bello è che continuano a essere usati
in modo strumentale per avere un qualche accesso alle istituzioni accademiche o di informazione e che nessuno trova odiosa questa pratica, anzi la
si considera molto intelligente.
Un’ultima nota sulle istituzioni: nel corso del tempo si è assistito a un
viraggio per cui il gruppo, un tempo fiero nemico delle istituzioni, sarebbe
diventato affamato di riconoscimenti ufficiali e di titoli accademici. Nel
blog tutti questi passaggi sono stati sottolineati, dando voce a osservazioni che, fatte dal singolo, restavano nell’incertezza, e dando sostanza
a metafore come quella dei “vestiti dell’imperatore” o del “paese degli
smeraldi” che fa da titolo al presente volume.
1. All’interno
a. Amicizie, amori, comportamenti, timori
Sapessi quanti “amici” ho avuto all’interno dei seminari, gente che dichiarava di nutrire sincero affetto, a volte persino amore nei miei confronti, e poi tutto si dissolveva improvvisamente come una bolla di sapone,
magari per aver contraddetto una frase del maestro, per non aver avuto
un atteggiamento conforme. Tutto procede bene se si è allineati, si va al
seminario e agli incontri come vanno i cattolici a messa, che poi si sentono
a posto con la loro coscienza e liberi di ferire gli altri perché la loro verità
è l’unica! Se c’è una dissonanza cominciano a dirti: «Sai, mi fai star male,
Sui rapporti
117
dovresti metterti in crisi, prima eri diversa, non mi corrispondi più», poi
passano alle interpretazioni gratuite, che nessuno ha mai chiesto. Non so
cosa ho di diverso da quelli che ancora frequentano i seminari, ma so bene
cosa ho provato quando le persone che amavo o stimavo sono state denigrate pubblicamente e poi scansate come la peste! Viene il sospetto che
tante persone siano state allontanate perché troppo intelligenti e critiche,
potevano dare fastidio al “coro” che diceva: «Massimo ci ama, noi dobbiamo amare lui, i nostri rapporti personali non contano!» È in nome della sua
teoria, che chiamano teoria degli affetti, che si compiono simili misfatti. La
storia della Chiesa insegna… Mary
L’analisi collettiva fabbrica pure coppie, in continuazione, è la più prolifica agenzia matrimoniale del mondo, si fanno e si disfano: quanta sofferenza, quante separazioni che potevano essere evitate, quanta violenza in
quei rapporti sempre troppo temporanei e precari, quanto squallore. Scampato secondo
So che per i frequentanti l’analisi collettiva è usuale l’endogamia. Perché
questa singolare regola? Per quel “sentire dentro” che dovrebbe portare a una
corrispondenza di amorosi analizzandi? O per quel discorso dell’identificazione, riferita al rapporto uomo-donna, che c’è per chi non fa parte di questa
storia, mentre per chi ne fa parte ci sarebbe tutta la magia di ritrovare nell’altro la propria immagine interna, il proprio primo anno di vita? A me sembra
che queste parole, nei fatti, si traducano nella possibilità e nella “autorizzazione” a passare da un partner all’altro, in tempi più o meno lunghi, secondo
la voglia o gli ormoni. Mi viene da pensare che in questi rapporti endogamici
ci sia una grande superficialità o un grosso opportunismo. Rowan
Un giorno, all’Aula Magna del La Sapienza, mi trovai per necessità a
occupare uno dei posti delle quattro file centrali subito dietro le file riservate ai relatori e a Fagioli con la sua corte. Un attento e zelante organizzatore
mi spiegò che per motivi di “regia” quelli erano posti riservati agli specializzandi; alle mie rimostranze, ero uno specializzando anch’io, mi fece
capire che c’erano motivi di telegenicità! Solo l’arrivo della mia donna di
allora, cui cedetti il posto, mi salvò da conseguenze più incresciose e dalle
solite interpretazioni. Lettore perplesso
Ho sempre trovato di un’arroganza al limite della violenza occupare
8-9-10 posti all’Aula Magna della Sapienza per gli altri “compagni”. Le
famose regole di civiltà, delle quali ci si dice che vanno rispettate sem-
118
Il paese degli smeraldi
pre e comunque fuori del setting, vengono calpestate come niente fosse.
Mi ricordo che arrivavo e dovevo sedere sui gradini mentre accanto a me
c’erano decine di posti vuoti, occupati con sciarpe e giornali per gente che,
comodamente, arrivava anche dopo l’inizio. Rowan
Due domande. La prima è relativa alla fugace apparizione del Maestro
su Rai Uno e all’averlo sentito parlare dell’importanza della rete sociale
per le persone con disturbi psichici: ho sentito bene? La seconda viene di
conseguenza: all’analisi collettiva non si può dire che non ci siano tanti
contatti, allora che caratteristiche dovrebbe avere una rete sociale per essere d’aiuto a una persona in difficoltà, almeno per impedirgli di fare del
male a se stessa? Freeasabird
Se non sbaglio la rete sociale è qualcosa che consente a coloro che escono da ricoveri o da periodi di crisi di trovare nel loro ambiente appoggio,
solidarietà e anche aiuto materiale per evitare ricadute, nuovi ricoveri o crisi più gravi. Mi pare, invece, che non si possa certo parlare di rete sociale
nell’analisi collettiva. È successo di trovarsi al centro dell’attenzione dopo
un’interpretazione benevola e, al contrario, di essere evitati come appestati
dopo una frustrazione, scansati e criticati anche dai compagni da sempre
più vicini. Spesso non ti rivolgono neanche la parola, gli sguardi sono di
disprezzo, ma a volte anche di piacere perché, finalmente, è toccato anche
a te… Lettore indignato
La grande invenzione è l’accusa di “anaffettività” comminata senza alcuna affettività: una parola terribile che, utilizzata così, annienta chi la riceve. Tutta questa affettività lì non si vede proprio. Piero
Per quello che ho conosciuto, per i rapporti che ho avuto con gente
dell’analisi collettiva, mi sono convinto che lì dentro è pieno di soggetti
borderline, Asperger o qualcosa del genere, che lì possono starci anche
cento anni perché non è quello il modo di trattare queste patologie. Gli
altri prima o poi se ne vanno, ma i più, i ventennali o trentennali, felici di
stare lì da tutto quel tempo, sono più o meno come erano all’inizio, forse
con qualche bagaglio culturale in più, ma affettivamente ed emotivamente
gli stessi. È un po’ impietoso, ma non mi esprimerei così se non ci avessi
pensato a lungo. Nota a pedica
Scusa, ma si rischia la confusione. Hai mai visto davvero un borderline
o un Asperger? Sei in grado di valutare la differenza con il “borderline
Sui rapporti
119
fagioliano” o l’”autismo fagioliano”? Bisogna fare attenzione perché qui è
stato posto il problema di diagnosi di schizofrenia a proposito di persone
che guariscono in settimane o mesi e, parallelamente, delle stesse diagnosi
per gente che finisce in clinica e forse da questa diagnosi, con tutto ciò che
ne consegue, non verrà mai fuori o lo farà con estrema difficoltà. L’analisi
collettiva non è un luogo di contenimento di patologie psichiatriche, la
patologia psichiatrica non vi ha (e forse non vi ha mai avuto) cittadinanza.
Il punto è invece quello del “fenomeno o gruppo carismatico”. Un punto
importante, questo, per cui persone altrimenti definibili sane entrano in un
“sistema tolemaico” e su certi argomenti, certe aree, si rivelano di fatto non
disponibili al confronto. Albertina Seta
Mi incuriosisce la differenza tra un Asperger e un Asperger fagioliano.
Personalmente non ho mai sentito Fagioli affrontare questi discorsi: “borderline” l’ho sentito dire per la prima volta da Bruno Callieri in un’Aula
Magna del 1993 (Callieri, 1994), ero molto fagioliano allora e pensai che
questo Callieri si era inventato qualcosa di poco interessante, poi sono venute altre letture… Piero
Caro Piero, l’Asperger (autismo) fagioliano è una battuta. Ma neanche
tanto. Quando Fagioli dà dello schizofrenico, dell’autistico, del... frocio,
lo fa in un contesto in cui queste situazioni non possono accedere, se non
molto sporadicamente. Quindi (domanda senza polemica) perché lo fa?
Nel corso di circa trent’anni, mi ricordo di aver visto poche situazioni francamente patologiche, ma il riferimento alla psicopatologia è stato costante
e ha “anche” funzionato da deterrente in modo subliminale. All’epoca di
Villa Massimo i malati veri e propri, come ha raccontato Nicola Lalli, venivano soccorsi da lui e da pochi altri, e fin da allora non trovavano, non
potevano trovare nell’analisi collettiva un luogo idoneo alle cure di cui
avevano bisogno. Le cose poi sono cambiate e sono stati gli stessi psichiatri e psicoterapeuti formatisi all’analisi collettiva a svolgere queste
funzioni psichiatriche, ma su questo non c’è sufficiente materiale clinico
pubblicato.
Vorrei aggiungere che non sono i singoli a essere borderline, forse è il
gruppo nel suo insieme a rappresentare un’organizzazione difensiva tipo
borderline. Il discorso sul borderline non riguarda i singoli, ma una strutturazione del gruppo, di resistenza al cambiamento. È la proposta di riflettere
su questa difficile cosa per cui nessuno è malato, ma si crea un meccanismo
che può far stare male gli altri, quelli fuori dal gruppo. Mentre per chi sta
dentro è garanzia di stabilità. Albertina Seta
120
Il paese degli smeraldi
Ho pensato molto a questa cosa. Ho avuto difficoltà tra borderline e
Asperger, che è autismo ma mica tanto o, se lo è, lo chiamano ad alto funzionamento. Ho letto tanto: a parte i classici Kohut, Kernberg, anche Lalli e
qualcosa di Migone e altri che ora non ricordo. Affascinante la definizione
del gruppo: mi serve un po’ di tempo per pensarci, però effettivamente alcuni comportamenti sono simili per tutti, anche nel privato, per cui non si può
escludere. Il modo con cui questa gente intraprende, mantiene e poi chiude i
rapporti è quanto di più allucinante e contradditorio si possa immaginare; la
facilità, la superficialità e talvolta la cattiveria con cui si comportano in certi
frangenti danno a pensare che si tratti di gente che non comprende gli affetti
e la profondità degli stessi, sembra che le reazioni al dolore altrui spesso
siano tali per essere state apprese, non perché le sentano davvero. Piero
Il “soggetto” ha scritto delle belle cose, tanti anni fa, e alcuni di noi le
hanno trovate considerevoli come contributo di conoscenza metapsicologica e psicologica. Abbastanza presto, vista la personalità del “soggetto”,
la considerazione intelligente fu travolta dall’induzione allo schieramento
culturale e politico e alla rinuncia alla critica interna e dal coinvolgimento
affettivo anzitutto con il “soggetto”.
Si sa che, quando questo coinvolgimento accade, si perde in lucidità, in
equilibrio, si rischia di diventare fanatici e, diventandolo, si diventa anche
violenti: la verità è stabilita, non è più soggettiva-soggettiva e migliorabile, ma diventa, essendo unica, quella del “soggetto”, soggettiva oggettiva
e intoccabile, diventa esclusivo possesso e assoluta originalità storica del
“soggetto” e, in riverbero lunare, dei soggettini, inizio epocale, invenzione
di sanità e di cura possibile per la primissima volta nella storia dell’uomo,
come pensano di dimostrare i finalmente sani sempre sorridenti soggettini
perdendo in unicità, originalità e sanità soggettiva….
Poi ci sono gli altri, quelli di fuori, i chiari fuori che ancora non sanno
quanto sono scuri o del tutto neri, i soggetti esterni ancora ignari, non ancora venuti a conoscenza della buona novella, che ancora non sanno dell’assoluta unicità e originarietà di nascita, nascita forse senza madre ma sicuramente almeno senza padri, del “soggetto”. Non nascita comune mortale
dunque, come quella di tutti i comuni mortali portatori, almeno a livello di
fantasia innata, di morte.
Allora, viste cose così, preso il buono teorico e/o pratico che ha trovato,
capita che uno, standoci stretto, o avendo dato segni di sofferenza, gira i
tacchi e se ne va. Pace. Pace quanto basta per allontanarsi e vivere la propria
vita. Dovrebbe essere con un di più, ad allontanamento avvenuto, a separazione avvenuta. Ci sono, mi pare, delle paure da vincere, in certi momenti.
Sui rapporti
121
Non si muore, fuori del bagno dell’analisi collettiva. È possibile che, se è
passato il pensiero che siamo tutti nati con l’istinto di morte e che ce la cavammo per il momento con una nostalgica commovente memoria di mare,
ma, poi, non appena ci venne fame e cercammo mater materia anche lì
succede un gran casino, si impazzisce, si diventa schizofrenici, ci si scinde,
allora non appena fuori del bagno dell’analisi collettiva uno possa sentirsi in
pericolo, esposto a quel pericolo che pensa stia portando con sé da sempre,
fin dalla nascita e dalla prima poppata, e pensi che solo stando continuamente immerso in quel bagno di rapporti, in quella depurazione controllata
dell’aria che si respira, per sempre così immerso, in mezzo agli altri soggettini saturnini possa sfuggire ad un destino, ad un istinto innato, di morte...
Anche la teoria ha la sua importanza. E, a mio parere, quella teoria, visti
e sottolineati per non dimenticarli certi aspetti di errore insieme ad altri
di terrore, non è da buttare, è da rivedere, eliminando tutte le incoerenze dovute al mantenimento di aspetti assai problematici della psicoanalisi
del passato e l’applicazione della linea teorica che definii psichiatrica al
bambino nascente e ai suoi primi rapporti con la madre per applicarla solo
all’adulto o al bambino più grande che nel rapporto con una madre aliena e
un padre altrettanto negativo, si ammala. Se questo voler né accettare tutto,
né eliminare tutto, ma fare le cose in modo intelligente e mirato, se questo
dovesse rattristare qualcuno, beh, un po’ di tristezza questa storia la comporta - un po’ di tristezza non mi pare grave, coi tempi che corrono: non
vorremo mica copiare i falò dei soggettini saturnini! Romeo
b. Sei casi emblematici
Il mio rapporto con Fagioli, per lo meno per quanto riguarda Villa Massimo, cessò nel novembre 1980, quando il Consiglio d’Istituto votò a maggioranza che la sua attività non poteva proseguire, perché mancavano i
presupposti per definirla ricerca scientifica. Ho continuato a frequentare
Fagioli dato che avevamo uno studio in comune, ed è doveroso che io
ricordi un particolare. Egli aveva smesso da tempo di fare terapie private,
pertanto si era cominciata a ventilare l’idea di vendere lo studio, dal momento che eravamo comproprietari. Poiché non si presentavano occasioni
accettabili, almeno per me, egli rimandò per parecchio tempo la vendita,
ovviamente tutto a suo svantaggio. Questi e altri comportamenti mi avevano dato la possibilità di riscontrare in Massimo una capacità di empatia,
lealtà e affidabilità, caratteristiche per me molto importanti e che erano alla
base della mia stima, anche per quanto lui scriveva.
122
Il paese degli smeraldi
Poi c’è stato un lungo intervallo di separazione: ci siamo incontrati nel
maggio del 1992, iniziando una collaborazione con i seminari tenuti nel
mio Dipartimento che continuarono con gli Incontri presso l’Aula Magna
dell’Università La Sapienza. Molti di questi incontri furono raccolti nel libro
Il processo terapeutico in psicoterapia (AA. VV., 1994). Nell’introduzione,
così mi esprimevo: «Il progetto di un ciclo di seminari a più voci è nato
dalla constatazione dei numerosi problemi, nuovi e diversi, riguardanti la
psicoterapia e dall’esigenza di proporre una riflessione che non sia né quella
autoconfermantesi dei gruppi chiusi, né quella che ognuno di noi elabora
nel chiuso del proprio studio professionale. Dicevo prima seminari a più
voci, il che vuol dire possibilità di un confronto tra posizioni anche diverse,
ma comunque unite dall’avere un comune oggetto di interesse: la psicoterapia come processo trasformativo». Come si vede, avevo le idee ben chiare
sulla necessità di uno scambio dialettico e sulla negatività di una posizione
ideologica. Ma questi incontri proseguirono negli anni successivi con ben
altre modalità, fino a giungere agli interventi a una sola voce, benché recitati
dagli “attori” volta per volta prescelti da Fagioli. È ovvio che una tale deriva
non poteva che comportare una mia drastica presa di distanza.
Mi interessa, comunque, riportare un aspetto che mi ha fatto riflettere,
forse con un po’ di ritardo: constatare un cambiamento di Fagioli, che sembrava essere l’antitesi di quello che avevo conosciuto. Un Fagioli capace di
trasformare la realtà a suo piacere, di non tenere minimamente conto delle
persone, ma di utilizzarle esclusivamente per fini personali. Nel 1996 avevo
pubblicato il libro La passione sonnambulica, una raccolta degli scritti più
interessanti e mai tradotti in italiano di Janet. Bastava solo dargli uno sguardo, o almeno leggere la prefazione, per comprendere che il suo scopo fondamentale era dimostrare che Janet aveva descritto fenomeni e dinamiche
psichiche molto prima di Freud e dimostrare, quindi, la tendenza di Freud
a mistificare e falsificare eventi incontestabili pur di affermare la priorità
delle sue scoperte rispetto a Janet. Avevo inviato il libro a Fagioli e qualche
tempo dopo lo avevo invitato alla presentazione: fui molto colpito dal suo
intervento. Sia perché sosteneva che Janet non aveva capito niente sia perché affermò che, se qualcuno aveva tentato di fare una teoria sull’inconscio,
questi era Freud. Quello che più mi colpì fu che Fagioli, con questa affermazione, cercava soprattutto di squalificare il mio lavoro, che era stato intenso
e faticoso. Se avessi avuto un minimo di preveggenza, questo episodio poteva essere un indicatore della sua inconscia identificazione con Freud.
1999, Napoli. Credo che in quell’occasione venne fuori un altro aspetto
molto negativo di Fagioli: quello di attaccare pubblicamente il coordinatore del convegno, basandosi non su un ragionamento, ma sulla sceneggiata
Sui rapporti
123
degli applausi e delle risate dei suoi adepti che gioivano per la difficoltà in
cui era stato messo.
2000, Aula Magna. Fagioli mi dice che era d’accordo sulla mia proposta di fare una breve presentazione della seconda edizione del Manuale di
Psichiatria e Psicoterapia. Ad esso avevano contribuito alcuni suoi seguaci, oltre che parenti. La presentazione si limitò a far declamare alcuni
brani che, guarda caso, erano esclusivamente quelli scritti dai suoi seguaci
e parenti: bisogna tener conto che questi scritti corrispondevano a circa 40
pagine sulle 1.200 del volume. Questa volta fui meno ingenuo e percepii
emotivamente e cognitivamente che Fagioli non solo annullava tutto ciò
che non provenisse da lui, ma anche che non era in grado di rispettare le
promesse. Erano gli inizi di una rapida escalation che lo porterà rapidamente ad attaccare non solo i “presunti nemici”, ma anche e soprattutto coloro con cui poteva avere un debito di riconoscenza. Anzi, direi che quanto
più questo debito era forte, tanto più massiccio era l’attacco. Quali siano i
motivi di questo cambiamento è un problema che richiederebbe uno spazio
troppo ampio. Nicola Lalli
Sono molto felice che sul blog sia arrivato Nicola Lalli. Ne approfitto
per chiedergli della storia di Nuova Psichiatria. Credo sia molto importante
chiarire come quella non fu una storia di “portare l’analisi collettiva in
braccio ad Alleanza nazionale”, soprattutto ora che si fa quasi intendere
che la “svolta” bertinottiana sia dovuta alla separazione di Fagioli da lui,
Nicola Lalli. Astrantia
Fin dai primi anni Ottanta il sottoscritto, insieme ad altri colleghi, ha
cominciato a sostenere la necessità di rivedere e soprattutto ampliare la
legge 180/833 (detta anche legge Basaglia), perché ritenevamo che fosse
assurdo regolamentare la tutela della salute mentale con soli cinque articoli
di legge. Quando la On. Burani Procaccini presentò un progetto di legge
per modificare e ampliare la 180/833, ci sembrò che fosse giunto il momento di intervenire nella discussione. Anche perché la Burani Procaccini
si dimostrò disponibile ad accogliere eventuali pareri di psichiatri qualificati. Pertanto costituimmo un gruppo denominato “Nuova Psichiatria”
che si proponeva di fornire un contributo articolato, critico e costruttivo,
anche per modificare alcuni punti di tale progetto di legge. Faccio presente
che la Burani Procaccini era di Forza Italia e non di Alleanza nazionale,
ma soprattutto che questo progetto di legge per un certo periodo di tempo
risultò trasversale rispetto alle varie forze politiche. Con un intenso lavoro
scrivemmo un documento (che si può trovare sul mio sito, alla voce Area
124
Il paese degli smeraldi
di Confronto) che fu apprezzato e che dette luogo anche a un’audizione a
Palazzo San Macuto nell’ottobre 2001. Inoltre continuammo ad avere numerosi incontri con le persone più diverse, soprattutto con primari di DSM,
colleghi, associazioni di familiari di malati mentali ecc..
Voglio sottolineare che il gruppo di Nuova Psichiatria era composito:
due partecipanti erano della sinistra radicale, altri di sinistra e uno solo di
Alleanza nazionale, persona stimabilissima, tecnicamente preparata, nonché presidente di un’associazione di familiari di malati mentali.
Le caratteristiche fondamentali del gruppo erano: 1) essere rigorosamente apolitico, nel senso di essere aperto a tutti, senza alcun patrocinio politico; 2) essere rigorosamente autofinanziato: avevamo costituito un fondo
comune per le numerose spese relative a pubblicazioni, traduzioni, spedizioni ecc. 3) essere rigorosamente lontano dall’analisi collettiva, nel senso
che mai una volta si è parlato di questo gruppo durante i nostri lavori.
Questa è la storia, con ampia possibilità di documentazione. Mi fermo
qui, ma non prima di affermare che se Fagioli ha parlato di un mio tentativo
di “«portare l’analisi collettiva tra le braccia di Alleanza nazionale» e altre
amenità del genere, si tratta di una menzogna. Nicola Lalli
Alla vicenda di Nuova Psichiatria si è fatto cenno in modo addirittura
sguaiato su questo e su altri blog (“Aprileonline”). Anche se si tratta di un
episodio in un certo senso marginale, parliamo comunque di ambiti pubblici, che impongono che venga fornita a chi vi partecipa una versione di fatti,
precisa e circostanziata, e che sollecitano una piena assunzione di responsabilità, dunque l’uso del proprio nome e cognome. Ho partecipato all’attività
di quel gruppo firmando insieme agli altri suoi componenti diversi interventi e proposte, apparsi in rete all’epoca e tuttora reperibili in vari siti internet,
tra cui quello della Camera dei Deputati in seguito a un’audizione da parte
dell’On. Burani Procaccini. Ho anche firmato un commento sulla proposta
di quella stessa On. apparso su “Il sogno della farfalla” (Seta, 2002).
Da tempo vorrei ricostruire quella storia e penso che prossimamente
lo farò per la rivista psichiatrica online Pol.it, da cui iniziai a occuparmi
del problema della 180 in occasione del suo ventennale (1998). In quella
rivista lavorammo allora (sono passati quasi dieci anni) a uno Speciale
180, tuttora accessibile, in cui compaiono diverse mie interviste a esponenti della psichiatria e della politica, in particolare una cui tengo molto
(Seta 1998) al prof. Giovanni Berlinguer, che di quella legge ritengo il vero
artefice politico.
Insisto su questi particolari perché penso che i contenuti di un’elaborazione, e quella di Nuova Psichiatria è stata un’elaborazione lunga e complessa,
Sui rapporti
125
siano ciò che conta e meritino un’attenzione un po’ più seria di quella che da
varie parti è stata loro concessa. Per quanto mi riguarda, c’è una mia coerenza nella visione del problema 180 che ho sempre mantenuto ogni volta che
me ne sono occupata (incluso il periodo di Nuova Psichiatria), e che si può
rintracciare a partire dall’intervista che ho citato, la quale a propria volta
rimanda alla stagione dell’interesse per la medicina e la politica di un intero
movimento che negli anni Settanta girava attorno a riviste come “Fogli d’informazione” e “Inchiesta”, nonché agli scritti di Berlinguer e Maccacaro,
del quale ho fatto attivamente parte, seppure da studentessa.
Per quanto riguarda il post di Nicola Lalli sull’argomento, confermo pienamente le sue affermazioni e aggiungo qualcosa. Nuova Psichiatria non
era targata politicamente, ne facevano parte persone di varia estrazione e
storia politica che erano lì per occuparsi di uno di quei problemi che oggi
sempre di più penso possano avere soluzione solo se diverse parti politiche
riescono a discuterne insieme (è la questione della trasversalità che, ad
esempio, tanto peso ha attualmente nelle lotte sociali contro la nocività). Il
signore di Alleanza nazionale presente, come è stato già detto, era lì come
rappresentante di un’associazione di familiari di malati, dunque padre di un
paziente psichiatrico, e non come militante di Alleanza nazionale. Questa,
peraltro, fu tra gli “affossatori” della proposta Burani Procaccini, come risulta dai lavori della Commissione. La proposta, dopo un primo momento
di ascolto non pregiudiziale, fu da noi molto criticata nelle sue versioni
successive. Come di tutto ciò si sia potuto dire che la nostra era un’operazione di destra non so. Albertina Seta [Sulla questione si veda anche il post
di S. Casini nel cap. VI]
Di quando si cominciò a parlare di Alleanza nazionale non ho memoria
precisa, ma ricordo perfettamente la campagna denigratoria nei confronti di
Nicola Lalli: in occasione dell’inaugurazione delle lezioni di Chieti nel 2002
pare si fosse avvertito in aula un certo torpore; Fagioli arrivò poi ad affermare, ai seminari, che era stata tutta colpa della presenza della compagna di
Lalli (sic!). Migliaia di persone addormentate da una donna sola! Mary
Sto leggendo questo blog perché sono Professore associato nel settore
disciplinare della Psicologia dinamica a “La Sapienza” di Roma: sono
dunque interessata a studiare fenomeni che sono nati parallelamente
all’evolvere della psicoterapia in Italia. Precedentemente avevo letto con
attenzione la recensione di Antonello Armando su “Psicoterapia e Scienze
Umane” che ho trovato molto interessante e complessa. Sicuramente non
mi sarei accorta tanto facilmente del blog se non fossi ancora la compa-
126
Il paese degli smeraldi
gna del Prof. Lalli. Inutile preoccuparsi delle fughe di notizie: già da anni
avevo saputo, ad esempio, che Fagioli mi aveva definita pazza con i suoi
fagiolini.
Strane connessioni tra frequentatori dell’analisi collettiva e persone che
io conosco. Sul momento avevo riflettuto sulla necessità e possibilità di
esprimere una qualche reazione, visto che mi era stato sottolineato che
il mio nome era stato scandito con precisione, altrimenti il frequentatore
dell’analisi collettiva non avrebbe avuto modo di raccontare il fatto alla
nostra conoscenza comune. Avevo pensato di dover reagire, soprattutto
perché tra i banchi dell’università dove faccio le mie lezioni ci possono essere frequentatori dell’analisi collettiva e mi dispiace per loro che debbano
pensare di avere un’insegnante schizofrenica. Anche se forse qualche volta
a loro - ebbene lo ammetto - posso far venire sonno.
Ho rinunciato ad avere una reazione perché dopo il primo impatto essa si
è palesata in forma di ironia espressa con amici e conoscenti, divertendomi
insieme a loro. Molto banalmente io credo che dietro questo atteggiamento
ci sia stata una forte rabbia nei miei confronti, forse perché Fagioli deve
aver connesso – con qualcuna delle sue interpretazioni bizzarre - il distacco
del Prof. Lalli alla mia negatività. Un po’ come fanno le mamme quando il
figlio adolescente comincia a fare scelte nuove e loro non possono accettare che sia cambiato.
Se Fagioli avesse avuto un po’ di senso di realtà, forse si sarebbe reso
conto che: 1) non ho mai avuto alcuna influenza professionale sul Prof.
Lalli perché il nostro è un rapporto basato sull’accettazione della differenza
e perché io sono stata sempre in una posizione di apprendimento, rispettosa
della sua grande esperienza; 2) non ero nella posizione di poter influire su
un grande gruppo e dunque, se fosse vero quanto egli ha affermato, vuol
dire che questo grande gruppo ha problemi molto seri.
L’unica cosa seria che posso aggiungere è che la mia piccola sventura
con il Dr. Fagioli dimostra che egli, come molti psichiatri, usa le diagnosi
al posto di attribuzioni negative che possono essere usate al loro posto
quando il rapporto tra due persone non è un rapporto medico-paziente. E io
ho conosciuto il Dr. Fagioli al di fuori di qualsiasi setting. Quello di usare
violentemente la propria presunta competenza psichiatrica è un grave errore che di solito viene evitato se gli psichiatri e gli psicoterapeuti fanno un
buon lavoro terapeutico su loro stessi. Infine vorrei dare testimonianza del
mio estremo stupore – essendo abituale frequentatrice di convegni nazionali e internazionali, spesso popolati da professionisti e scienziati che affrontano anche seri conflitti (teorici) tra loro - del continuo scivolamento di
contesto cui ho assistito, che mi ha fatto ritenere che la scienza non avesse
Sui rapporti
127
più spazio in questo gruppo. È anche questo il motivo per cui ho deciso di
non dare rilievo all’attacco alla mia persona. Silvia Mazzoni
Ho visto Buongiorno notte di Bellocchio. Vi ho letto una critica agli
ultimi sviluppi dell’analisi collettiva. Voi cosa ne pensate? Catone
Recentemente Bellocchio ha, come al solito suo, avuto un’idea: quella
di raccontare la storia dell’amante di Mussolini morta suicida e i risvolti
psicologici e le cause scatenanti il suicidio stesso. Intuizione geniale di
Bellocchio? Credo di sì, dato che dopo un primo momento di approvazione generale si e passati senza colpo ferire al capovolgimento totale degli intenti del cineasta piacentino. Bellocchio subito accusato di utilizzare
l’analogia Fagioli-Mussolini e amante di Mussolini-analisi collettiva per
rivolgere un attacco furioso all’analista. Complicatus
Interessante, molto interessante! Si parla di nuovo del concetto di inversione/capovolgimento. Domandone: cosa determina il cambio di rotta?
Rowan
Caro amico, il problema è complicato, anzi complicatissimo, ed esorto
tutti quelli che hanno un pensiero in merito ad affrontare l’argomento. Io
sto cercando di riordinare i ricordi dato che ho vissuto Bellocchio fin dai
tempi della “fellatio”. Una cosa posso dire: Bellocchio è stato utilizzato fin
dall’inizio per il consenso e l’immagine pubblica che se ne poteva trarre
sfruttando la sua notorietà. Ma perché ciò fosse possibile era necessario
convincere lo stesso Bellocchio che la malattia mentale per lui era sempre
dietro l’angolo. Complicatus
Nei suoi ultimi film, a partire da Il principe di Homburg, Bellocchio è venuto svolgendo una critica sempre più spietata e feroce del Nostro, critica che
ha raggiunto il massimo ne Il regista di matrimoni, ma sembra andare ancora
oltre con questo progetto sulle donne del duce. Che tale progetto e i film precedenti gli vengano interpretati come negazione è ovvio, resta da vedere se è
negazione o visione altra. Da notare è che l’interpretazione della negazione è
sempre rimasta generica, nel senso che non si sono mai resi espliciti i contenuti ferocemente critici dei film, un altro esempio di politica dell’oblio.
Ci sono misteri. Uno è: quanto Bellocchio è consapevole di quei contenuti? Se lo è, tanto di cappello. Dà un esempio di gestione corretta del rapporto
con il Nostro: critica ferocemente, istruito a ciò dal suo pregresso rapporto
con la Chiesa, ma mantiene il rapporto forse perché sa di suoi aspetti positi-
128
Il paese degli smeraldi
vi, aiutato in questo da un’indipendenza interna che gli viene dalla sua forte
identità, dovuta anche agli esecrati film del primo periodo. Un bel paradosso: quanto di più esecrato facilita il mantenimento del rapporto. Antonello
Mio padre in alcune occasioni mi ha portato alle mostre de Il coraggio
delle immagini (AA.VV., 1994) e proprio in queste occasioni ho notato
comportamenti assurdi da parte di tutti. Dico solo che a Barcellona, mentre
pioveva, si è attivato il “mondo fagiolino” alla ricerca immediata di un
ombrello perché l’onnipotente Massimo non poteva prendersi neanche due
gocce. È mai morto qualcuno bagnandosi un poco? Tragedia fu quando ne
serviva un altro per la fidanzata di turno. Questa è solo una piccola parentesi, ma che dimostra qualcosa di preoccupante. Fiammetta Cotti
Fiammetta, continua a rispettare le sensazioni che provi rispetto a tuo
padre, che ho conosciuto e molto stimato, e a quelli che dicevano di volergli bene e che lo hanno abbandonato. Non mi riferisco a quando si è
ammalato, ma a quando fu accusato di essersi appropriato della gestione
delle mostre de Il coraggio delle Immagini e di volersi sostituire a Massimo Fagioli. Lui, invece, si dette molto da fare e fece di tutto per proporle al
meglio delle sue possibilità e capacità.
Desidero dare, però, una mia visione degli avvenimenti che hanno determinato una sorta di “linciaggio”. Fagioli, quando si accorgeva di avere accanto
persone valide, intelligenti e perbene, come era tuo padre, prima le utilizzava
e poi, forse considerandole pericolose, dava loro la frustrazione che annichiliva ogni possibilità di reazione. Non solo, ma Fagioli, non separandosi mai dal
solito codazzo, costantemente plaudente e annuente, lo utilizzava come rinforzo; e non mi riferisco solo al codazzo logisticamente presente, ma anche
a colleghi di Sandro Cotti e ad alcuni psichiatri che facevano loro da eco. In
quelle condizioni alla persona veniva tolta la forza di reagire, avendo contro
non solo la “frustrazione” del proprio psichiatra, ma anche un gruppo ostile
sia dentro l’analisi collettiva che fuori. Anna Orlandini
C’era un convegno organizzato da Antonello, finanziato dall’Università
di Napoli. Massimo si presentò lì il venerdì e sorprese tutti aggredendo
Antonello, reo di considerare Freud ancora esistente quantunque morto.
Si badi bene: il titolo del convegno era stato concordato da Massimo e
Antonello. Ma durante l’estate Massimo, senza avvertire Antonello, era
arrivato alla conclusione che Freud non era mai esistito e si premurò di comunicarlo ad Antonello lì, in seduta plenaria, insultandolo anche. Grande
sconcerto nel pubblico, ma molti nei corridoi commentavano nello stile
Sui rapporti
129
tipico dell’analisi collettiva, ossia che era stato molto intelligente da parte
di Massimo farsi finanziare un convegno dall’Università di Napoli per poi
sputtanare il suo stesso promotore. Noi tre
«Si badi bene: il titolo del convegno era stato concordato da Massimo e
Antonello». Questo è proprio falso, e spero che il Prof. Armando racconti
finalmente la verità su come si svolsero le cose. È falso che il titolo del
convegno lo abbiano deciso insieme con Fagioli. Fagioli non era affatto
d’accordo e fin dall’inizio disse che non poteva esserci alcuna crisi del
freudismo dal momento che Freud non era mai esistito. Forse si tratterebbe
di disvelare alcuni passaggi che apparentemente sono senza significato, ma
fanno la verità sia storica che umana e, in alcuni casi, la verità scientifica.
Il titolo lo ha voluto tenere così il Prof. Armando, da solo, una imposizione.
Perché arrabbiarsi, dunque, se il Prof. Fagioli ha reagito a una impostagli
complicità con una proposizione che non ha mai condiviso? Pellegrino
Caro amico peregrino, ti ringrazio per la tua domanda perché scorgo in
essa un segno di attenzione nei miei confronti. Essa presenta tuttavia un
limite, un difetto, che risiede nel fatto stesso di essere stata posta. Davvero
tu ritieni che, dati i rapporti di allora con il mio fraterno amico, egli non sapesse? Che, stante il suo carattere, egli si lasciasse imporre qualcosa? Che
io, allora, avessi un potere e un’autonomia tali da imporgliela? Che non
sapendo, o subendo un’imposizione, abbia dedicato il suo tempo a scrivere
le relazioni dei suoi familiari? Che abbia realizzato una locandina senza
accorgersi di quello che scriveva? Suvvia! Orsù! direbbe Totò.
La mia risposta è dunque scontata. Di fatto egli sollevò riserve sul titolo
solo nel tardo agosto, a Palau, lui sì senza degnarsi di significarmele direttamente. Ricordo la mia sorpresa e anche la mia irritazione... stava facendo
quel giochetto che gli piace tanto, e in cui è recidivo, di invitare qualcuno a
sedersi con moine e sorrisi per poi togliergli la sedia sotto il sedere. Lui lo
chiama frustrazione, anzi frustrazione interesse, ma io non credo di essere
d’accordo con questa terminologia. Per me fu una nefandezza, e non fu
la sola (vedi, per stare solo a quella circostanza, ad esempio la nota 77 in
Considerazioni di un esegeta pigro).
Dicevo che ti ringrazio, e lo ribadisco, perché la tua domanda mi permette di ricordare che ad essa e ad altre avevo già risposto con quattro scritti:
la mia relazione di Napoli; Storia religione scoperta: teoria della nascita
e Cristianesimo; Considerazioni di un esegeta pigro; infine la recensione
a Lezioni 2002. Non è che ad oggi abbiano ricevuto molta attenzione, di
certo nessuna risposta, forse la tua domanda può servire.
130
Il paese degli smeraldi
Il fatto di Napoli e altri analoghi sono piccoli fatti, che però nascondono significati. In quegli scritti mi sono interrogato su quei significati, ho
formulato ipotesi, ho cercato di dare spiegazioni a una vicenda che per me
non è stata né facile né indolore. Dietro quei piccoli fatti ci sono questioni
immense (lo storicismo... la religiosità... la verità ...). Un grande merito
della vicenda di cui discutiamo è stato quello di averci portato a riflettere
su tali questioni: vogliamo dissipare questa ricchezza mettendoci a lanciare
reciprocamente accuse di falsità?
Un’ultima cosa. Nell’esegeta pigro scrivevo: «Mi è accaduto di avere
l’ingenuità non solo di voler dimostrare ad alcuni che non avevo sostenuto
ciò per cui venivo criticato, ma anche di sorprendermi di fronte alla reazione per lo più incontrata. Era come muoversi nel Paese degli Smeraldi.
Molti accoglievano quegli sforzi con una commiserazione da cui trapelava
la certezza che avessi effettivamente sostenuto quanto attribuitomi; e, insistendo io a chiedere se quella certezza si fondasse su una conoscenza diretta di quanto avevo scritto, rispondevano candidamente di non avere letto,
o che sì, avevano letto, ma ciò non contava perché qualsiasi cosa avessero
inteso, altri aveva certo inteso meglio». Ecco: quell’ingenuità l’ho avuta
ancora una volta, rispondendoti. Però sono passati anni: aiutami a credere
che la trasformazione esiste. Antonello
Non sono sicuro che la sensazione [che a Napoli nel 1999 si stessero
consumando nefandezze] fu di tutti, sicuramente fu la mia, ti assicuro che
anche solo assistere a questo fu penoso. Perché poi si assistette in silenzio,
fa parte di una vigliaccheria che in quel momento fu anche mia: di questo,
e anche di altro, mi vergogno ancora. Come mai io abbia potuto per un
periodo della mia vita abbassarmi a tale livello, considerato che il mio
carattere (sia prima che dopo tale periodo) è tutt’altro, fa parte dei grandi
crucci con cui sto facendo i conti. Posso solo dirti che da allora non fu più
lo stesso; poi, con l’inizio dell’anno successivo e la malattia e tutto il resto
sono andato via, con grande dolore dapprima e poi con grande rammarico
per il tempo perso. Settimo
Mi sono chiesto anch’io quale fosse il “delitto” gravissimo di cui Antonello fu accusato nel ’99. A tutt’oggi ancora non lo capisco, ma ti dirò
che quell’avvenimento, insieme alla nota vicenda della “untrice”, è stato
l’episodio che ha contribuito a farmi dubitare dell’uomo Massimo e a intravederne i limiti. Mi vado convincendo che da allora, ma forse non solo da
allora, per Lui fosse tutto solo un problema di immagine, ma non di quella
che abbiamo imparato dover essere fusa con gli affetti.
Sui rapporti
131
Un ultimo ricordo di Napoli. Ho visto Fagioli salire le scale del convegno circondato dai suoi più fedeli, tra cui alcuni laureati in medicina. Era
pallido, affannato, faticava a mettere un piede davanti all’altro. Nessuno se
ne è accorto? E se sì, perché non è intervenuto chiamando un medico? Me
lo sono chiesto a lungo e l’ho domandato a chi era più addentro di me. Mi
è stato risposto che se non l’hanno fatto è perché sarebbe stata una lesione
della sua immagine. Lettore empatico
Per Napoli ‘99 non è sufficiente conoscere la storia, ci sono state implicazioni importanti che i semplici partecipanti non conoscono in profondità.
Ci vorrebbe la testimonianza della donna del capo di allora, che dopo quei
fatti se ne andò dall’analisi collettiva oltre che dal capo. L’impressione
del semplice partecipante era che si stava consumando una nefandezza.
Settimo
Il giorno dopo l’episodio con Antonello, Massimo stava molto male;
anche chi il giorno prima ne aveva giudicato severamente il cinismo fu
molto impressionato e non solo per questioni di transfert, ma per elementare umanità per il suo malessere, in particolare la bruna donna del momento.
Sembrava molto preoccupata. Qualche settimana dopo sapemmo che era
stata lei a insistere perché al suo capezzale venisse invitato un medico valido, in grado di curarlo nonostante il fuoco di sbarramento delle persone
(parenti) a lui più vicine. Massimo stesso, a pericolo scampato, riconobbe
a questa donna il merito del suo intervento. Dopo qualche settimana, invece, disse che era lei la portatrice del virus responsabile della sua malattia.
Perché mai? Lo stesso anonimo che aveva detto che era giusto scroccare ad
Antonello e all’Università di Napoli un convegno, disse che era giusto che
Massimo sostenesse di non essere stato aiutato da nessuno perché «l’analista non può avere bisogno dei suoi pazienti». Noi tre
La storia della «morte che arrivò con virus invisibili a Napoli Mergellina, virus invisibili nascosti negli occhi dall’amante di turno…» (le parole esatte non le ricordo, anche perché ne sono state dette tante, diverse
e contraddittorie) è di una banalità unica. Fagioli contrasse un’infezione
polmonare da pseudomonas, stette male per qualche giorno (e questo mi
dispiace, ovviamente), anche se in realtà stette male anche prima della fase
acuta, al tempo di Napoli Mergellina per capirci. Qualcuno chiamò un medico che non si districò bene nella diagnosi, poi qualcun altro chiamò uno
specialista che gli diede degli antibiotici moderni in dosi massicce e guarì.
Appena guarito la sua versione fu questa, quella che ho raccontato, cui ag-
132
Il paese degli smeraldi
giunse che lo specialista era stato molto bravo e che gli antibiotici, e la sua
reazione ad essi, lo avevano fatto guarire.
Nulla da eccepire, chiunque avrebbe detto le stesse cose. Il bello venne
dopo un po’: lo pseudomonas sparì, gli antibiotici anche, la sua guarigione
sarebbe avvenuta esclusivamente per la sua vitalità al di fuori del comune,
mentre la malattia sarebbe stata determinata esclusivamente per una serie
di ragioni che non stanno né in cielo né in terra. Com’è possibile che qualcuno, non dico voglia crederci, ma possa anche minimamente prendere
in considerazione queste panzane non lo so, io me ne sono andato il più
lontano possibile da lì. Ghery
c. Come un’eresia diventa istituzione
Le analogie con Scientology e Osho, anche se attraenti, calzano solo in
minima parte. Considerando l’esiguo numero di partecipanti, non si può
considerare l’analisi collettiva nemmeno un movimento nel senso classico
del termine. Molto meglio questa storia della famiglia: lì è pieno di famiglie, alcune allargate, vista la presenza di madri, padri, figli, ex, ex ex, ex
ex ex, come se non ci fosse più nessuno in giro per il mondo. Con a capo
di tutta la struttura una famiglia che si muove come una Azienda. Uno al
di fuori
Il familismo del Nostro ha sempre dato fastidio anche a me. Si tratta del
“familismo amorale”, oggetto addirittura di studi accademici sulle arretratezze del nostro bel paese. Non condivido però il parallelo che qualcuno
ha fatto nel blog con il Family Day, che non va scambiato per una parata
di “familisti”. Una cosa è il “familismo” (diffuso anche fra tanti laici e giacobini e rivoluzionari), altra cosa è considerare la crisi della famiglia oggi
in Italia e in Occidente come uno dei più gravi problemi culturali e sociali.
Ci si può sentire lontani da entrambe le posizioni, ma non credo debbano
essere confuse fra loro.
Voglio aggiungere un’altra riflessione. Nello stile di pensiero (e anche
di scrittura e di parola) Fagioli è tributario di quella che a me sembra una
vera e propria “tradizione”: i sacri padri del giacobinismo, e poi Rousseau,
Marx, Sartre ecc. Ma ciò che è più importante è il rapporto con la “rivoluzione” (ovviamente solo con il suo mito, cioè con il dato utilizzabile
in un’operazione di mistificazione culturale). Tale rapporto era da tenere
sempre vivo (per giustificare qualunque doppiezza), ma allo stesso tempo
accantonabile, quando ritenuto opportuno, in cambio di spazi molto concreti di potere. Questa tradizione, che si traduce in uno stile etico molto
Sui rapporti
133
spregiudicato, per una lunga fase è stata culturalmente vincente in Europa
e in Italia. Talmente certa della propria superiorità da ritenersi “la” cultura.
A mio parere oggi non è in crisi solo il fenomeno marginale “fagiolismo”,
ma in modo più ampio tutta la tradizione di cui questo è tributario. Enrico
In Fagioli c’è un’assurda gelosia riguardo la divulgazione delle sue
idee. Può farlo solo lui, le persone della sua famiglia, i rarissimi espressamente autorizzati. Questo provoca alcuni effetti singolari. Penso alla sua
rivista, “Il sogno della farfalla”, dove gli autori degli articoli compaiono
soltanto con il proprio nome: non c’è la qualifica, il luogo dove lavorano, le
eventuali altre opere scritte, la mail dove rintracciarli per approfondimenti
o confronti, come in tutte le riviste scientifiche del mondo. L’individualità
del singolo studioso o terapeuta non esiste: è soltanto un nome e un cognome, teoricamente potrebbe anche essere inventato. Ciò che realmente
importa è che si mostri totalmente la “figura” di Fagioli, le eventuali elaborazioni dell’autore non contano. Penso anche alla citazione ossessiva di
Fagioli che fanno i partecipanti all’analisi collettiva ogni qual volta hanno
a che fare con organi di informazione. L’unica preoccupazione dell’intervistato, o del dichiarante di turno, non è esprimere compiutamente il proprio
pensiero, ma precisare che ogni proprio pensiero è frutto di una ricerca
collettiva guidata da Fagioli, autore di quattro libri... e così via. Nessuno
può quindi assumere questo percorso personale e teorico come una propria
identità. Valerio
Vedere cose che sono state stigmatizzate quando sono apparse in altri contesti, apparire anche in questa storia che per molti rappresentava
la cura, la bellezza, la novità e forse “la rivoluzione”, ha costretto a non
pochi ripensamenti. Ha indotto a chiedersi quante persone si siano curate e
da cosa; in che consiste il metodo di cura e se è cambiato nel tempo; se fa
comunque bene o se provoca danni; e se, dato l’ampliamento del discorso
al cinema, all’arte, alla politica, sia ancora possibile parlare di psichiatria.
Quali garanzie dà ciò alla gente di non partecipare a un’attività di propaganda ideologica e di non trovarsi coinvolta in qualcosa che presenta
analogie con le sette? Un altro dei tre
La differenza tra quello che è scritto nei primi libri e l’analisi collettiva
prima, integrata con i piccoli gruppi poi, è la stessa che intercorre tra la
religione e la Chiesa con tutte le sue strutture, passando per Dianetics,
Scientology e tante altre esperienze. Quello che non è verificabile all’inizio lo è comunque dopo 30 anni, in epoca di bilanci. Ognuno faccia il
134
Il paese degli smeraldi
proprio, mettendo da parte il coinvolgimento personale e analizzando con
obiettività la differenza tra la “scoperta della cura della malattia mentale”
e lo stato di gente che dopo 30 anni se salta un seminario va nel panico più
assoluto: viene fuori quello che è, proprio mentre l’apparato (Chiesa), gli
studi (Ministri), i dogmi ecc. si rafforzano e strutturano più rigidamente.
Se non si chiama “Chiesa” un nome trovatelo voi, certo che strano è strano. Antonio
L’esperienza di Scientology è molto lontana da quella dell’analisi collettiva, ma certi atteggiamenti si possono ritrovare, anche se non erano
nelle intenzioni iniziali di quella gente. C’è sicuramente una responsabilità di entrambe le parti, ma questa responsabilità ha una misura nettamente diversa, anche se poi la cecità conseguente all’abbraccio di teorie
e pratiche autoreferenziali che isolano dalla società, vivacchianti su leggi
autoproclamate, ma in contrasto con il diritto, oltre che con i codici deontologici, possono far aumentare di molto anche la responsabilità dei
partecipanti. Sicuramente farà lievitare il senso di colpa che rimane dopo,
quando tutto diventa chiaro per tutti, e questo forse è il primo importante
ostacolo al distacco. Sociologo
Leggo interventi perplessi circa l’opportunità di definire l’analisi collettiva, almeno quella odierna, una setta. Io invece ne sono convinto e ribadisco questo modo di vederla, ne ha tutte le caratteristiche e la pericolosità.
Settimo
Sono convinto che il danno maggiore arrecato da Fagioli, e non solo a
chi lo ha seguito ciecamente, è stato quello di annullare completamente
quanto la ricerca scientifica ha cercato laboriosamente di teorizzare in tutti
questi decenni, soprattutto riguardo l’attendibilità dei metodi e la validità
delle teorie. Questo fare terra bruciata di tutta la cultura che non sia omogenea a quella del potere è tipica delle sette e dei regimi totalitari. Sono
convinto che questo sia l’aspetto più negativo, senza via di ritorno, che
rimarrà nel futuro. Nicola Lalli
«Devi scoprire e sentire dio dentro di te, giorno per giorno, a poco a
poco, nelle cose che fai e nella gente che incontri». Spesso lo si sente dire
dai sacerdoti. La similitudine è con ciò che si dice al gruppo sulla teoria
della nascita. Ogni tentativo di verbalizzazione della teoria, pur non venendo respinto, viene di solito liquidato con brevi formule sintetiche che si
concludono con un «la teoria della nascita uno ce la deve “avere dentro”,
Sui rapporti
135
la deve ricercare e sentire nei propri rapporti più significativi». Il corpo
teorico è nei quattro libri di Fagioli, immutati e immutabili nel tempo. Un
po’ come i Vangeli. Ho visto gente che li tiene religiosamente custoditi e in
bella mostra nella libreria di casa.
L’atteggiamento rispetto alla seduta è simile all’atteggiamento del cattolico praticante nei confronti della messa domenicale. A meno che non si incappi in sacerdoti sbrigativi o con poca favella, spesso all’uscita dalla messa
il fedele un po’ più attento prova a interrogarsi sul significato delle letture e
del Vangelo di quella domenica e sul senso dell’omelia, ed è raro che non si
notino contraddizioni o incoerenze. Nessuno ha il coraggio, ma forse sarebbe
meglio dire la voglia, di andare dal sacerdote per un’ulteriore spiegazione.
Nel caso della seduta di gruppo, è frequente che non si trovi il coraggio di
fare domande profonde sul senso e sull’origine di un’interpretazione fatta a
un altro. Il timore di fare brutte figure o di cadere nell’Annullamento si taglia
a fette. Sulle interpretazioni che si ricevono in prima persona si chiede di più,
ma sempre con una certa discrezione. L’interpretazione viene vissuta come
una sorta di omelia sulla quale riflettere per tutta la settimana, sempre con la
solita nota che non ci si deve pensare, ma si deve “sentire, vivere dentro”.
Come nella Chiesa ci sono sacerdoti e sacerdoti, nell’analisi collettiva ci
sono terapeuti e terapeuti. C’è il sacerdote convinto, quello bravo, quello
affascinante, quello colto, ma anche quello esaltato, quello limitato o quello che forse è diventato sacerdote per opportunità e che quindi era meglio
che avesse scelto un altro mestiere. Ma c’è un denominatore comune: ritengono che, fuori dalla teoria e dalla prassi di Fagioli, non può esserci cura e
quindi guarigione. Esattamente come dire extra ecclesia nulla salus. Secoli
di filosofia e scienza, quando non completamente rimossi o volutamente
ignorati, devono tutti essere riletti alla luce della Scoperta. Ma la rilettura
è a esclusivo appannaggio di Fagioli. Ed è questo l’aspetto che più di ogni
altro fa scricchiolare tutta questa storia, che comunque per me ha costituito
e costituisce un’esperienza significativa.
Gli psicoterapeuti della cosiddetta Scuola romana hanno un esiguo margine di libertà nella rilettura di questi secoli di scienza e filosofia, ammesso
che li conoscano almeno nei loro eventi più salienti. È da qui che parte la
mia crisi. Questi psicoterapeuti hanno davvero fatto un lavoro di rivisitazione critica della psichiatria e della filosofia ante-Fagioli o semplicemente
si “affidano” alle linee da Lui “dettate” ai seminari? I gusti e le tendenze
di Fagioli sono letteralmente affari suoi, ma gli psicoterapeuti della scuola non hanno un pensiero proprio in merito a medicina, scienza, filosofia
e politica? Credevo che, per quanto legatissimi all’analisi collettiva, ce
l’avessero.
136
Il paese degli smeraldi
Frequentare l’analisi collettiva o un piccolo gruppo è un modo di vivere.
L’analisi collettiva va letteralmente “indossata”. Indossarla significa anche
compiere tutta una serie di riti. Mi viene in mente l’entrata ai seminari alla
quale una volta mi è capitato di assistere. Chi frequenta l’analisi collettiva
è nettamente meglio di “colui che si incontra alla macchinetta del caffè”…
i cattolici, dal canto loro, affermano sempre di avere una marcia in più
rispetto a chi non crede, sempre in pieno rispetto degli altri.
“Katholikos” in greco significa universale. La Chiesa è aperta, si rivolge
al mondo intero. Di cui essa è il centro. Così l’analisi collettiva e tutto ciò
che ne deriva. Lì da decenni, immutata e immutabile nelle sue fondamenta
e nelle sue prospettive. Aperta apparentemente a tutti, ma chiusa - come la
chiesa - alle novità dall’esterno, perché al di fuori di essa nulla è dato.
Posso affermare, per conoscenza diretta, che partecipare alla messa,
alle attività della chiesa, ai gruppi di lettura, alle varie comunità (quella
neocatecumenale, ad esempio) ha giovato e giova a diverse persone che
ho conosciuto. È servito loro per stare meglio, per uscire da un brutto periodo, per incontrare brave persone che li hanno aiutati. Parimenti posso
affermare che a molte persone, e tra queste anch’io, andare al piccolo
gruppo è servito e/o serve ancora. È servito per leggere meglio certe dinamiche interumane, per vedere come funziona l’annullamento subito e
quello fatto. Per capire, ad esempio, che se si sta male in un pomeriggio
col proprio partner, magari è perché si è assenti pur essendo presenti
fisicamente…. Ma scagliarsi contro la chiesa, contro il matrimonio, contro le mogli e le mamme, contro tutto il logos occidentale sostenendo,
appunto, che la cultura occidentale, in quanto fondata sulla cultura greca
poi assorbita dalla filosofia cristiana, è “omosessuale” in quanto annullante il rapporto uomo-donna e quindi violenta, mi è sempre sembrata
un’esagerazione enorme. Pensavo fosse una provocazione, invece è una
convinzione.
Da quanto ho capito leggendo e rileggendo il blog, nel corso del tempo
si sono assunte, all’interno dell’analisi collettiva, tutte quelle tendenze e
quelle modalità che ferocemente si criticavano e alle quali si cercava inizialmente di ribellarsi. Si è andata costruendo una sovrastruttura rigida che
spesso produce visioni semplicistiche della realtà circostante. Visioni spesso esportate attraverso le interpretazioni nel piccolo gruppo, di cui ho esperienza diretta. Non parlerò quindi di setta, guru e plagio. Non mi sembrano
proprio, oggi, questi i termini appropriati per una simile storia. Piuttosto mi
viene da parlare di chiesa. Una piccola Chiesa. Rowan
Sui rapporti
137
2. Con il mondo esterno: gli altri, l’Università, la politica
Quante volte in questi anni ho visto persone non addette ai lavori fregiarsi
di particolari capacità terapeutiche o di disvelamento delle problematiche
psicologiche altrui o, ancora peggio, lanciare diagnosi a destra e a manca,
magari tornando a casa e incontrando il malcapitato familiare che tornava
dal pub o dal lavoro invece di essere “andato al seminario”! Uno psicologo
I compagni dei seminari spediscono i figli ai seminari, ma cercano di
mandarci anche le fidanzate, gli amici, i mariti. Io credo di aver suggerito
una psicoterapia a qualcuno soltanto una, due volte al massimo. Qui, invece, c’è una facilità che sconcerta, perché è del tutto innaturale. Come se,
sotto sotto, si pensasse che siamo tutti malati, che arrivati all’età adulta
quello è il nostro destino. Ed è Fagioli stesso a foraggiare quest’assurdità,
con questo suo uso spregiudicato della diagnosi verso gli “interni”, e della
diagnosi-diffamazione (perché così bisogna chiamarla) verso gli “esterni”.
Valerio
Voglio esprimere il mio disappunto per una dinamica stranota che coinvolge familiari e partner degli analizzandi. Mi attengo alla mia esperienza.
Conosco la mia fidanzata da prima di andare al gruppo. Lei è sempre stata
rispettosa della mia esperienza, delle due ore settimanali in cui “sparisco”,
dei miei racconti, delle mie gite a Chieti o dei sabato mattina all’Aula Magna. Rispettosa, ma distaccata. Qualche domanda sul gruppo e sulla seduta,
qualche mia “interpretazione” dell’interpretazione in risposta e poco più.
L’ho portata a vedere il Palazzetto Bianco, ma non le suscitò granché. Ho
tentato con Il cielo della luna, ma ho dovuto estrarre il dvd dopo appena
un quarto d’ora...
Perché le ho proposto queste cose? Perché ho sempre sentito dire che
chi fa parte di “questa storia” ha una, due, tre marce in più, e quindi deve
pretendere, dopo un tempo più o meno lungo, una certa qualità nel rapporto
uomo-donna che sta vivendo. Qualità che necessita di uno “stare al passo”
del proprio partner. Ovvero, se dopo quel certo tempo il partner dell’analizzando in questione non mostra segni di una volontà di avvicinarsi a “questa
storia”, allora c’è qualcosa che non va... ma non nel partner, ma in noi stessi che abbiamo una storia con questo partner! Durante una terapia psicoanalitica, ci si deve preoccupare pure di questo? Può un analizzando vivere
con questa spada di Damocle del partner non “coinvolto”? Davvero si deve
dire al proprio partner: o cominci ad avvicinarti a questa storia o non mi
stai più “corrispondendo” e quindi prima o poi ci lasceremo? Rowan
138
Il paese degli smeraldi
La lettura di Il libro nero della psicoanalisi (Meyer, 2005) può aiutarci,
con le sue straordinarie analogie tra la storia della psicoanalisi e il percorso di Fagioli e dell’analisi collettiva. In particolare un capitolo, quello
sui meccanismi freudiani di difesa contro tutti i detrattori. Voglio riportarli
sinteticamente. Dei 13 meccanismi, almeno dieci potrebbero benissimo far
parte delle difese di Fagioli e dei partecipanti all’analisi collettiva contro
chi li critica. E questo per dimostrare che quello che era partito come un
movimento di critica, ribellione e ricerca contro il dogma del pensiero freudiano ne ha assunto gli stessi paradigmi.
I meccanismi di difesa dei freudiani contro i loro detrattori: 1. Se siamo
tanto criticati, è perché quel che diciamo è vero; 2. Resistere alla psicoanalisi significa resistere all’inconscio; 3. Resistere alla psicoanalisi significa rimuovere la sessualità; 4. Coloro che criticano la psicoanalisi rifiutano l’idea
del determinismo; 5. La psicoanalisi è una scienza; 6. Le nostre ipotesi sono
confermate dalle osservazioni cliniche; 7. Se si critica la psicoanalisi è perché non si è stati mai psicoanalizzati o si è stati psicoanalizzati male; 8. Chi
critica la psicoanalisi ha bisogno di essere curato; 9. La psicoanalisi non è
una psicoterapia; 10. Chi critica la psicoanalisi non ha letto o ha letto male i
testi fondatori; 11. A parte tutto, Freud è uno scopritore geniale; 12. La psicoanalisi è il rifugio dell’unico, la sola terapia che rispetta l’individuo; 13.
La psicoanalisi è un bastione contro il totalitarismo. Rudra
Fagioli non ha avuto sostanzialmente alcun rapporto con l’istituzione
Università “La Sapienza” e con l’Istituto di Psichiatria (divenuto poi Dipartimento di Scienze Psichiatriche). Durante gli anni di Villa Massimo
ero io l’unico referente che gli permetteva di usufruire di un locale universitario (che non coincide con il fare ricerca universitaria). Nell’ambito
dell’Istituto di Psichiatria egli era inviso a tutti, pertanto nessuno aveva
voglia di contattarlo: eventuali recriminazioni venivano rivolte a me personalmente. La stessa cosa è successa anche per l’utilizzazione dell’Aula
Magna, almeno fino al 2001, quando ero io direttamente a occuparmi di
questo evento. Quindi si può affermare con sicurezza che Fagioli ha sfruttato questa situazione per poter dire all’esterno che la sua ricerca avveniva
all’Università (e quindi, con una logica ferrea, che era una “ricerca universitaria”). Nicola Lalli
Se Fagioli ha firmato un contratto con l’Università Gabriele D’Annunzio
di Chieti per 14 ore annuali, non c’è nulla da eccepire a livello formale. Una
semplice questione: i professori universitari tengono un corso. Alla fine del
corso gli studenti, all’interno del quale è previsto il corso tenuto da quel
Sui rapporti
139
particolare professore, sostengono il relativo esame. Al termine dell’esame
compare un foglietto (se la verbalizzazione è cartacea) che si chiama verbale. Ebbene, Fagioli ha mai interrogato qualcuno, e alla fine ha apposto un
numero fra il 18 e il 30 con accanto la sua firma su un verbale? Rowan
Mi pongo alcune domande: può una ricerca psichiatrica, che dovrebbe
avere come obiettivo la cura dei pazienti, avere una collocazione politica
ben definita? E se sì, come la mettiamo con chi la pensa diversamente? Non
ha il diritto di curarsi? Come può una ricerca abbracciare una fede politica?
E quei medici che curano contemporaneamente feriti di eserciti avversi?
Sono degli stupidi idealisti? Toni
Una ricerca psichiatrica potrebbe non avere per obiettivo solo la cura,
ma anche la dimostrazione della validità di un metodo. Il metodo comporta
un atteggiamento nei confronti delle varie teorie scientifiche e una sintesi
originale sul modo di applicare le conoscenze ritenute più attendibili nella
risoluzione dei disturbi dei pazienti. La parificazione di questa prospettiva medica con quella politica è del tutto arbitraria e fuorviante, perché
rischia di imporre una premessa ideologica sugli interventi di cura. Ma,
se la prospettiva politica produce le deformazioni e le incongruenze che
abbiamo sotto gli occhi, non è possibile escludere dal metodo proposto in
una ricerca psichiatrica l’elemento sociale, ossia la necessità di produrre
nella società dei cambiamenti culturali che determinino l’applicazione del
metodo. Così, la riforma Basaglia non poteva avvenire in un regime totalitario e ha richiesto per anni cambiamenti nella mentalità dei cittadini che
ancora oggi non sono del tutto raggiunti. Anche la psicoterapia richiede che
il discorso dei valori sociali sia spostato sulla completezza della persona
e su un rinnovato concetto di salute che comprenda anche la mente, e non
solo il corpo.
Tuttavia, tra un progetto di cambiamento sociale e uno politico ci può
essere un divario di non poco conto. Per i cambiamenti sociali che interessano la medicina e la psichiatria in particolare, però, pur non essendo
necessaria una connotazione fortemente polarizzata a destra o a sinistra,
occorre che la visione d’insieme della realtà sociale sia decisamente improntata ai principi della democrazia, ossia di un sistema politico nel quale
esista un equilibrio dei poteri e in cui le classi sociali, pur essendo in competizione tra loro, corrispondano quanto più a dei vasi comunicanti che,
anziché accentuarlo, conducano alla diminuzione del conflitto sociale.
Detto ciò, lo spingere verso un antagonismo di classe e una militanza
radicale non può far parte dell’atteggiamento di un medico capace e di un
140
Il paese degli smeraldi
ricercatore autentico. L’esempio del Prof. Veronesi, che in politica c’è stato, vale a chiarire che un medico può fare politica, ma mantiene nello stile
e nelle scelte un’identità che la funzione svolta in un determinato momento
storico non può intaccare. Abbiamo altri esempi, come quello in questione,
nei quali invece la militanza sottolinea la perdita di una vera motivazione
alla ricerca e all’identità medica, in funzione di una visibilità e di vantaggi
di varia natura. La svolta politica segna il definitivo abbandono di qualsiasi
velleità di ricerca e di interesse scientifico. Il riparare sotto l’ala provvida
della politica politicante rivela il fallimento delle pretese di validità scientifica e l’ammissione implicita di non avere argomenti per sostenere un
confronto con coloro che la ricerca la fanno sul serio. Giuseppe Lago
Essendo stata posta in questo modo, con tanto di consacrazione pubblica, molto più amplificata di altre occasioni (mi riferisco alle primarie, alle
politiche, a “Left” e a tutti gli altri tentativi di apparire come l’unica possibilità esistente nella storia di tutta la sinistra), questa vicenda di Fagioli e
dell’analisi collettiva dovrà passare al setaccio molto più che in passato. La
politica dà diritto a tutti di esprimersi in proposito, di indagare in proprio,
di cercare il pelo nell’uovo, di porre domande, di voler sapere il perché
di tutto e tutti, di esprimere giudizi, di utilizzare tutto e tutti per i propri
fini. In politica si gioca a tutto campo, non ci sono codici deontologici da
rispettare, non esiste un regolamento cui fare riferimento, non c’è pietà per
le buone intenzioni. Complicatus
Mi sento di dire che, forse, è stata proprio la passione per la politica che
ha permesso a questo guru di guidare la percezione delle persone che si
rivolgevano a lui verso la sua persona. Buio
All’inizio sicuramente sì, i primi provenivano tutti dai movimenti di
quegli anni. Lui li convinse che erano tutte puttanate, salvo poi fare la corte
a Lotta Continua: e loro si convinsero. Anni dopo, però, arriva la “seconda
generazione”, che alla politica non ci pensava proprio perché, a differenza
dei genitori che erano cresciuti a pane e politica, erano invece cresciuti a
pane e Fagioli. Adesso ha convinto tutti a tornare alla politica, proprio ora
che le puttanate sono decisamente più numerose che a quel tempo. Ma chi
vuole “credere”, crede a tutto. Piero
Hai ragione, buona parte venivamo da lì e lì siamo, anzi, “sono” tornati.
Mi viene il dubbio, però, che da lì non si siano mai mossi. Molti dei miti
dell’analisi collettiva sono vicini, se non propri, a quella generazione. Ex 68
Sui rapporti
141
Mi chiedo: come fanno alcune persone ad accontentarsi e ad andare
avanti autodefinendosi “di sinistra” senza prima essersi chieste se sono loro
stesse abbastanza giuste e libere nel loro modo di pensare e fare da collocarsi realmente sul versante progressivo della storia? Autoinganno e falsa
coscienza, si diceva una volta negli ambienti appunto di sinistra, esistono
purtroppo anche in seno alla... classe rivoluzionaria, ma qui sembra tutto
un autoinganno, talvolta si ha perfino il sospetto che neanche di autoinganno si tratti bensì di arroganza. Astrantia
La scoperta della politica, oggi, da parte del Leader Massimo è sorprendente. Certamente della sinistra non ne sa, non ne vuole sapere e non gli
importa nulla. Tanti anni fa chi faceva politica veniva additato da Lui al
pubblico disprezzo, perché l’unico modo per cambiare le cose era quello
indicato da Lui. Ora, dopo tanti anni dagli antichi - in quanto nuovi e sorprendenti - splendori, arrivati in un vicolo cieco, ecco “la scoperta” della
politica solo per avere un po’ di visibilità. Ingenuamente le solite mille
persone che lo seguono dappertutto, lo seguono anche oggi. Quelle mille
persone le capisco, dicono e fanno soltanto ciò che il Leader dice loro di
fare e di dire; non capisco invece le istanze politiche che danno spazio a
questa roba. Il riferimento a Fidel e a tutti quelli che autocostruiscono il
proprio mito non è casuale. Piero
Ricordo benissimo che negli anni Ottanta Fagioli quasi imponeva, a
chiunque avesse per sua disavventura varcata quella soglia, di lasciare la
politica, in quanto cosa vecchia e sballata. A quel tempo, come molti altri,
facevo politica, e con soddisfazione. Poi capita di entrare in crisi per un
motivo qualsiasi e si finisce per chiedere aiuto. Allora, come prima cosa si
deve abbandonare tutto quello che si sta facendo, innanzitutto la politica. È
passato del tempo e adesso questo stranissimo Leader lo troviamo dappertutto. Appena si sa in giro che c’è un dibattito lui vi si getta a capofitto, e
chiaramente tutti gli altri dietro, anche se poi non dovrà parlare, o al massimo dire le solite quattro cose («bisogna fare la ricerca... io ero a Venezia,
poi a Padova, poi in Svizzera... Basaglia era seduto vicino a me...»), sempre le stesse da trent’anni. Una domanda per Lui: perché? E una domanda
per tutti quelli che ancora non hanno capito che bisogna rispondere a quella
domanda: perché gli andate dietro? Antonio
Leggo all’interno di un’intervista rilasciata dal Maestro a “Quaderni Radicali” (n. 100, luglio 2007): «Ma qui si pone una questione: specialmente
il partito comunista nell’Europa occidentale riguarda soltanto l’Italia e vo-
142
Il paese degli smeraldi
lendo essere pignoli riguarda un quarto dell’Italia, perché a sud non è mai
esistito». Quindi tra le cose mai esistite dobbiamo da luglio annoverare
anche il Partito comunista nel sud Italia, oltre che nel resto dell’Europa.
Come si fa a dare retta a uno che le spara così? Scampato
Una persona può sapere perfettamente cosa fa e dove va, condividere la
linea generale di Bertinotti, conoscere il percorso politico di Rifondazione
Comunista, votare per quel partito già da tempo. Allora va con i suoi amici
ad ascoltare un dibattito che vede insieme questi amici, appunto, e Bertinotti, e alla fine si alza in piedi e lo applaude, perché Bertinotti gli piace
molto e da sempre gli piace quello che rappresenta. E così questa persona si comporta sempre, a Locarno, all’Aula Magna, a Chieti, dappertutto:
ascolta quello che c’è da sentire, confronta queste cose con le sue e se gli
tornano applaude, se gli tornano molto applaude forte, se gli tornano completamente fa la standing ovation, ma se non gli tornano non applaude.
Oppure no, questa persona Bertinotti non lo aveva mai preso in considerazione, votava da anni per un altro partito, gli stava pure un po’ antipatico, aveva in sostanza idee politiche diverse. All’improvviso gli prende
la passione, non solo per Bertinotti ma anche per tutto quello che piace a
Bertinotti (come la vicenda di Lombardi: ora sono tutti ultras di Lombardi),
e allora va a una riunione politica avendo, come dici tu, discusso ampiamente di quello che si dirà, essendo completamente d’accordo con cose cui
non aveva mai pensato prima.
Dubito del fatto che si sia discusso ampiamente della linea politica da
sostenere durante l’incontro. Se si va a un incontro con un politico, per
di più così importante, bisogna avere le idee chiare, bisogna che la spinta
per incontrarlo sia venuta a grande richiesta dalla base, e questo nell’analisi collettiva non è che succeda tutti i giorni. Altrimenti viene il sospetto
che sia quel politico sia quell’incontro siano stati proposti dal Capo per
motivi e scopi che non si sanno, ma immediatamente e acriticamente
accettati da tutti.
Voglio poi parlare di Bertinotti e della figura che sta facendo con questa storia. Neanche io lo voterò più, lo avevo sempre fatto finora. Non lo
voterò più se non ha capito con che personaggio ha a che fare, un politico
di razza avrebbe dovuto capirlo. Non lo voterò più, a maggior ragione, se
invece ha capito di che personaggio si tratta: con la stessa nonchalance
ci potrebbe proporre qualcosa di simile pur di beccare altri 1000-2000
voti, cioè esporre al ridicolo tutta la nostra parte politica per dei voti, per
di più così pochi. Quando è iniziata questa storia con Bertinotti non volevo crederci: sono andato a Villa Piccolomini e mi sembrava di sognare
Sui rapporti
143
ascoltando uno che parlava della non compatibilità dello sciopero con
la non violenza. Invece la cosa è andata avanti. C’è solo da domandarsi
chi sta usando chi, in ogni caso non ne esce bene nessuno dei due. E in
mezzo c’è l’editore della sua rivista contrario al diritto di sciopero dei
suoi dipendenti. Settimo
Bertinotti i suoi conti crede di esserseli fatti bene: più di duemila voti e
un’entità politica di sinistra tutta da costruire. Anche Fagioli non credo sia
insensibile alle lusinghe di Bertinotti di fare della “teoria” il fondamento
della nuova sinistra. Io non so che sensazioni abbiate voi, ma io sento di
parecchi che si stanno “ammosciando”... Claudio
Come la metterà Bertinotti quando si renderà conto che nel “movimento
di Fagioli” non c’è alcuna democrazia e vige assoluto l’ancien règime, con
tanto di corte, cortigiani e valletti, nonché una massa di seguaci, disposti a
tutto pur di mangiare la polvere degli stivali del gran capo? Vinicio
Ricapitolando: Ilaria Bonaccorsi (sorella di Luca) sposa Ivan Gardini;
Ivan Gardini acquista “Avvenimenti”; Ivan Gardini e Luca Bonaccorsi acquistano “Avvenimenti” e lo rinominano “Left”; la nuova proprietà rassicura i lavoratori e la direzione del giornale, la loro unica volontà è rilanciarlo;
la nuova direzione editoriale affida una rubrica al dr. Fagioli; il direttore
Chiesa dice che non ne sapeva niente e si arrabbia; il direttore Chiesa e
il suo vice vengono licenziati; la rubrica del dr. Fagioli prosegue settimanalmente; la distribuzione della rivista viene affidata a Mondadori; dopo
un periodo provvisorio vengono nominati un nuovo direttore (Ferrigolo)
e un nuovo vice (Purgatori); Purgatori appare diverse volte in televisione
tutto contento del nuovo incarico; Bonaccorsi si occupa della nuova rivista
del presidente della Camera; si organizza un convegno per il lancio della
rivista; si scatena un grande dibattito su questo evento su aprileonline. Ed
eccoci alle ultime notizie: vengono licenziati anche i nuovi direttori; viene
defenestrato anche Gardini; Bonaccorsi rassicura tutti, la sua unica volontà
è il rilancio del giornale; la rubrica di Fagioli continua… ho dimenticato
qualcosa? Dr Carter
“Legittima difesa” si intitola il commento di Luca Bonaccorsi su “Left”
di questa settimana. La citazione giuridica di apertura mi lascia esterrefatto. Ma questo Bonaccorsi crede di far paura alla gente citando il codice
penale? Ma non dovrebbe parlare dello sciopero in atto nel suo giornale e
delle accuse di essere non tanto di sinistra che gli sono state mosse? No,
144
Il paese degli smeraldi
lui contrattacca tirando fuori la solita retorica, e si gioca l’analogia con
la legittima difesa che con quello che sta accadendo in Left non c’entra
nulla. La tesi è sempre quella: siamo attaccati, ci vogliono morti e noi...
resistiamo. Poi le solite giaculatorie sul fatto che si dà fastidio a qualcuno,
che invece di angosciarsi ci si rafforza e... questo dimostra che siamo nel
giusto! Gli altri tutti manipolatori e negatori. Uno dei tre
Qualcuno potrebbe dirmi qualcosa sull’omosessualità, visto che il teorico di cui parlate la definisce malattia mentale, sia essa latente che manifesta? Qualcuno ha avvertito Bertinotti di ciò, visto che il Fausto ha speso
parole di stima e approvazione in occasione dell’ultimo Gay Pride? Mi
sembra evidente la contraddizione tra un “socialismo del XXI secolo” e
l’omosessualità diagnosticata come malattia mentale. Ater
Spero Ater tu stia scherzando, se apriamo la questione dei gay secondo
analisi collettiva e grande maestro non andiamo più a dormire. Anche
con tutte le correzioni successive, non molto convincenti peraltro, quello
che il maestro è riuscito a dire sui gay nel corso degli anni è irripetibile.
Ottavo
Qualcuno ricorda i tempi di Lotta Continua, quando Fagioli disse che
sarebbero tutti finiti malissimo perché avevano ospitato nella stessa pagina
del giornale lettere dei compagni dell’analisi collettiva e lettere gay? Ora, a
distanza di 27 anni, bisognerebbe almeno ammettere che il movimento gay
(che si sia o meno d’accordo con le sue parole d’ordine) è andato avanti e
rappresenta per Rifondazione e dintorni un alleato imprescindibile, mentre
Fagioli rischia di fare la figura della mosca cocchiera. Invece cosa si fa? Si
sfodera una politica di “doppio binario”. Bertinotti lo sa? Forse sì, ma non
gliene importa; forse no, e lo verrà a sapere... Il punto è che il politically
correct dei liberi cittadini è completamente formale, nella cultura seminariale si è rimasti a 27 anni fa. Un altro dei tre
145
5
SULLA TEORIA
Non solo quanti non hanno familiarità con le pratiche globalmente indicate con l’espressione “analisi collettiva”, ma anche molti tra coloro che
la hanno, non sempre conoscono a sufficienza la teoria che le orienta; non
sembra perciò superfluo premettere a questo capitolo, che raccoglie quanto nel blog è stato detto su di essa, una sua esposizione che, dovendo essere
breve, risulterà incompleta e, pur volendo essere avalutativa e aderente ai
testi, non potrà mancare di segnalare alcuni loro aspetti problematici.
Per “teoria” o “paradigma” (cfr. ante “Presentazione”) si intende, nel
caso in questione, un’insieme di proposizioni volte a delineare un modello dell’origine, dello sviluppo e del funzionamento normale e patologico
della psiche contenuto nel libro pubblicato da Fagioli nel 1972 e in due
successivi (Fagioli M., 1974; 1975).
Nel libro del 1972 Fagioli formula i due concetti cardine del paradigma: quello dell’istinto di morte come fantasia di sparizione e quello della
formazione dell’immagine-ricordo «fantasia inconscia di un Sé, come un
mare calmo e senza burrasche».
Egli trae il primo dalla critica della definizione freudiana dell’istinto di
morte come tendenza, inerente a ogni organismo vivente, a ritornare allo
stato anteriore, e in ultima istanza all’inorganico: tale definizione sarebbe
resa insufficiente dal mancato riconoscimento del fatto che quella tendenza presuppone l’altra a rendere non esistente la situazione attualmente
vissuta (Fagioli M., 1972 pp. 45-46).
Questa critica si svolge in due deduzioni e in una conclusione: Fagioli vi
sostiene che l’istinto di morte non corrisponderebbe alla prima tendenza ma
alla seconda, in quanto più fondamentale, e che la sua realizzazione, essendo di fatto impossibile se non altro perché implica un’inversione del tempo,
può darsi solo sul piano fantastico; per cui esso andrebbe definito non già
come tendenza a ritornare a uno stato anteriore, bensì come fantasia di rendere non esistente, di annullare, uno stato attuale (op. cit., p. 46).
Fagioli procede a indagare l’istinto di morte così definito ricercandone
l’insorgenza nel contesto della vita umana. Egli la situa alla nascita nella
146
Il paese degli smeraldi
quale accadrebbe quanto segue: il neonato si trova subitamente esposto
al mondo inanimato esterno, fatto di stimoli di assoluta novità e potenza;
essi costituiscono il primo stato attuale, il primo termine a quo dal quale
egli rifuggirebbe volgendosi verso lo ad quem del suo modo anteriore di
essere; e ne rifuggirebbe attuando per la prima volta la suddetta fantasia, che viene indicata con l’espressione «fantasia di sparizione» (op. cit.,
p. 46-47).
Per specificare quanto così designato, Fagioli motiva cosa lo abbia indotto a servirsi di un’espressione che comprende un riferimento al vedere.
Egli afferma che, tra tutti gli stimoli che investono il neonato, quello «più
assolutamente e totalmente nuovo» (op. cit., p. 47), di «assoluta novità»
(op. cit., p. 48), è la luce, per il fatto che la vista non è attiva prima della
nascita, lo diventa in essa per lo stimolo luminoso che solo allora raggiunge la retina. Pertanto, rendere inesistente lo stato attuale nella sua caratteristica di assoluta novità che è la luce deve essere fatto risalire a rendere
inattiva la vista che in esso si attiva: il neonato chiuderebbe gli occhi,
userebbe la vista «per non vedere» (op. cit., p. 47), farebbe appunto una
fantasia di sparizione con la quale creerebbe all’esterno di sé una realtà
fantastica di buio equivalente per lui a quel prima che però non era buio,
ma assenza di vista e quindi di luce (op. cit., pp. 47-51).
Da qui Fagioli muove verso la definizione dell’altro concetto cardine
della teoria, quello della formazione dell’immagine. Anche in ciò si avvale
del riferimento critico alla sopra riportata definizione freudiana dell’istinto di morte come ritorno allo stato anteriore, in particolare alla sua parte
che specifica l’estrema istanza di tale stato come inanimato inorganico.
Egli ritiene che avere contenuto la propria indagine entro l’orizzonte trascendentale della traiettoria della vita e avere identificato il prototipo di
ogni stato anteriore della vita stessa nella condizione prenatale dell’essere
feto gli apra la possibilità di andare oltre tale parte della definizione. Questa risentirebbe della mancata considerazione della condizione prenatale
in quanto tutt’altro che inanimata e inorganica: il feto non è vivo, in particolare non è umanamente vivo, in quanto in esso è assente la psiche che si
forma alla nascita, però è vitale. La sua vitalità va intesa come «la realizzazione di un sé libidico (…) che, investendo l’oggetto (liquido amniotico)
di istinto sessuale, ne realizza l’esistenza» (op. cit., p. 63) e si alimenta
«percependo le qualità» di tale oggetto attraverso la cute, che è l’organo
di senso specificamente attivo nella condizione fetale. Secondo Fagioli il
neonato, nel momento in cui fa la fantasia di sparizione contro il mondo
inanimato esterno, e grazie ad essa, non andrebbe verso l’inanimato inorganico, ma verso quella realizzazione della condizione prenatale; e, lungi
Sulla teoria
147
dal ritornarvi, perché non può ritornarvi, e lungi dal limitarsi a creare il
buio, ne creerebbe l’immagine (op. cit., pp. 56-71).
Fagioli scorge in questa creazione l’origine della psiche umana, del
soggetto umano, dell’Io. Ancora una volta si serve del riferimento a Freud
per formulare questo suo pensiero: lo sintetizzerà ribaltando la formula
freudiana secondo la quale l’Io non esiste alla nascita, deve formarsi e si
forma come Io-ragione per la risoluzione del complesso edipico nell’identificazione, in quella secondo cui si forma, per quanto si è detto, alla nascita come Io-inconscio e deve svilupparsi (Fagioli M., 1975, p. 46).1
Prima di volgerci a considerare in che modo Fagioli concepisca questo
sviluppo, dobbiamo segnalare che il riassunto qui proposto dei due cardini
del paradigma tiene presenti, come testimonia l’ultima citazione, gli aggiustamenti che l’autore ha negli anni tacitamente apportato all’esposizione
del paradigma nel libro del 1972. Egli ha insistito nel presentare quel testo,
in particolare il suo secondo capitolo, come qualcosa di perfetto e definito
una volta per tutte, come «fonte battesimale delle sue scoperte» (Poggiali,
1976), conferendogli uno statuto sacrale e mitico (cfr. oltre). In realtà si
tratta di un testo tormentato, non privo di aspetti problematici che lo rendono suscettibile di letture diverse da quella che, sulla base dei suddetti aggiustamenti, qui ne viene data. Alcuni di tali aspetti verranno indicati via via
appresso; ora accenniamo ai tre maggiori relativi a quanto fin qui esposto.
Uno è costituito dal fatto che Fagioli, nell’indicare il primo oggetto della fantasia di sparizione, non sempre parla di stimolo luminoso, ma anche
di realtà esterna, mondo inanimato esterno. Ciò può indurre a pensare che
la fantasia di sparizione si eserciti su altro che su immagini, producendo
effettivo annullamento della realtà2, così come nella teoresi freudiana si
dava a intendere che l’istinto di morte potesse produrre effettivo ritorno
allo stato anteriore.
Il secondo aspetto consiste nel fatto che Fagioli introduce a più riprese nella sua descrizione della formazione dell’immagine considerazioni
di carattere quantitativo, che aprono nella sua impostazione psicologica
una crepa responsabile maggiore forse delle successive anomalie, in particolare di quella che oppone a un’ideologia dell’uguaglianza una prassi
sostenuta dall’assunto della dicotomia tra nascite sane e malate: in base
a tali considerazioni, la misura della consistenza dell’immagine neonata1Nell’ennesima edizione del 2003 il titolo di questo libro verrà cambiato in Teoria
della nascita e castrazione umana.
2Per una dettagliata analisi di questa incongruenza di Istinto di morte e conoscenza,
cfr. Sciommeri, 1998.
148
Il paese degli smeraldi
le sarebbe determinata dalla somma algebrica delle quantità di istinto di
morte e di libido che concorrono ad essa.
Il terzo aspetto problematico è legato al primo: come può una fantasia
diretta contro immagini esprimersi prima della formazione della prima immagine alla quale essa concorrerebbe? Questo aspetto risulta particolarmente evidente e disturbante se si confronta la definizione della fantasia di
sparizione come prima fantasia con l’affermazione che la psiche originerebbe con la formazione della prima immagine cui appunto quella fantasia
concorrerebbe; come può essere pensata una fantasia senza psiche, come
si può parlare di fantasia in assenza di psiche?3
Anche rispetto alla descrizione dello sviluppo della prima immagine o Io,
il libro del 1972 non è privo di incertezze. Ivi infatti Fagioli, avendo indicato
la condizione fondamentale di tale sviluppo nel rapporto oggettuale, affronta il problema di come questo si instauri; ma, dopo avere escluso la possibilità di risolverlo in termini di proiezione dell’immagine (Fagioli M., 1972, p.
63), non va oltre una formulazione vaga che presenta palesi debolezze; una
per tutte, la tautologia secondo cui «[per spiegare la possibilità del rapporto
oggettuale] dobbiamo concettualizzare (…) la possibilità di rapporto oggettuale e un investimento libidico dell’oggetto» (op. cit., pp. 63-64).
Di ben altro respiro e complessità sono le formulazioni del libro del
1975, che si spingono fino a ricondurre il concetto di investimento libidico
a quello di intuizione (Fagioli M., 1975, p. 66) in seguito a un percorso nel
quale vanno qui rilevati due aspetti.
Il primo è l’affermazione che la spiegazione dell’instaurarsi del rapporto oggettuale non va posta nei termini di una ricerca di cause. «L’uomo è
tale in quanto è in rapporto» (op. cit., p. 58); nulla che possa essere su di
lui pensato e detto v’è infatti prima e fuori del rapporto, e la condizione del
suo instaurarsi va concepita come interna ad esso. Lo stesso investimento
libidico dell’oggetto, nel quale viene indicata quella condizione, non sta
prima del rapporto, ma nasce in e con esso4.
3
4
Fagioli si è poi preoccupato di risolvere quest’ultimo aspetto problematico parlando di contemporaneità dei due momenti della fantasia di sparizione e della
formazione dell’immagine, imputando ad altrui interpretazioni errate il fatto di
pensarli in successione. Tuttavia, proprio l’aver voluto fare del libro del 1972 una
realtà inscalfibile e l’esservi intervenuto nelle successive edizioni solo per espungerne quanto segnalasse un suo nesso con altri paradigmi, ha fatto sì che quelle
contraddizioni siano rimaste intatte nel testo, dando l’inoppugnabile evidenza del
loro appartenere ad esso e non all’interpretazione di esegeti più o meno pigri.
Una proposizione simile si trova già in Istinto alla p. 71 e prima ancora alle pp.
57-58, non qui però riferita al neonato, ma al feto che, a comprova delle debolezze
della formulazione del 1972, viene indicato con la parola “bambino”, peraltro
Sulla teoria
149
Il secondo aspetto riguarda la natura dell’Io. Avendo fatto coincidere
il concetto di Io con quello di immagine, Fagioli fa anche coincidere la
ricerca sulla natura del primo con quella sulla natura dell’immagine. Al
riguardo, come si è sopra accennato, egli si era servito nel 1972 della
metafora, forse suggeritagli dalla lettura di Ferenczi (1924), dell’inconscio mare calmo (Fagioli M., 1972, p. 59), ma subito ne aveva percepito l’insufficienza (op. cit., p. 64): essa non rende una caratteristica
di ciò che egli intende per immagine, per rendere la quale in seguito,
rielaborando le sue letture giovanili di psicologia della Gestalt, distinguerà tra immagine, forma e figura e preferirà parlare di idea anziché
di immagine (Fagioli M., 1997); non ne rende la caratteristica dell’indeterminatezza.
Questa caratteristica nel 1975 viene riconosciuta come connaturata e
essenziale all’immagine. Le deriva infatti dal dato che, se il rapporto tra il
feto e il liquido amniotico era una realtà senza immagine, questa è ora appunto un’immagine non ancora realizzata e indeterminata in quanto priva
in tal senso dell’esistenza. Più profondamente, è indeterminata anche per
altro. L’Io, l’immagine, è, per quanto sopra, essere in atto, ma anche essere in potenza (Fagioli M., 1975, p. 39, 47), nel senso che vi è in potenza la
determinazione dell’esistenza; è presenza, ma anche assenza; è l’umano,
ma, nella misura in cui è in potenza, comprende in sé come proprio limite
il non umano. Fagioli riconduce questo limite alla funzione svolta nella
formazione dell’immagine dall’istinto di morte; ma soprattutto costruisce sulla determinazione negativa costituita da tale limite il concetto di
intuizione-incertezza5. Avvertire il limite presuppone avvertirne l’opposto,
l’incerta intuizione di quest’opposto; è in questa incerta intuizione alla
quale, come si è visto, viene riportato il concetto di investimento sessuale,
che si radica la «fantasia di esistenza» di un oggetto nel rapporto con il
quale tale limite può essere superato.
L’immagine, come sappiamo, è (ri)creazione della situazione di rapporto tra il feto e il liquido amniotico, caratterizzata dalle qualità della calma
e della pienezza, dall’assoluta corrispondenza tra il senso percipiente, la
cute, e il percepito, (ri)creazione accompagnata però dal suddetto limite;
ciò verso cui il neonato è spinto da essa è il ritrovamento in sé, oltre quel
5
mantenuta in tutte le successive edizioni. Per l’importanza a suo tempo avuta da
questo concetto di rapporto e per una sua illustrazione, può essere ancora utile
riferirsi ad Armando, 1976.
Nel quale riprende, va notato, quanto aveva scritto nel 1962 sullo specifico momento, o carattere peculiare, del fenomeno della percezione delirante, costituito
dallo stato di trema (cfr. ante “Presentazione”).
150
Il paese degli smeraldi
limite, di quelle qualità, e perciò è un oggetto che le possegga e gliele restituisca corrispondendo ai suoi sensi ora percipienti con la stessa esattezza
con cui il liquido amniotico e l’ambiente intrauterino corrispondevano al
senso percipiente della cute.
Questo discorso implica due svolgimenti: la definizione come rapporto
di desiderio del rapporto che si instaura tra l’Io immagine che è l’intuizione-incertezza e quanto il suo essere intuizione incertezza dà per esistente;
e l’identificazione dell’oggetto del desiderio come nascita e conoscenza6.
In realtà quello che così si stabilisce, più che un rapporto volto a soddisfare un desiderio di conoscenza, è un rapporto volto a soddisfare un
desiderio di riconoscenza o riconoscimento7 nel triplice senso riflessivo,
reiterativo e di reciprocità della parola. Il neonato cerca l’autoriconoscimento come consolidamento del proprio Io e può ottenerlo riconoscendo
le qualità del nuovo oggetto, che ha e si autoriconosce queste qualità nel
riconoscere il neonato nel suo desiderale.
La dialettica del riconoscimento così instauratasi presenta due possibili
svolgimenti. La possibilità ideale vuole che il neonato, incontrando davvero l’oggetto che la sua incerta intuizione dà per esistente, trovi nel rapporto con esso la presenza di una risposta soddisfacente e, separandosi da
quel rapporto, ne crei l’immagine in una reiterazione della propria nascita
che potenzia la prima immagine; si riconosca meglio e di più come Io nel
riconoscimento e nella fruizione delle qualità dell’oggetto.
La seconda possibilità deriva dal fatto che questo sviluppo ideale incontra tre difficoltà. Una è costituita da quello che Fagioli concepisce come un
residuo libero, che non trova una libido sufficiente a contenerlo e risolverlo nella formazione della prima immagine, della pulsione di annullamento
che alla nascita era stata la condizione di quella formazione. Questo residuo oppone un ostacolo alla possibilità ideale di sviluppo perché, nella
misura in cui si esercita sull’oggetto del rapporto anziché sulla situazione
di rapporto, consentendo la separazione da essa, rende il neonato più o
meno cieco sulle qualità dell’oggetto, più o meno incapace di riconoscerle
e fruirne, impedito nella soddisfazione dalla quale dipende l’incremento
6
7
Questa definizione del desiderio è offuscata, soprattutto nel testo del 1972, da
altre con essa del tutto incoerenti: si veda la definizione dello stesso come tendenza neonatale a ritornare allo stato precedente (p. 46), o quella come tendenza
a divorare e svuotare («Il bambino alla prima poppata è Saturno», pp. 54-55) nel
primo rapporto con il seno, la cui derivazione nettamente kleiniana spiega forse la
curiosa necessità di specificare il seno stesso come «mammella» (p. 54).
Un accenno al tema del riconoscimento si trova in Fagioli M., 1972, p. 62 e,
implicitamente, nella critica al concetto kleiniano di gratitudine.
Sulla teoria
151
del suo Io, il suo autoriconoscimento. Tale cecità fa infatti sì che, anche
nel caso della presenza di un oggetto che possa soddisfarlo, questo oggetto
non sia visto, riconosciuto, fruito, venga dato per assente.
La seconda difficoltà è legata a questa prima in quanto deriva dall’intersecarsi dello sviluppo psichico con quello fisico, ovvero di un percorso
di conoscenza con un percorso alimentare. L’annullamento, dovuto al residuo dell’istinto di morte, delle qualità dell’oggetto che può soddisfare il
desiderio di autoriconoscimento, fa sì che l’oggetto diventi oggetto parziale, cioè venga visto come mero oggetto fisico monco di tali qualità, e il
rapporto con esso si svolga sulla base di una libido degradatasi a libido
orale, instaurando e affermando come predominante una situazione di introiezione e proiezione e un rapporto sado-masochistico progressivamente
degenerativo. Quella che era intuizione diventa invidia, quello che era desiderio diventa bramosia.
La terza difficoltà è costituita da una dinamica analoga a partire però
non dal soggetto, ma dall’oggetto. L’assenza di risposta, la mancata soddisfazione del desiderio non è in questo caso dovuta al fatto che il residuo della pulsione di annullamento neonatale impedisce al soggetto di
riconoscere le qualità esistenti nell’oggetto e di fruirne, ma all’effettiva
inesistenza nell’oggetto di tali qualità, alla sua solo apparente presenza ed
effettiva assenza. Anche in questo caso il desiderio degenera in bramosia e
la cecità del soggetto viene incrementata. Ma, appunto, ciò avviene perché
quel desiderio è stato offeso e spezzato, ha ricevuto una risposta definita di
«frustrazione aggressività». Essa si pone in antitesi esatta con quell’altra
risposta che il soggetto riceve allorché l’oggetto, nel soddisfarne il desiderio, si oppone anche al residuo della pulsione di annullamento e oppone a
quel residuo una frustrazione definita questa volta «frustrazione interesse»
che tende a imporre al soggetto di riconoscerlo per potersi riconoscere
(Fagioli M., 1972, pp. 15-24; 1975, pp. 68-69).
Nelle premesse alle varie edizioni del libro del 1972, e soprattutto in
uno del 1980 (Fagioli M., 1980), Fagioli sottolinea l’originalità del paradigma da lui delineato rispetto agli esistenti sia sotto il profilo strettamente
psichiatrico sia sotto quello psicologico, filosofico, politico: esso permetterebbe di risolvere le anomalie in cui quelli si sono imbattuti.
Sotto il primo profilo egli rivendica per sé il merito di avere colto sia la
radice della follia nella realtà pulsionale inconscia dell’invisibile di una
pulsione di annullamento che sta a monte dell’aggressività, sia la dinamica essenziale della follia stessa nella dialettica della presenza assenza; e di
avere così risolto la massima anomalia dei precedenti paradigmi psichiatrici costituita dall’impotenza terapeutica.
152
Il paese degli smeraldi
Sotto il secondo profilo rivendica a sé il merito di avere risolto l’ontologia esistenzialista del nulla nel concetto di una pulsione di annullamento che depriva il nulla dell’essere e ne fa un artefatto; di avere risolto
l’assunto religioso del peccato originale, nelle sue varie formulazioni fino
a quella freudiana dell’inconscio originariamente perverso, nel motivato
concetto di un’originaria integrità dell’Io; di avere dotato di fondamento
l’ideale politico del socialismo sia liberando dalla necessità del battesimo
e traducendo in dato immediato l’idea di una nascita di per sé uguale per
tutti gli uomini e le donne, sia liberando la dialettica del riconoscimento
dal suo fondamento hegeliano nell’essere per la morte e dall’insufficienza
della sua correzione marxista e proponendola, nella nuova sopra definita
forma, come movimento ideale della storia.
Sulla base di queste rivendicazioni egli ha richiesto il riconoscimento
del proprio paradigma prima nel ristretto ambito psicoanalitico e poi in
ambiti sempre più vasti; il fatto che non gli sia giunto nella misura e con
gli effetti attesi ha determinato quanto, in base a quello stesso paradigma,
va pensato coma delusione.
Questo mancato riconoscimento, questa delusione, vanno ascritti a
una duplice responsabilità: quella della cultura italiana della seconda
metà del secolo scorso per il non essersi confrontata con proposizioni
che le risultavano dissonanti e provocatorie, e per averle rifiutate prima
di verificarne la fondatezza o meno; e quella di Fagioli stesso per avere
risposto alle prime manifestazioni di questo atteggiamento intensificando
un’iniziale disposizione all’autoreferenzialità che ha progressivamente
tolto ogni spazio all’intuizione-incertezza e nascosto la realtà del paradigma nel bagliore di un mito.
Il movimento dei post raccolti in questo capitolo tenta di opporsi a
questa situazione formulando domande su alcuni punti del paradigma qui
riassunto. Ci è chiaro che tale movimento non approda a una discussione
esaustiva della teoria stessa. Tuttavia già il fatto che di questa ci si senta
autorizzati a parlare ci sembra importante perché realizza una trasgressione, sfata il tabù che vorrebbe che di essa possa parlarne solo chi non
ha interesse a discuterla, salvo poi lamentarsi che non venga discussa. Ci
auguriamo che il poco qui detto sia di stimolo a un suo esame più completo
ed approfondito cui concorrano sia quanti avanzano riserve su di essa sia i
suoi fautori; e ciò anche in vista del fatto che, bene o male, in termini condivisibili o meno, essa solleva problemi sui quali è maturata nell’attualità
una forte esigenza di fare chiarezza.
Sulla teoria
153
1. Sulla verifica della teoria
La teoria dovrebbe poter essere discussa nel merito, ma questo non avviene né nell’analisi collettiva, un po’ per i meccanismi autoreferenziali
(così bene evidenziati qui) e un po’ per ignoranza, né nel confronto con
altri psichiatri e psicoterapeuti che Fagioli ha sempre più evitato, spostando la discussione su altri piani, come il cinema o la politica. Precisiamo
che quando si parla di teoria di Fagioli si intendono i suoi primi tre libri
(Fagioli M., 1972; 1974; 1975) che, in effetti, contenevano ipotesi interessanti, costrutti utili in psicoterapia. Ma è legittimo parlare di teoria a questo
proposito? Astrantia
Sono convinta che la teoria ha molti aspetti importanti e giusti, alcuni
ideati da Fagioli, altri derivati da altri autori. Affinché tali aspetti possano
essere fruiti da tutti e la teoria possa essere depurata da tratti negativi che
potranno solo distruggerla, ritengo necessario che essa si proponga al dialogo e al sereno confronto con altre teorie psicodinamiche, rinunciando
alla duplice presunzione di essere incontrovertibile e di avere il potere di
annettersi chiunque ne parli. Rudra
Bisognerebbe smetterla di definire il suo pensiero “teoria”: le teorie
sono una cosa complessa ed esaustiva, devono essere confrontate e discusse, devono portare risultati scientifici certi. Nulla di tutto questo è
mai avvenuto. Soprattutto una teoria non la si autoproclama: sono gli
altri a definirla tale, a darle un simile riconoscimento. E anche questo non
è mai avvenuto. Questo tenere ben distanti i campi della teoria e della
pratica terapeutica, oppure questo vedere i libri in primo piano lasciando
sullo sfondo la realtà dell’analisi collettiva, non mi convince. È una distinzione molto “fagioliana”. È come la solita vecchia frase che per anni
ci siamo ripetuti ai seminari: «L’analisi collettiva fa schifo, i rapporti
fra noi sono pessimi, ma Massimo non si discute». Tutto ciò che non ci
piaceva era appunto la pratica terapeutica, mentre la figura di Fagioli (e
la teoria, quindi) restava immacolata. Il salto lo abbiamo fatto quando
abbiamo soppresso questa distanza: la teoria è una “teoria della cura” e
non una filosofia, la pratica terapeutica è consustanziale alla teoria. Dividerle è solo un gioco di prestigio, identico a quello che accade dentro ai
seminari. Valerio
In più campi si fa ampio uso delle “teorie sperimentali”. Cioè si prendono uno o più assiomi (di buon senso, spesso risultanti dall’osservazione
154
Il paese degli smeraldi
di fenomeni) e si costruisce una teoria dando per scontato che siano veri;
se poi la teoria fallisce nel dimostrare o prevedere un evento, l’assioma
decade. Se l’esperienza insegna che l’analisi collettiva e i piccoli gruppi
falliscono i loro obiettivi, è lecito dubitare delle premesse teoriche. Una domanda: siamo sicuri che la teoria sia applicata bene nell’analisi collettiva e
nei gruppi? Sembrerebbe proprio di no. E allora non possiamo ancora dire
che sia falsa la premessa. Claudio
Un aspetto della teoria della relatività ristretta di Einstein è il seguente:
l’intervallo di tempo tra due eventi non è invariante, ma subisce una dilatazione se misurato da un orologio in moto rispetto agli eventi. Cioè: per
chi si muove con velocità prossime a quelle della luce, il tempo scorre più
lentamente.
So benissimo che la psichiatria non è come la fisica relativistica, però
Einstein è stato un rivoluzionario, proprio come si pone Fagioli. Io non
escludo che Fagioli possa essere un rivoluzionario nel suo campo, ma che
fornisca un po’ di prove al mondo scientifico!
L’esempio della teoria della relatività ristretta e di una sua prova inconfutabile non vuole certo porsi a modello per la psichiatria, nel senso che
non si possono pretendere da una teoria psichiatrica e dalla prassi che ne
discende dati così chiari da poterli mettere su un grafico. Ma fra la difficoltà di raccogliere dati e non avere alcuna intenzione di raccoglierli, quindi
non averne per niente, un po’ ne passa! Dicono i fagioliani: «Ma si basa
tutto sul sentire». Va bene, ma allora andateci piano a parlare di teoria
scientifica! Se è una teoria qualcuno l’avrà pure teorizzata: infatti esistono
dei libri e si può, e forse si deve, rielaborarla anche a parole e discuterla.
Altrimenti è un dogma, non una teoria.
Il problema epistemologico che ci stiamo ponendo non “lede” la possibilità che diverse persone si siano curate e si possano curare con l’analisi
collettiva. Questo è successo, sta succedendo e succederà finche esisterà
l’analisi collettiva. Lungi da me pensare che Fagioli non sia capace di curare alcuno: il punto, però, è l’assurdità della convinzione che solo con
la teoria di Fagioli è possibile curarsi, mentre con le altre al massimo si
migliora un po’. Convinzione che poggia sulla teoria, teoria che vive nella
più assoluta autoreferenzialità. Rowan
Caro Rowan, le tue richieste di “dimostrazioni” aprono la finestra su
un panorama di visi pensosi. La scienza, e la “scienza”... La scienza con
le virgolette. Non c’è tanta differenza nell’assetto mentale dei ricercatori
in campi molto diversi - come possono essere la fisica e la psicologia - nel
Sulla teoria
155
senso che devono possedere e attivare modalità senza le quali non esiste
ricerca, in nessun campo.
Sempre, ma soprattutto in assenza di queste modalità tipiche dei ricercatori nei vari campi della conoscenza umana, cioè, ad esempio, in caso
di assunzione di verità assolute con chiusura ermetica alle critiche a quelle “verità” e alle eventuali “dimostrazioni”, in caso di arroccamento dogmatico autoreferenziale con affermazioni di unicità, assoluta originalità...
allora, sì, tanto più valgono domande come quella che fai spostandoti
verso l’oggetto della ricerca e le sue risultanze pretese “oggettive”, vale
il richiamo alla metodicità, alla scientificità del procedere, anche in caso
di psichiatria o psicoterapia, anche davanti alle pretese di occupazione,
da parte di queste attività umane, di spazi privilegiati, in qualche modo
protetti, diversi. Romeo
Sarà pure difficile, ma del metodo scientifico e della validazione con metodo scientifico non si può fare a meno, al di fuori di questo tutto è arbitrio.
Poi passeremo la vita ad affinarlo questo metodo, applicato alla psichiatria,
a cambiarlo, a rimettere in fila i criteri di valutazione, a cambiare il peso dei
vari dati a partire dalle varie osservazioni, ma avremo già fatto un passo in
avanti per uscire dall’arbitrio e dalla conseguente barbarie. Non se ne può
più di sentir dire che alla psichiatria non è applicabile alcun metodo scientifico conosciuto e condiviso dalla comunità scientifica di tutto il mondo,
e poi pretendere un riconoscimento di “scienza”. O è applicabile un (particolare quanto si vuole) metodo scientifico, obiettivo e oggettivo, o non è
scienza. Settimo
Non nego la teoria in toto e mi piace molto l’idea di “liberarla”, di buttarla nel mare del libero confronto per vedere se nuota. Mi domando come
sia possibile che a volte venga affermata la “assoluta novità” di alcune sue
componenti che non sono affatto nuove, o che le vengano aggiunti pezzi
che non la rafforzano, anzi, inducono perciò a chiedersi quale altra funzione abbiano, forse quella di “rinnovarla” introducendovi elementi quasi
mitologici. Non ci si rende conto che così non è essa a rendere grande il
suo autore, bensì la costruita grandezza di questi a conferire un’apparenza
di grandezza alla teoria. E non ci si rende neppure conto che in tal modo si
fa di essa un monolite, mentre tutte le teorie, se sono valide, devono essere
scindibili da chi le elabora. Claudio
Fagioli pone la sua teoria come una genesi: prima di lui non c’è stato
alcun pensiero valido nell’intera storia umana. Questo è evidentemente
156
Il paese degli smeraldi
ridicolo, irreale. E ha, tra le tante, una singolare conseguenza: la profonda superficialità dei seminari. Perché nulla è meritevole di essere approfondito, visto che prima di lui (ma anche intorno) non c’è mai stato né
c’è nulla. Questo spiega sia perché Fagioli non si è mai confrontato con
altri intellettuali e studiosi, se non in sedi protette e con pubblici di parte,
sia perché non ha mai permesso che i suoi pensieri venissero divulgati
(corretti, rimasticati, fatti vivere) da altri che non avessero la sua approvazione. Valerio
«Freud non è mai esistito». Vuol dire che, dal momento che non c’è
stata nessuna reale scoperta del viennese riguardo la realtà profonda umana, tutto quello che è stato costruito sopra è senza base, è inesistente. Ma
queste cose le sapete. Pellegrino
Saluti a pellegrino. Cosa sarebbe il freudismo per te? Cos’è questo sillogismo che «se Freud ha fallito la teoria che prometteva la cura della malattia mentale essa teoria non potrà mai andare in crisi perché, appunto, non
c’è mai stata, se non c’è la sostanza non c’è la crisi?». Ricordo che Fagioli
stesso, intervenendo a un dibattito su Janet in una libreria (erano gli anni
novanta), sostenne che Freud, a differenza di Janet, aveva impostato una
teoria, sbagliata, ma teoria. Non solo: Fagioli ha dedicato la maggior parte
della sua vita a demolirla quella teoria, perché mai farlo se il freudismo non
è mai esistito?
E poi cosa intendi per freudismo? Vuoi dire che non ci sono stati centinaia di psicoterapeuti che hanno svolto per circa un secolo il loro lavoro,
ispirandosi, talvolta forse più liberamente dello stesso Fagioli, agli scritti di Freud? Posizioni diversissime, alcune originali, alcune di cura della
psicosi. Tu chiami tutto questo freudismo: Anna Freud come Bion, tanto
per dire. E non ti viene neanche in mente che forse i risultati terapeutici
dell’analisi collettiva andrebbero almeno una volta confrontati con quelli
di altre scuole e orientamenti. Così è semplice dimostrare che Fagioli è
l’unico… Un altro dei tre
2. Sulla sanità originaria e sull’istinto di morte
ll principale assioma su cui si fonda la teoria rimane indimostrato: l’originaria sanità dell’uomo, questo rimane un dogma. Se in una teoria si parte
da un dogma non si parla più di scienza, ma di religione. Rudra
Sulla teoria
157
Cosa si può dire oggi sulla “scoperta” dell’inconscio mare calmo? Io con
discussioni su questo punto ho perso praticamente quasi tutta la famiglia.
Riuscivo a collocare in qualche posto nella mia mente soltanto l’istinto
di morte come fantasia, ma perché si dovesse chiamare così non l’ho mai
capito. Il cambiamento del titolo del terzo libro [cfr.la nota introduttiva a
questo cap.] come considerarlo? Una revisione parziale di quanto affermato in precedenza o un aumento della megalomania? Interlocutore
Sono la medicina e l’osservazione comune a dirci che il bambino nasce
sano. La nascita in sé non è una patologia. Non si tratta di una scoperta di
Fagioli. Nioden
La medicina dice solo che, il più delle volte, il bambino nasce con tutti
gli organi sani. Il pensiero non è un organo, ma è comunemente accettato
che sia il prodotto di un organo8. Evolutivamente parlando è la prima volta
che si vede su questo pianeta un pensiero così ricco di fantasia/immaginazione. Evolutivamente parlando non si era mai vista una specie che andasse
così vicina alla propria estinzione in maniera così consapevole e in così
breve tempo. Non è affatto detto, quindi, che la/le mutazioni che hanno
fatto sì che comparisse questo tipo di pensiero siano vantaggiose. Claudio
Arrivare a vedere la copresenza, nella teorizzazione di Fagioli, di due
linee teoriche che ho chiamato “psichiatrica” e “psicologica”. Se esse sono
copresenti nell’incontro con l’adulto più o meno malato, la loro copresenza
può anche essere utile, o non dissonare, poiché nello sviluppo individuale
può essere avvenuta la trasformazione dell’assetto vitale, sano, della nascita e del bambino piccolo in assetto negativo, “mortale”. Ma se vengono
entrambe applicate alla nascita e dintorni, sono portatrici di una confusione, per cui la nascita è sana, ma si nasce con istinto di morte - retaggio
freudiano - e ci si scinde alla prima poppata - retaggio kleiniano. Sorprendono certe affermazioni di Fagioli, il quale non le attribuisce a Freud o alla
Klein, ma le fa sue, e con ciò entra in contraddizioni teoriche facilmente
rilevabili. Riporto qualche passo da cui forse si possono intravedere le due
linee teoriche a cui facevo accenno.
8
«In ogni modo dobbiamo dire che questo organo particolare della specie umana
che è il pensiero deve essere venuto fuori da qualche parte, a un certo momento e,
come insegna Paracelso, non c’è nessun motivo di dire che possiamo conoscere
il piede, lo stomaco, il cuore, il fegato, i polmoni e non possiamo conoscere il
pensiero» (Fagioli M., 2006, p. 376).
158
Il paese degli smeraldi
«Il bambino che si attacca al seno (mammella) e trova il piacere della
relazione oggettuale, ha la sua prima soddisfazione del desiderio. Desiderio di rapporto umano, di succhiare, svuotare» (Fagioli M., 1976, p. 88).
Bello, no? Con una indicazione di analisi: quello «svuotare», «desiderio di
svuotare». Il desiderio è di riempirsi, non di svuotare. Infatti, qualcosa che
non va c’è...
«Ma, purtroppo, soddisfa anche la rabbia. “Mangia”, “divora”, introietta
la mammella (seno), allorché venga deluso; specialmente se il seno-madre
ostacola la soddisfazione del desiderio. È un vissuto confuso. Il primo rapporto fisico con il seno comprende la dinamica e il concetto di bramosia. Il
bambino, dopo la prima poppata, è anche Saturno. Noi possiamo, considerando la situazione, orientarci. Possiamo capire perché, poi, quando siamo
in relazione con la psiche altrui cosciente e inconscia, abbiamo di fronte a
noi Saturno» (op. cit. pp. 88-89). È un vissuto confuso... povero bambino,
dice Fagioli: purtroppo, ha vissuti confusi. Davvero? O la confusione è
dell’adulto che ne sta parlando? Ma non è difficile orientarci, pare: basta
attribuire «la dinamica e il concetto di bramosia» al bambino che per la
prima volta incontra il seno della madre. Forse quando la madre è una poco
di buono come madre, e il bambino appena nato, chissà come, lo sente?
No. Sempre. Del resto questo, a quanto pare, ci permette di capire perché,
poi, quando incontriamo un adulto, incontriamo Saturno. Lo siamo diventati alla prima poppata, Saturni, tutti, per cui Saturno-io incontro Saturnotu. Poi, se uno pensa che Saturno mangiò i figli, può chiedersi: ma come
fa, questo bambino appena nato che si attacca per la prima volta al seno
della madre, a mangiare i suoi figli? «Il bambino, pertanto, dopo la prima
poppata, è anche un cieco divoratore. È scisso. La scissione fondamentale
di due tendenze. Vedere e non vedere cioè negare. Mangiare nel senso di
introiettare e proiettare gli oggetti» (op. cit. p. 89). Romeo
Il testo che riporti dice: «Il bambino mangia e divora allorché venga
deluso, allorché il seno ostacoli la soddisfazione del desiderio». Sta parlando dell’identificazione proiettiva che, peraltro, è nettamente distinta nel
libro dalla introiezione-proiezione. Il bambino nel rapporto con il seno,
con l’oggetto fisico, è molto probabile che vada incontro a una dinamica di
bramosia, ma anche nella peggiore delle ipotesi ha contemporaneamente il
desiderio che è totalmente assente nello schizofrenico. Questa oscillazione
fra bramosia e desiderio è appunto il “desiderio cieco”, concetto limite legato al rapporto, inevitabile nel neonato, con la sostanza fisica. Nioden
Sulla teoria
159
Su quell’«allorché» c’è molto da dire. Parlando dell’identificazione proiettiva sta dicendo cose della psicoanalisi del passato. La mia tesi è che la
terminologia e le concettualizzazioni freudiane e kleiniane di introiezione,
proiezione e relative identificazioni non sono affatto necessarie.
In quanto all’«oscillazione fra bramosia e desiderio [che] è appunto il
“desiderio cieco” concetto limite legato al rapporto, inevitabile nel neonato
con la sostanza fisica», siamo in pieno freudismo e kleinismo. Le conosciamo bene, le “oscillazioni” tra “posizioni”.
Ma non sono cose che ti interessa superare? Non sono necessarie. E
vanno perciò rifiutate in quanto inutilmente violente: violenza solo teorica, ma violenza; confusione teorica, ma confusione, collocata nel bambino che nasce e si rivolge al seno. E la violenza teorica può avere una sua
importanza nel permettere, se non generare, altra violenza, comportamentale. Romeo
La prima cosa che avrebbe un bambino è il desiderio di riempirsi? Sarà
forse un istinto di sopravvivenza quello di mangiare? Che dopo la nascita possano sopravvenire tutte le dinamiche chiamate odio, rabbia, invidia,
bramosia, che nascano il desiderio e la negazione, chi lo mette in dubbio?
È sotto gli occhi di tutti. Ma che l’uomo nasca con tutto il bagaglio “pulsionale” preformato, in grado di fare un’identificazione bella e buona già nei
primi istanti di vita, provare rabbia ... è da dimostrare. Un bambino nasce
con uno scheletro che deve ancora tutto formarsi, un sistema nervoso che ci
mette dieci anni a portare a termine il suo sviluppo, eppure la sua affettività
è già tutta pronta. Possibile, ma sa molto di “a priori”, il modo tipico di procedere di Fagioli che con gli anni diventerà sempre più evidente. L’uomo
non è un primate con “qualcosa di più”. È qualcosa di totalmente nuovo e di
totalmente diverso. Questo non mi convince per niente. Claudio
E chi potrà mai saperlo [se la prima cosa che avrebbe un bambino è il
desiderio di riempirsi]? Tantissime cose che l’uomo ha detto e dice sulla
nascita e sul bambino piccolo hanno valore certo per l’adulto che le pensa:
quello che tu pensi avvenga alla nascita è importante per te, dice qualcosa
di te, ha effetti su come tratti gli altri adulti, su come ti poni nei confronti
di tante realtà, se non della vita tutta. Parlare di nascita diventa parlare di
inizio, dall’inizio degli inizi ai tanti altri inizi della nostra vita, diventa
parlare di separazione, con tutto ciò che pensi avvenga in una separazione, dalla prima delle separazioni alle tante e tante separazioni più o meno
coinvolgenti della vita. Vale, allora, un poco come in un gioco, che ha una
sua serietà ed effetti molto importanti per la nostra mente, la precisione
160
Il paese degli smeraldi
delle parole e dei pensieri e vale la propria sensibilità profonda, inconscia, irrazionale, per cui, se una cosa non ti convince... te ne freghi delle
parole e del pensiero relativo. Se usi il termine “desiderio”, e ci unisci “di
svuotare”, cioè qualcosa riferito all’oggetto che lascia l’altro “vuoto”, fai
un’operazione, con le parole e con i concetti, diversa da quella che faresti
dicendo “desiderio di riempirsi”. Il bambino che si attacca al seno, secondo
te, è occupato a riempirsi lo stomaco, o a svuotare il seno? Ti può sembrare
solo un cavillo. Provo a cambiare scena.
Metti che vai da uno psicoterapeuta. Se egli pensa di te durante l’ora
che sei occupato a riempirti di cose buone, o se pensa che sei occupato a
svuotarlo, non avverti una differenza? C’è, in quelle parole di Fagioli, in
quel “desiderio di svuotare”, forse il riverbero diagnostico di quella strana
forma di malattia di cui soffrirebbe il bambino, il saturnismo alla prima
poppata, che poi più o meno dura per sempre, a meno che, ovviamente,
non si abbia la fortuna di incontrare uno psichiatra adeguatamente formato
a queste patologie innate o precocissime.
Possiamo stare parati e reattivi verso le brutture della vita senza avere
un atteggiamento paranoicale, di sospetto sistematico sempre dovunque
comunque nei confronti dell’altro essere umano.
Le trasformazioni negative le possiamo pensare successive. Se le pensiamo successive, abbiamo in tutti noi agli inizi della vita un riferimento
di sanità, di capacità istintiva di conoscenza senza scissioni, di rifiuto della
morte, istinto di vita, e non istinto di morte che significa con immediatezza
quello che significa. Da dove viene tutto questo attaccamento al termine e
al concetto di istinto di morte e sue emanazioni agli inizi della vita? Questa
è confusione, dell’adulto, altro che del bambino… Romeo
Oggi Fagioli dice che non bisogna cadere nell’errore di pensare che
“prima” c’è la pulsione di annullamento e “dopo” l’inconscio mare calmo,
ma che l’insorgere delle due fantasie è simultaneo, tanto simultaneo che la
fantasia è una sola, ossia una “capacità di immaginare” connatale. Nel dirlo
dovrebbe scusarsi con chi, come Romeo, lo affermava o perlomeno si chiedeva certe cose tanto tempo fa; invece lui dice che “i vecchi”, pensando
le due fantasie separate, gli volevano distruggere la teoria. Peccato che in
questi trent’anni tutti, e lui stesso, abbiano presentato la teoria nei termini
di due fantasie separate da un “prima” e un “dopo”, tanto che il periodo
di allattamento doveva andare a colmare il rischio di malattia legato al
“disimpasto” (vogliamo chiamarlo così, come ce lo figuriamo?) pulsionale
iniziale. Mi preme sottolineare, quindi, questo modo non proprio onesto,
intellettualmente intendo, di porre le cose.
Sulla teoria
161
A proposito della teoria penso che si tratta di ipotesi, di formulazioni che
in definitiva s’inscrivono nella tradizione psicoanalitica e che, come tutta
quella tradizione, si trovano oggi a dover fare i conti con la pratica clinica
e con ciò che ora sappiamo dello sviluppo del sistema nervoso (che non è
quello che si sapeva quando Fagioli ha scritto i libri). Andiamoci piano,
quindi, con le discussioni sulla teoria. Notiamo piuttosto che la modalità è
sempre quella di spostare i discorsi: ecco che la “teoria” diventa filosofia
e teoria politica di una nascita sana, cosa neanche particolarmente nuova
nella storia del pensiero umano.
Un’ultima cosa. Nell’ambiente dei seminari si scoraggia qualsiasi forma
di sapere, chi sa qualcosina viene guardato con sospetto e spesso stigmatizzato come razionale schizoide o frocio et similia, la gente è spaventata
dall’affrontare discorsi che hanno a che fare con la conoscenza. Ma questa
di mantenere il volgo nell’ignoranza non è una pratica un po’ reazionaria?
Ho voglia di scherzare, mi è venuto in mente che si potrebbe lanciare un
nuovo termine per connotare l’analisi collettiva: dopo i “fagiolini” come
pazienti e seguaci, i “fagioliani” come intellettuali ed epigoni della teoria,
i “fagiolisti” come rappresentanti di questa ultima fase di agitazione e propaganda... Astrantia
Perché non si può far sparire la realtà esterna? È irrilevante che anche
Freud in Inibizione sintomo e angoscia dicesse la stessa cosa? Esistono
molte situazioni psicopatologiche in cui la realtà esterna, la figura, viene
annullata. Ricordate lo scotoma di Laforgue? L’allucinazione negativa?
Naturalmente queste situazioni dovrebbero essere attentamente vagliate
una per una e forse potremmo scoprire veramente come stanno le cose.
Però uno non può dire “sono stufo della psichiatria”, come un diabetico
non può dire “sono stufo dell’insulina”. Bisogna continuare a lottare perché malattie ritenute o rese incurabili non siano più tali. Nioden
L’essere umano ha una capacità che chiama immaginazione (altre volte
fantasia). Che l’abbia integra e pienamente potente alla nascita, o che si
evolva, cosa cambia? Quello che importa è che nella sua vita viene più volte a contatto con situazioni dolorose, e questa sua capacità gli consente di
uscirne bene, senza impazzire. L’uomo sa di avere questa capacità, ma non
si rende conto di come funzioni e di come la metta in atto di volta in volta.
Però la usa, e ciò gli basta per vivere da uomo. È una capacità, questa, che
si affina, si evolve, muta con il contatto diretto con la realtà che, per l’uomo, vuol dire soprattutto rapporto con altri esseri umani.
162
Il paese degli smeraldi
Accade, però, che proprio il continuo scambio con la realtà possa alterare in qualche modo questa capacità, per cui si perde la facoltà di rapportarsi
“umanamente” con il reale. Dove sta allora la scoperta? Su questo credo
sia veramente difficile trovare qualcuno disposto a sostenere il contrario.
Perché allora su questo si sente molte volte la necessità di costruire orpelli
barocchi di parole?
La domanda importante è: come si fa con chi perde la possibilità di usare
questa capacità in modo umano? Perché molte volte si sta male quando
questo capita. Qualcuno che la sa usare correttamente può far vedere, a chi
l’ha persa, ogni volta che la usa in maniera non umana. E come? Rifiutando
e interpretando. Ma può succedere che quel qualcuno, avendo ben funzionante questa capacità (nulla di misterioso o di unico, è lo status naturale
di qualsiasi essere umano) la perda a sua volta? E non è detto che se ne
accorga. Ma allora quelli che poteva far star bene continueranno sempre a
stare male? Se non se ne accorgono, sì. Claudio
Non vedo niente di strano a pensare a una specificità umana, a una diversità rispetto agli istinti animali. L’uomo non ha comportamenti precostituiti, istintualmente determinati. Forse bisogna usare un termine diverso
da istinto per sottolineare questa caratteristica del pensiero umano fin dalla
nascita. Nioden
Non è che perché l’uomo conserva ancora qualche istinto è un animale.
La sua specificità sta appunto nel pensiero umano, caratteristico della specie. Che è un di più, e con gli istinti non c’entra niente. Tu fai confusione
tra istintivo e innato (e non sei l’unico). Se la mettiamo così, sostieni che
questa specifica caratteristica umana, il pensiero umano, è innata. E allora
ci posso pure stare a parlarne. Puoi sostenere che ciò che fa cercare al
neonato il seno, e non il naso o l’alluce del piede, è un pensiero e non un
istinto? Oppure la capacità di pensare in modo umano si forma piano piano, e in questo percorso di formazione sta la sua possibilità di ammalarsi?
Claudio
Se il pensiero evolve, lo fa a partire da un’origine. E quest’origine è
una trasformazione alla nascita, perché il feto non ha attività psichica. La
trasformazione, a sua volta, è il risultato di un moto pulsionale innato che si
attiva come risposta a uno stimolo ambientale specifico (la luce). L’istinto,
come dici tu, non è pensiero. Se il neonato si attaccasse al seno solo come
risultato di un istinto non ci sarebbe evoluzione psichica nel rapporto con
la madre, ma solo accrescimento organico. Nioden
Sulla teoria
163
Devo ammettere che ‘sta panzana della luce (e dell’assenza di massa
del fotone) è una delle più carine degli ultimi tempi. Quanto gli piace, la
ripete in continuazione. E con chi è affetto da anoftalmia bilaterale (dalla
nascita, è dovuta alla mutazione di un gene) come la mettiamo? È umano
o no? Claudio
Il fotone ha una massa. Nell’anoftalmia c’è ugualmente un’attivazione
della corteccia occipitale attraverso afferenze aspecifiche della sostanza reticolare. Nioden
Ci si può chiedere: la luce ha massa? La risposta è: no. L’effetto fotoelettrico mostra che la luce presenta natura corpuscolare e la diffrazione
mostra che essa presenta natura ondulatoria. La meccanica quantistica
accetta il dualismo onda-corpuscolo: la luce puo’ essere vista come un
insieme di particelle: i fotoni. Essi hanno energia e quantità di moto, ma
hanno sempre massa nulla e si muovono sempre a velocità c. L’assunzione che il fotone abbia massa non nulla manderebbe in crisi tutta la teoria
dell’elettrodinamica quantistica. La scienza deve essere pronta a rimettere in discussione tutte le teorie: è quindi doveroso cercare di escogitare
esperimenti per valutare un eventuale valore non nullo della massa del
fotone. ‘‘Per fortuna” (tra virgolette !) le misure eseguite danno, per la
massa del fotone, un limite massimo che è inferiore di decine di ordini di
grandezza alla massa dell’elettrone, limite compatibile con la ragionevolissima ipotesi che questa massa sia esattamente zero! Misure effettuate
in questa prospettiva da fisici cinesi, guidati da Jun Luo dell’Università
Huazhong di Scienza e Tecnologia (“Phys.Rev.Lett.” 90, 081801, 2003),
hanno permesso di ottenere il seguente limite superiore per la massa del
fotone: 10-51g; valore 20 volte minore del limite superiore precedentemente determinato. Questa nuova misura non fa altro che confermare che
il fotone non ha massa !
A volte nelle lezioni di Chieti, nelle ‘‘aulamagna” o negli ultimi scritti
si prende spunto da altre discipline, che dovrebbero essere lasciate fuori da
un discorso medico-psichiatrico fosse anche di ricerca. Rowan
Anoftalmia primaria: per assenza d’invaginazione della fossetta ottica, è
accompagnata dall’assenza del nervo ottico e del chiasma. Oltre a mancare
i globi oculari, mancano anche le vie. Attivazione della corteccia occipitale è una cosa, percezione dello stimolo luminoso, di cui tu stai parlando
dall’inizio e al quale avverrebbe la reazione, un’altra. Claudio
164
Il paese degli smeraldi
Sicuramente sono situazioni diverse, ma non tali da impedire, in assoluto, l’attivazione del pensiero nel caso di anoftalmia. Nioden
Ti ripeto quello che hai detto: «La trasformazione a sua volta è il risultato di un moto pulsionale innato che si attiva come risposta a uno stimolo
ambientale specifico (la luce)». Se poi dici «sicuramente sono situazioni
diverse ma non tali da impedire, in assoluto, l’attivazione del pensiero nel
caso di anoftalmia», mi devi anche far capire come fai a farle andare d’accordo. Claudio
Converrai che il pensiero nasce dall’attivazione della corteccia cerebrale. Normalmente lo stimolo più potente è quello luminoso. In assenza di
un’afferenza specifica di tale stimolo (si parla di casi eccezionali) la corteccia, in particolare la corteccia occipitale, viene ugualmente attivata anche
nelle sue componenti visive. Nioden
Non mi soffermerei tanto sulla mancanza di globi oculari o nervi ottici,
quanto sulla presenza della luce, che non mi sembra affatto scontata. Se il
bambino nasce sano (quindi nascono sani anche i genitori) e si ammala per/
nei rapporti interumani, quando, come e perché, lungo la storia filogenetica
dell’uomo, questa sanità originaria si è potuta corrompere facendosi malattia? Provo a formulare in modo un po’ schematico: se la nascita psichica dei
piccoli del genere homo è ed è sempre stata sana, come possiamo affermare
che l’eziologia della malattia mentale sta nei rapporti umani? Mi chiedo questo perché sono convinto che l’uovo nasca prima della gallina. Sisammo
Mi viene un dubbio: non sarà che siamo tornati a teorizzare l’indipendenza della mente dal corpo, scissione ben nota a tutti noi. La mente deve
avere un substrato biologico, il cervello, o vive di vita propria? Non sarà
che il concetto di anima cacciato a malo modo dalla porta rientra dalla
finestra? Un po’ mi fa pensare questa cosa dell’apparizione miracolosa
dell’immagine alla nascita. Kandel, che potrà anche sbagliare, e comunque
dice che di ipotesi di ricerca si tratta e non di “verità rivelate”, pubblica e
espone le sue affermazioni al dibattito e alla critica di un ampio consesso
scientifico. Il dottor Fagioli con chi ne parla? Con Bertinotti? Lettore
Domande: 1) Secondo la teoria della nascita, quando si nasce si viene
stimolati dalla luce - così comincia a funzionare il cervello - e si fa la fantasia di sparizione (in questo caso l’unico annullamento “buono”) verso la
luce stessa che è lo stimolo più forte, facendo la prima immagine, quella
Sulla teoria
165
dell’inconscio mare calmo, che è il recupero della magnifica situazione intrauterina. Giusto? 2) Fagioli ha recentemente sostituito a “inconscio mare
calmo” una parola tedesca, Vorstellung, che sta per “capacità di immaginare”. È una modifica sostanziale alla sua teoria? 3) Cosa sono gli “engrammi
emotivi”, cosa si intende per memoria implicita, Lettore? Rowan
Provo intanto a risponderti io: 1) È una fantasia di Fagioli: cioè, a lui piacerebbe che fosse così. Purtroppo esiste una malattia, genetica, per la quale
si nasce senza globi oculari. Queste persone per Fagioli non dovrebbero
mai poter fare un pensiero umano. Invece lo fanno. Uno è anche un compositore. 2) Si, è una modifica. Ma filosofica. 3) Le memorie si definiscono
esplicite o implicite secondo come vengono richiamate le informazioni.
Memoria implicita è una memoria di tipo procedurale: ricordare come va
eseguito qualcosa senza necessariamente essere in grado di verbalizzarne
il contenuto. Come quando si dice “una volta che hai imparato ad andare
in bici non te lo scordi più”. Richiamare una memoria implicita non necessariamente richiede attenzione cosciente. La memoria implicita è connessa
alle condizioni originali nelle quali è avvenuto l’apprendimento. La memoria esplicita (o dichiarativa) è la conoscenza di fatti, di persone, luoghi,
cose, date, formule ecc. Viene richiamata alla mente con sforzi coscienti, e
molte volte richiede la capacità di associazione. Per finire, memoria esplicita e implicita sono “conservate” in aree diverse del cervello.
Tra l’altro, Fagioli e circondario continuano a insistere sulla storia dei
tre neurotrasmettitori. Non sanno, o non vogliono sapere, che nel frattempo
le conoscenze sulla neurofisiologia sono andate avanti? Che nel frattempo
sono nate le neuroscienze? I primi passi di questa giovane scienza cominciarono a muoversi proprio negli anni Settanta. Non è che il Nostro si sarà
un po’ spaventato della terribile complessità di questa scienza? Mi ricordo
che in una lezione di Chieti parlava quasi schifato della complessità di una
visita neurologica. Le neuroscienze non hanno certo, e lo dichiarano, la
risposta a tutto; ma non sarebbe più onesto se nella sua ricerca Fagioli tenesse conto anche dei risultati che nel frattempo hanno prodotto? Claudio
Caro Rowan, le tue domande scaturiscono da una comprensibile curiosità.
1) A proposito della cosiddetta “teoria della nascita” ho parlato di reintroduzione dell’idea di “anima”, sotto le false spoglie del concetto alquanto
astratto di “inconscio mare calmo”. La pretesa che questa sia una scoperta
e che possa rappresentare un concetto precursore delle attuali scoperte neuroscientifiche è chiaramente un tentativo di riparare verso una posizione
166
Il paese degli smeraldi
più credibile, dopo anni di stazionamento nel vago e nel mistico. Secondo
il maestro di Trastevere è la luce che stimola la fantasia di sparizione, ed è
quest’ultima che crea le condizioni per la comparsa (come dal cappello di
un illusionista) del cosiddetto “inconscio mare calmo”, a sua volta immagine ricordo dell’esperienza intrauterina. Così, secondo il trasteverino, eccoti
il cervello bello funzionante e in grado di organizzare immagini interne,
elaborare esperienze di rapporto, vivere una straordinaria stagione di “incontri sessuali” con la madre che allatta, conoscere le gioie di un orgasmo
antelitteram, porre le radici per un inconscio ricco di immagini e memorie
creative. Tutto ciò fin dalla nascita, ovvero fin dai primissimi giorni, per
cui ci sarebbero alcuni con una “nascita importante” (ad esempio il trasteverino e i suoi familiari) e altri con una “nascita scadente” (tutti gli altri).
Alla potenzialità, relativa a questo primo momento di gloria, seguirebbe
lo sfacelo, come ben racconta il nostro caro Romeo, ossia con Saturno che
divora i genitori. Ditemi, allora, come questa specie di entità, chiamata
“inconscio mare calmo”, possa minimamente corrispondere a quanto le
neuroscienze intendono per proto-sé o cervello emotivo o inconscio non
rimosso (Mancia, 2004)! Le neuroscienze tengono conto delle conoscenze
circa lo sviluppo del cervello, per cui ad esempio affermano che «lo sviluppo cerebrale non si conclude con la nascita: il volume cerebrale aumenta
ancora rapidamente fino a raggiungere il 75 per cento del suo valore finale
intorno ai 2 anni» (Berardi et al., 2006). Com’è possibile parlare di una
vita mentale completa, che comporta la formazione della cosiddetta “immagine interiore”, ossia la chimera che per tutta la vita saremmo costretti
a recuperare e della perdita della quale dovremmo dolerci, quasi come di
un peccato originale?
2) Ecco il perché della sterzata molto furba, ma sempre in ritardo,
dall’immagine alla capacità di immaginare. Il maestro di Trastevere non
può modificare i suoi libri già scritti e cambiare tutto dalla a alla z (i vangeli
non si cambiano!), quindi tenta la strada della modificazione latente (utilizzando il metodo freudiano di apporre concetti nuovi senza confutare e
sconfessare quelli vecchi). Così, anche questa recente convalida delle neuroscienze, ponendosi come il precursore delle loro scoperte, è un tentativo
maldestro di rientrare nell’attualità del dibattito scientifico, dopo essersene
tenuto fuori per oltre 30 anni. Ma è anche un segno di grande difficoltà e
consapevolezza dei propri limiti, che però in questo caso non si risolve in
apertura mentale e ridimensionamento dell’onnipotenza.
3) Confermo quanto accennato da Claudio, ma sottolineo che il luogo
cerebrale della memoria implicita è quello delle emozioni (amigdala, sistema limbico e zone collegate), ossia il cervello più antico, già sviluppato
Sulla teoria
167
alla nascita. Le emozioni non hanno configurazione, ovvero non si possono
definire immagini. Per cui, i ricordi emotivi affiorano solo quando un’esperienza sensoriale o comunque emotiva li riattiva, producendo risposte emotive attuali condizionate da memorie emotive passate (gli engrammi). Un
attacco di panico, ad esempio, sorgerà in risposta a una crisi di abbandono,
ma farà affiorare ricordi emotivi catastrofici relativi al primo anno di vita.
La memoria esplicita, invece, si colloca nell’ippocampo, una struttura del
cervello che si sviluppa nei 18 mesi successivi alla nascita e contiene sia le
immagini di sé e dell’altro da sé, ma anche le prime simbolizzazioni non
verbali che costituiscono i segni (memoria semantica) e le configurazioni
(memoria narrativa) di quanto il soggetto ha vissuto e rielaborato al suo
interno. Quest’ultimo è il vero materiale dei sogni (pensiero inconscio),
che al massimo si colora emotivamente con l’apporto di memorie emotive
associate alle immagini. Lettore
Grazie lettore, la mia non è solo curiosità. Sono un analizzando da diversi anni e ho cercato di leggere accuratamente tutto il primo libro. Siccome
sei dotato di ottima sintesi, permettimi di chiederti di intervenire nuovamente su un punto, o forse su “il punto”. Alla nascita si fa la fantasia di
sparizione/annullamento “buono” verso la realtà inanimata che si presenta
con fortissimi stimoli, primo tra tutti quello della luce. Avendo già il feto
vitalità, il neonato porta con sé il ricordo della situazione ideale intrauterina; al momento del primo annullamento “buono” (cioè la fantasia di
sparizione verso la luce), l’unione tra questa traccia mnesica e la fantasia di
sparizione permette la creazione della prima immagine, ossia dell’“inconscio mare calmo”, da allora si è in possesso della “capacità di immaginare”
e del cervello bello e funzionante.
La mia duplice richiesta: 1) Parte didascalica. Ci sono miei difetti di
comprensione su quest’aspetto della teoria? 2) Parte sostanziale. Il semplice chiudere gli occhi – azione attraverso la quale si manifesta la fantasia
di sparizione verso lo stimolo inanimato della luce - come può permettere
la creazione della prima immagine? Cioè, il bambino appena nato chiude
gli occhi, fa la fantasia di sparizione che si unisce con la traccia mnesica e,
paff!, si forma la prima immagine (pensiero non verbale). In questo senso
parli di “anima” sotto le mentite spoglie di inconscio mare calmo? Rowan
Caro Rowan, ti ringrazio per l’attinenza e consequenzialità delle tue domande.
1) La tua comprensione didascalica del pensiero trasteverino è perfetta! Però, vorrei indicarti la totale inconsistenza di quanto hai compreso.
168
Il paese degli smeraldi
Infatti, se con la fantasia di sparizione nei confronti della luce si creano
le condizioni per l’emergenza dell’inconscio mare calmo, il quale sarebbe l’immagine ricordo dell’esperienza intrauterina (che per l’autore non è
traccia sensoriale emotiva ma rappresentazione complessa, tanto da essere
definita fantasia), mi dici come si accorda tutto questo con l’immaturità
totale del feto (ricordati quanto dicevo sullo sviluppo dell’ippocampo e
sul 70 per cento del cervello che matura dopo la nascita), il quale non può
avere tracce mnesiche tali da consentire la presenza di alcuna immagine?
La scienza attuale, quindi, ammette che solo le strutture più antiche del cervello (cervello emotivo) si sviluppano nell’ultima parte della vita intrauterina, per cui non immagini ricordo, ma emozioni possono essere registrate
in forma di memoria implicita e senza alcuna configurazione. Le emozioni,
quindi, e non le immagini ricordo, possono manifestarsi nel neonato e costituire i nuclei delle future immagini mentali. Ma si tratta di abbozzi e di
realtà incomplete, le quali solo grazie all’opera del caregiver riescono a
completarsi (nel giro di 4-5 anni!). Qui si confermano le grandi intuizioni
di Bion (con la funzione di revérie materna) e di Winnicott (con la funzione
di holding), richiamate dalla recente teoria di Fonagy (funzione riflessiva
materna). Altro che immagine alla nascita, da cui scaturirebbe l’identità del
soggetto, libera e indipendente dall’apporto del caregiver!
2) Falsa, quindi, la traccia mnesica del feto, che al più possiede una memoria emotiva senza configurazione, capace cioè di innescare una risposta
emotiva che si esprime in termini corporei (la chiusura degli occhi di fronte
alla luce è niente più che un riflesso antistimolo). Falsa la prima immagine, vera e propria illazione senza fondamento e accattivante metafora per
cristiani miscredenti (l’anima uscita dalla porta rientra dalla finestra!) e per
romantici sessantottini, ricchi di esperienze emotive non mentalizzate e orfani di ideali non materialistici! Ecco perché “fa sparire” l’inconscio mare
calmo e tenta di sostituirlo con la “capacità di immaginare”. Caro Rowan,
che ne dici, se ci cascassimo non faremmo torto alla nostra intelligenza?
Lettore
Dovendosi la dinamica della nascita ritrovare negli affetti più importanti del bambino, dell’adolescente e dell’uomo maturo, ciò che avviene
alla nascita è un processo che non si può verbalizzare, quindi è necessario
riferirsi al momento primo dell’essere umano (momento nel quale egli non
parla) in termini “metaforici” per darne (di questo processo) una descrizione. Questo punto nodale della teoria mi sembra abbia le caratteristiche di
un postulato. Che per natura di postulato, non ha bisogno di dimostrazioni.
O mi sono perso qualche ulteriore passaggio dove viene spiegato più detta-
Sulla teoria
169
gliatamente in che modo il chiudere gli occhi alla nascita possa trasformare
la traccia mnesica in capacità di immaginare?
La geometria euclidea si basa su cinque postulati e funziona. Ma dall’epoca di Euclide alla nostra si sono aperti “nuovi mondi”. Per misurare la distanza tra due punti è sufficiente qualche nozione di trigonometria piana,
se si vuole andare un po’ più all’interno del concetto di distanza spaziale
bisogna ridiscutere tutto e si conclude che la geometria euclidea può essere
vista come un caso limite di altre geometrie (le non-euclidee, appunto) o
che va reinterpretata come un caso limite nel concetto di spazio-tempo e
funziona bene alle nostre velocità, dove le lunghezze non si contraggono.
Ma con questo caso limite si sono costruite mirabili opere architettoniche, basti pensare agli acquedotti romani... Scusate questo ardito e opinabile collegamento con la geometria, ma non si potrebbe semplicemente dire
che per capire cos’è la realtà mentale umana siamo solo all’inizio? E che
35 anni fa si era ancora più all’inizio, ma che la teoria di Fagioli è rimasta
sostanzialmente la stessa (di questo ne sono certo, lo afferma sempre il mio
terapeuta)?
Spesso ho sentito Fagioli parlare di metodo deduttivo, un metodo di cui
le scienze esatte si avvalgono. Se tiro una pallina dal quinto piano non ho
bisogno di vederla cadere per sapere che è giunta a terra. Perfetto. Ma così
si torna al punto cruciale. Se ciò che voglio dedurre è un postulato, ossia
che la nascita umana avviene dalla fusione tra traccia mnesica e fantasia
di sparizione verso la realtà inanimata, va da sé che ho un’infinita arbitrarietà nel piegare il metodo deduttivo alla conferma di ciò che voglio, che
tanto non va dimostrato in quanto postulato. Da un postulato, prendendo in
considerazione nuovi sviluppi di discipline collegate, forse si può arrivare
a una (nuova) teoria che alla fine reinterpreti il postulato stesso. Ma si può
anche rimanere fermi e farlo diventare un dogma, con tutto ciò che ne discende. Temo di aver fatto un po’ di caos...ma la questione mi attanaglia.
Non mi può bastare il dire che la teoria della nascita “è principalmente
qualcosa che va vissuta e scoperta nei rapporti interumani ed è quasi inutile
verbalizzarla più di tanto”. Altrimenti l’arbitrarietà la fa da padrona ancora
una volta. Rowan
Allora, Rowan, forse è il caso di capirci prima sul rapporto che c’è tra
teoria e fatti. Una teoria non può creare fatti, né può contraddirli. Quindi,
già il non voler tener conto dello sviluppo dell’ippocampo non permette di
andare avanti nella discussione. A oggi, è accettato come fatto. Si può non
accettarlo, ma bisogna motivare. Fagioli non nega le scoperte moderne,
non le rifiuta. Le ignora.
170
Il paese degli smeraldi
È giusta però, allo stato odierno delle conoscenze, una cosa. Dei nostri
primi due anni di vita noi ne abbiamo memoria, memoria delle sensazioni, dei sentimenti provati, ma non possiamo verbalizzarli, soprattutto non
possiamo richiamarli a comando, quindi non possiamo farne immagini
conscie, a volontà. Che questo invece possa avvenire nel sogno, che si
possa fondere questo materiale “grezzo” del ricordo delle sensazioni dei
primi due anni con esperienze visive successive e farne nuovi ricordi (cioè
il ricordo del sogno al risveglio) è un altro discorso. Che il neonato sia in
grado di utilizzare un riconoscimento di “buono” e di “cattivo” (cosa ne
sa lui di realtà materiale buona e cattiva? o è tutta cattiva?) e di mettere
in atto un meccanismo di creazione di immagini fin da subito, mi sembra
sia fuori discussione: non può ancora farlo. Per dirla in breve: “ricorderai”
le sensazioni e non le immagini dei primi due anni. Quindi non puoi fare
sogni sull’inconscio mare calmo, dunque tutte le interpretazioni fatte su
questo non sono valide, e sorge qualche dubbio sulla capacità di Fagioli di
interpretare i sogni.
Fagioli parla di metodo deduttivo, ma lo applica fallacemente. È convinto delle conclusioni e da queste ricava le premesse, come fai ben notare.
Più corretto sarebbe nel suo caso parlare di teoria sperimentale, strumento
concettuale particolarmente comodo quando i fatti non si possono (ancora)
osservare. Finché c’era Newton, che le mele le vedeva cascare, tutto bene.
Quando si è cominciato a ipotizzare l’esistenza di particelle “invisibili”,
qualcuno ha detto «finché non abbiamo gli strumenti che ci permettono di
vederli, vediamo un po’ che succede a ragionare come se esistessero». Ma
le congetture (ciò che sostituisce i postulati in una teoria deduttiva pura)
devono, come minimo, non essere in contraddizione con la realtà.
Siamo di fronte a una teoria che come unica osservazione aveva la malattia mentale. Che ha ipotizzato che la causa della malattia mentale fosse il
rapporto interumano anaffettivo. Che ha ipotizzato la nascita sana per tutti.
Che ha ipotizzato la capacità di compiere sofisticate operazioni mentali già
dalla nascita. Nulla da ridire, tentativo coraggioso e più che riconosciuto,
visto che parliamo di anni in cui si brancolava nel buio. Ma oggi semplice
arroccamento conservatore se si ignorano (bada bene, non rifiutano) le scoperte successive. Claudio
Di cose pesanti ne ha pensate l’uomo, sull’inizio della vita psichica!
Includo l’istinto di morte come fantasia di sparizione, poiché quel rapido
difendersi dal caos delle stimolazioni della nascita, che possiamo pensare
quando veniamo al mondo, non è né fantasia né sparizione né tantomeno
istinto di morte. Questo è nome, e pensiero, che viene dalla tradizione freu-
Sulla teoria
171
diana; nome erroneo, e pensiero che genera o giustifica una prassi psichiatrica assai problematica - quello che ho chiamato teoria psichiatrica.
La teoria psicologica, sviluppata, comprende la teoria psichiatrica e ne
corregge alcuni gravi errori. L’assetto istintuale che può essere definito
“mortale” esiste, ma solo se pensato come deformazione dell’assetto istintuale della nascita, che è vitale.
Rispettiamo le evidenze che abbiamo e possiamo procedere in coerenza di pensiero a una psicologia dello sviluppo psichico, e - cosa importante! - cautelarci dal ritenere la sanità psicofisica un’invenzione di
qualcuno, psichiatra o messia. La reazione difensiva di chiusura vitale
immaginabile alla nascita è pensabile come una scoperta, o più correttamente come qualcosa che molto probabilmente avviene, e il pensarlo ci
conduce verso una catena di coerenze teoriche non stridenti con quello
che possiamo vedere nella realtà. Il nome scelto da Fagioli è erroneo,
meccanicamente derivato dalla tradizione freudiana in quanto istinto di
morte, ed è il nome di un processo - la fantasia di sparizione - pensabile
nello sviluppo successivo come deformazione dell’assetto istintuale vitale originario, che nulla fa sparire…
Nella teorizzazione complessiva delle opere di base di Fagioli l’istinto
si esplica:
a) dall’interno contro l’esterno alla nascita;
b) dall’interno contro l’esterno umano inanimato “sentito” senza immagini o con immagini preverbali, successivamente alla nascita;
c) contro le immagini dell’esterno per una connessione tra le immagini
e una sensazione di disturbo, successivamente alla nascita e con effetto
sempre involutivo;
d) contro immagini e sentimenti di un sé che si connette ad una sensazione di inanimato, successivamente alla nascita e con effetto evolutivo;
e) contro immagini e sentimenti di un sé che si connette ad una sensazione di disturbo in rapporto con un altro essere umano animato, con effetto
sempre involutivo.
Se alle parole viene dato il significato che hanno, la fantasia di sparizione può essere coerentemente considerata propria per i casi in cui l’istinto
è diretto contro le immagini, la dizione “istinto di morte” è appropriata
solo per i casi 3 e 5 senza bisogno di tante aggiunte e contorsioni mentali,
mentre negli altri casi ha valenza decisamente evolutiva, vitale. Se poi si
pensa alla coerenza con la teorizzazione del desiderio come “cardine di
ogni follia”, l’assetto psicofisico che può essere definito di “morte” è solo
quello derivante dalla defusione istintuale, dalla scissione dopo la delusione protratta del desiderio.
172
Il paese degli smeraldi
Per la nostra logica è necessaria, anche in eventuale assenza di immagini
come nei casi 1 e 2, un’attività percettiva. La quale, fin da subito, per quello
che possiamo vedere, funziona assai bene; c’è conoscenza, agli inizi della
vita e, coerentemente, non istinto di morte-fantasia di sparizione-pulsione
di annullamento: questi sono assetto istintuale e processi psichici coerentemente ipotizzabili alla base della patologia adulta. Romeo
Vorrei un parere sulle seguenti formulazioni di Sabine Spielrein che nel
1912, in un articolo dal titolo La distruzione come causa della nascita,
a proposito dell’istinto di morte scriveva: «Nell’amore la dissoluzione
dell’io nell’amato è contemporaneamente la più forte affermazione di sé,
è una nuova vita dell’io nella persona dell’amato. Se l’amore non c’è, la
rappresentazione di una trasformazione dell’individuo sotto l’influsso di
un potere estraneo, come nell’atto sessuale, è allora una rappresentazione
di annientamento o di morte. L’io stesso dell’uomo ha la capacità di indifferenziarsi nell’altro e se esiste una dimensione di vitalità dell’io questa
conduce a una più intensa affermazione di sé. Percorriamo a ritroso quella
strada che, dall’originaria indifferenziazione (‘noi’) ci ha condotto all”’io’.
L’istinto di vita, che ci costituisce in origine come ‘io’, si completa con
l’istinto di morte che riconducendoci al ‘noi’ rende le nostre rappresentazioni condivisibili e rende possibile, contemporaneamente, l’affermazione
più vera dell’io di ciascuno di noi». Frà
Invece di “distruzione” non si potrebbe dire “separazione”? Penny
3. Sulla percezione delirante
Una volta che si sia affermato che la fantasia di sparizione e l’annullamento possono riguardare solo l’immagine mentale, è chiaro che tutto il
discorso della percezione delirante viene meno. Nella percezione delirante
l’annullamento è rivolto verso la figura e non l’immagine dell’oggetto. Altrimenti sarebbe intuizione delirante. Lo scontro sulla percezione delirante,
quindi, aveva come sottofondo il problema della nascita e della formazione
dell’immagine. Molto interessante. Se la percezione delirante non esiste,
si diventa liberi di agirla. Per quello che mi riguarda ho capito un aspetto
importante che aiuta anche in una ricostruzione storica. Nioden.
Alla storia della percezione delirante mi costrinse a pensare un noto
psichiatra fenomenologo, quando, una volta che gliene parlai facendo di
Sulla teoria
173
questa dizione l’uso disinvolto che se ne fa in analisi collettiva, mi guardò
inorridito e mi disse che da me non si sarebbe mai aspettato che mettessi
così sotto i piedi quello che è un cardine della psicopatologia: la percezione delirante secondo Kurt Schneider è un sintomo schizofrenico di primo
rango, ossia un segno sicuro di schizofrenia! Schizofrenia clinica, che è
una malattia grave e cronica, non incurabile perché ha un terzo di casi di
risoluzione spontanea (questo secondo alcuni seri psicopatologi, peraltro
organicisti).
Naturalmente ho anche letto decine di volte l’articolo sulla percezione
delirante di Fagioli (Fagioli M., 1962a), articolo scritto all’epoca in cui anche lui frequentava la fenomenologia e la psicopatologia e peraltro tenuto
in gran conto in quell’ambiente così schizzinoso. So anche che di quel testo
è stata proposta dallo stesso Fagioli un’esegesi tendente a dimostrare come
in esso fosse già contenuta la scoperta della nascita, l’ho seguita con interesse e ancora di essa mi affascinano alcuni passaggi. Ho anche assistito
alle dispute con Antonello, dispute annose che sono arrivate a far sì che la
raccolta curata dallo stesso Antonello delle prime pubblicazioni psichiatriche di Fagioli (Armando, 1999), venisse relegata nel dimenticatoio. Lungi
da me entrare ora in questo argomento così difficile, io stessa scrissi una
nota per Il sogno della farfalla (Seta, 2004) in cui mi dicevo consapevole
della differenza tra Schneider e Fagioli e di quello resto convinta, ma andare oltre e argomentare in proposito non è facile, soprattutto se a tutta la
complessità della questione dovessi a questo punto aggiungere l’imbarazzo
che ho provato all’interno dei seminari (negli ultimi tempi soprattutto) nel
sentire pronunciare così spesso diagnosi di schizofrenia, o di percezione
delirante come sintomo schizofrenico.
I seminari sono una sede psicoterapeutica e guardate che questo passaggio andata e ritorno, avanti e indietro, dalla psichiatria alla psicoterapia
non è una cosa tanto semplice, né tanto chiara. E poi perché questo accanimento verso Antonello e la sua insistenza sulla percezione delirante: non è
che lui stava girando intorno a una contraddizione o a un punto importante? Penso che c’entri la questione del subliminale: la riproposizione della
diagnosi differenziale tra percezione delirante paranoicale e schizofrenica
in seduta di psicoterapia, anche a proposito di gente sana e non malata di
mente, forse ha a che fare con il subliminale. Io non sono sicura che chi
sta lì in seduta mentre fioccano queste dizioni, perfino chi come me certe
distinzioni le conosce, tenga fermamente in mente e ben installate dentro
certe differenze e distinguo, penso piuttosto che i più rimangono atterriti
dall’essere loro o dall’avere accanto (perché a volte la diagnosi è data in
contumacia) persone gravemente malate. Albertina Seta
174
Il paese degli smeraldi
Cara Albertina, hai ricordato l’esistenza del mio poco appetibile, ingenuo ed esecrato libretto del 1999: poco appetibile, perché scritto in uno
stile che non poteva incontrare il gusto dell’analisi collettiva e, anzi, lo
sfidava; ingenuo, perché quando lo scrissi credevo ancora che al mio fraterno amico fosse rimasto un poco di quella disponibilità all’ascolto che un
tempo, nonostante l’alto tasso di autoreferenzialità iscritto nel suo dna, mi
era parso di potergli riconoscere; esecrato, perché non è, come dici tu, che
“girava intorno” a una contraddizione, piuttosto andava al cuore di essa.
Non ho la forza, nel torpido snodarsi di questo caldo agosto, di fare un
discorso articolato, ma sarei ingrato se non cogliessi l’occasione che mi
offri di ricordare succintamente la sostanza di quel libro. In esso svolgevo
un’attenta lettura, quasi un commento testuale, dell’articolo scritto da Fagioli nel 1962, la quale mi portava a concludere:
1. Che esso sostenesse: a) che la percezione delirante è un fenomeno la
cui specificità risiede nel suo prodursi a fronte del nuovo; b) che il nuovo
di fronte a cui si produce è la comparsa dell’umano; c) che per ciò stesso
il suo prodursi presuppone una capacità di discriminazione dell’umano; d)
che tale fenomeno non è esclusivamente psicopatologico, ma si presenta in
forme che nel loro insieme fanno l’insieme dell’esperienza e stanno tra loro
in un rapporto di distinzione e continuità; e) che il fatto che tutte queste
forme presuppongano la suddetta capacità e che stiano in questo rapporto
è la condizione dell’idea della cura e della possibilità di pensare l’unità
dell’esperienza e l’idea dell’uguaglianza.
2. Che il modo di Fagioli di riferirsi alla percezione delirante dopo il
1989 poteva contraddire questi contenuti dell’articolo: quel modo sembrava talora non tenere conto della complessa specificità del fenomeno e ricondurlo a un significato esclusivamente psicopatologico, rischiando così
di conferire alle idee della possibilità della cura, dell’unità dell’esperienza
e dell’uguaglianza una funzione meramente ideologica e di copertura delle
opposte idee della cura interminabile, dell’unità dell’esperienza impensabile e dell’uguaglianza impossibile. Solo dopo il 1999, anche in seguito al
modo ottuso, scomposto e scorretto con cui Fagioli e il suo clan reagirono
alla mia lettura, sono venuto via via comprendendo che quanto allora mi
sembrava una contraddizione apparente, che comportava un rischio evitabile, era la flebile spia di una latente già nello stesso articolo del 1962
e sistematizzata poi in Istinto di morte e conoscenza, che comportava il
necessario concretizzarsi di quel rischio nella costruzione di un mito della
diseguaglianza che nessun apparentamento politico vale a smentire.
Credo di avere fatto un passo avanti nel chiarirmi quale fosse questa
contraddizione nello scritto dell’inizio di quest’anno (Armando, 2007). La
Sulla teoria
175
formula che ho adottato per rappresentarla è quella della contrapposizione
tra verità e fede e tra filosofia e psichiatria; qui, grosso modo, mi sembra
che le nostre analisi convergano tra loro e anche con quella di Romeo, in
quanto sento te parlare di contrapposizione tra psicoterapia e psichiatria
e lui tra psicologia e psichiatria. È ovvio che c’è ancora tanto da chiarire;
aggiungo che, se ti intestardisci a considerare la percezione delirante come
un sintomo primario schizofrenico, fai una cosa ineccepibile, che ti mette
tra l’altro in ottima compagnia, ma ti precludi la possibilità di tale chiarimento e, in generale, di comprendere il significato che l’interesse per quel
fenomeno ha nella nostra comune esperienza. Antonello
4. Sull’identificazione proiettiva
Vi rendete conto che nella pratica di Fagioli e suoi derivati il costrutto
più adoperato (e quello che è più grave, agito) è l’identificazione proiettiva,
che poi è di Melanie Klein, senza riconoscerle il minimo merito e, invece,
includendola surrettiziamente nella “teoria”? Così come tutto lo sviluppo
della ricerca sul fatto che l’inconscio non è da considerare un sostantivo,
ma un aggettivo (Armando, 2007), perché non si dichiara che è frutto del
pensiero di uno psicoanalista, che non so se definire freudiano, di Kris.
Astrantia
Fagioli ha sottoposto a critica il concetto di identificazione proiettiva da
più di dieci anni. Ciò apre un grosso problema. Rispetto a Istinto di morte e
conoscenza si può dire che egli utilizzava la terminologia psicoanalitica di
quel tempo e dell’ambiente con cui si confrontava in quel momento, dandole però un senso radicalmente diverso. Vedi, ad esempio, la differenza
fra istinto e pulsione. La pulsione non è istinto e quindi, sintetizzando, non
si può dire che Fagioli sia kleiniano. Nioden
Loro usano questo concetto [prima identificazione strutturante]. Ma è
una “novità assoluta” pure questa o viene da altri? Claudio
Come fa ad essere un’assoluta novità se, come detto altrove, tutta la
psicoanalisi si regge sull’identificazione? È ovvio che non lo è. A parole
Fagioli sostiene che poi l’identificazione strutturante andrebbe sostituita da
un (ritrovato? costruito ex novo?) senso di sé, ovvero immagine interna,
ovvero nascita (anche qui la formulazione può essere originale, ma il concetto è anche detto da altri). Il punto è: una volta che non hai più sintomi
176
Il paese degli smeraldi
tanto fastidiosi, chi stabilisce se pensi con il tuo cervello o semplicemente
sei identificato con il tuo terapeuta o, peggio, ripeti le cose che lui dice
senza neanche preoccuparti di verificarle? Astrantia
L’identificazione strutturante sta, per la parte fagioliana, in Istinto di
morte e conoscenza. Lì Fagioli scrive di identificazioni varie. Dal paragrafo “La storia di un caso”: «Si addiviene alla conclusione che, per poter
reggere nel rapporto con una donna, è necessario qualcosa; questo qualcosa, sarà specificato poi, è la figura paterna non distrutta. La chiamiamo
identificazione fondamentale. Senza di questa, con una donna, si muore.
Contemporaneamente a questo lavoro di ricostruzione della figura paterna,
o ricerca della identificazione di base... » (Fagioli M., 1976, p. 30).
Nel paragrafo precedente a questo c’è la prima formulazione della fantasia di sparizione: «La presenza fisica dell’oggetto è una realtà che permette
al bambino di non realizzare come vera (onnipotente) la fantasia di essere
stato lui a determinare l’evento: sparizione dell’oggetto. La reazione del
bambino (analizzando) in termini di fantasia inconscia di fronte all’evento
‘assenza’ va considerata una fantasia di sparizione» (op. cit., p. 27). Si badi
bene: bambino=analizzando! Può far capire, tra altro, molti errori successivi di Fagioli.
Nella psicoanalisi del passato, come ha detto Astrantia, di quel termine
se ne è fatto uso a piene mani. Con gli inevitabili schematismi: in ambito freudiano, l’identificazione è all’incirca il rendersi uguali a qualcun
altro, assumerne i modi, forse senza accorgersene; in ambito junghiano, è
il processo di ricerca della propria identità successivo all’analisi delle manifestazioni patologiche; in ambito kleiniano, il termine è soprattutto usato
associato a “introiettiva” e “proiettiva”, ma non corrisponde alla somma
dei significati delle parole (che sarebbe, circa: sbatto nell’immagine che ho
di te cose mie - proiezione - e ti identifico con quelle) ed è invece la teorizzazione, un po’ più incasinata e incasinante, di quelli che in tale ambito
sono chiamati “fantasmi d’assalto”.
Fu Anna Freud a indicare un “meccanismo di difesa” che chiamò “identificazione con l’aggressore”, ed è proprio partendo da questa identificazione specifica che Fagioli inizia il secondo paragrafo di Istinto, quello in
cui viene formulata per la prima volta la – oggi dimenticata? - fantasia di
sparizione. Romeo
177
6
ALCUNE OPINIONI A CONFRONTO
Questo capitolo riprende anzitutto il tema, accennato già nel quarto,
del riproporsi all’interno dell’analisi collettiva di fenomeni che avevano
caratterizzato l’Istituzione psicoanalitica degli anni Settanta in opposizione ai quali essa si era inizialmente posta. In particolare si sofferma sul
ripetersi in essa della tendenza a non confrontarsi con le anomalie e a
darle per inesistenti. Rifacendosi a un’espressione del libro del 1973, Il
potere della psicoanalisi, già chiamato in causa, definisce tale tendenza
come “politica della rimozione”, avanzando interrogativi sulla sua conciliabilità con la recente “scesa in campo” di Fagioli e dell’analisi collettiva
nelle file della sinistra radicale.
Anche il secondo paragrafo riprende un tema già trattato, quello
dell’autoreferenzialità, ovvero della scelta di Fagioli di accreditare la propria teoria prescindendo dal confronto e isolandosi rispetto al resto della
ricerca scientifica. Il terzo paragrafo raccoglie le risposte a un’opportuna
domanda rivolta ai protagonisti del blog da parte di chi continua a dare
il proprio assenso alla teoria e alla pratica di Fagioli: cosa mai li avesse
spinti a dar loro un tempo, essi stessi, quell’assenso che ora sottraggono.
Ciò che caratterizza questi paragrafi è il fatto che in essi si svolge un
confronto non solo tra alcuni membri dell’analisi collettiva e i partecipanti
al blog che ne sono critici, ma tra questi stessi.
Il confronto tra costoro diventa ancora più esplicito negli ultimi due paragrafi che contribuiscono a chiarirne i termini sia in generale sia rispetto
allo specifico problema di come definire l’insieme del grande gruppo dei
seminari e soprattutto dei piccoli gruppi terapeutici, e di come valutarne
l’attività.
Grazie anche alla loro forma dialogica, i paragrafi di questo capitolo,
soprattutto gli ultimi due, forniscono un quadro significativo della molteplicità di voci e di opinioni, talora anche assai divergenti, che animano
l’inizio di una “ricerca straordinaria”, arricchendola e stimolando ulteriori riflessioni e chiarezze.
178
Il paese degli smeraldi
1. Sulla “politica della rimozione”
Ho seguito, come osservatore silenzioso, la nutrita e dialettica discussione sull’eventuale entrata in politica di Fagioli. La notizia non mi ha affatto
stupito perché ritengo che Fagioli da anni faccia politica nel senso corrente
della parola: politica come ricerca del consenso e del potere, all’insegna
del fine che giustifica i mezzi. Costituire una falange di circa 1.000 persone, sempre presenti, sempre pronte ad applaudire gli amici e fischiare i
presunti nemici; avere una rivista e poi un settimanale che si adeguano perfettamente alla linea ideologica di Fagioli, i cui direttori possono essere licenziati se non si attengono alle direttive; avere un gruppetto che recita alla
perfezione gli scritti del maestro; avere un addetto stampa che amplifica e
costruisce notizie; screditare tutti coloro che la pensano in modo diverso
utilizzando etichette diagnostiche e maldicenze varie; ebbene, questi sono
gli stessi metodi che la politica, così come la conosciamo, dimostra di usare
giornalmente. Pertanto, che Fagioli entri in politica vuol dire semplicemente che è più esplicito e chiaro ciò che già si poteva individuare da tempo.
Quello che mi ha più colpito sono i numerosi post dove, per la prima
volta, coloro che hanno vissuto in prima persona e sulla propria pelle i
danni di una certa ideologia e di una certa terapia, riescono a raccontare
il loro percorso personale con notevole lucidità. Mi colpiscono perché mi
rievocano numerose persone, venute a trovarmi, che mi hanno raccontato
storie simili, raccomandandosi che mantenessi il più assoluto segreto professionale, terrorizzate che queste loro dichiarazioni potessero scatenare
la rappresaglia di quanti - partner, parenti, amici - avrebbero vissuto la
loro critica come un “attacco invidioso” alla creatività del gruppo. Da questi post si evince invece, accanto alla sofferenza dei pazienti, soprattutto
l’arroganza, l’incapacità di gestire il controtransfert, la violenza ideologica
dei terapeuti della scuola romana che dimostrano chiaramente come, essendo implicati in complessi intrecci dove sono terapeuti e pazienti allo
stesso tempo, costretti a preservare la purezza dell’ideologia e ad affrontare
complessi rapporti di parentela e di potere, obbligati magari a ripetere a
memoria quanto dovranno dire al prossimo convegno, non hanno alcuna
possibilità di gestire una psicoterapia in modo corretto. Le tante persone
che, attraverso i post, hanno riferito il loro “percorso terapeutico”, hanno il
merito di aver rotto il muro dell’omertà e probabilmente per questo saranno
accusate di essere invidiose, gravemente malate o cose del genere.
Se Fagioli vuol darsi alla politica è affar suo, ma se propone come credenziali per entrarvi il proprio percorso di psicoterapeuta, ricercatore e
scienziato, allora occorre parlarne. Pertanto sono necessari i contributi non
Alcune opinioni a confronto 179
solo di chi direttamente ha fatto esperienza di questo metodo, ma soprattutto di coloro che avendo condiviso, anche se in maniera diversa, una
parte del percorso, hanno la possibilità di conoscere bene cosa succedeva
dietro le quinte e hanno avuto modo, proprio per questa loro conoscenza,
di prendere le distanze non per motivi personali, ma per la rilevazione di
una discrepanza tra il dire e il fare, tra la teoria e la prassi, tra l’inizio del
percorso e le successive involuzioni. Nicola Lalli
Caro Nicola, quattro cose mi hanno colpito negli ultimi interventi: la
dichiarazione da parte di Rowan della sua “sete di conoscenza”; l’evidenziazione dell’uso da parte del Nostro e dei suoi del pettegolezzo e della diagnosi verso comportamenti e opinioni non gradite manifestate anche fuori
del setting; l’affermazione che questo blog fosse opera di persone malate;
la comparsa dell’uso dell’argomento giuridico per ostacolare sia tale evidenziazione sia quella di aspetti problematici e contraddittori dell’analisi
collettiva.
Mi sembra che tra queste quattro cose ci sia un nesso che, in termini
psicodinamici, va indicato con la parola “rimozione”. La “sete di conoscenza” di Rowan e il bisogno di chiarezza di altri esprimono un rifiuto
verso la rimozione, mentre sia l’uso del pettegolezzo e della diagnosi sia la
qualificazione di quel bisogno come malato, che l’utilizzo dell’argomento
giuridico, esprimono una volontà di rimozione.
Dovremmo suggerire a Rowan, per soddisfare in parte la sua sete di
conoscenza, di leggere Il potere della psicoanalisi (AA.VV., 1993). A me
è capitato di ripercorrerlo in questi giorni e mi ha molto colpito. Ricordi?
Allora, nel 1973, contestammo all’istituzione psicoanalitica di perseguire
una “politica della rimozione”. Voglio riportare due passi. Nel primo parlavamo del “potere psicocratico” di rimozione dei dubbi sollevati rispetto
a orientamento e modalità della cura e di annullamento dell’identità di chi
li sollevasse, identificando gli strumenti di tale potere nella diagnosi e nel
pettegolezzo: «Che questo potere psicocratico di annullamento sia effettivamente esercitato lo si può scorgere se si dà uno sguardo alle tecniche
di controllo del dissenso nella società di psicoanalisi. Tausk e Reich ad
esempio, (...) la motivazione effettivamente addotta alla loro esclusione
e dimenticanza è il giudizio di insanità mentale, la diagnosi-anatema di
psicosi, l’affermazione della loro inesistenza come esseri pensanti. Non
v’è però bisogno di scomodare Tausk e Reich (...), il fenomeno del pettegolezzo, che regolarmente sorge in rapporto a ogni dissidenza, ha questa
funzione di annullare come essere pensante chi esprime la dissidenza» (op.
cit., p. 21). E poco oltre: «[Il potere psicocratico di rimozione e annulla-
180
Il paese degli smeraldi
mento] si trasformerà in un potere reale di coercizione nella misura in cui si
potenzierà, da parte dell’analisi, un processo di acquisizione dell’uso degli
strumenti di coercizione e di controllo gestiti dallo Stato che vanno dai canali di formazione dell’opinione pubblica, agli istituti di formazione degli
operatori sociali, al potere giudiziario, alla censura, alla polizia».
Impressionante, vero? Eravamo preveggenti? Ci sarebbe tanto da dire, ma
per non farla lunga rivolgo a te, ma non solo a te, qualche domanda. Come
è potuto accadere che un movimento ideale, nato anche come sviluppo della
ribellione contro la “politica della rimozione”, esprima oggi tale politica, si
adombri e minacci, contro chi ha sete di conoscenza di quello che esso è stato
e che è? Io e te e altri ci eravamo soltanto e tanto sbagliati allora? Avevano
ragione i vari Bordi, Bartoleschi, Matte-Blanco, Gairinger i quali ci dicevano
di una natura umana che non consente altro che la politica della rimozione?
E ancora: come si concilia una proposizione di rifondazione della politica
sull’ideale della non violenza, della libertà, dell’uguaglianza e della trasformazione, con la pratica di una politica della rimozione? Antonello
Che fare. La mancanza del punto interrogativo non è una svista: vorrei
semplicemente rispondere agli interrogativi di Antonello con qualche modesta proposta operativa. Non mi sarei azzardato a rifare il verso a due famosi saggi: a quello, ancora valido, di Cernysevskj (1863), né tanto meno
a quello di Lenin - sicuramente meno valido - che ha aperto la strada al
terrorismo ideologico. Molto più modestamente vorrei proporre, non senza
aver prima fatto alcune considerazioni, qualcosa di concreto che sia contestuale al blog e alla storia di cui si narra.
Partiamo dal tuo blog. Tu hai concesso uno spazio, aperto e democratico, e tanta gente è venuta per esporre storie personali, spesso molto drammatiche, porre domande e proporre considerazioni. Sicuramente è stata
un’operazione utile e proficua: le storie sono scritte, restano lì, nessuno
potrà dire d’ora in poi «...ma io non lo sapevo!».
Anche io tanti anni fa (e questa è una vaga somiglianza nella ripetizione
di eventi) avevo aperto uno spazio e venne tanta gente, gente che portava
problemi, angosce e poneva domande; soprattutto, che a un certo punto cominciò a raccontare sogni. Iniziava così l’attività di Fagioli, in nuce l’inizio
dell’analisi collettiva. Debbo riconoscere che egli seppe gestire con grande
abilità una situazione senz’altro difficile e complessa. Ora, a distanza di più
di trent’anni, sul tuo blog la gente non viene più per raccontare sogni, bensì
incubi, incubi collegati a quella storia iniziata oltre trent’anni fa.
Cos’è successo? Anche allora, in quella “terapia” collettiva, ogni tanto c’erano morti e feriti: li raccoglievo io alla fine del seminario, a volte
Alcune opinioni a confronto 181
aiutato da colleghi, come ad esempio il Dr. Marà. Ma sembrava un fatto
accettabile: si era all’inizio, chiunque poteva partecipare ai seminari, sicuramente era una situazione complessa. Poi i seminari, secondo la versione
canonica, sarebbero diventati sempre più strutturati, con una sempre maggior efficacia terapeutica, trasformandosi in quella che poi è stata definita
analisi collettiva. Se questo corrisponde al vero, cosa dobbiamo pensare di
fronte alle storie narrate nel blog?
Allora cosa fare? Credo che se ognuno porterà una pietra, non per lapidare, ma per costruire, sicuramente si passerà a una fase creativa. Uso
questa metafora della pietra perché mi torna spesso in mente il libro di
E. Guarnaschielli Una piccola pietra (1982): è l’autobiografia postuma di
un comunista italiano che dovette andare esule in Russia, dove rimase e
sopravvisse per alcuni anni (1933-39) e che fu accusato di essere un deviazionista e un traditore dell’ideologia comunista. Non difeso da nessuno,
nemmeno dai comunisti italiani che in quel momento si trovavano in Russia, fu relegato in un gulag dove morì ben presto.
Vorrei ricordare ai tanti che chiedono di fare qualcosa e di farlo in fretta, che un’ideologia costruita con tanta determinazione (e qui ritorno al
presente) non è facile da destrutturare. Può essere utile ricordare che per
decenni tutti coloro che si azzardavano a descrivere gli orrori del regime
stalinista che avevano vissuto sulla propria pelle furono tacciati di essere
“al soldo del nemico”, “deviazionisti”, che in fondo equivale all’attuale
accusa di malato mentale. Non voglio paragonare eventi di portata mondiale a eventi molto circoscritti, come non voglio affermare che la storia
si ripete sempre e comunque; vorrei solo far presente che modificare organizzazioni che si sono strutturate lungo decenni, che ora cercano (segno
evidente della loro debolezza e del loro fallimento) appoggi politici, rappresenta un lavoro lungo, paziente e che richiede una grande cooperazione. Nicola Lalli
Mi piacerebbe che si approfondisse il concetto di rimozione, così come
è venuto fuori in questo blog. Dunque tu [Antonello] dici che la “sete di
chiarezza” mia e di altri si configura come un movimento di segno totalmente opposto a quello che si compirebbe nei gruppi quando si interpreta
come negazione tutto ciò che in qualche modo non sia conforme alle parole,
alle immagini e agli eventi legati all’analisi collettiva. Si può individuare in
questo tipo di interpretazioni una sorta di rimozione di fondo? Rowan
Caro Rowan, provo a proporti qualche considerazione che forse ti servirà a costruire una risposta. Anzitutto sono necessarie due precisazioni:
182
Il paese degli smeraldi
1. Il termine che ho usato io e che tu riprendi, “rimozione”, è quello
usato in generale nella psicologia dinamica, in particolare ne Il potere della
psicoanalisi, ove si parla appunto di una “politica della rimozione”, per
dire dell’esclusione di un contenuto dalla coscienza; esso è stato però giustamente rifiutato perché fa pensare a cose che vengono trasportate come
pacchi da un posto a un altro: più che di rimozione bisognerebbe quindi
parlare di annullamento, forse meglio ancora di occultamento e di oblio e
di “politica dell’oblio”.
2. L’espressione che usi, «parole, immagini, eventi», è complessa e si riferisce a dati diversi tra loro, non solo per la forma (proposizioni teoriche, ricostruzioni storiche, operazioni di politica interna ed estera, realizzazioni di
opere, gesta varie), ma anche per il contenuto; quindi per rispondere va fatta
una distinzione soprattutto rispetto a quest’ultimo. Stando anche a quanto ci
dicono i commenti, sappiamo che esso può coincidere con: a) affermazioni
false o non verificate o inopportune su qualcuno (ad esempio, tizio è iscritto
ad Alleanza nazionale, le maestre di Rignano sono pedofile), o su qualche
fatto del presente e del passato (ad esempio, Lombardi ha fondato il Psiup);
b) affermazioni e comportamenti incoerenti rispetto alle proposizioni teoriche (ad esempio, tutti gli uomini nascono sani e uguali, ma qualcuno nasce
più sano e uguale degli altri); c) proposizioni teoriche che consentono di
pensare meglio determinati problemi (ad esempio, la critica all’uso del termine “rimozione”, la dinamica della presenza e dell’assenza).
Fatte queste due precisazioni e questa distinzione, possiamo dire che le
interpretazioni «come negazione [della presa d’atto] di tutto ciò che non sia
conforme alle parole, immagini, eventi legati all’analisi collettiva» sono
uno degli strumenti di una politica dell’oblio nei primi due casi, ma non lo
sono nel terzo.
Ciò impone di procedere con cautela, tanto più che v’è un’altra complicazione. Talora una verità può servire a nasconderne un’altra, la stessa
proposizione può svelare e velare, può, svelando, svolgere la funzione di
velare; cioè, ad esempio, uno può servirsi di un contenuto la cui presa d’atto non può essere interpretata come negazione per evitare di rapportarsi a
un altro contenuto la cui non presa d’atto consegue a «una botta d’invidia»
e va interpretata come negazione.
Insomma non è semplice e non ci sono “leggi” che non abbiano bisogno
di essere a loro volta interpretate caso per caso. La probabilità di sbagliare o meno nell’interpretare una data presa d’atto come negazione, o per
contro nel restare convinti che una data presa d’atto non è una negazione,
è proporzionale alla somma dei dati di cui uno dispone per decidere, alla
sua cultura; per questo è importante acquisirli, come si sta facendo. Però
Alcune opinioni a confronto 183
neppure la cultura è sufficiente, serve un altro ingrediente che indicherei
con l’espressione “onestà intellettuale”, qualità difficile da definire, il cui
possesso o meno è un segreto che ciascuno ha chiuso in se stesso e che
intrattiene un complesso rapporto con la sanità. Antonello
2. Sull’autoreferenzialità
L’analisi collettiva è scientifica in quanto si svolge con modalità scientifiche proprie della psicoterapia, alcune delle quali rivoluzionate dall’analisi
collettiva stessa. Che la psichiatria e la psicoterapia siano scienze ancora in
piena definizione, con modalità di rilevamento e presentazione dei risultati
diverse dalla cardiologia e dall’odontotecnica, non mi sembra una grande
novità. Forse con Fagioli qualche speranza di cambiare questo stato di cose
c’è. Gianluca Zampieri
Come si può sostenere che la teoria di Fagioli, e la prassi che ne discende, siano le uniche che curano, quando i riscontri “cartacei” su pazienti in
oltre 30 anni di attività sono pressoché inesistenti, come sono pressoché
inesistenti le pubblicazioni su riviste specialistiche internazionali? Come
si fa ad accettare questa assoluta autoreferenzialità e aseità? Come si fa
ad accettare di andare in analisi da un terapeuta che a ripetizione ha storie
d’amore con sue pazienti-ricercatrici le quali, per età, potrebbero essergli
nipoti? Rowan
Il problema della pubblicazione dei risultati è legittimo. Credo però non
riguardi solo la Scuola romana. È un vecchio problema della psicoanalisi:
per ora non vedo come uscirne, se non iniziando a mettere insieme esperienze e testimonianze di medici e pazienti. Per quel che riguarda la pubblicazione in riviste “ufficiali”, converrete tutti che le “lobbies” imperanti
in psichiatria (particolarmente quelle farmaceutiche) e in psicanalisi siano
vagamente minacciate dalla teoria della nascita... non si può chiedere ad
“Avvenire” di offrire L’ateo in omaggio col giornale...
L’autoreferenzialità ossessiva non mi appartiene. Certamente non conosco finora teorie alternative e precedenti che definiscano l’identità umana
come sana fin dalla nascita, e che spieghino così efficacemente i meccanismi di malattia e guarigione del pensiero attraverso il rapporto interumano.
Ma può essere una mia ignoranza.
Riguardo i fatti personali, scusami, ma non me la sento di entrarci.
L’analisi collettiva è un seminario di cura, ricerca e formazione. Ultima-
184
Il paese degli smeraldi
mente anzi, per dire dello stesso Fagioli, la parte di ricerca è preminente.
Cosa facciano a letto due persone adulte, fuori da un contesto di setting,
non sono fatti miei. Gianluca Zampieri
Caro Gianluca, provo a controargomentare sulle tue risposte. Non parlavo solo di pubblicazione di risultati, ma anche di un semplice articolo
di divulgazione, un approfondimento di un’esperienza. Niente. Provate ad
andare su www.pubmed.gov, uno dei maggiori database di pubblicazioni
mediche, e cliccare su all databases. A nome Massimo Fagioli non si trova
nulla. Solo nella voce catalog of books si trovano tre dei suoi libri. Ma
articoli, nessuno. È possibile che in quasi 40 anni nessuna (dico nessuna!)
delle centinaia di riviste di psicoanalisi-psichiatria-psicoterapia-psicologia
che si pubblicano nel mondo si sia mai occupata di questa vicenda? Anche
se dalla ricerca uscissero 3 o 4 articoli sarebbe il nulla lo stesso, ma neanche quelli escono.
Il punto, poi, non è l’esistenza di altre teorie o meno, il punto è che
nell’aseità della teoria di Fagioli è implicita l’impossibilità dell’esistenza
di altre teorie valide. O la “sua” o tutte balle, sia nel passato che nel futuro.
È ovvio che nei fatti personali di Fagioli nessuno ha il diritto di entrare.
Può avere tutte le storie che vuole, ma dal momento che tutte le sue storie sono con pazienti/ricercatrici all’interno dell’analisi collettiva, qualche
dubbio viene… Rowan
Caro Rowan, qualche piccola considerazione: se uno è stato “cacciato”
dalle principali associazioni di “categoria”, è ovvio che si contrappone a
un sapere precedente, rispetto al quale assume un valore di “eresia”. Uno
pubblica, propone. Poi, se gli altri rispondono o meno, si vedrà. Non è che
la rivista “Il sogno della farfalla” sia così male. Devo dire che molti articoli
sono interessantissimi, e spesso non scritti da Fagioli.
Perché la teoria della nascita implicherebbe che ogni altra teoria, prima
e dopo, sia fasulla? Credo, anzi, che questa teoria sia solo un inizio, l’apertura di una porta su un mondo che prima era stato solo intuito o “chiuso”
(vedi Freud...). Non credo sia un Vangelo. Credo sia una prospettiva nuova
e interessante con cui rileggere il passato, e su cui riflettere per il futuro.
Gianluca Zampieri
La rivista “Il sogno della farfalla” è bella per la sua grafica, al tatto
la carta dà una sensazione gradevole, i caratteri sono nitidi e l’interlinea
scelta ne incrementa la chiarezza. Ma. Ma è una rivista scientifica? Il
numero 3/2007 contiene quattro articoli, di cui due sono la trascrizione
Alcune opinioni a confronto 185
di eventi di qualche settimana fa. In sostanza due articoli per 15 euro. E
va bene.
Volevo illustrare come funzionano, in linea di massima, le pubblicazioni
su una rivista scientifica. Un ricercatore (appartenente a un ente statale, a
un’università, a un laboratorio privato, a un’azienda) scrive un articolo.
Lo invia alla rivista specialistica. Questa a sua volta contatta il cosiddetto
referee, una persona addetta ai lavori, la cui identità è sconosciuta all’autore dell’articolo. Questo referee (che a sua volta non conosce l’identità
dell’autore) valuta principalmente due fattori: il primo, se lo studio fatto
non sia già stato pubblicato; il secondo, se non ci sono palesi errori o evidenti inesattezze. Se la valutazione è positiva, il referee dà l’ok alla rivista
per la pubblicazione. Altrimenti l’articolo viene rispedito al mittente con
le “modifiche” da apportare. L’autore apporta le “modifiche” e rimanda
l’articolo alla rivista. Naturalmente c’è tutta una tempistica ben definita e
non si va avanti all’infinito.
Per gli articoli pubblicati su “Il sogno della farfalla” c’è la stessa prassi?
Altro aspetto importante. Negli articoli de “Il sogno della farfalla” c’è il
titolo e sotto un nome e cognome. Nelle riviste scientifiche c’è il titolo, un
nome e cognome, il nome dell’ente di ricerca o del dipartimento all’interno
del quale l’autore lavora, con tanto di indirizzo, qualche volta il numero
di fax e l’e mail. Inoltre, c’è la data di accettazione dell’articolo ed eventualmente quella della revisione. Invece, nella seconda pagina de “Il sogno
della farfalla” ci sono scritte le seguenti parole: «Il comitato di redazione e
il comitato editoriale si avvalgono dell’opera teorica e della prassi di Massimo Fagioli»... ah, eccolo il referee! Rowan
3. Sulle motivazioni di un assenso e di un dissenso
Caro Antonello, caro Nicola, a quanto pare siete stati ambedue vittime
delle dinamiche settarie e della mal-gestione di un potere radicato in pulsioni negative mai messe a fuoco; nel contesto di una “politica del silenzio”
lasciata libera di agire. Però - diciamolo! - disponevate ambedue anche di
gran parte degli strumenti teorici, metapsicologici, storico-critici, filosofici ed epistemologici necessari al disvelamento di ogni negativo umano,
sia individuale che collettivo; nonché avevate alle spalle esperienze precedenti nella società freudiana e nel contesto universitario che avrebbero
dovuto essere sufficienti a evitare di rendere anche voi in qualche modo
compartecipi di quelle qui denunciate “confusioni” e “alterazioni”, che
non risulterebbe siano iniziate solo a partire dal 1999 o nel corso degli
186
Il paese degli smeraldi
ultimi pochi mesi! Avete scritto una e più “storie” di questo discorso, ultradocumentate, testimoniando assai nettamente a favore di questa teoria e di
questo ricercatore; inoltre, è stato messo insieme un autorevole Manuale di
psichiatria (Lalli) con tanto di vocabolarietto finale con precise definizioni
di termini teorici della teoria di Fagioli.
Pertanto, ritengo indispensabile a questo punto che usciate molto di più
allo scoperto, raccontando non solo le esperienze, ma anche le vostre riflessioni teoriche passate e presenti riguardo a questa teoria, a Fagioli, ai
seminari. Ambedue - lo dico con comprensione e affetto - vi sareste presi dunque... una “gran cotta” per questa teoria, per quest’uomo, per tutto
l’insieme di questa storia, e per così tanti anni!? Se studiosi e clinici così
stimabili, così attrezzati in ambito scientifico e culturale, sono stati così
“irretiti” e per così tanto tempo, ci sarà pure una qualche spiegazione non
superficiale da ricercare; a cominciare, per quanto detto sopra, proprio da
voi stessi.
Erano tutti “abbagli” ciò che Antonello ha scritto nella sua validissima
Storia? Attualmente, cosa Antonello ritiene ancora valido della teoria, anche in confronto critico e comparativo con le altre teorizzazioni esistenti?
La stessa domanda la rivolgo a Nicola. I tuoi articoli e saggi, favorevolissimi alla teoria di Fagioli e pubblicati anni fa su autorevoli riviste, erano
anch’essi abbagli? Cosa “salvi”, se salvi qualcosa, di quanto scrivevi in
merito fino al 2001 e, ancor più, insegnavi nelle tue lezioni?
Vi portate sulle spalle - e lo dico senza alcun giudizio moralistico - la
“responsabilità oggettiva” di essere stati nel passato i due principali “garanti universitario-accademici” di questa teoria, nonché dei seminari. Ma tutto
ciò che questo blog sta facendo emergere, potrebbe forse sfuggire a un “destino” di apparire un orribile ripetersi di un’eterna umana... “destrudo”? La
“confutazione” di una teoria-prassi, che ha voluto e vuole essere necessariamente collettiva, quell’indispensabile seria confutazione di un “nuovo” teorico e clinico che non avete voi per primi, e non abbiamo avuto, il coraggio
o la presunzione di pretendere troppo presto, dovrebbe infine avvenire oggi,
qui e ora? Forse è iniziata proprio qui; e proprio collettivamente!
Forse le necessarie demolizioni, decostruzioni e “sparizioni” potrebbero
direzionarsi verso un tentativo collettivo di far rinascere e ritrovare l’essenza
– con nuove ali - di una grande ricerca? Correggendo, magari, qualche specifico grosso errore che era sfuggito? E chi ha mai creduto che “la ricerca umana sull’umano” non fosse “proprietà comune” di altro/i (anders!) che non degli stessi collettivi umani che fanno ricerca; e, al contempo, dell’universalità
umana collettiva di tutti gli uomini? E tutto ciò senza togliere neanche una
sola parola giusta a ciò che è stato ed è specificamente geniale e originale di
Alcune opinioni a confronto 187
un solo e singolo ricercatore (anche lui umanamente fallibile), che ha avuto
e ha il merito di non poche e radicali innovazioni e scoperte nel campo del
pensiero umano sul pensiero umano non cosciente. Baruch Spinoza
Non mi convinci Spinoza! Rivolgendoti a due soli, ti sei dimenticato
una massa di gente conosciuta e sconosciuta, più o meno nascosta dal nick
name. Siamo qui a reclamare le nostre ragioni e postiamo le nostre storie, i
nostri pensieri, le nostre riflessioni. Sappilo Spinoza, non potrai calpestarci
così facilmente! Karl Marx
Baruch, ti sei svegliato dopo alcuni secoli, durante i quali ovviamente il
tempo per te si è fermato. Comprendo la tua perplessità, abituato com’eri ai
tuoi tempi che nulla si potesse dire se non approvato dal Sant’Uffizio (ma
non te la passavi bene nemmeno con i tuoi connazionali ebrei, ricordi?). Ti
meravigli, capitato su questo blog, che la gente possa parlare liberamente, esprimere i propri sentimenti, la propria storia e le riflessioni su certe
pratiche cosiddette “terapeutiche” che nulla hanno di terapeutico. E per te,
che hai scritto uno dei più bei saggi di etica, deve essere stato motivo sufficiente a svegliarti nella tomba. Certo, ai tuoi tempi era inimmaginabile una
situazione di tale libertà: non vorrei però che a questo punto cadessi in una
“identificazione con il persecutore” e cominciassi a decidere cosa si deve
dire e cosa no, insomma che cominciassi a fare il censore.
Mi chiami in causa, mi fai domande precise, pertanto ti debbo risposte
precise. Certamente per un certo periodo di tempo ho “ammirato” Fagioli
e ne ho anche seguito alcune impostazioni. D’altronde, come tieni a sottolineare, c’è un Manuale di Psichiatria e Psicoterapia che riporta concetti
come “inconscio mare calmo” e “fantasia di sparizione”. È vero, però devi
tener presenti alcuni particolari: sulla copertina della seconda ristampa c’è
una prefazione di Fagioli, se la rileggi vedi che siamo pari. Non possiedo
ai miei ordini una casa editrice che possa cambiare il testo in tempi brevi;
comunque ho concordato con l’editore che, esaurite le poche copie esistenti, faremo una terza edizione e in questa pubblicherò solo quello che al
momento ritengo attuale e valido, eliminando alcune banalità. Per quanto
riguarda le lezioni, è vero che ho parlato della teoria di Fagioli, ma se tu
sei stato presente, saresti disonesto asserendo che parlassi solo di questo
argomento; le mie lezioni, molto seguite, lo erano proprio perché proponevo materiale clinico e soprattutto un ventaglio di spiegazioni ampio e
integrato: questo è il motivo che mi ha permesso di essere seguito da specializzandi e collaboratori che nulla avevano a che fare con Fagioli, anzi
erano molto critici.
188
Il paese degli smeraldi
Devi sapere che nella mia vita ho avuto molti amori: alcuni finiti (a volte
bene a volte male), altri che continuano, e spero di averne ancora altri. Tra
i miei amori c’era anche Bruno Bettelheim: avevo letto come si era comportato nei campi di concentramento nazisti. Certamente ben altra pasta
rispetto a Primo Levi, ma sicuramente interessante per la sua capacità di
usare una strategia di coping efficace per la sopravvivenza. Ne ho scritto in
Psicopatologia da situazioni estreme quasi 20 anni fa (che puoi trovare sul
mio sito). Poi mi sono innamorato di alcuni suoi libri: ti ricordi La fortezza
vuota? Era il 1976 e Bettelheim proponeva la possibilità di penetrare nello
sconosciuto mondo interno del bambino autistico. Perbacco, mi sono detto,
questo bisogna tenerlo d’occhio! Cosa che ho fatto, leggendo poi anche altri suoi libri (devi sapere che leggo molto, molta letteratura internazionale,
e mi tengo continuamente aggiornato).
A un certo momento, cominciano a emergere alcuni particolari della
sua prassi. Nel sito di Brain Mind and Life della International Society
of Neuroscience (2003) è comparso un lavoro nel quale si ricostruisce la
storia di Bettelheim. Ci si interroga su cosa abbia provocato, soprattutto
nel nostro paese, l’idealizzazione dell’autore e la difficoltà ad ammettere
la scoperta di una “terribile verità” che lo riguarda. Giunti a questo punto,
tu cosa avresti fatto? Avresti forse detto che era una campagna denigratoria? Oppure che sì, aveva compiuto delle nefandezze, ma il suo impianto
teorico poteva rimanere valido? Io ho ritenuto che un tale comportamento, davvero molesto e criminale, annullasse automaticamente tutta la sua
presunta teoria.
Qual è la morale? Per me quello che conta è ciò che l’individuo fa e
non ciò che dice. Fatte le debite differenze, è quello che a me è successo
a partire dal 1999 nei confronti di Fagioli, quando ho potuto osservare
che i suoi comportamenti, la sua strumentalizzazione degli altri, erano in
netto contrasto con quanto aveva teorizzato nei suoi libri. Mi dirai che è
trascorso un po’ troppo tempo? Può darsi. Ma dovresti sapere che io non
avevo una frequentazione così assidua con Fagioli, soprattutto perché non
ho mai partecipato all’analisi collettiva (cosa che molti non mi perdonano,
ma che io ritengo essere stata una profonda intuizione). Quindi è ovvio che
occorresse un certo lasso di tempo e soprattutto un’occasione, che Fagioli
mi ha fornito sul piatto d’argento con la sua Introduzione (AA.VV., 2002)
cui risposi con la mia Lettera aperta a Fagioli (Lalli, 2004).
Se avessi voluto avrei potuto elegantemente chiudere con quella lettera:
ma non mi sembrava intellettualmente onesto, dopo aver promosso Fagioli
(e mi riferisco alla storia di via di Villa Massimo), non pubblicizzare il mio
dissenso e le motivazioni dello stesso. Per questo ho scritto altri due lavori
Alcune opinioni a confronto 189
a proposito di Fagioli che si trovano nel sito, presentati come relazioni a
due convegni di psichiatria.
Ma io credo che vuoi avere qualche altra risposta, allora faccio io le
domande.
1. Vuoi sapere se mi sento in colpa per quanto affermo su Fagioli? Assolutamente no!
2. Vuoi sapere se ci sono rimasto male dal momento che dopo la fatwa
(Introduzione), molte persone del suo giro che avevano lavorato con me
fino al giorno prima non mi hanno guardato più in faccia o addirittura
qualcuno, approfittando del ruolo nel servizio da me diretto, ha cercato di
mettermi in difficoltà o di mettermi contro anche il personale? Un poco,
ma è scemato immediatamente nel momento in cui ho riflettuto che, se
quelle erano le persone “formate” da Fagioli, era meglio non averci a che
fare.
3. Vuoi sapere perché oggi ho ripreso a parlare di Fagioli scrivendo sul
blog? Perché credo che sia mio dovere essere presente e testimone, ma anche perché ritengo che questo blog stia cercando di capire alcuni fenomeni
importanti, a partire dall’involuzione dell’analisi collettiva, comprensione
che potrebbe essere utile per spiegare anche fenomeni di natura diversa.
4. Vuoi sapere fino a quando continuerò a partecipare a questo blog?
Fino a quando non emergerà chiaramente che Fagioli non fa psicoterapia
né formazione, e mi sembra che molte lettere del blog lo dimostrano chiaramente, ma che al massimo può fare solo ricerca. Nicola Lalli
Caro Spinoza, le tue sono domande importanti e pertinenti; e, se bene
ha fatto Karl Marx a ricordarti che chiamano in causa ciascuno e tutti, non
solo me e Nicola, non credo che questo mi impedisca, nella misura in cui
chiamano in causa anche me, di risponderti. Risponderti però non è facile.
Lo sconforto può assalire chi si accinga a rispondere a chi non ascolta le
risposte già date, le dà per inesistenti o le guarda con supponenza.
Tu chiedi “riflessioni teoriche” sull’intervenuto dissenso. È dal 1999 che
sono impegnato a darne, anzitutto per cercare di capire io stesso. Te le
ricordo: ce ne sono già nel mio libro del 1999; poi la relazione di Napoli;
poi quel così sofferto saggio Storia religione scoperta; poi l’altro libro La
ripetizione e la nascita; poi lo scritto sull’esegeta pigro; poi l’intervista su
“Pol.it”; poi la recensione all’ultimo libro del mio fraterno amico apparsa
su “Psicoterapia e scienze umane”; per non parlare delle “bollicine” dal
2005 a oggi e dei miei studi su Machiavelli e su Strauss che, se ti può essere difficile capire cosa c’entrino con le tue domande, capire cosa c’entrino
con la politica non dovrebbe esserlo.
190
Il paese degli smeraldi
Non ti offenderai dunque se osservo che meglio avresti fatto a discutere
le risposte che ho dato anziché pormi domande cui ho già risposto. Questo
non significa che non sia tenuto a precisare e approfondire; è un dovere che
ho anzitutto verso me stesso e che la risposta nel frattempo intervenuta di
Nicola mi fa avvertire in modo acuto.
In una nota al citato scritto su “Psicoterapia e scienze umane” gli avevo segnalato che equiparando la vicenda dell’analisi collettiva a quella
delle sette si privava della possibilità di cogliere il dramma di quella
vicenda. Non mi ha ascoltato e ora se ne è uscito con questa parabola su
Bettelheim.
No, carissimo Nicola, visto che questo non è altro che un luogo di libero confronto, non me ne volere se esprimo il mio dissenso e dico che
così rischi di togliere alla vicenda di cui discutiamo ogni merito a venire
discussa.
Non credo che tu ti sia lasciato sedurre dal nostro fraterno amico come
lo fosti da Bettelheim. Comunque per me non fu così. La mia adesione,
allora, fu convinta e decisa in ragione delle tante cose positive, diciamo
meglio, dei tanti fattori illuminanti, presenti nella teoria, che allora scorsi
e sperimentai. Certo non vidi che nella stessa teoria, come insiste a dire
Romeo e come io stesso ho cercato di spiegare negli scritti citati e in particolare nella recensione, c’erano anche aspetti che avrebbero condotto a
rompere quella coerenza che ho descritto nella mia Storia; non previdi e
non potevo prevedere che quella che era una proposizione di verità sarebbe
decaduta in una politica dell’oblio; non previdi e non potevo prevedere che
il progetto altissimo di realizzare un ideale di democrazia partecipativa
sarebbe decaduto nell’instaurazione di un principato ereditario, che l’interesse per il collettivo sarebbe trapassato in accorta gestione di un’azienda
di famiglia.
Ora che lo vedo, questo che vedo, però, non copre gli aspetti positivi
tanto da indurmi a rinunciarvi, dimenticarli, buttarli via. Sarebbe un inutile
spreco. Piuttosto li rubo, me ne approprio, mi sono stati utili proprio per
giungere a scorgere il negativo, me ne servo, insieme ad altri strumenti e
conoscenze che ho, per interrogarmi su come, perché e quando si è passati
dalla nascita alla ripetizione; meglio ancora, su come, perché e quando una
formulazione della realtà della nascita che consolidava tale realtà, e in linea
di principio la rendeva immune dalla ripetizione, è poi decaduta in questa.
Per come sono state messe le cose, c’è da pensare che nulla resterà a
breve della teoria della nascita, di quei suoi contenuti che un tempo lontano motivarono il nostro assenso, tranne quanto una riflessione che non
smarrisca la sua ragion d’essere in parabole improprie avrà saputo produrre
Alcune opinioni a confronto 191
anche attraverso il confronto con le molte domande, problemi, contraddizioni emersi dalla lacerazione del silenzio avvenuta in questi ultimi mesi.
Antonello
Caro Antonello, dopo tanta lettura, partecipo anch’io. Se permetti, mi
soffermo sulle citazioni di cui sopra, perché mi sembrano fondamentali per
sciogliere un equivoco che fa pensare a una sorta di contrapposizione tra la
tua analisi e quella di Nicola. A mio avviso, pur espresse in modo diverso,
le vostre posizioni sono affiancate e senz’altro convergenti. Entrambi siete
giunti alla conclusione di un ribaltamento della vicenda analisi collettiva,
da «progetto altissimo di realizzare un ideale di democrazia partecipativa»
a penosa ripetizione di modelli egemonici e autoritari del passato. Anche
Nicola riconosce la stessa cosa quando dice: «Fatte le debite differenze,
è quello che a me è successo a partire dal 1999 nei confronti di Fagioli,
quando ho potuto osservare che i suoi comportamenti, la sua strumentalizzazione degli altri, erano in netto contrasto con quanto aveva teorizzato
nei suoi libri». Sin qui le vostre considerazioni, compresa la disillusione,
sembrano convergere in pieno.
Quella che ritengo essere solo un’apparente divergenza riguarda quanto
affermi di seguito: «Ora che lo vedo, questo che vedo, però, non copre gli
aspetti positivi tanto da indurmi a rinunciarvi, dimenticarli, buttarli via.
Sarebbe un inutile spreco». La distinzione tra aspetti positivi e negativi ti
spinge a creare una specie di linea di demarcazione tra un prima valido e
corretto e un dopo deteriore e scaduto, fino al punto di esprimere l’incoerenza tra le premesse teoriche e le realizzazioni a distanza di 30 anni.
Qui Nicola non ti segue, e francamente nemmeno io, in quanto per un
decadimento di portata simile a quello che tu riconosci dovremmo avere
di fronte qualcosa di più di un piccolo movimento formatosi intorno a un
sedicente caposcuola di psicoanalisi. Voglio dire che sia la “parabola” di
Nicola sia la personalità carismatica generica di cui ho scritto, tentano di
spiegare, a te e a chiunque si senta nelle stesse condizioni, che non c’è nulla
da rubare che non sia già di tua proprietà e di proprietà di coloro che a suo
tempo avessero aderito agli aspetti positivi presentati da Fagioli.
Qualcuno, non so quando nel blog, ha nominato Mussolini e l’abitudine
di certi conservatori liberali di separare un primo Mussolini (quello delle
grandi opere) da un secondo (quello della guerra e della RSI). Senza confonderci in paragoni sproporzionati, ti invito a pensare che quanto vuoi
rubare in questa esperienza dell’analisi collettiva ti appartiene e ti è sempre
appartenuto per la nobiltà d’animo che possiedi, per le speranze che, nonostante le delusioni, non ti hanno abbandonato.
192
Il paese degli smeraldi
Nel 1999, quando vidi che senza ritegno venivi lapidato a Napoli con
un discorso a effetto che non ti risparmiava il pubblico ludibrio, per di
più totalmente irriconoscente per l’affetto e il sostegno che avevi sempre
espresso per le iniziative di Fagioli, non ebbi esitazioni a non mettere piede
nell’analisi collettiva e a rendermi conto di quanto poi, in modo sintetico,
ho espresso nel mio lavoro citato.
Nicola dice: «Devi sapere che nella mia vita ho avuto molti amori: alcuni finiti (a volte bene a volte male), altri che continuano, e spero di averne
ancora altri». Il problema sta tutto qui. Non c’è un prima e un dopo: c’è
stata un’influenza positiva (transfert?), ma era una proiezione dell’analizzando o dell’amico.
È venuto il momento di riprendersi tutto e non concedere nulla a chi
ne ha fatto pessimo uso e rischia, come tu dici, di fare peggio. Si possono, caro Antonello, non condividere le parabole, ma la sostanza resta
quella di una riflessione che «le tante persone intellettualmente oneste e
sinceramente appassionate come siamo state noi avranno saputo ritrovare,
ripensare, precisare, anche attraverso il confronto con le molte domande,
problemi, contraddizioni emersi dalla lacerazione del silenzio avvenuta
in questi ultimi mesi». La funzione riflessiva non è ragione astratta, ma
pensiero verbale, parola incarnata direbbe Merleau-Ponty, ovvero necessità di ritrovare l’integrazione tra mente e corpo nella formulazione di un
pensiero non fatuo.
Un pensiero non fatuo può superare il conflitto tra il prima e il dopo, in
quanto si basa sull’immagine mentale di sé e dell’altro da sé, ossia sulla
presenza nel pensiero inconscio dell’elaborazione di una storia vissuta, che
non è proiezione ma sintesi nuova di ciò che, perduto nel passato, rinasce
nel presente di ognuno di noi, senza debiti e guarentigie culturali. Giuseppe
Lago
Caro Antonello, ti rispondo con un po’ di ritardo, perché ci tengo a calibrare bene il mio intervento dal momento che sono stato frainteso. Abbiamo due storie diverse, una visione diversa sul problema del “dono”,
abbiamo riaffermato le nostre posizioni, ma abbiamo anche tante cose in
comune, come ha sottolineato con garbo ed equilibrio Giuseppe Lago. Per
me, quindi, il discorso su questa incomprensione è chiuso.
Debbo invece dirti che sono molto meravigliato, e un po’ incazzato,
quando tu, riferendoti all’episodio di Bettelheim, lo definisci “parabola”.
Non mi proporre etimologie strane, comunque la metti quel termine può significare al massimo «metafora, allegoria, favola» (M. Quartu). Ma come,
un documento cosi drammatico, con prove evidenti e mai contestate, un
Alcune opinioni a confronto 193
documento pubblicato (non quindi pettegolezzi) tu lo qualifichi, anzi lo
squalifichi, come parabola?
Se io ho detto che le storie non erano equiparabili è, anzitutto, perché
non ritengo che gli eventi si ripetano pedissequamente, ma soprattutto
per sottolineare la differenza con la cultura anglosassone, dove se c’è uno
scandalo si indaga, si cercano prove; e se queste sono provate, si arriva alla
denuncia dell’evento. Certe parole hanno un significato che può travalicare
il puro senso letterale: dire di un evento, così drammatico e vero, che è una
parabola, vuol dire squalificarlo. Caro Antonello ti saluto, sperando che
questa volta non ci siano fraintendimenti ulteriori. Nicola Lalli
Caro Giuseppe, non c’è da spaventarsi per la differenza tra le posizioni mie e di Nicola (tra parentesi, per “parabola” intendo un discorso
che dice di una cosa per dire di un’altra cosa): siamo amici, il fatto che
ci si opponga serve a definire meglio il problema che sta di fronte a tutti.
Non c’è da spaventarsi per quella differenza, e comunque essa non si può
risolvere come proponi tu: l’idea che io ho e sostengo, ossia che ci sia
nella teoria della nascita un positivo da non smarrire, far proprio, usare,
deriverebbe da un mio transfert irrisolto e, una volta risoltolo grazie anche
alla tua sollecitazione, mi accorgerei che tutto ciò che in essa mi sembra
positivo era già mio, quindi in essa non ci sarebbe nulla da non smarrire,
far proprio, usare.
Anche tu, dunque, imbocchi la strada della psicopatologizzazione di un
mio dissenso, non importa se questa volta è un altro.
Transfert senz’altro c’è stato, ma il mio rapporto con l’autore di Istinto
non comprese solo quello. E poi: davvero mi ritieni così povero da dover
considerare mio quello che non è mio?
Di cose mie ne avevo quando nel 1967 incontrai quello che sarebbe
diventato quell’autore, cattive e buone; a proposito di queste ultime, mi
farebbe piacere se tu leggessi il mio scritto del 1961 sull’esistenzialismo e
la storiografia, ne trarresti spunto per comprendere i motivi di quella che ho
chiamato la mia convinta e decisa adesione alle cose che intorno al 1972 mi
vidi proporre, e che non erano mie.
Non era mia quella frase geniale che dice che il ritorno allo stato precedente presuppone l’annullamento dello stato attuale, e che questo è il
punto; non era mio - anche se le cose buone che erano mie mi permisero
di comprenderlo in tutte le sue implicazioni, oltreché psicologiche, filosofiche e storiche - quel discorso sull’assenza; non era mia quella formulazione, che può essere discussa ma non ignorata, del concetto di soggetto;
la possibilità che essa apriva di pensare in modo nuovo e fattibile l’ideale
194
Il paese degli smeraldi
storico della democrazia partecipativa; quella distinzione tra frustrazione
interesse e frustrazione aggressività; quell’altra distinzione tra ribellione e
rifiuto; quel trarre via il desiderio dallo stare sempre affacciato sul nulla;
quella critica al concetto di identificazione; non fu mia la critica a Freud e
al condizionamento limitante della sua concezione dell’inconscio.
Di certo dimentico qualcosa, ma questo basta a dare un’idea di cosa
intendo quando parlo di cose positive, di proposizioni che portavano luce
comprese in quella teoria, che non mi serve a nulla considerare mie, mentre mi serve continuare a considerarle esistenti, appropriarmene, usarle,
nonostante tutto quello che è intervenuto poi a smentirle e a renderle incredibili.
Aggiungo che una cosa invece era mia. Ne trovi traccia nello scritto
che ho citato ed è la visone storica. Essa ha costituito fin dall’inizio, senza
che allora lo sapessi, una mia distanza dal fraterno amico. Ha reso impossibile che quel rapporto si chiudesse tutto nel recinto del transfert. Di essa
mi sono sempre servito per valutare, rendermi credibili, dare credibilità a
quelle sue proposizioni; lo scontro irreparabile è avvenuto quando egli ha
gettato via maschera e reticenza, ritenendo di poterle rendere credibili costruendo il mito assurdo, a tratti purtroppo risibile, della estraneità sua alla
storia, dell’unicità sua e della sua stirpe. Mistero, e più ancora che mistero,
dramma, sul quale, oltre a mantenere il senso e l’uso delle cose positive,
ritengo non infruttuoso, oltre che indignarsi, interrogarsi. Antonello
Caro Antonello, nel rispondere al tuo post, così articolato, non posso
fare a meno di considerare che il tuo blog ci sta regalando, tra le tante possibilità, il piacere di un confronto aperto e intelligente che anch’io speravo
tanto si sarebbe potuto dispiegare nel contesto dell’analisi collettiva.
Lo confesso: anch’io mi sono illuso, ma (non ho difficoltà a dirlo) era
solo per il transfert. Con questo, non considero affatto l’aver vissuto una
relazione transferale di qualsiasi natura come un connotato legato alla psicopatologia. Mi fai torto, e lo faresti a te stesso, se confondessi il transfert
con la patologia mentale. Anzi (e con questo non voglio citare Freud, anche
se sarebbe il caso), proprio l’aver vissuto un transfert affettivo e culturale
come quello in questione ci conferma essere (perdona la deformazione professionale) tutt’altro che psicotici. Speravo cogliessi che, citando la frase
di Nicola sugli amori, non avevo alcuna intenzione di mettere in atto quella
spregevole modalità, tanto in voga nell’analisi collettiva e dintorni, di dare
del matto all’interlocutore, specie quando la pensa diversamente da te.
Vengo volentieri, quindi, a vedere l’oggettività di quanto non riconosci
come tuo e attribuisci a Fagioli (fermo restando che, nell’avallare la legitti-
Alcune opinioni a confronto 195
mità a prenderti quello che consideri di altri, non intendevo implicitamente
dare un giudizio sulla povertà dei tuoi contributi precedenti e attuali).
A questo punto, spero di non tediare nessuno se mi metto a puntualizzare, ma il discorso (sono d’accordo con te) è serio e un eccesso di ironia
potrebbe soffocarlo.
Quarant’anni fa, molti degli argomenti che porti a sostegno del tuo discorso («Non era mia quella frase geniale che dice che il ritorno allo stato
precedente presuppone l’annullamento dello stato attuale e che questo è
il punto; non era mio, ecc.») erano senz’altro suggestivi e innovativi. La
sintesi di Fagioli sembrò innovativa a me che lo lessi alla fine degli anni
Settanta, posso quindi capire la tua adesione entusiastica. Anche se tu avevi tutti gli strumenti per verificare come gran parte dei concetti filosofici
enunciati da Fagioli traessero spunto dall’antropologia fenomenologica, e
come l’impianto psicoanalitico fosse fondamentalmente condizionato dal
pensiero e dalle scoperte (quelle sì) di Melanie Klein. Non voglio sovrappormi al lavoro articolato che Romeo compie da anni, ma se solo ti leggi
il lavoro di Susan Isaacs sulla fantasia inconscia, recentemente ristampato,
troverai che hai ben poco da rubare a Massimo Fagioli, rispetto a quanto
egli ha rubato a Susan senza citarla.
Qui mi devo ripetere, ritornando sul tema del mio scritto del 2004, e
farti notare che il mio non vuole essere un disconoscimento delle qualità
seducenti del personaggio in questione, il quale sa ben scrivere e assimilare
ciò che legge, ma sul fatto che egli eserciti un carisma a scapito della verità, annettendosi con abilità idee e definizioni non sue, per poi ricostruire
la storia (in questo però non negare di avergli dato una mano in passato) a
modo suo, eliminando le fonti e squalificandole come sorgenti di menzogna e confusione.
Uno dei tanti misfatti commessi dal Nostro è quello a carico di Wilfred
Bion, tacciato senza mezzi termini di razionalismo e tendenza all’astrazione, salvo poi riempire tutto un libro dell’espressione “visione binoculare” (che è di Bion appunto) e non citarne la fonte, dando l’impressione
di esserne l’artefice. Solo un caso tra mille (sarebbe troppo lungo prenderli
tutti in considerazione, rimando a un’altra occasione e a Nomi di Psiche,
di Romeo Sciommeri), come pure la bella espressione sul terapeuta come
Cincinnato che si comporta come dictator di una stagione (la cura), penosamente disattesa nel suo divenire tirannia e impero ereditario.
Ci potresti fare un libro con i concetti e le espressioni copiate di sana
pianta e senza scrupolo gestite come proprie, contro qualsiasi obiettività e
senso del ridicolo. Anni fa visitai la casa di Freud a Londra, e fu mia grande
meraviglia ascoltare una registrazione con la viva voce del viennese che af-
196
Il paese degli smeraldi
fermava in maniera accorata che, a differenza di Semmelweiss, egli aveva
resistito all’ostilità e al boicottaggio dei suoi contemporanei, per affermare
la sua (nota bene!) teoria. Non ti dice niente questo?
Un’altra puntualizzazione devo farla, a margine di quanto dicevi a proposito del mio libro, da te gentilmente recensito.
Anche con me (si parva licet) sei stato esegeta pigro, liquidandomi
come sostenitore dell’inconscio freudiano. I libri, però, bisogna leggerli
tutti, e non solo i primi capitoli, specie se molto collegati con le più recenti
conoscenze della psicologia dello sviluppo. Se avessi letto meglio e approfonditamente avresti notato che, d’accordo con inequivocabili scoperte
neuroscientifiche, sostengo che gli inconsci sono due:
1) il protomentale, luogo della memoria implicita, inconscio emotivo e
psicobiologico che non ha niente a che fare con quello di Freud, in quanto
regolato dal sistema attaccamento e non dalla pulsione;
2) il pensiero inconscio, luogo della memoria esplicita (semantica, episodica), che comprende le immagini mentali di sé e dell’altro da sé, nonché
accoglie gli elementi protomentali man mano che vengono elaborati.
Come vedi, l’ipotesi di integrare due inconsci è lontanissima da Freud
(che critico aspramente nel libro, ma non fino al punto di negarne l’esistenza), e forse era nella mente di Bion. Con ciò non pretendo di sintetizzare
un’opera che racchiude trent’anni della mia esperienza, però non è appiccicando etichette che si fa cultura (come fa Massimo Fagioli), ma entrando
nelle grandi questioni sollevate in tutto il mondo scientifico e traendone
lo spunto per offrire metodi efficaci per l’intervento nei principali disturbi
psichiatrici. Giuseppe Lago
Gentile professore, non so se si ricorda di me, la intervistai nel 2005 (Tomassi, 2005). Non so se ricorda il clima in cui quell’intervista avvenne. Me
l’ha ricordata la lunga risposta che dedica a Giuseppe Lago, che ho letto
capitando per caso in questo blog. Mi sembra però che il clima in cui oggi
lei ripropone molti di quei contenuti sia assai diverso. O mi sbaglio?
Innanzitutto sono passati due anni, poi sembra che lei non sia più, mi
perdoni l’eccessiva confidenza, così solo come allora: ci sono degli amici
che le scrivono (alcuni veri, altri no, come sempre nella vita), c’è questo
blog pieno di rivelazioni, di fatti... certo è importante che si vada anche
oltre questi fatti e queste rivelazioni e si cerchi di alzare il livello della
discussione per non cadere nella “ripetizione”.
Mi permetta allora di continuare quell’intervista qui, in diretta, e di farle
alcune domande. Non voglio fare la saputella, neanche oso pensare di insegnare a lei qualcosa: troppo spesso ho sentito parlare di lei con ammira-
Alcune opinioni a confronto 197
zione e rispetto per la sua identità e cultura, e ancora molto rispetto ho per
la sua “militanza” che deve esserle costata lacrime e sangue. Vengo subito
alle domande.
1) Lei sostiene «che ci sia nella teoria della nascita un positivo da non
smarrire». Perché la definisce una teoria e non, come fanno e hanno fatto
altri, “formulazioni”, “ipotesi interessanti”, che andavano confrontate trenta o vent’anni fa?
2) Può dirci di più sul perché non accetta, come a me è sembrato, la
visione (uno dei punti cardine del bell’intervento di Nicola Lalli su Bettelheim) secondo cui il rapporto tra teoria e pratiche va posto oggi, e forse
non solo oggi se si parla di psicoterapia, a partire proprio dalle pratiche? La
questione mi sembra riguardi anche la politica.
3) La sua risposta sul transfert data a Giuseppe Lago apre mille domande. Se la parola transfert le evoca una psicopatologizzazione se ne
potrebbe usare un’altra: senza suscitare le sue ire, si potrebbe parlare di
“alienazione” o di “idealizzazione”? Sempre per rispondere alla domanda
del “perché ora”?
4) Come giudica tutti coloro che non si fecero affascinare da Massimo
Fagioli o almeno non tanto da partecipare all’analisi collettiva?
5) Non posso non ammirarla quando enuncia come non sue le cose che
del pensiero di Fagioli l’hanno affascinata. Lei pensa che non esistano altre
idee interessanti oltre a quella e a quelle altre di seguito da lei elencate in
tutta la storia della psicoterapia? Pensa che criticarle o evidenziare per alcune di esse altre parallele origini significhi per forza tornare a Freud?
6) Non vorrei sembrarle irrispettosa, ma non ha paura che certe sue posizioni possano valerle l’accusa di essere solo un nostalgico, affetto da una
sorta di “sindrome di Cordelia”, nel presentarsi come cantore di un “dramma” paragonabile al Re Lear?
7) Un’ultima domanda, che richiama la parte finale di quell’intervista.
Allora sfiorammo appena il problema delle donne. Le donne per Machiavelli, si ricorda? Allora mi aveva fatto sperare che lei, a differenza di tanti,
avesse un certo rispetto per le facoltà intellettive delle donne: come mai
non vedo su questo blog una sola parola da parte sua su questo tema e
l’analisi collettiva? Mi piacerebbe che ne parlasse. Irma Tomassi
Gentile dott.ssa Tomassi, risentirla è un piacere e mi permette di rinnovarle l’espressione della grande riconoscenza che ho verso di lei per avermi
fatto il dono di quell’intervista due anni fa. Lei fu tra i pochi a darmi per
vivo quando i più mi davano per morto, inoltre la sua è stata e resta l’unica
recensione che abbia avuto il mio libro su Machiavelli al quale sono parti-
198
Il paese degli smeraldi
colarmente affezionato perché lo considero come una sintesi di tutta la mia
ricerca e come il mio contributo scientifico più maturo.
Vengo alle sue domande. Alcune non le capisco, altre non suscitano il
mio interesse, altre ancora mi sembra vorrebbero essere cattive, ma non lo
sono abbastanza da armarmi alla risposta. Risponderò quindi a due soltanto, quelle sul transfert e sulla metodologia, anche perché ciò mi permette
di riunirla nella risposta a Giuseppe Lago, a Freeasabird e a Frà, un a me
ignoto (forse giovane) frequentatore che alcuni giorni fa pose una questione importante.
Lei sa che il concetto del transfert sorge nell’ambito della clinica e ivi è
praticato in riferimento a una serie di fenomeni che vi appaiono. Fenomeni, anche apparentemente analoghi, che si producano fuori di quell’ambito
non possono essere raccolti sotto quel concetto. Di certo a una sua amica
adirata lei non risponderebbe ricordandole il transfert che essa ha con lei
o con qualcun altro. Di conseguenza è del tutto legittimo che io obietti, a
chi voglia riportare mie idee, espresse in un ambito palesemente non clinico, a un fenomeno di transfert, che sta cercando di psicopatologizzarle,
brutta espressione che però non significa altro che sta cercando di privarle
di senso proprio.
Tuttavia la sua domanda e la risposta di Giuseppe sul transfert hanno un
senso importante. A questo proposito non ho certezze da esporre né cose da
insegnare, solo qualche pensiero da proporre a una comune riflessione.
Un pensiero è che, per cogliere quel senso, bisogna entrare nello sdrucciolevole e insidioso terreno di un rapporto tra cura formazione e ricerca,
posto non in termini di netta separazione ma di continuità e distinzione.
Stando su questo terreno, il concetto clinico del transfert effettivamente
perde il condizionamento psicopatologico e si offre come modello o esempio di una modalità di conoscenza che si oppone a quella scientifica, in
quanto, mentre questa tende a escludere il rapporto, essa ne fa il proprio
cardine: una data teoria cerca conferma in un metodo che non è quello
neutrale dell’esperimento, ma quello del rapporto con il soggetto che formula la teoria, il quale deve dimostrare la propria coerenza con essa e la
quale deve comprendere in sé un’ipotesi sulla possibilità e validità di quel
metodo.
Allora, lasciando da parte il transfert, che non può essere nulla più che
un esempio, propongo altri due pensieri. Con il primo voglio segnalare l’importanza della cosa, la posta in gioco: affacciandosi anche grazie
all’esempio e al modello del transfert, questo secondo concetto della conoscenza avanza un’istanza critica verso tutta la tradizione del logos occidentale, almeno da Cartesio in poi, o meglio accoglie quella istanza in qualche
Alcune opinioni a confronto 199
modo presente pur nell’imperare di quella tradizione; con il secondo voglio
suggerire che la teoria della nascita e la metodologia dell’analisi collettiva vanno anzitutto comprese come qualcosa che nella seconda metà dello
scorso secolo ha cercato di dare forma a quell’istanza.
Gentile dottoressa, mi perdonerà se mi distraggo un momento per dire
a Giuseppe Lago che sarà pure vero, non lo so, non credo, quello che egli
dice della Isaacs e di Bion, ma è un fatto che certe cose io, e penso anche
lui, le abbiamo ascoltate da una data persona e abbiamo pensato di poterle
conoscere attraverso il rapporto con quella persona; comunque non avremmo potuto con Isaacs o con Bion, non solo perché stavano lontani, fuori
dal rapporto, ma perché erano legati a una modalità di conoscenza che era
quella tradizionale.
Per lo meno fu questo il motivo per cui io feci quella follia di scrivere
Il pappagallo dei pirati. Giuseppe parla di carisma, e va anche bene, ma a
mio avviso non va trascurato che quel potere carismatico, al pari dell’averlo
noi riconosciuto o subìto, si fonda sulla nostra sensibilità per quella grande
scommessa, quella grande seduzione di poter partecipare alla risoluzione di
quella che de Martino chiamava la crisi del logos occidentale. Aggiungo che
in quest’ottica non hanno senso i tentativi di asserire la non validità della
teoria della nascita sulla base dei mancati riconoscimenti scientifici e accademici, dato che per averli è necessario stare nella tradizione di quel logos.
Tornando a noi, gentile dottoressa, converrà sull’importanza di queste
parole di Frà: «Ieri sera, fino a tardi, a leggere questo blog, mi inserisco
con un pensiero: non vi può essere conoscenza se non vi è relazione. Affermazione giusta e persino doverosa: non basta studiare, non è sufficiente
- anzi è persino dannoso - chiudersi in un luogo perché in quel luogo vi è
la conoscenza. Al limite, si può dire la medesima cosa a proposito di quei
luoghi, qualunque essi siano, nei quali si dice essere possibili - e solo ed
esclusivamente lì - la conoscenza e le relazioni. Perché luoghi esclusivi
non esistono né debbono esistere. Si fraintende quindi, o si altera, il senso
di una affermazione giusta laddove si afferma, esplicitamente o meno, che
vi debba essere specificamente quella relazione, e che al di fuori di quella specifica relazione la ricerca non sia possibile. Paradosso della ricerca
obbligata, dell’unicità del possibile, dell’amore imbrigliato nel dovere. E
stupidità di chi ritiene, invece, che l’idea debba esser fatta morire di fronte
all’esistenza di coloro che, per il loro modo d’essere e sentire, nella prassi
quotidiana disconfermano continuamente ciò che pure affermano».
Parole importanti, nel loro pur confuso dire del positivo e del negativo.
Perché in effetti abbiamo sperimentato che il limite maggiore che la conoscenza fondata sul rapporto incontra è quello di poter decadere, anche
200
Il paese degli smeraldi
per l’improvvido operare di una specifica persona e per le sue intervenute
incoerenze, in un rapporto senza conoscenza né delle cose proposte da chi
prometteva che attraverso il rapporto con lui le avremmo conosciute, né
delle cose e del mondo esistenti fuori di quel rapporto, acquisizioni della
neurofisiologia comprese.
Ho una vecchia macchina, ha fatto quasi novantamila chilometri. L’altro
giorno ha cominciato a fare i capricci. L’ho portata dal meccanico, prima
di buttarla via mi è parso giusto e conveniente vedere se e dove potesse
aggiustarsi. Vogliamo prenderci un momento per capire cosa si è rotto in
quella grande scommessa e se si può aggiustare, prima di buttarla via non
senza conseguenze di rinuncia? L. A. Armando
Gentilissimo professore, mi dispiace di essere stata fraintesa, soprattutto
in un’intenzione di essere cattiva che, le assicuro, non mi appartiene. Le
mie domande non intendevano provocarla se non nel senso buono, ma evidentemente non sono ancora in grado di fare centro con 7 su 7, mi basta
che due le siano piaciute. Su tutto il suo complesso dire vorrei solo timidamente aggiungere qualcosa.
Evidentemente stiamo parlando di psicoterapia, ma basterebbe semplicemente parlare di terapia per collocarci in un ambito ben diverso da quello
della scienza sperimentale, ne conviene? Un medico non psichiatra mi ha
suggerito che la questione dell’arte medica è comunque da porsi su un piano diverso da quello della teoria scientifica.
Lei è giustamente adirato per le banalizzazioni, le standardizzazioni anche in campo deontologico, ma cosa pensa dello sdoganamento di qualsiasi
pratica di arte medica che deriverebbe, più o meno direttamente, da una
teoria autodefinitasi giusta?
Bellissimo poi il suo richiamo alla relazione e all’aver vissuto qualcosa di molto meno banale di un semplice transfert. Bello e giusto, ma una
volta prese le distanze da una certa esperienza, se ne può ragionare anche
per estremizzazioni e paradossi come vedo fare in questo blog? A me che
guardo dall’esterno, questa dialettica, al di là dei momenti segnati da una
certa aggressività, sembra perfino costruttiva!
Allora le ripropongo le mie ultime due domande. La prego, le riconsideri. La questione di Cordelia era un modo un po’ carino per dire di quello
che la lettrice arrabbiata e altri sembrano designare più brutalmente con
“rosicare”. Di fronte alla pazzia-rimbambimento di Lear, che sbaglia affidandosi alle due perfide figlie Regana e Gonerilla (la fa sorridere, dica di
sì), solo la terza figlia Cordelia, da lui scacciata e accusata di tradimento,
gli rimane fedele e soffre ovviamente molto. Passa una vita a soffrire di
Alcune opinioni a confronto 201
questa incomprensione («non sono stata capita» dice sul blog Cristina, che
ancora è incerta sul da farsi con il suo seducente e seduttivo terapeuta).
Sono una donna prima che una psicologa e le confesso che ho avuto
molto a che fare, nel transfert con il mio terapeuta, anche lui fascinoso,
con questa sindrome. Ci ho messo moltissimo a liberarmene e oggi me
ne sento guarita. La colpa di questo modo di vivere il transfert era tutta
mia? Era una forma romantica di erotomania? Qualcuno potrebbe dire di
sì: visto che ne sono guarita sarà perché lui è stato bravo a guarirmi, ma
potrebbe anche essere stato lui stesso a provocare questa reazione paranoica, megalomanica, per cui la cosa sarebbe scomparsa con il mio allontanamento da lui...
Penso, e lo voglio dire con tutta la delicatezza e l’affetto del caso, che
molte delle donne che testimoniano su questo blog abbiano sopportato molte cose per il fatto di sentirsi innamorate e fedeli a questo amore disilluso e
disatteso in un modo che evoca Cordelia nel senso qui esposto. E penso che
molte vivano ancora qualcosa di simile, ma per il fatto di non essere state
prescelte... O sono cattiva?
Ma anche per un uomo, fatte le debite differenze, potrebbe essersi verificato qualcosa di simile. Che ne dice? Nonostante non abbia una formazione fagioliana, ma piuttosto ortodossa, non sono così rozza da pensare che
in un uomo una reazione simile sia in qualche modo sospetta.
Però come mai - lo chiedo di nuovo a lei, professore, che così bene
ha parlato di relazione e conoscenza - questo modo di prospettare la relazione intima, fisica, come accesso non solo alla guarigione ma alla stessa
conoscenza, è stato in qualche modo prospettato come l’unico (in forma
allusiva, si intende)? Come non considerare la cosa più che seduttiva per le
donne, che di conoscenza hanno una vera e propria inestinguibile sete? Mi
chiedo: ha funzionato o la sua riuscita è rimasta avvolta nel mistero? E cosa
hanno patito gli uomini o le donne escluse da quella forma di trasmissione
“esoterica” della conoscenza? Irma Tomassi
4. Mare azzurro e mare verde
Mi sembra che nell’ambito della discussione si siano costituiti due gruppi: uno che ritiene necessario o utile salvare il bambino buttando solo l’acqua sporca; l’altro che invece ritiene ci sia poco da salvare o che, per lo
meno, non sia questo il momento più opportuno. Aggiungo, per precisione,
che appartengo al secondo gruppo: ritengo, infatti, che nulla ci sia da salvare né tanto meno da fare sconti.
202
Il paese degli smeraldi
Chi vuole salvare il bambino deve riflettere sul fatto che forse nel frattempo, a causa dell’acqua troppo sporca, sia bello e defunto. Oppure che
nel secchio c’è solo un pupazzo di importazione cinese, per cui tentare di
salvarlo, oltre che inutile, rischia solo di far perdere tempo.
Sono convinto che questa diversità di posizioni potrebbe rappresentare,
nel futuro, una difficoltà di comprensione reciproca, ma penso anche che
per decidere quale sia la soluzione migliore occorra portare ulteriori prove.
Non che quelle riportate siano insufficienti, ma occorre un’analisi storica e
motivazionale che fornisca una linea guida.
Da parte mia sto già cercando di farlo: ricostruire un percorso a partire
dal 1971, sottolineando tutti i momenti importanti di cambiamento, che
fondamentalmente sono regressivi. Ho ritrovato tutti i video collegati a vari
interventi dell’analisi collettiva in ambito pubblico a partire dal 1989. Alcuni di questi, soprattutto quelli riguardanti i cosiddetti Seminari all’Aula
Magna, mi sembrano indicativi: colleghi universitari invitati, ma sbeffeggiati dal popolo di Fagioli (spero di poterli rendere pubblici). Tra l’altro
mi sono accorto che l’intervento di Paolo Pancheri, che speravo rivedere,
è stato completamente tagliato, dimenticando Fagioli che qualche mese
prima Paolo aveva accolto gratuitamente e da gran signore una massa vociante nella sua sede pubblica, la Sopsi. Si possono vedere gli anni in cui
Fagioli comincia a usare il copyright personale, o video venduti a 40.000
lire nel 1997 e forse anche prima.
Mi diranno, quelli che si occupano dei massimi sistemi, che sono piccoli
dettagli, ma io continuo a essere convinto che se questi piccoli dettagli
vengono ben utilizzati e inseriti nella storia complessiva possono rappresentare elementi di estrema importanza per l’analisi e la valutazione della
storia stessa. Esiste una microstoria che ha una validità e una capacità di
rappresentazione a volte superiore alla storia ricostruita secondo i canoni
dei grandi eventi. Nicola Lalli
Caro Nicola, a mio avviso non c’è differenza tra la frase «Freud non è
mai esistito» e il tuo dire che «nel secchio c’è solo» quel pupazzo, ovvero
che Fagioli non è mai esistito. Con un’aggravante però: quella che questo
dire comporta un “noi non siamo mai esistiti”, noi – intendo – nel nostro
rapporto con quella realtà storica, con le nostre intuizioni, entusiasmi, illusioni, delusioni, mancanze. Soprattutto con le nostre motivazioni e responsabilità.
Il tuo giustizialismo non lo condivido e non mi interessa. Non lo condivido, perché mi viene il sospetto che voglia risparmiare ciascuno di noi e
te stesso dallo scavare nella propria carne per arrivare a quelle motivazioni
Alcune opinioni a confronto 203
e responsabilità. Non mi interessa, perché aggiunge all’ottusità del medico
per la realtà storica, quella del giudice e, come dimostrano anche le cose
della politica, non ha alcun valore fattivo e di conoscenza.
Non capisco poi che vuol dire «non fare sconti». Chi vuol fare sconti? Tutta la gamma delle critiche sarà rappresentata nella sintesi, l’oblio
risulterà tolto ovunque è stato imposto. Si tratta però di non fare sconti
davvero, neppure a noi, alle nostre motivazioni e responsabilità; di non
fare sconti neppure nel senso di dire che ciò che è esistito ed esiste non
è mai esistito, era solo appunto «un pupazzo di fabbricazione cinese»:
perché, oltre che uno sconto eccessivo, a me sembra un falso che si aggiunge a quello che, in ciò che è esistito, era falso. La sintesi del blog non
può del resto che rispecchiare la realtà del blog stesso che è quella di un
alethein, dichiarare, interrogarsi, proporre visioni e valutazioni diverse,
firmate o nikkate.
A prescindere da ciò che di valido e da salvare c’è nella teoria, un motivo per cui non sono disposto a dare per mai esistita la realtà sua e della
pratica collegata, è che perderei l’occasione di studiare in vivo fenomeni
del passato che in essa si ripetono, con la presunzione di cogliere così qualcosa che attutisca la forza della ripetizione.
Ma forse questo a te può non interessare. Un altro motivo per cui non
sono disposto a quanto detto può però interessarti. Sai bene come vanno
le cose in psicoterapia. Spiegare non basta, forse a comprendere, di certo a
far effettivamente comprendere. Il problema non è quello di far capire, ma
di condurre chi già sa o cui è già stato fatto capire ad agire in base a quanto
sa o ha capito.
E a tal fine sembra importante prospettargli una meta trascinante e far
sì che egli si incateni ad essa. Questo è quanto teorizzato da Bion con il
discorso del superamento degli assunti di base nel gruppo di lavoro. Ora,
a proposito di realtà storica, di quanto posto in essere dal nostro fraterno
amico, non mi sembra si possa negare che ha ripreso a modo suo quel discorso. Lo scandalo per il fatto che nel grande gruppo non siano ammessi
malati conclamati o che esso non è un gruppo terapeutico, è a mio avviso
immotivato. Quei fatti esprimono il successo nel superamento degli assunti
di base, la trasformazione del gruppo terapeutico in gruppo di lavoro. Il
problema sta in come è avvenuta questa trasformazione, a quali prezzi,
qual è il lavoro prospettato.
Nel blog e nella sintesi è detto tutto quanto c’era da dire di critico su
quel lavoro a partire dal fatto che è un lavoro di identità legate ad esso dalla
rinuncia alla verità e dallo sviluppo della fede. Però l’essersi dati questi
sviluppi non può cancellare la realtà storica di un tentativo di andare oltre
204
Il paese degli smeraldi
l’impotenza terapeutica del comprendere e far comprendere. Non deve privarci della ricchezza che viene dal riconoscimento di quella realtà storica e
che è quella di porre il problema della differenza tra aver fede, denunciare
e lavorare. Antonello
Nel suo ultimo intervento il prof. Armando ha esplicitamente parlato
di un gruppo di lavoro e non di un gruppo terapeutico. In un intervento di
qualche tempo fa il prof. Lalli scrisse che lì non si fa cura né formazione,
ma al massimo ricerca. Ora, sicuramente nella forma e nell’approccio e
nello stile, le due posizioni sono distanti. Ma nel contenuto? Riporto le
frasi di Antonello e di Nicola.
Ammesso (e non concesso) che «il terapeuta Fagioli possiede una sanità mentale assoluta, basta questo per renderla trasmissibile ed ereditabile
da quanti, psichiatri e psicologi, frequentano l’analisi collettiva? Evidentemente no! Di qui la necessità, in prima battuta, di costituire la scuola
romana di psicoterapia: ma è ben chiaro che questo non è che un elenco
di nomi che nulla ci può dire circa la validità e la professionalità di queste
persone...» (Lalli, 2004).
«Nei gruppi che gli psichiatri dell’analisi collettiva hanno sostituito
all’analisi individuale tutto si centra e finalizza intorno ai fatti e ai detti
dell’analista del grande gruppo. Il fine di tutto è il superamento della negazione della grandiosità di quei fatti e detti. Si dicono gruppi terapeutici,
in realtà sono gruppi di indottrinamento, madrasse islamiche» (Armando,
Bollicine, dicembre 2006). «Gli psicoterapeuti della cosiddetta scuola romana attuano una regressione dalla religione del figlio a quella del padre,
nella misura in cui risolvono il problema del transfert del paziente con loro
sostituendolo con quello del paziente stesso con il loro terapeuta, con qualcosa posto fuori dal setting immediato, in un setting più ampio, con qualcosa di irraggiungibile. Dio figlio, dio padre, dall’idea della natura umana/
divina a quella della natura essenzialmente divina di Cristo» (Armando,
Bollicine, luglio 2007). Citando un cantautore: che importa a questo mare
essere azzurro o verde? Rowan
Caro Rowan, complimenti davvero, sei sempre acuto nel domandare cui
ti spinge la tua inesausta sete di sapere. Mi sembra utile risponderti brevemente e provare a fornirti il chiarimento che cerchi. È vero, la distanza tra
Antonello e Nicola è grande. Non è vero però che si tratti di una distanza
apparente. Essa ha una sostanza che tento di riassumerti in tre punti:
a) il primo ritiene che nella teoria e nella progettualità iniziale della connessa pratica sia compreso qualcosa di valido e irrinunciabile, e che gli
Alcune opinioni a confronto 205
sviluppi attuali significhino un processo degenerativo che costituisce un
dramma rispetto al quale non sa sentirsi indifferente, si è interrogato a più
riprese in questi ultimi anni e continua a interrogarsi; il secondo ritiene
che non ci sia nessun dramma perché all’inizio c’era solo «un pupazzo di
fabbricazione cinese»;
b) il primo considera che il grande gruppo e i piccoli gruppi compongano insieme non più un gruppo terapeutico, ma un gruppo di lavoro (le
madrasse lo sono) e contesta che il concetto di lavoro che rende coeso il
gruppo appartenga, come invece viene detto, alla tradizione socialista di
quel concetto; il secondo non parla di gruppo di lavoro, ma generalizza gli
aspetti settari di quel gruppo per parlare solo di setta;
c) il primo ritiene che l’opposizione alla politica della rimozione, del silenzio e dell’oblio, la pratica dell’alethein tentata con tanta partecipazione
e passione in questo spazio virtuale, debba essere funzionale a una ricerca
sulle condizioni del dramma e della catarsi; il secondo ritiene che debba essere funzionale a un fine giustizialista che il primo aborre per innumerevoli
motivi, ma anche perché sa che esso fa, delle verità strappate al silenzio e
dette, dei feticci. Antonello
Roma e Napoli distano circa 200 km. Considerate da Buenos Aires, sono
vicinissime. La tua affermazione, caro Antonello, «il grande gruppo e i
piccoli gruppi compongono insieme non più un gruppo terapeutico, ma un
gruppo di lavoro (le madrasse lo sono)» è importante, ai miei occhi costituisce un giudizio bello pesante!
Ma torno al punto, al paragone iniziale. A “Buenos Aires” vivono molti
analizzandi dei piccoli gruppi, la cui vita si svolge in mezzo a tanti “uomini
della strada”, ossia familiari, colleghi, amici che non sono a conoscenza di
questa vicenda o lo sono per sommi capi (e questo, forse, permette loro di
mantenere una preziosa lucidità).
Bene, in questo “mondo reale di Buenos Aires” indottrinamento richiama setta e setta richiama indottrinamento. Il tuo distinguo contenutistico
dalla posizione di Nicola è ben chiaro, a me che grazie al blog mi sono preso una vacanza da Buenos Aires e viaggio tra Roma e Napoli. Ed è chiaro a
tutti i partecipanti al blog. Ma ti assicuro che lì a Buenos Aires come provi
a parlare di questa vicenda, le posizioni tue e di Nicola sono molto simili,
come Roma, da lì, è vicinissima a Napoli. Rowan
Caro Rowan, questa volta la tua acutezza sembra incorrere nel difetto di
delineare uno spazio visuale troppo sottile. Crea una sorta di illusione ottica per la quale risulta che da Buenos Aires si vede solo Napoli, non Roma;
206
Il paese degli smeraldi
eppure, a meno che non mi sbagli di grosso, a me sembra che Roma esista.
Per dirla altrimenti, perché guardare le cose da Buenos Aires, o solo da lì?
Perché non guardarle anche da altrove, ad esempio, per non essere esotici,
da Firenze? Antonello
Grazie Antonello. Forse mi sfuggirà il senso più profondo di questa tua
risposta, perché mi viene da risponderti in modo assai semplice. Ipotizziamo la figura dell’analizzando medio, in prima istanza partecipante a
un piccolo gruppo. Attorno a questo analizzando medio ruota un’umanità
che, al massimo, conosce per linee generali tutta questa vicenda e che non
“commette errori” nell’accomunare la tua posizione e quella di Nicola, in
quanto la risoluzione “ottica” di cui essa è dotata è quella che è (non essendo coinvolta direttamente ma, aggiungo, essendo preservata in lucidità).
Con questa umanità mi trovo a confrontarmi: «Lalli e Armando... la loro
sarà una diatriba universitaria, al massimo personale, il classico scontro
filosofo-medico... ma alla fine entrambi hanno affermato che l’analisi collettiva e i piccoli gruppi non sono gruppi di terapia».
Ora l’analizzando medio Rowan ha scoperto il blog... la sua risoluzione ottica è aumentata: può misurare, valutare la distanza Roma-Napoli da
Firenze, dall’Aquila, da Cagliari (non da Chieti, of course…). Può pensare
che forse parlare di setta è una forzatura, ma può anche ravvedere in qualche comportamento dei soggetti alcuni accenni alla modalità-setta. Può
pensare questa esperienza come una piccola chiesa, riconoscere che magari
a qualcuno in qualche fase della propria vita abbia giovato...
Ma l’aspetto curioso, perché uguale e contrario, è il seguente. Per un
analizzando medio non al corrente del blog, Lalli e Armando sono accomunatissimi! Da cosa? Ma da ciò che gli inculca il terapeuta! «Ma che vogliono Lalli e Armando, ma se fino a qualche anno fa stendevano tappeti rossi
a Fagioli». A chi frequenta il piccolo gruppo viene proposta questa visione:
o con noi o contro di noi. Nulla salus extra ecclesia. Venite presentati come
traditori. Anzi, già è tanto che venite presentati. Rowan
Cari compagni, io chiamo così quelli che si nutrono come me della
stessa ricerca di una via per la realizzazione umana. Se a qualcuno non
sta bene…. pace. Seguo come posso le Bollicine e il blog di Antonello.
Spesso ho difficoltà di comprensione, ma so che è un limite mio. Apprezzo molto la passione e l’impegno del dibattito e mi dispiace che alcuni
ortodossi considerino questi scritti all’indice. Credo che perdano un’occasione di confronto e verifica ripetendo l’antica dinamica dei cristiani e
dei gentili.
Alcune opinioni a confronto 207
Non era questo lo spirito degli anni Settanta quando iniziò questa storia. Uscimmo dalla chiesa freudiana rivendicando il diritto alla critica e
proponemmo la scoperta di Massimo, sfidando tutte le opinioni diverse.
Per molti di noi la sfida era a 360 gradi: ci scontrammo con l’opinione dominante per l’antiteismo, per il socialismo, per la psichiatria diversa dalla
neurologia, per un vero rapporto con la donna.
L’incontro con Massimo e Antonello per me significò una svolta esistenziale. La teoria della nascita e la ricerca con loro mi fornirono la bussola per
uscire da confusioni e contraddizioni che da solo non sarei riuscito a dipanare. Dall’inizio a tutt’oggi faccio parte dell’analisi collettiva, con periodi
di assenza e di crisi, ma sempre con il vissuto di restare un po’ più povero
quando ne ero lontano, pur avendo una vita piena di storie interessanti.
E ogni volta all’uscita ho la sensazione di portarmi via qualche nuova
conoscenza importante. Questo per me è vero, come è vero spesso un senso
di disagio, quasi di colpa, certo di insufficienza. Come quando si entra al
seminario e si incontra il “suo” sguardo di indifferenza (ora anche quello
dei vigilantes) che ti prepara a una condizione di soggezione, come al pericolo di un’interrogazione in classe; ma forse questo vale per me quando mi
vado ad appiattare alla base dell’onda nella speranza di non essere chiamato e nella rinuncia alla possibilità di intervenire quando vorrei e soprattutto
una condizione di non poter mai obiettare, perché quello è setting terapeutico e il terapeuta è lui.
Anche quando so di avere ragione, come quando lui se ne parte con
quella storia di Nicola e di Nuova Psichiatria, che lui qualifica di destra.
Quella storia riguarda anche me. Già l’ho scritto in un altro blog e lo ripeto
pubblicamente. Quell’associazione non era fascista. Si formò spontaneamente in una riunione di psichiatri di diverso orientamento politico: c’era
uno del Prc (io), come pure uno di An (Tropeano, persona colta e molto
rispettabile), più altri dei Ds e dell’Italia dei Valori. L’associazione nacque
per intervenire con suggerimenti tecnici qualificati sul progetto di legge
Burani Procaccini, che rischiava di essere gestito dalla destra. Anche grazie
al contributo di Nicola, ottenemmo buoni emendamenti. Arenatosi il progetto di legge, l’associazione si spense.
Vorrei sapere chi ha dato a Massimo informazioni così sbagliate. Capirei
la critica di Psichiatria Democratica, visto che accettavamo di toccare la
180. Lui in questa storia sbaglia, ma come si fa a farglielo capire? L’ultima
volta stavo per alzarmi e dirglielo: ma non si usa e si determinerebbe una
violazione del protocollo, con la partecipazione riprovante del coro. E allora si rinuncia, ma ecco il punto. Si evidenzia la mancanza di un momento
dialettico esterno con Massimo.
208
Il paese degli smeraldi
Ai tempi dei gruppi, prima dei seminari, era una fioritura di discussioni, di opinioni a confronto su tutti i piani. Io sostenevo Potere Operaio,
lui propendeva per Lotta Continua, soprattutto c’era un vivace dibattito
psichiatrico che generò Il potere della psicoanalisi e il rifiuto della Spi.
Ora che la teoria della nascita è esposta e pubblica e costituisce una solida
piattaforma di base, perché non si può discutere e obbiettare su questioni
collaterali e sull’indotto?
Non dobbiamo correre il pericolo dell’istituzionalizzazione di una Toràh e della relativa casta sacerdotale. Non conduce a questo il percorso di
ricerca di sanità iniziato tanti anni fa. Anche dal padre ci si deve separare
per viaggiare nell’esistenza.
Antonello. Io sono amico di Antonello e condivido molte delle sue
critiche. Massimo ha svolto il ruolo di Prometeo, ma Antonello ha avuto
il coraggio di Capitan Harlock. Questo blog ha aperto le finestre di uno
spazio che poteva rischiare di trasformarsi negli archivi del Santo Uffizio.
Definirei quest’opera meritoria. Perché da taluni essa viene esecrata con
scomuniche e maledizioni, come quando con il nostro Papillon fuggimmo
dalla Cajenna della Spi? Neanche quando ero incastrato nel cattolicesimo
riuscivo a credere che i protestanti avessero del tutto torto.
Cosi esiste un luogo dove si può discutere liberamente, senza soggezioni.
Certo è aperto anche all’intemperanza e agli sfoghi di qualcuno, ma Antonello è persona esperta e sa come disinfestare e rendere vivibile l’ambiente.
Sulle dimensioni umane necessarie per questo impegno non ho dubbi e la
consapevolezza che egli non ha rinnegato la teoria, anzi tende a preservarla
da danni collaterali, mi da garanzia della validità del suo intento.
Credo che tutto quanto suddetto sia già acquisito e condiviso dalla maggior parte di quelli che scrivono sul blog e forse l’ho espresso come mia
presa di posizione verso i compagni fagioliani che non comprendono che
esiste un affetto riconoscente per Massimo e un interesse per la ricerca che
preferisce l’asprezza dell’alétheia e rifiuta qualsiasi consenso fondamentalista. Sono certo che Fagioli la pensa così. Sandro Casini
Interessante la new entry di Sandro Casini, per lo meno con nome e
cognome, perché ci fornisce, forse non volendo, un elemento di estremo
interesse per comprendere cosa sia l’analisi collettiva. Sandro ci racconta
che Fagioli ha a lungo dissertato sulla matrice fascista di Nuova Psichiatria: ovviamente, e come al solito, senza alcuna prova fattuale. Comunque
dire che Nuova Psichiatria è di matrice fascista, a parte che non mi sembra
argomento attinente a un contesto psicoterapeutico, vuol dire anche che
Sandro è stato definito fascista, ma Sandro, la cui storia politica è ben co-
Alcune opinioni a confronto 209
nosciuta, non può contraddire, non può rispondere, non può ristabilire la
verità di fronte a una palese menzogna. Altro che aletheia!
E perché non ha potuto rispondere? Semplicemente perché Fagioli stava
facendo le sue ore di “indottrinamento”. Sandro inoltre ci dice, dato altrettanto interessante, che non ha potuto intervenire perché avrebbe comportato... «una violazione del protocollo». Grazie Sandro per non aver usato il
termine setting che sarebbe stato veramente fuori luogo in un contesto che
nulla ha a che fare con la psicoterapia. Quindi Fagioli non fa psicoterapia,
ma indottrinamento. Quello stesso che esporta nelle lezioni a Chieti.
Credo che quando una persona così pervasivamente tende a fare indottrinamento, possiamo parlare di setta. E di fronte a un atteggiamento settario, non credo che esista alcuna possibilità dialettica. Quello che Fagioli fa,
tanto per rimanere nell’ambito di una certa sinistra, è quello che Mao imponeva dopo la rivoluzione culturale, con le famose “scuole di rieducazione”.
Non mi sembra che questa sia stata un’esperienza molto riuscita, né che
possa essere definita democratica, né tanto meno penso che una situazione
del genere possa essere migliorata o salvata. Quindi possiamo fare una
prima riflessione importante: l’analisi collettiva non fa psicoterapia. Una
seconda riflessione: non c’é possibilità di salvare nulla. Nicola Lalli
Certo ora sono venute a galla contraddizioni importanti. Il fatto è che
io all’Immacolata Concezione non ho mai creduto. Io non credo che Massimo Fagioli sia senza peccato e non abbia fatto e non faccia i suoi errori.
Ciascuno di noi è “sano” in percentuale e secondo le situazioni. La teoria
della nascita non è lo Spirito Santo risanatore. Forse noi avevamo questa
aspettativa. A me è completamente passata e lavoro a migliorare la mia
percentuale.
Una volta Matte Blanco all’inizio di una seduta si trovò in tasca un grissino. Si meravigliò e disse: «Mah, non resta che mangiarlo» e lo mangiò.
Lui era un didatta rigoroso e mangiare un grissino in seduta non è da setting, è un errore. Ma io sentii umanamente positiva questa sua uscita. Chi
di noi non ha sbagliato varie scopate? Non porterei Massimo Fagioli per
questi e altri suoi innegabili peccati a Norimberga; sarei invece molto più
preoccupato di avere io sganciato l’atomica, cioè di avere io affondato e
perduto la teoria. Per questo mi piace Capitan Harlock, perché combatte sia
contro gli alieni sia contro la stronzaggine degli uomini.
Alle origini della storia, io che non ero più disposto a fare atti di fede,
dissi a Massimo Fagioli: «Ma chi può credere che questa teoria sia la Verità definitiva? » Ed egli rispose: “Quando ce ne sarà un’altra migliore,
vedremo». E su questo credo si debba discutere, non sulla verginità, o
210
Il paese degli smeraldi
sull’infallibilità, o sui delitti di Massimo Fagioli; diamo per scontato che
lui faccia cazzate come noi, nella sua percentuale. Qualcuno ricorda quando nei seminari disse: «Qui non ci sono meno stronzi che fuori», non disse:
«Escluso me».
Non sono d’accordo con Nicola che liquida la teoria senza appello e
senza sufficiente discussione; sono d’accordo con lui quando apre il dibattito su che tipo di gruppo siano i seminari. Lui propone una tesi: non
è psicoterapia; Antonello suggerisce che si tratti di un gruppo di lavoro
surrettiziamente presentato come lavoro per un Nuovo Socialismo. Ne discuterei… Sandro Casini
Caro Sandro, capisco perfettamente il tuo punto di vista e quello del
Prof. Armando. Non è incomprensibile, ma può apparire sbagliato a chi
è fuori dalla vostra storia e quindi dalla vostra logica. Intervengo dopo
molto tempo, per dire sempre e solo una cosa: in psicoterapia dobbiamo esprimere senso di realtà e quindi, che ci piaccia o no, riconoscere
il contesto in cui vogliamo operare che è fatto di codici deontologici e
di teorie che da molto tempo hanno falsificato (nel senso metodologico
proposto da Popper) i principi proposti da Fagioli. Questo non significa
che allora (negli anni Settanta) - quando molti hanno proposto principi
teorici alternativi a quelli freudiani (magari scegliendo di rimanere nella
SPI) - Fagioli non abbia avuto qualche intuizione valida. Credo però che
di teoria ci si debba occupare (come ha fatto così bene il Prof. Armando,
ad esempio in “Psicoterapia e Scienze Umane” oppure nelle Bollicine)
altrove.
Se vedete l’inizio del blog e il fiume di interventi nella fase iniziale, è
chiaro che essi non volevano parlare di teoria e le reazioni in questi giorni
mi sembrano sintoniche con questa esigenza. Uno spazio per dire, confrontare e soprattutto capire dov’è il sano e dov’è il malato. Una questione che
attiene alla psichiatria e alla psicoterapia. È per questo che, appena ho letto
il tuo ultimo intervento, ti ho risposto di getto.
Provo imbarazzo di fronte a uno psichiatra e psicoterapeuta che sottovaluta gli “errori” di Fagioli che non sono neanche lontanamente paragonabili al grissino di Matte Blanco. Mi hai fatto tanto pensare alla storia del
diavolo e del peccato che mi avevano messo in testa quando da bambina
ero cattolica: tutti sbagliamo perché il diavolo ci perseguita, persino i preti
sbagliano (sono pedofili o altre nefandezze), ma se riconosciamo i nostri
errori e ci confessiamo, tutto può procedere come niente fosse.
Nella nostra disciplina non è così. Ci sono due forme di conseguenza ai
nostri errori: la falsificazione e quindi il non riconoscimento della nostra te-
Alcune opinioni a confronto 211
oria e della nostra prassi se sono sbagliate - ovviamente con riferimento ai
criteri della disciplina in cui interveniamo che possono cambiare nel tempo
in base alle nuove scoperte - e la radiazione dall’albo degli psicoterapeuti o
dei medici o degli psicologi, se facciamo qualcosa che è contrario ai criteri
concordati dalla comunità professionale cui vogliamo appartenere. Silvia
Mazzoni
Quando dico che bisogna separarsi intendo una separazione interna che
ridà a ognuno identità e responsabilità. Questa operazione mi sembra di
vitale importanza e se il lavoro del blog riuscisse a promuoverla avrebbe
svolto la sua funzione principale. Naturalmente anche la separazione interna necessita di distanze materiali che ognuno regola come crede, ma che
in chi legge e osserva stimolano riflessioni. La mancanza di spazi in cui
esprimere dissenso o disapprovazione per certe pratiche è, come lui dice,
un problema di questa storia, ma non è il solo.
È chiaro che andare ai seminari e vivere tutte le attività dell’analisi collettiva da quella posizione riduce molto le possibilità di critica, anche se
non posso escludere a priori che qualcuno riesca a mantenerle. È chiaro
altresì che non andarci più e continuare a porsi gli stessi interrogativi che
ci si poneva quando ci si andava è un’altra modalità possibile che qui nel
blog vediamo rappresentata. Come pure quella di non esserci mai andati e
di avere comunque appoggiato l’intera storia dall’esterno.
Ora, proprio per chiarire la mia posizione, non penso e non ho mai pensato che questa o quella scelta siano meglio o peggio, purché esse non
pregiudichino la possibilità di riflettere in maniera laica e spregiudicata
sull’intera storia. In questo senso ben venga qualsiasi tipo di contributo,
ma una cosa mi è chiara ed è che perché questo contributo sia valido deve
essere libero dalle pastoie di un già dato.
La bellezza e validità della teoria che giustificherebbe ogni forma di nefandezza perché compiuta da chi nefando non può essere in quanto autore
della medesima, ad esempio, è una cosa che fuori dall’ambiente dell’analisi collettiva non si può proprio proporre (e forse neanche lì si può ancora
continuare a sostenere).
Quanto al discorso dell’errore umano, non si tratta neanche di questo,
pur avendo quest’aspetto dell’umanità e fallibilità di Fagioli risonanze affettive di una certa portata.
Sarebbe bello, invece, affrancarsi da obblighi che ognuno di noi si è
sempre sentito in dovere di assolvere per potersi finalmente assumere responsabilità dirette. Questo non significa proporre Norimberga e nemmeno
la destalinizzazione, che si tratta di cose troppo grosse per poter fare pa-
212
Il paese degli smeraldi
ragoni sostenibili. Si tratta semplicemente di chiedersi se e in che misura
siamo consapevoli di quello che abbiamo fatto, chi in dieci, chi in venti,
chi in trenta anni della sua vita, e vedere se si può raccontare e cercare di
raccontarlo ad altri. «Senza sconti» per me significa questo.
Una cosa vorrei aggiungere: il punto cardine di tutto mi sembra la discussione sull’ermeneutica. Nel nostro mestiere hanno molto spazio le fantasie: è chiaro che questo apre al problema, di difficile soluzione, della
verità, così brillantemente sollevato da Antonello nella sua recensione su
“Psicoterapia e Scienze Umane”, ma è altrettanto chiaro che questo apre
alla possibilità dell’impostura, tema invece aperto da questo blog. Penso
che su queste cose ci sia ancora tanto da discutere, non per niente in tanti lo
stanno facendo da anni nel mondo nell’ambito di varie discipline. Si tratta
semplicemente di cominciare a farlo anche noi. Albertina Seta
5. Sette, madrasse e gruppi di lavoro
Cosa sono le madrasse? «Sono le scuole in cui si imparano a memoria
i versetti del Corano. A queste scuole appartengono in Afghanistan e in
Pakistan quei bambini e quei giovani che si vedono spesso in televisione
mentre recitano tutti insieme cantilenando e dondolandosi sul banco o sul
libro che tengono sulle ginocchia. In questi paesi le madrasse reclutano
bambini e ragazzi analfabeti ai quali si insegna a mandare a memoria una
ventina di versetti del Corano in arabo, una lingua che non conoscono. Solo
alcuni accedono all’insegnamento successivo, in cui imparano un maggior
numero di versetti e ne memorizzano anche la traduzione nella lingua locale. Altri ancora vengono addestrati a insegnare a propria volta» (da http://
www.radicali. it/view.php?id=39342).
Per Antonello, quindi, l’analisi collettiva è un “gruppo di lavoro”. Io ho
direttamente sostenuto che l’analisi collettiva è una setta e che l’attività
che vi si svolge è di puro indottrinamento. È un po’ difficile riscontrare
nelle madrasse criteri condivisibili per la definizione di gruppo di lavoro.
Nicola Lalli.
Io penso che siamo stati tanti anni in analisi collettiva per un nostro personale interesse per la realtà umana che ci faceva dire ogni volta: forse ho
capito male, fammi vedere meglio, forse sto negando, va bene speriamo di
risolvere questo difetto... Dunque, se siamo gente disposta a perdere tutto
questo tempo per capire, non ci interessano certo analogie e scorciatoie,
anzi di analogie e scorciatoie ne abbiamo piene le tasche...
Alcune opinioni a confronto 213
Il discorso della responsabilità alla quale richiama Nicola io lo intendo,
come mi sembra lo proponga anche lui, come piena assunzione dell’impegno di affrontare la realtà di fronte alla quale il blog ci ha messo.
I tre punti proposti da Antonello [ante § 3] sono a mio avviso un discorso ulteriore. Io penso non rappresentino divergenze che, a questo stato
delle cose, possano determinare schieramenti che non siano astratti. Naturalmente il discorso proposto da Antonello è molto complesso. Una sola
cosa volevo dire sul “gruppo di lavoro”, che contrasta con la mia propostaipotesi di “gruppo in assetto borderline”. Potrei prendere in considerazione
la possibilità di riflettere su una simile evoluzione storica del gruppo se
solo Fagioli ne sancisse ufficialmente la trasformazione, con conseguente
superamento del “protocollo” che non ammette contraddittorio. Non solo,
ma da un gruppo di lavoro mi aspetterei anche capacità di interlocuzione
con questo blog, cosa che non mi pare accada.
Il discorso sulla setta, termine che non mi turba perché penso di essermi liberata dal feticismo delle parole tipico dell’analisi collettiva, nasce
proprio come ricerca di definizione di un tale gruppo e dei suoi comportamenti. Le analogie con l’organizzazione delle sette sono suggestive, a volte
imbarazzanti. Soprattutto gli aspetti di credenza ancora tipici dell’analisi
collettiva rafforzano questo parallelo, bisogna ammetterlo. Ma tutti e tre
i punti del post di Antonello non sono stati ancora discussi e affrontati
esaustivamente né in questo blog né in altri documenti. Almeno non in un
modo che possa già tracciare incompatibilità o esigenze di schieramento.
Albertina Seta
Caro Antonello Armando, mi sembra inopportuno l’azzardato paragone
tra il lavoro di Bion e quello del conduttore dell’analisi collettiva. Questi
non ha per niente superato gli assunti di base bioniani e, di conseguenza,
non ha creato alcun gruppo di lavoro. Per quello che so di Bion, l’analisi
collettiva è l’esempio di come si possa svolgere una prassi gruppale per
anni senza ottenere alcun gruppo di lavoro, anzi facendo di volta in volta
prevalere ciascuno dei tre assunti di base (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento) allo scopo di accrescere il potere carismatico del conduttore del
gruppo, ovvero il suo potere di contenimento e di controllo delle angosce e
dei disturbi del pensiero dei partecipanti.
Fai un torto a tutti coloro che hanno postato in questo blog se trai (o
mantieni) la convinzione che il conduttore dell’analisi collettiva abbia permesso un gruppo di lavoro. Egli ha usato alcune arti e tendenze a lui congeniali per creare quella che da parte di molti è stata definita una piccola
chiesa, ossia un gruppo carismatico, ovvero un gruppo in assunto di base!
214
Il paese degli smeraldi
Mi permetto di postare una breve sintesi di ciò che Bion intende per
gruppo in assunto di base, quelli in cui predomina il concetto di cura, e
gruppo di lavoro, dove predomina la ricerca. La partecipazione al gruppo
in assunto di base non richiede capacità di cooperazione, ma una partecipazione spontanea, attivata sulla base della valenza: questa indica la disposizione dell’individuo a combinarsi con l’assunto di base dominante a quel
dato momento.
Gruppo di lavoro: è un gruppo con un compito designato coscientemente. In questo gruppo i membri rendono operante un’attività mentale cooperativa, sollecitata dal compito stesso. Il gruppo coopera per raggiungere
l’obiettivo. I membri partecipano della sofferenza psichica e raggiungono
l’apprendimento. Il gruppo riesce a guardare a se stesso e a valutare i processi gruppali in atto; riconosce i sentimenti e gli stati emotivi in azione, ne
parla e li elabora piuttosto che evacuarli. Esige dai suoi membri collaborazione e sforzo. Lo stato mentale operante implica il contatto con la realtà,
la tolleranza della frustrazione. Tipicamente il compito che si propone, per
quanto doloroso e faticoso, promuove una crescita e una maturazione sia
del gruppo sia dei singoli membri. L’azione risulta dallo scambio verbale
che è una funzione del gruppo di lavoro. Ex 68
Caro Ex 68, quanto tu scrivi su Bion è senz’altro esatto. Al solo fine di
non essere fatto passare per ignorante, permettimi di ricordarti che se conosci così bene Bion è anche per merito mio: fui infatti io a farlo pubblicare
(Bion, 1971) su suggerimento di Francesco Corrao, e mia è la traduzione
del suo Attenzione e interpretazione (Bion, 1973). Se quindi mi attribuisci
un’ignoranza che, nel caso specifico, sembra cozzare contro questi dati, è
perché, credo, nel mio post ti è sfuggito quel «a modo suo», «ha ripreso a
modo suo il concetto ecc.».
Mi sembrava interessante segnalare la prossimità delle date (1970, 1972,
1975) e mi riferivo al superamento degli assunti disgregatori del gruppo
per via del suo compattamento intorno a un fine. Quel gruppo in effetti
lavora ed è compattato in un lavoro che ha un fine. Su quel «modo suo», e
più ancora su quel fine e sul concetto di quel lavoro, se hai presente le cose
che ho scritto penso che non mi troverai meno critico di te. È anche interessante, e da approfondire, che il compattamento del gruppo intorno a quel
fine e il suo funzionamento come gruppo di lavoro non escluda il ritorno al
suo interno degli assunti di base, anzi se ne avvalga. Antonello
Visto che tra gli psicoterapeuti della scuola romana ci sto anch’io, direi
che ho buoni motivi per pensare che ce ne siano alcuni che non si limitano
Alcune opinioni a confronto 215
a fare dei loro gruppi delle madrasse o dei gruppi di catechesi, e che dunque
ci possano anche stare a leggere (prima o poi). Il problema della formazione in psicoterapia è un grosso problema, ma come tutte le questioni umane
deve essere risolvibile; qualche volta questo percorso di formazione, anche
il più impensato, dovrà pure riuscire se alla base di tutto ci sono qualità
umane che, pure impigliate in un transfert fortemente idealizzato, ovvero
fortemente invidioso, possono cercare e trovare una strada per la propria
realizzazione. Meno megalomanica, più modesta, dimensionata alle proprie capacità, ma autentica.
Il discorso sul transfert è molto complesso. Forse chi segue una pratica
di indottrinamento nei gruppi, come mi sembra emerga da alcune testimonianze dirette (Rowan, Claudio, Cinziotta), ha semplicemente paura di assumere su di sé il transfert. Perché questo timore? Perché sprovvisto delle
qualità umane necessarie per condurre una “esperienza emozionale correttiva” o perché, inibito dalla grandezza dell’impresa intellettuale dell’analisi collettiva, e dall’idea che questa susciti negli altri una violenza inusitata,
tende, più o meno ingenuamente, a rimandare al mittente le aggressioni
che ritiene non siano rivolte a se stesso? Non lo so, sono discorsi grossi.
Questo però provoca per me un’associazione con quello che storicamente
è avvenuto per l’idealizzazione di Freud.
Mi scuserete se lancio una provocazione: ma non sarà che siamo su un
terreno psicoanalitico? Cioè che questa storia vada letta “anche” secondo
l’ipotesi di un non distacco dalla psicoanalisi e dalla sua storia? Per alcuni, non per tutti, o meglio nel suo insieme? Non lo so. Tutta questa storia
dei malati, dei non malati… ma che il punto sia: seminarizzabili e non
seminarizzabili? Allora tutto si spiegherebbe, anche la noncuranza per la
deontologia, anche il “quod licet Jovi”...
Una nuova psicoanalisi, un percorso conoscitivo più che terapeutico. Ma
nell’analisi collettiva non si proponeva invece qualche altra cosa, ossia, non solo
che la terapia dell’inconscio fosse una psicoterapia e non una psicoanalisi, ma
che arrivasse a fondersi con la psichiatria, ossia con la cura del malato grave?
Il freudismo ha sempre guardato con diffidenza sia la terapia delle psicosi sia la pratica dei gruppi, ora invece nell’analisi collettiva ambedue
sono non solo permesse, ma stimolate. Basta questo per dire che non si
è freudiani, bastano gli intenti dichiarati oppure è necessario capire cosa
realmente accade? E su questo argomento, le pratiche, non credo si possa
rispondere con quello della teoria che salverebbe capre e cavoli... L’ambito
di discussione della teoria resta diverso da quello di discussione della pratica (anche quella dell’analisi collettiva) che viene sicuramente messa in
crisi e costretta a porsi delle domande da questo blog. Albertina Seta
216
Il paese degli smeraldi
Ciao Albertina, non ho mai pensato, allora come ora, che i colleghi psichiatri e psicologi dell’analisi collettiva fossero mentecatti, ignoranti e invasati che si «limitano a fare dei loro gruppi delle madrasse o dei gruppi
di catechesi». Non solo, di loro, avendone conosciuti e avendo collaborato
negli anni con diversi, sono stata sempre colpita dall’acutezza intellettuale,
dalla preparazione e formazione e anche dalle qualità e abilità umane, e
forse questo è uno dei motivi che mi hanno spinto ad andare all’analisi collettiva. Proprio quelle qualità, quella professionalità, allora mi portarono a
cercare un luogo dove potermi formare nel «migliore dei modi possibile,
nel migliore dei mondi possibile».
Sai le volte che mi sono stupita, e ancora mi stupisco, di vedere un
tale scollamento fra preparazione e formazione (spesso anche precedente
all’approdo all’analisi collettiva) e prassi clinica, ma soprattutto psicoterapeutica, scollamento evidentemente dovuto all’alienazione del proprio
pensiero e delle proprie capacità intuitive e umane nel Sommo.
Concordo pienamente con te, e forse anch’io sono la conferma che qualsiasi percorso di formazione, «anche il più impensato», deve riuscire «se
alla base di tutto ci sono qualità umane»; però penso, anche per esperienza
diretta, che l’imbrigliamento in un transfert fortemente idealizzato ovvero
fortemente invidioso renda il confronto e il percorso verso l’aumento delle
proprie conoscenze prima e realizzazione professionale poi, difficile, lungo
e a volte complicato, talmente complicato da non poter essere per alcuni
nemmeno pensato.
Confronto lungo e complicato che ti fa leggere allora, nel 1996, un articolo del tuo professore (mi riferisco al mio professore di psichiatria nonché relatore alla laurea in Medicina, Nicola Lalli) e sarà per l’età, perché
iniziavo a formarmi, lo lessi con interesse ma forse con poca attenzione.
Riprendendolo oggi, vedo che c’era già lì, nero su bianco, quanto noi e lui
ci stiamo chiedendo ora: la psicoterapia, la psicoanalisi e il loro rapporto.
L’articolo è La psicoterapia analitica: modello di riferimento e metodologia, scaricabile dal suo sito web.
Su un punto, Albertina, vorrei maggiori chiarimenti: non ho capito cosa
intendevi quando ti riferisci a coloro che seguono «una pratica di indottrinamento nei gruppi, come mi sembra emerga da alcune testimonianze
dirette». Posto che come è possibile, siano loro ad aver semplicemente
paura di assumere su di sé il transfert, forse, visto che parliamo di gruppi di
psicoterapia, non sarebbe il terapeuta a dover comprendere i tempi e i modi
per far loro superare questa paura? Freeasabird
Alcune opinioni a confronto 217
Cara Freeasabird, intendevo dire che chi indottrina i pazienti in terapia
(i conduttori dei gruppi suddetti) evita in questo modo di assumere su di sé
il transfert, per paura o inibizione. E dunque abdica alla propria funzione
di terapeuta, diventa un semplice selezionatore per quelli da inviare ai seminari, attuando un contenimento per gli altri. In ipotesi, s’intende: chiaramente è “il formatore” dei terapeuti/conduttori di gruppi che dovrebbe far
passare queste paure, ma questa analisi collettiva in cui si è sempre pazienti
come fa a essere anche realtà di formazione? Può esserlo in un certo senso,
cioè a esclusivo carico e cura dei pazienti/formandi che si industriano a
prendere lì alcuni spunti e poi a formarsi per conto proprio, ma non tutti lo
fanno. Albertina Seta
219
7
SULLA STORIA
Mentre nell’antichità e nel Medioevo il corso della storia o quello di
suoi momenti era rappresentato da una linea disposta a formare il cerchio
della Fortuna, e nella modernità parve di poterlo rappresentare con una
linea disposta in piano e tendenzialmente ininterrotta, l’incerta immagine
della curva sembra la più idonea a rappresentare la storia di quel minimo
momento della storia che va da quando l’analisi collettiva ha fatto la sua
comparsa ad oggi, come a dire di un suo attuale essere sospesa tra antichità e modernità.
Sul punto di partenza di questa curva che, come più interventi di questo
capitolo ricordano, sta negli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo,
Fagioli si è soffermato in uno scritto del 1985, Le notti dell’isteria, descrivendoli nei loro aspetti essenziali e indicando il rapporto a suo avviso stabilito con essi dal paradigma da lui formulato nel 1972. Lo ha fatto nello stile
sincretico ed evocativo che gli è proprio, avvalendosi tra l’altro del racconto di L. Baum, Il mago di Oz, dal quale è tratto il titolo di questa sintesi.
Un turbine di vento ha sradicato la casa di Dorothy e per lei ha avuto
inizio un viaggio verso una presunta fonte di conoscenza, appunto il mago
di Oz, per avere restituita da essa una sicurezza perduta; viaggio che, da
un dato punto in poi, ella prosegue in compagnia di un leone, di uno spaventapasseri e di un omino di latta che vogliono restituito dalla stessa fonte
ciò che avevano perduto: il coraggio, l’intelligenza e l’affettività.
Fagioli sostiene che il turbine che ha sradicato la casa di Dorothy viene
dall’Est, è il vento dell’Est1 che prima degli anni Settanta aveva scagliato
contro la società borghese dell’Ovest il mito di una conoscenza che avreb1L’immagine sta nel Libretto rosso di Mao Zedong: «Ora spirano due venti nel
mondo: il vento dell’Est e il vento dell’Ovest. Secondo un detto cinese “o il vento
dell’Est ha la meglio sul vento dell’Ovest, oppure è il vento dell’Ovest ad avere la
meglio sul vento dell’Est”. A mio avviso, la caratteristica della situazione attuale
è che il vento dell’Est ha la meglio sul vento dell’Ovest» (Mao Zedong, 2007
[1966] p. 37).
220
Il paese degli smeraldi
be permesso di realizzare nella Cina di Mao l’ideale dell’uguaglianza tra
gli esseri umani, mito che il Sessantotto aveva ibridato in Occidente con
quello psicoanalitico della rivoluzione sessuale e con quello esistenzialista
della funzione liberatrice dell’ontologia del nulla.
Baum aveva scritto il suo libro nel 1900. Esso fu riedito nel 1944 e godette subito appresso di un rinnovato successo nel periodo della diffusione
negli Stati Uniti dell’integralismo maccartista. In questo contesto, il turbine poteva, indipendentemente dalle intenzioni di Baum, significare la minaccia che quell’integralismo portava alla democrazia di quel paese con
la sostituzione dell’arbitrio e dell’intolleranza alla legge e alla ragione,
del terrore alla speranza, del discorso che rimuove, nasconde e sottrae conoscenza al discorso che evoca, rivela e dà conoscenza; la minacciava con
la convinzione, ad esso preesistente, secondo cui le condizioni della convivenza civile sarebbero garantite dall’ignoranza e indebolite dal sapere. Il
viaggio che Dorothy compie per ritrovare sicurezza, e i suoi compagni con
lei per ritrovare intelligenza, coraggio e affettività, era dunque assunto essenzialmente a significare la ricerca del valore individuale e politico della
conoscenza perduto nel turbine del maccartismo e si risolveva nella scena
della scoperta della realtà del mago, che simboleggiava acquisizione di
conoscenza.
Tuttavia, allorché Fagioli modifica questo significato conferito al racconto di Baum facendo provenire il vento, anziché dall’Ovest, dall’Est,
si riferisce a una situazione storica altrettanto reale di quella cui veniva
riferito quel racconto e, per la «piccola Italia» di quegli anni, più immediata e manifesta. Un vento le veniva infatti dall’Est. Era appunto quello
del mito sopra ricordato che, nella compagnia di quegli altri miti, poneva
anch’esso a chi ne era investito il problema della conoscenza, ma in termini opposti a quelli in cui si poneva a chi negli Stati Uniti era investito dal
vento dell’Ovest: cioè non come se la conoscenza minacciasse un valore
da riaffermare, ma come se costituisse un valore in parte realizzato appunto nell’Est2 e che anche l’Occidente avrebbe dovuto realizzare liberandosi
da quella coartazione dell’inconscio, della fantasia e del desiderio e da
quella scissione tra pubblico e privato che avevano costituito la condizione
dell’affermarsi della società borghese (McKeon, 2007).
Sulla realizzazione di tale valore, per come suggerita da quel vento,
gravavano però secondo Fagioli una serie di mancanze e confusioni proprio, anzitutto, sull’inconscio, la fantasia, il desiderio che avevano portato
2
«Il comunista deve essere sempre pronto a difendere la verità, perché la verità
concorda con gli interessi del popolo» (op. cit., p 29).
Sulla storia
221
chi l’aveva fatto proprio alla delusione, e da questa alla rabbia distruttrice
della lotta armata per poi dover riconferire valore all’ignoranza e soccombere alla seduzione della religione e della droga; e, sosteneva lo stesso
Fagioli, questo gravame avrebbe potuto essere tolto, e i suoi nefasti effetti
curati, dalla capacità del paradigma da lui proposto di colmare quelle
mancanze e dirimere quelle confusioni.
Di certo, come alcuni post riconoscono, la cura di tali effetti in parte
vi fu. Vi fu però anche altro. Se Le notti dell’isteria orientano sul punto di
partenza della storia del minimo momento della storia costituito dall’analisi collettiva, il blog orienta sull’attuale suo punto di arrivo, rilevando e
mostrando come nel corso di essa si siano manifestati fenomeni che contraddicono l’insieme di quanto sopra sostenuto e si costituiscono come
anomalie rispetto ad esso; in particolare come l’impedimento della conoscenza si sia progressivamente sovrapposto alla dichiarazione della sua
funzione liberatrice individuale e politica.
Qualcosa ha dunque incurvato una linea che voleva essere retta, una
forte trazione all’indietro si è esercitata su di essa minacciando di condurla a formare l’immagine ripetitiva e premoderna del cerchio della Fortuna;
e possiamo ricorrere ancora una volta a Le notti dell’isteria per chiarirci
di cosa si tratta.
Ivi Fagioli non si sofferma solo sugli anni Sessanta-Settanta e su quelli che
immediatamente li precedono; si volge molto più indietro, fino al Sacro romano impero (Fagioli, 2008 [1985], p. 69), per definire in quale rapporto stesse
con tutta la storia della cultura occidentale la formazione del suo paradigma
e per misurarlo rispetto ad essa. Lo fa in un modo non privo di audacia e non
poco provocatorio: quel suo paradigma non avrebbe avuto né formazione né
storia che ne implicasse un qualche debito con il passato che, misurato alla
conoscenza da esso realizzata, veniva fatto figurare come poco più che un
deserto con qualche sparsa e poco ospitale oasi. Già prima del 1985 (Fagioli,
1980) egli aveva accennato quest’idea e la confermerà poi nella forma di un
rifiuto di quanto chiama “storicismo”, nel quale riecheggiava quella meditazione inattuale di Nietzsche, che portava significativamente per titolo “Il
danno della storia per la vita”, cui Burckhardt oppose la sua ironia.
Il tentativo di presentare il proprio paradigma come privo di formazione
e di storia comportò la progressiva sostituzione di un mito, questa volta
autoctono, alla storia, sospingendo nell’oblio tutto quanto non corrispondeva ad esso, smentendo il valore inizialmente affermato della conoscenza
e tendendo a stabilire identità e coincidenza con una storia rifiutata: quello che era stato o aveva voluto essere il paradigma di una nascita uguale
spariva nell’affermazione di una nascita diversa e unica e nella volontà di
222
Il paese degli smeraldi
darle credenziali che dicevano di ripetizione, perché erano in tutto simili a
quelle che analoghi miti avevano cercato di darsi in passato.
Il volgersi della curva fino a formare l’immagine elettiva della ripetizione, quella del cerchio della Fortuna, accenna a diventare qualcosa più che
una minaccia; forse essa non si è ancora definita, ma forte è la trazione
che esercita su quella della curva per inghiottirla e inglobarla.
Alcuni degli interventi raccolti in questo capitolo pongono in questione l’idea stessa di un percorso, indipendentemente dalla sua forma; per
essi non c’è decadere nella ripetizione, ma mero permanere di un’iniziale
incoerenza e inconsistenza e si chiedono perché questa non sia stata a
lungo vista («ci viene voglia di pensare e capire come e quando e per cosa
ci siamo fatti abbagliare)». Altri accettano quell’idea cercando di distinguere un momento in cui quel percorso non era piegato dalle anomalie
in un’altro in cui avrebbe preso a incurvarsi, e interrogandosi sul perché
ciò sia avvenuto. Tra questi, alcuni ritengono la cosa ineluttabile («i movimenti all’inizio sono tutti belli, poi piano piano perdono tutto lo smalto
iniziale per diventare altra cosa)»; altri no e, dando più o meno credito
alla possibilità di opporvisi, svolgono la ricerca sul perché, cercando di
stabilire anzitutto quando il decadere abbia avuto inizio e quando e come
si sia manifestato.
Circa il quando abbia avuto inizio, v’è chi chiama in causa specifici
passaggi e chi lo individua sia nel paradigma stesso, riscontrando in esso
ambiguità e dipendenze da paradigmi precedenti negate, sia nella scelta
di liberarsi da queste ambiguità e dipendenze non rivedendo il paradigma,
ma costruendo e consolidando appunto il mito del suo non avere avuto né
formazione né storia.
Circa il quando e il come il decadere si sia manifestato, mentre il primo
paragrafo del capitolo rievoca alcuni episodi, il secondo raccoglie una
serie di interventi che pongono l’accento sul presentarsi della ripetizione
nella forma del riprodursi all’interno dell’analisi collettiva di quelle stesse pratiche proprie della istituzione psicoanalitica degli anni SessantaSettanta in opposizione alle quali essa si era posta.
«Questo turbine di risentimenti, delusioni, irrisioni, dubbi feroci, rabbie, critiche puntigliose a episodi anche minimi, svelamenti di retroscena
torbidi circa eventi prima accettati come chiaro svolgimento di una pratica terapeutica e di ricerca, questa ribellione a ciò che una volta veniva
considerato “La Ribellione” contro la cultura dominante, mi fa pensare
a quello smarrimento degli anni Settanta che rese molte persone disposte
ad accettare la promessa (ancora una volta) di un’idea di umanità nuova,
sana, forse felice, comunque autentica».
Sulla storia
223
Queste parole, tratte dall’intervento con cui si conclude questo capitolo
e questa sintesi, ripropongono l’immagine del turbine. Ci dicono però che
esso non è né quello sollevato dal vento dell’Ovest nel racconto di Baum,
né quello sollevato dal vento dell’Est de Le notti dell’isteria; che ora è
quello sollevato dal cercare e dall’interrogarsi dei protagonisti del blog;
che per esso costoro hanno preso a ritrovare, come gli amici di Dorothy,
intelligenza, coraggio e affettività nel ricordo e nella riappropriazione di
un’idea; che però non hanno ritrovato come lei la sua casa di prima: il
loro viaggio non può che continuare e, a differenza che per Dorothy, il
volto del loro mago, che poi altro non è che la realtà della loro storia, resta
ancora in larga parte da decifrare.
1. Prima, poi, quando, perché
Non mi sento né dentro alla realtà dei “fagioliani” né completamente
fuori. Non sono né carne né pesce... non so chi sono! Strano ritrovarsi così.
Mi ero quasi convinta che fosse tutto vero, che la terapia funzionasse. E
adesso questo rifiuto così repentino, che loro interpreterebbero come una
negazione-annullamento. E se fosse così? Se avessero ragione loro? Sono
nella totale confusione. Sto facendo una negazione sulla possibilità della
cura o non voglio più illudermi che questa cura funzioni? Cinziotta
Quelle difficili domande [cfr. anche ante, p. 49] me le sono poste anch’io.
Ora sono andato oltre. Non è stato facile. Come ho fatto? Bisogna partire
da questa certezza: è vera la tua sensazione degli effetti positivi ricevuti,
è vera la tua sensazione degli effetti negativi ricevuti. Come è possibile
che effetti opposti siano tutti e due reali insieme? Se la metti così non c’è
risposta, rischi di andare in confusione. Devi distanziarli, riferendoti ai diversi momenti della loro maturazione, togliere la parola “insieme”, usare
le parole “prima” e “poi”: “prima” nella tua storia personale, “poi” nella
tua storia personale; “prima” nella storia del discorso, “poi” nella storia
del discorso. Se la metti così, ti liberi dal senso di colpa di buttare via il
bambino con l’acqua sporca che, ugualmente, conseguirebbe alla rinuncia
all’una o all’altra certezza.
Per quanto riguarda la tua storia personale, se fai seguire alla certezza di
avere avuto “prima” effetti positivi quella di averne “poi” avuti negativi,
riesci anche a essere generosa con te stessa, con il discorso, con i compagni
ancora entusiasti: generosa con te, perché se non hai visto, posto che in
quel “prima” già ci fossero - e nella misura in cui già c’erano - cose che
224
Il paese degli smeraldi
potevano produrre effetti negativi, è stato perché tu sei stata tanto intelligente da non volerle vedere in modo da poter fruire delle cose che hanno
prodotto gli effetti positivi; generosa con il discorso, perché gli riconosci
di averti in qualche modo ripagato di non averne voluto vedere le cose
che producevano effetti negativi; con i compagni ancora entusiasti, perché
comprendi che anche loro sono, come sei stata tu, abbastanza intelligenti
da non voler vedere le cose che producono effetti negativi avendo bisogno
di fruire, nella misura in cui ancora ci sono, di quelle che producono effetti
positivi.
Se la metti così, per quanto riguarda la storia del discorso, che “prima”
produceva effetti positivi e “poi” ne ha prodotti di negativi, puoi compiere
un passo avanti, aprirti uno spazio di respiro e movimento, che è lo spazio della ricerca: com’è possibile che qualcosa “prima” positivo sia “poi”
negativo? O meglio: com’è possibile che idee delle quali era “prima” evidente e si è sperimentato il positivo, si siano “poi” espresse in pratiche
delle quali è evidente e si sperimenta il negativo? Come, quando, perché
si è verificato questo passaggio? Se vuoi, puoi rendere ancora più ampia la
ricerca: esistono nel passato, nella storia, altri esempi di un tale passaggio?
E se esistono, sono identici a questo o c’è qualche differenza? E questa differenza è significativa, è evolutiva, è involutiva? Puoi addirittura spingerti
a pensare che il fatto di porti questi interrogativi dissipa il tuo dubbio su
chi sei, ti rende viva e attiva, possiamo dire ti dà una dimensione politica,
nel portare insieme ad altri un sia pur piccolo contributo a comprendere
il perché di un passaggio che si è verificato in modi più o meno identici
nella storia e quindi a individuare, se c’è, un modo di evitarlo, oppure, se
non c’è, a misurarti con questa realtà, che può generare sofferenza, ma non
malattia e confusione.
Ecco, io penso che tu, ponendo quelle domande, hai indicato la direzione verso la quale dovremmo muoverci per raggiungere un significato
che vada oltre lo sfogo, pur utile, e il risentimento o il bla bla bla inutili.
Tale direzione è quella di tradurre quelle tue domande, sorte dalla duplice certezza del positivo e del negativo, nella grande domanda che chiede
anzitutto come, quando, perché il positivo ha volto decisamente verso il
negativo. Antonello
Ci sarebbero molte cose da dire su questo “prima” e questo “dopo”. La
storia, la teoria psichiatrica (o psicologica?), l’adesione all’inizio di persone interessate a curarsi, ma anche gli sviluppi politici di quella teoria che,
come un organetto, poteva essere psichiatrica, psicologica o politica, senza
che nessuno si chiedesse se per caso ci fosse qualcosa che non andava
Sulla storia
225
nell’uso disinvolto di tale flessibilità. Dietro tutto e alla fonte di tutto la personalità di Fagioli: uomo intelligente, brillante, ricercatore attento e rigoroso, anche indubbiamente spiritoso e divertente ed... eretico, che a sua volta
trovava la sua identità nell’essere autore di una... teoria rivoluzionaria.
Ecco, un intreccio di questo genere, una sorta di tautologia, credo, che ci
sia stata fin dall’inizio e sia stata colta fin dall’inizio, sia pure in maniera malevola e violenta, con le storie del guru, della setta. Non si trattava di un guru,
nemmeno di una setta: anche oggi, che sono passati trent’anni, non credo si
possa assimilare Fagioli a Verdiglione o a Ron Hubbard, anche se con il tempo gli atteggiamenti esteriori del gruppo hanno cominciato ad autorizzare simili paragoni (scene di masse estatiche, applausi osannanti, moltiplicarsi del
business, ricorso sempre maggiore ai simboli e ai gadget griffati, diffusione
di leggende e menzogne, costruzione di miti). C’è, è vero, questo aspetto. Il
punto, però, è capire come sia potuto succedere: a) di essersi eventualmente
sbagliati (su tutto? in parte?); b) di non aver colto un’eventuale svolta (nella
storia in generale? nel percorso personale?) e non aver reagito adeguatamente. E cosa fare adesso di questa esperienza, come farne tesoro, visto che
qualcuno ha speso anche un sacco di tempo e denaro. Astrantia
I movimenti all’inizio sono tutti belli, poi piano piano perdono lo smalto
iniziale per divenire altra cosa. Lo sbigottimento che porterebbe a non saper affrontare il futuro al decadere (naturale) del presente sta nel non considerare appunto la naturalezza, l’ovvietà delle cose che finiscono; cercare
di impedire che le cose finiscano porta a perpetuarle nonostante il logico
degrado. Quanto debbano durare le esperienze nessuno lo sa. Come si fa a
riconoscere i segni della decadenza e poi del degrado nessuno lo sa. Certo,
l’iniziale adesione aveva un fondamento e l’inizio della fine si può fissare
a un certo punto. Ricercare quale sia il punto è importante, ma ancora più
importante è cercare quando per ognuno di noi ciò sia diventato evidente.
L’esperienza passata nell’analisi collettiva è una delle tante che hanno
arricchito la mia vita. È durata più delle altre, fino ad ora, ma magari ho
solo tardato a dare la giusta conseguenza a quanto era già presente dentro di
me: voglio dire che i dubbi sono iniziati a un certo punto, ma ho continuato
nonostante ciò fino a un altro punto, il perché di questo ritardo devo ancora
capirlo. La vita è così, un insieme di storie nelle quali ci si appassiona fino a
un grande coinvolgimento, che poi, al deteriorarsi dell’esperienza, va via.
Qualcuno ha creduto che a questa storia questo non sarebbe accaduto:
è successo, una per tutte, al Sessantotto, e chi ancora non vuole prenderne
atto fa la figura dello scemo; è successo al comunismo, e sappiamo bene
quali passioni abbia scatenato e quante persone coinvolto. Perché si è dato
226
Il paese degli smeraldi
a intendere che a questo piccolo movimento romano non sarebbe accaduto?
È persino patetico poterlo pensare: le persone che vanno ancora all’analisi
collettiva mi fanno lo stesso effetto di uno per strada con l’eskimo e “Lotta
Continua” in tasca; anche questa riscoperta della politica mi sembra patetica, con tutti questi ragazzi che non sanno niente.
Quello di cui dobbiamo convincerci è che l’analisi collettiva ha avuto una
forte importanza solo nella nostra di vita, perché ci prometteva cose precise
che ci riguardavano direttamente come individui. Per chi stava molto male,
visto che la cosa si presentò sotto le mentite spoglie di cura psichiatrica, è
abbastanza facile comprendere le dinamiche. Faccio più difficoltà a capire
chi si avvicinò per interesse e arricchimento personale per finire poi con lo
scimmiottare il Maestro in tutte le sue istanze di vita.
Io vedo così la vita: non credo in nessun dio, in nessun guru, in nessun
maestro, se non per periodi limitatissimi della vita stessa, per cui niente
superman o superdotati. Purtroppo o per fortuna le cose stanno così; le cose
belle si costruiscono insieme ad altre persone, giorno per giorno, lavorando
insieme. L’eternità non è cosa della vita umana, tutto al mondo invecchia,
tutto finisce, le cose peggiori accadono sempre alla fine, quando non c’è
l’accettazione che una data esperienza è finita. Per questo credo che le cose
peggiori, nella realtà di cui stiamo discutendo, stiano accadendo proprio
adesso, e forse non è finita qui. Settimo
Questa cosa di Fagioli nacque negli anni Settanta. Allora cominciavano
a cadere i primi reduci del ‘68 che, nel frattempo, erano diventati del ‘77
per necessità di credere in qualcosa di diverso dal ’68 che ormai era andato. Al ‘68 parteciparono persone che avevano più o meno 18 anni, ma
anche più grandi, quindi nel ‘77, se non proprio una seconda generazione
di sessantottini, c’era una via di mezzo: vecchi del ’68, ma nuovi di zecca
del ‘77. Tutta gente, come me, che non poteva fare a meno di avere una
grande passione, un grande credo, e a stento, cominciando a capire il declino inesorabile di quella grande illusione di massa, poteva accettare una
vita, o almeno una porzione di vita, senza un credo, un verbo, un leader, un
qualcosa che aveva sempre avuto da quando si era sentito vivo per la prima
volta rivoltandosi (spesso in malo modo) ai genitori e alla cultura dominante di allora. Era prevedibilissimo che di lì a poco ci sarebbe stato un certo
riflusso che Fagioli accolse sapendovisi proporre. I compagni che approdarono all’analisi collettiva infatti non erano per niente malati di mente, ma
persone che cercavano un guru, come tante altre, trovandone uno in Fagioli; e questo parlava, a differenza di altri, di malattia mentale a non malati di
mente e a non studenti o studiosi di queste cose. Perplessissimo
Sulla storia
227
È cambiato qualcosa nel corso del tempo e, se sì, quando e soprattutto
perché? Dal 1985 con Diavolo in corpo? Dal 1992 con l’architettura e la libreria Amore e Psiche? Con la rivista “Il sogno della farfalla”? Dal cambio
di appartamento da Campo dei Fiori all’attuale “soffitta”? Da Chieti o aule
magna riprese e poi trasferite in dvd e libri? Dai progetti di architettura, a
partire dal palazzetto bianco in poi fino alle ristrutturazioni di studi medici, appartamenti, mosaici e quant’altro? Tutti sappiamo che dal momento
in cui l’eroe sconfisse la morte (in questo caso la polmonite), che arrivò
con virus invisibili [cfr. nel glossario la voce “uomo antibiotico”] a Napoli
Mergellina, virus invisibili nascosti negli occhi dall’amante di turno, c’è
stata una rivoluzione a tutto tondo. Cerchiamo di capirci qualcosa assieme
se possibile, senza dare conclusioni o giudizi frettolosi che a nulla servono.
Ghery
Anche per me il fatto della malattia di Fagioli deve essere stato determinante al punto che, trovandosi alla resa dei conti, deve aver realizzato che
le aspettative agognate non si erano per nulla realizzate, ma rimanevano
nella stretta cerchia degli adepti. Da lì si è evoluto in maniera esponenziale
il processo di autocelebrazione, come a voler recuperare quasi disperatamente ciò che pensava gli fosse dovuto. Mary
Quando decise di dare a due pagine del 1962-63 (Fagioli M., 1962c),
che parlavano di un anonimo convegno a Milano, il rango di reperto accertante una svolta storica per tutta l’umanità, e quando parlò per quattro
ore filate a Napoli nel 1996 (Fagioli, 1997) per spiegare che non servono
le parole, era molto prima della malattia. Anche il film Il cielo della luna,
dove faceva tutto lui (tranne il bruscolinaro al cinema), era di prima. No,
con la malattia c’è sicuramente stata un’accelerazione perché i conti non
tornavano, ma tutto era presente da prima. Certo, non tornando i conti con
la “scoperta fondamentale” che spiegava per la prima volta la pazzia umana, la psichiatria stessa è diventata via via del tutto secondaria, ed eccoci
alla scesa in campo stile Berlusconi. Così, mentre in passato tutte le contraddizioni si spiegavano con cura-formazione-ricerca, ora si spiegano con
la scoperta dell’irrazionale. Risposte
Quella che abbiamo chiamato “politica della rimozione” e poi “politica
dell’oblio”, e che ora possiamo chiamare “politica del silenzio”, introduce
una crepa nella dimensione della coerenza espressa nel costante esercizio
dello “svelare” che molti anni fa mi si presentava come il più forte motivo
di assenso alla teoria e alla pratica dell’analisi collettiva. In un mio recen-
228
Il paese degli smeraldi
te lavoro (Armando, 2007) ho indicato nel 1989 il primo manifestarsi di
questa crepa, ma ora mi viene da pensare che essa si sia manifestata prima;
che, al riguardo, un momento importante nella storia dell’analisi collettiva
sia stato quello in cui l’interprete è passato dal rispondere all’interrogare.
Questo passaggio è strettamente collegato al problema del silenzio perché
di fatto limitava la pluralità delle voci e la libera proposizione dei temi.
Antonello
A proposito del silenzio e del passaggio dal rispondere all’interrogare e
al dire non per rispondere ma per proporre i propri pensieri, mi sono venuti
in mente il silenzio dell’analista e tutta la critica compiuta negli anni Settanta per svelare gli aspetti inaccettabili di quel silenzio-assenza e, anche,
l’interpretazione di esibizionismo per coloro i quali, portatori di un sapere
maggiore in qualche campo, non aspettano i tempi e i modi della domanda
di chi ha desiderio di quel sapere, bensì in qualche modo lo impongono o
propongono per il fatto stesso che l’altro è fisicamente presente.
Il fatto dell’esibizionismo, il generoso mostrare la propria immagine
visibile con la proposta di considerare degna di ammirazione ogni propria
espressione... qualcosa permette di capire? E, se non vi fosse stato movimento reale di voci che dicono e rispondono, il silenzio-assenza dell’analista che si trasforma in soliloquio davanti a desiderosi ascoltatori plaudenti,
cos’è?
Non fu una “cosa da matti”, lo è diventata. Ci troviamo nella condizione di chi si chiede come ha fatto il fiume a straripare e perdere il suo
corso leggiadro d’un tempo, e cosa sono le strane musiche e luci e voci e
scrosci forse d’applausi ossessivamente trasmessi da nascosti amplificatori
che tanto spaventano le popolazioni che abitano nei pressi della montagna.
A complicare ancora di più le cose, potremo anche cercare risposta alla
già comparsa domanda: era così leggiadramente amico degli umani, quel
fiume, allora, o già mostrava di voler scavalcare gli argini e nessuno se ne
accorse? Erano i primi segni degli inquietanti fenomeni della montagna
che ora spaventano vecchi e bambini, le nuvole che ivi s’addensavano a
volte, con tanto di fulmini mirati a incenerir taluni?
Da un po’ di tempo penso che, in linea generale, percepiamo correttamente il mondo che ci circonda, e che è in una fase successiva che facciamo, rapidamente e inconsapevolmente, modificazioni alle prime percezioni, o non ne teniamo apparentemente per nulla conto, ma così non è. Ci
frega il tempo, lo scorrere della vita; per cui, se siamo un po’ troppo sfasati
tra percezioni prime e quel che ne resta nelle percezioni seconde o terze
o quelle che arrivano a sembrarci le nostre percezioni della realtà per cui
Sulla storia
229
da esse facciamo derivare i nostri comportamenti; se siamo un po’ troppo
sfasati tra aletheia e verità, direbbe Antonello, rischiamo di non avere più
occasione, modo, voglia, luogo, per tornare lì, in noi, nella memoria, nella
nostra storia sospesa mentre un’altra storia continuava. In questo c’è una
specie di morte, o un suo effetto, che se fossimo eterni non ci sarebbe così
rischiosamente per sempre. In questo, nelle alterazioni delle nostre immagini, idee, pensieri sulla realtà, in quell’ignorare le prime percezioni che ci
offrono la possibilità della verità, in questo sfasamento, penso sia accettabile il nome “morte”, e per l’assetto psicofisico che questo sfasamento
permette e determina, il nome “istinto di morte”. Romeo
Ho potuto cogliere un altro aspetto dell’indebolimento della struttura.
Mi riferisco a quello puramente commerciale. Una delle aspettative sulle
quali si fondava il rapporto col terapeuta Fagioli era l’assoluta “pulizia”
di lui, che non si limitava alla teoria, ma riguardava l’identità dell’intera
analisi collettiva che doveva curarsi-formarsi e ricercare a partire appunto
da questa pulizia. Ricordo il cavallo di battaglia degli anni Ottanta: “fare
le cose per niente”.
Con il 1985, con la partecipazione attiva di Fagioli a Diavolo in corpo,
si è cominciato a parlare anche al seminario di riconoscimenti. Ricordo ancora la cifra, “un miliardo” delle vecchie lire, chiesta, come in una battuta
detta così per ridere, al regista del film, che veniva scherzosamente utilizzato come esempio negativo di questo mancato riconoscimento.
Qui, la favola del rospo che diventa principe ci è apparsa capovolta.
Quando eravamo piccoli, in un laghetto di montagna, giocavamo spensierati con i girini, a volte li prendevamo per metterli in un bicchiere e ce li
portavamo a casa. Sapevamo che sarebbero diventati ranocchie, di nascosto speravamo poi che dalla ranocchia, come nella favola, all’improvviso
sarebbe comparso il principe. Ora però quel principe non c’è più, è tornato
rospo e forse girino.
Voglio anche esprimere una riflessione su cosa di questa esperienza sia
da salvare e perché, un tempo lontano, tutti noi rimanemmo, ognuno a
modo suo, affascinati da quest’uomo. Questa mattina, in una conversazione animata è saltato fuori un discorso molto interessante. L’argomento era
“la megalomania” e quanto e come questa megalomania abbia amplificato
quel senso di ammirazione che provammo verso Fagioli. Tra i megalomani
ci sono stato anch’io, fino al momento in cui l’ingranaggio per me si è rotto. Ora, se Fagioli avesse o no la capacità di gestione di questa sua smisurata megalomania, quindi riuscisse per così dire a non perdere la sua, anzi le
sue qualità umane, frutto della sua identità costruita nel tempo, lo domando
230
Il paese degli smeraldi
a tutti: quando e come il principe ha cessato di esistere è tutto ancora da
scoprire, ma certo non nel senso che la trasmutazione del principe in rospo
possa essere una nostra o mia allucinazione. Il rospo è sotto gli occhi di
tutti e non può più essere coperto da nessun mantello. Complicatus
2. Da Il potere della psicoanalisi a “il potere dell’analisi collettiva”?
Le nuove generazioni non sanno, e le prime hanno accolto l’invito a dimenticarlo, che di cura formazione e ricerca si parlava già ne Il potere della
psicoanalisi. Si sosteneva già lì la necessità, per andare oltre la “politica
della rimozione”, praticata dall’istituzione psicoanalitica di allora, che si
avvaleva degli steccati posti tra quei tre campi, di abbattere quegli steccati
e di stabilire un rapporto di continuità tra quei campi. Lì però il regolamento di questo rapporto di continuità, perché non scadesse nella confusione e
nell’arbitrio, veniva affidato a un modello istituzionale che attribuiva una
funzione centrale a una presunta saggezza e innocenza dell’assemblea,
rifacendosi implicitamente all’ideale della democrazia partecipativa che
aveva come illustri precedenti storici i momenti effimeri ed epici del demos
ateniese, delle primissime chiese, della rivolta dei Ciompi, della Comune,
dei Soviet. Se non che, le assemblee di allora di saggezza e innocenza
ne dimostrarono poca. Apparve indispensabile un principio regolativo che
sottraesse il loro funzionamento allo spontaneismo e allo sgomento della
libertà, e si pensò di trovarlo o di avviarsi a trovarlo nell’adozione di una
teoria e nell’elezione di un principe.
Fu una delega necessaria e totale, e colpevole anche perché, proprio in
quanto necessaria e totale, si accompagnò alla colpa di un odio che induceva il demos a lanciare contro l’eletto i sassi della sfida di un destino di solitudine e di arbitrio, sfida che questi poté contenere solo rendendo la delega,
oltre che necessaria e totale, incondizionata. Quando, come sembra stia
accadendo in questo e altri spazi virtuali, in seguito all’evidenza sempre
più pressante di arbitrii nella gestione di quel rapporto, essa delega venga
in parte revocata, potrebbe darsi la liberazione del principe dalla prigionia
di quel destino, il suo successo nell’averlo evitato e la dismissione di quella
colpa da parte del demos. Tuttavia forte è il rischio del ritorno all’odio di
quando la delega era solo totale e non ancora incondizionata, o più indietro
allo spontaneismo e allo sgomento della libertà di un’assemblea lasciata
a se stessa, o più indietro ancora agli steccati che un tempo separavano e
paralizzavano la cura, la formazione e la ricerca. Antonello
Sulla storia
231
A volte la storia sembra ripetersi: ma è solo apparenza, perché gli eventi
non sono mai uguali, se non per aspetti marginali. Quando invece la storia
si ripete integralmente, e in genere in maniera peggiorativa, vuol dire che
a monte c’è stato un problema “risolto” con la rimozione, che prima o poi
torna ad affacciarsi come ritorno del rimosso.
Mi sembra necessario ricordare che a monte di quella apertura del 1975
c’è una lunga storia che bisogna conoscere. Il potere della psicoanalisi era
una prima esposizione, una sintesi di una proposta, che nasceva da anni di
dibattiti all’interno di un gruppo di psicoanalisti e aspiranti tali che cercavano di opporsi alle tante manchevolezze della psicoanalisi, così come si
esprimevano soprattutto nella prassi. Dico questo perché voglio sottolineare che la contestazione nasce sempre nei confronti della prassi, successivamente si passa a contestare la teoria. Ma quale prassi contestavamo
allora? Il principio della cooptazione dei futuri analisti sulla base di una
acritica fedeltà alla teoria freudiana. L’assoluta chiusura del mondo psicoanalitico alla cultura e agli eventi sociali. La formazione di una casta di tipo
sacerdotale che gestiva l’icona di Freud (sicuramente molti ricorderanno
che tutti gli psicoanalisti avevano alle spalle l’immagine di Freud, oltre
all’immancabile lettino). Contestavamo l’interminabilità dell’analisi, l’uso
acritico del lettino, l’asservimento alla tradizione - assolutamente irrazionale - delle cinque sedute settimanali. Contestavamo il fatto che qualsiasi
dissenso fosse connotato come segno di disturbo psichico o, meglio ancora,
di un’analisi non ancora terminata. Contestavamo queste e tante altre cose.
Ebbene, dopo vent’anni (dico venti perché l’involuzione dell’analisi
collettiva è cominciata a partire dalla seconda metà degli anni Novanta)
ho cominciato a vivere un dejà vu: rivedere, per giunta in maniera esasperata, quegli stessi fenomeni, per cui tanti anni prima avevamo contestato
ed eravamo andati via dall’Istituto di Psicoanalisi (c’era anche Fagioli che
occupava nel gruppo un posto sicuramente di rilievo). Osservare una terapia interminabile, un’assoluta fedeltà alla dottrina, una totale mancanza di confronto con l’esterno, l’utilizzo della diagnosi psichiatrica come
strumento per bloccare qualsiasi dissenso o richiesta di spiegazioni, riporta inevitabilmente alla mente un passato che sembrava essere finito e che
invece ritorna, esasperato ed esagerato, come è tipico di ogni ritorno del
rimosso. Nicola Lalli
Egregio Professore, ho letto l’interessante commento [ante cap. VI, 4]
della giornalista che l’ha intervistata due anni fa che notava un suo cambiamento. Non entro nel merito, la conosco da troppo poco tempo. Però mi
faccia fare un paio di osservazioni, cui le chiedo di rispondere:
232
Il paese degli smeraldi
1) Non le sembra che il suo sito sia diventato un luogo dove mirabolanti
psichiatri (che si dichiarano separati dal Maestro perché hanno abiurato
con tanto di articoli firmati da direttori di Asl) cercano di emergere da quello che non è un “mare calmo”, per citare il maestro, e neanche un lago,
bensì “uno stagno maleodorante”?
2) Non le sembra che vengono costantemente attaccati personaggi che in
qualche misura diffondono il pensiero del Maestro? Ovviamente in maniera elegante e simpatica (a volte meno). Non le sembra che forse si dovrebbe ritornare a discutere di Machiavelli o Spinoza, lasciando le polemiche
sterili agli arrampicatori sociali? Mi creda, il suo sito e la sua immagine di
certo ci guadagnerebbero. Antonio Balbino
Egregio signor Balbino, la ringrazio per il suo intervento che non condivido e tuttavia trovo tempestivo. Il tono è formale e incute rispetto, tanto
più che arriva da una persona conosciuta da poco. Mi verrebbe da chiedere
anche a lei cosa sa di questa storia (analisi collettiva) per definirla “stagno
maleodorante”. Mi sembra altresì contraddittoria la sua dichiarata volontà
di non voler entrare nel merito e poi fare affermazioni precise. Vengo a
esprimerle le mie perplessità:
Lei lascia intendere che qui sia in atto qualcosa di simile a una lotta per il
potere dove «mirabolanti psichiatri cercano di emergere». Ma per essere tale
dovrebbe esserci un “potere” da conquistare: se lei ritiene di rispondermi affermativamente, le chiedo di indicarmi quale, quello ospedaliero, quello accademico? Quello culturale? O quello politico, visto che oggi se ne parla tanto?
Non la capisco: perché, se di uno scontro si tratta, lei lascia intendere che
ci sia un “potere” da conquistare detenuto da membri o parti dell’analisi
collettiva. Da dove trae gli elementi a conferma della sua affermazione visto
la sua scarsa conoscenza del fenomeno? Se ha letto bene il blog avrà notato,
come altri prima di me hanno affermato, che non si tratta di una lite di condomini dello stesso condominio, ma di qualcosa di più ampio e articolato
per poter essere ridotto a una semplice questione di potere. Tra l’altro, anche
ciò è diventato tema di discussione e analisi, di critica e autocritica per tanti
che, provenendo da quell’esperienza, cercano in qualche modo di riflettere,
per dirlo con le parole di Antonello, su quella che è la nostra storia.
Forse quello che le dà fastidio è ciò che lei mette al secondo punto, che
in realtà sarebbe il primo: il fatto che per la prima volta - e di questo mi
sembra che lei sia piuttosto informato - si stia contestando puntualmente
la scarsa consistenza di un impianto teorico che se poteva brillare in un
contesto confinato come quello seminariale, non regge agli sviluppi delle
conoscenze, ma sopratutto al confronto clinico con l’esterno.
Sulla storia
233
Ma mi preme sottolineare un punto che forse le è sfuggito. Anche all’interno dell’analisi collettiva ci sono disagi veri, sofferenze e purtroppo vicende cui è stato imposto il silenzio. È per questo che il blog ha un senso e quello
che vi è testimoniato non può essere cancellato o ridotto al silenzio invocando discussioni più serie magari su Machiavelli e Spinoza. Lettore perplesso
Egregio professor Armando, non credo ci sia un potere da conquistare in nessun ambito, se non quello personale che ognuno di noi esercita
quotidianamente per il fatto che “può” respirare aria salubre, “può” bere
tamarindi nei pomeriggi con amici.
Ma, e qui sul suo sito è evidente, c’è un tentativo da parte di “n” scriventi, tra i quali certamente psicoterapeuti più o meno avvelenati (non mi
riferisco al professor Lalli né alla dottoressa Seta né ovviamente a lei, né al
modo di svolgere - suppongo in maniera abile - le vostre professioni), che
hanno un loro vantaggio personale, non quello comune a tutti noi amanti
dell’aria salubre di respirare e bere tamarindi, ma quello di aumentare la
loro posizione nella “cultura” e nella “società” scrivendo libri o articoli,
studiando ossessivamente tutto quello che potrebbe distruggere culturalmente quello che fu il proprio Maestro, fondando “scuole di psichiatria”
con tanto di allievi disposti a tutto, influenzabili e influenzanti.
Il potere. Non credo che nessuno lo faccia per soldi, né da una parte né
dall’altra. Mi è capitato di vedere un vecchio libro a lei noto: Il potere della
psicoanalisi. Adesso mi sembra che si ripeta la stessa storia ma con un oggetto diverso da combattere, perché ritenuto da “n” scriventi sul blog o solo
da suggeritori professorali un oggetto “pericoloso”, forse proprio dal 1999
(penserà qualcuno) o dal 2002 (quando ci fu un programma televisivo Rai
in cui tra gli ospiti compariva il Maestro) o ancora dal 2004 (quando ci fu
il fatidico incontro del Maestro con un personaggio politico).
“Il potere dell’analisi collettiva”? “Corsi e ricorsi”? Oppure candidamente “percezione delirante” da parte di alcuni, come lei stesso scrisse
qualche anno fa? Mi perdoni se sembra che affondi lo stilo nel ventre morbido di un capretto rivolto al sacrificio per i peccati “molesti e criminali”
che il Maestro avrebbe compiuto in tutti questi anni di analisi collettiva. Si
può, però, anche ringraziare alcuni degli ”n” partecipanti all’analisi collettiva che con le tante espressioni ascoltate nella seduta di psicoterapia, raccontate poi agli amici o ai conoscenti (anche se estrapolate dal contesto con
dubbio valore, favorendo solo il feticismo), permettono ad altri di trovare
conferme nelle loro posizioni critiche o addirittura imbastire un “processo
alle idee” per chi ingenuamente e/o ambivalentemente si interessa a questo
fenomeno collettivo. In fondo esisteva già un blog, creato su iniziativa di
234
Il paese degli smeraldi
un singolo, definito “segnalazioni” (attività trasparente e a carattere culturale), che ha permesso a tanti di nutrirsi o di servirsi per i loro intenti non
sempre conosciuti, talvolta neanche a loro stessi.
La libertà. È quella di espressione mantenendo l’anonimato. Fa bene a
togliere interventi oltraggianti il comune senso della libertà: quello di non
offendere mai nessuno pur esercitando il diritto alla critica, non certo alla
violenza o alla menzogna. Lei riconoscerà, come uomo-filosofo-terapeuta,
che alcuni degli interventi sul suo sito sono meramente diretti a infangare e
non a far crescere quella critica che permette lo sviluppo del pensiero come
allontanamento da quello di un Padre o di un Maestro.
Ognuno all’interno del suo sito scrive storie non sempre verificabili, eccetto quelle firmate con nome e cognome, anche se poi la storia, una volta
divenuta tale, può essere manipolata e interpretata a proprio modo e per i
propri fini. Scrivere o pubblicare di presunti fatti, incesti, suicidi, abusi, mi
creda professor Armando, serve solo ad avvelenare un clima già di per sé
inquinato né tampoco invaliderebbe la prassi terapeutica e di ricerca collettiva, ormai vecchiotta temporalmente.
Il disvelamento cercato da alcuni forse potrebbe rivelarsi un uovo di Colombo: l’analisi collettiva è sempre stata alla luce del sole sia per la teoria
che per la sua storia, oltre che per la cultura (pubblicazioni cartacee e anche
web). La libertà di partecipare gratuitamente a questo gruppo di ricerca
analitica o non parteciparvi c’è sempre stata, non credo esistano altre forme
di psicoterapia di gruppo senza contratto e relativo onorario. Questione di
libertà e di differenze.
I tentativi di ridicolizzare e sminuire non sono nuovi: non risalgono a
marzo di quest’anno, né al 2004, oppure al 2002, nemmeno al 1999. Sono
più antichi e si possono fare vari esempi che lei conosce meglio di me. Il
suo blog ha però il pregio e la libertà di dare voce a chi, deluso, incompreso, scampato e reduce da questa storica e “anomala” situazione psicoterapica, formativa, politica e di ricerca possa esprimersi nel rispetto della
privacy, in anonimato.
La libertà di raccontare la propria esperienza avuta con un medico psichiatra e di trovarne i difetti credo sia utile e legittimo, un po’ meno (per la
decenza) cercare di cavalcare campagne di educazione, quando non vere
e proprie “purghe”, per influenzare malati o specializzandi, futuri professionisti. Vorrei anche chiederle di vigilare sugli scivoloni di alcuni che,
oltre a sfiorare vere e proprie invenzioni, possono guastare quest’area di
confronto culturale. Non me ne voglia, mi sarebbe piaciuto leggere una sua
critica sul pensiero espresso dal Maestro su “Left” su Spinoza ed Heidegger. Antonio Balbino
Sulla storia
235
Signor albino, per lei quelli come me non esistono, e qui la riconosco
come uno di quella setta che di tanto in tanto annulla l’esistenza di qualcuno o di qualcosa. Le dico questo perché io sto scrivendo qui da tempo
anonimamente, nessuno saprà mai chi sono, non sono comunque uno psicoterapeuta, non ho sorelle nell’analisi collettiva e neanche nipoti, ho dei
figli che non ci sono voluti mai andare nonostante avessero ricevuto spinte
in questo senso. Per quale motivo io farei quello che sto facendo? Lei dice
che comunque un vantaggio, magari non materiale, c’è sempre: no, non è
così, lei è portatore di un’idea del mondo dove possono prolificare quelli
come il Maestro, ma quello è il suo mondo non il mio.
E veniamo al merito. Lei dice: «Scrivere o pubblicare di presunti fatti,
incesti, suicidi, abusi serve solo per avvelenare un clima già di per sé inquinato». Qui di presunto non c’è niente: non le faccio nomi cognomi date
circostanze solo perché non è nello spirito del blog, ma le assicuro, anche
qualora gli interventi possano prendere il carattere di gossip, che purtroppo
è tutto vero. Posso convenire con lei che sia incredibile, questo sì, ma di
presunto non c’è niente. E se crede che denunciare queste cose possa far
piacere a qualcuno di noi per qualche squallido motivo che solo lei può
immaginare, si sbaglia di grosso. Settimo
Caro Antonio Balbino, mi ha fatto molto piacere che lei consideri le
voci e le note dissonanti come musica per le sue orecchie e come indicatori
di democrazia in ogni ambito. Spero quindi che voglia seguirmi in questa
metafora musicale.
Qui abbiamo un direttore d’orchestra che è anche compositore con tanto
di casa editrice alle spalle, un negozio che si occupa delle vendite di spartiti, dischi, dvd e di tutto ciò che concerne l’attività, nonché titolare a pieno
diritto della sala dove si effettuano le prove quattro volte alla settimana,
nell’attesa di fare la performance pubblica negli auditorii che avranno poi
l’onore di ospitarlo. Come ogni orchestra, anche la sua è composta dal
concertino, ovvero le quattro prime parti della sezione degli archi, ossia il
1° violino, il 1° dei secondi, la prima viola e il 1° violoncello, affidate non
tanto a quegli elementi più bravi e preparati, ma a quelli più fidati. Indovini
a chi? Seguono poi tutti gli altri a dare corpo e a riempire gli spazi cosiddetti di fila. Naturalmente oltre all’orchestra c’è anche il coro: all’interno di
questo ci sono soprani e contralti che di tanto in tanto vengono chiamati a
svolgere ruoli di primo piano, da solisti per intenderci, salvo poi, una volta
svolta (scusi la cacofonia) la funzione, rientrare nella massa cantante.
Ma dove vuoi arrivare, mi chiederà! Ma alla musica, caro signor Balbino. A quella musica che non ammette voci e note dissonanti, come lei inve-
236
Il paese degli smeraldi
ce tanto apprezza in quanto indicatori di democrazia. La dissonanza è l’elemento ravvivante, rivitalizzante, che prelude al nuovo e al cambiamento e
che, in chi si bea di quelle armonie fisse e stantie, è sentita come l’elemento
che porterà a scuotere dalle fondamenta il proprio impianto fondato sulla
tonalità, dove alla base c’è la fondamentale, cioè il nostro direttore d’orchestra. Quindi combattere la dissonanza significa combattere per sé e per
la propria sopravvivenza e salvezza.
Se posso permettermi un suggerimento, si ascolti un po’ di musica contemporanea. All’inizio sarà un poco faticoso, ma vedrà che lo sforzo sarà
di gran lunga premiato, e si accorgerà di quanti bravi compositori ci sono
in giro. Buon ascolto. Toni
Ho passato del tempo a leggere tanti post, e uno mi è sembrato veramente pacato nei toni e posato, il post del sig. Balbino. Non capisco perché non
gli è stato risposto. Ha scritto tante cose. Mi colpiva il nesso, non chiaro a
me, tra Il potere della psicoanalisi e il potere dell’analisi collettiva. Neanche il Professore gli ha ancora risposto. Cristina
Egregio sig. Antonio Balbino, mi impediva di risponderle un vago senso di fastidio e di disorientamento che non mi permetteva di comporre
in modo coerente parole di risposta. Né avevo motivazioni sufficienti ad
andare oltre tale impedimento e avrei lasciato stare se non fosse giunta la
sollecitazione di Cristina. Il suo non capire, certo non limitato al solo punto
de Il potere della psicoanalisi, mi è parso assai prossimo al mio misto di fastidio e disorientamento. Allora ho pensato che valeva la pena risponderle
se rispondendo a lei avrei forse risposto anche a Cristina.
Mi sono chiesto cosa nel suo post provocasse in me quella sensazione:
non erano tanto gli argomenti, quanto il modo di argomentare. Poi mi sono
chiesto cosa ci fosse di disturbante in quel modo ed è comparsa un’immagine inattesa, venuta su gorgogliando come fanno le bollicine. Inattesa
forse non del tutto, perché era stata preceduta da un fatto strano: quando
pensavo al suo post mi veniva ripetutamente e spontaneamente da confondermi sul suo nome, il post, mi dicevo, di Carmelo Ottaviano.
Ma che c’entra, mi chiedevo poi, Carmelo Ottaviano? È stato costui,
lei certamente sa, un filosofo cattolico e siciliano che godette una qualche
notorietà negli anni Cinquanta, una sorta di Buttiglione di allora che mi
ritrovai presidente di commissione alla mia maturità, quando la maturità
era ancora una cosa seria e temibile.
È perché, mi sono allora detto, questo sedicente Antonio Balbino mi
vuole fare l’esame, quel terribile esame di maturità che ancora mi mette in
Sulla storia
237
apprensione. Non era però in tutto così perché non era apprensione, l’avrei
superata come superai quella di allora e ben vengano gli esami; era fastidio
e disorientamento.
Ho capito meglio quando, sulla sollecitazione di Cristina, ho ripensato
alla cosa ed è comparsa l’immagine cui ho accennato: era l’immagine di
papa Ratzinger benedicente e più propriamente di lui come esempio eccelso, raffinata espressione, di un modo di pensare e di argomentare che ha
fatto grande la Chiesa e ne ha assicurato la durata secolare.
Ecco dunque perché avevo lasciato stare e avrei continuato a lasciare
stare se non fosse stato per l’intercessione di Cristina! È che con quel modo
di pensare e argomentare, che lei certo conosce se non altro per alcune
magistrali rappresentazioni che ne ha fatte l’amico Marco Bellocchio, ebbi
a che fare a lungo nella mia adolescenza e giovinezza fino a dirmi irrevocabilmente che con esso non c’era possibilità di confronto, non c’era altro da
fare che lasciar perdere, voltare le spalle, andare oltre. Oggi, sia io sia lei,
lo chiameremmo “rifiuto”.
Si sente nelle sue parole tutta la forza della fede, che le renderebbe rispettabili se non fosse che trasudano, proprio come la voce di papa Ratzinger, di benevolenza e bontà verso gli smarriti cui sono rivolte, benevolenza e bontà assai sospette. Esprimono apprezzamento e vogliono dire
condanna. Esaltano la libertà, ma richiamano all’ordine ed esigono il privilegio. Propongono il dialogo, ma lasciano intendere che esso deve portare
all’obbedienza. La vocina flebile, mansueta, asessuata di papa Ratzinger
esprime apprezzamento e apertura verso l’Islam o la Chiesa ortodossa solo
per rendere più accettabile e per dare l’aspetto di un atto di amore alla loro
condanna. La gente, io, Cristina, può restare confusa di fronte a quelle parole, tacere, chinare il capo.
Vorrei essere ancora più preciso sui motivi del mio fastidio e disorientamento, su questa confusione. Vorrei dire qualcosa sugli artifici retorici, le
tecniche di argomentazione che costituiscono la materialità che la induce
e nel cui uso Carmelo Ottaviano, Rocco Buttiglione, papa Ratzinger sono
maestri, e un po’ forse, non me ne voglia, anche lei sig. Antonio Balbino.
Mi riferisco in particolare a quell’artificio che consiste nel dire una cosa
vera per comunicarne una falsa o una falsa per nasconderne una vera. Per
farmi comprendere entrerò nel merito del suo post, riferendomi in particolare a due suoi punti. Lei dice: «Scrivere o pubblicare di presunti fatti,
incesti, suicidi, abusi, mi creda professor Armando, serve solo per avvelenare un clima già di per sé inquinato assai». Nel mezzo della prima parte di
questa frase lei inserisce una parolina, “incesti”. Sta li nascosta, dovrebbe
sfuggire, di solito - come lei sa - l’attenzione grava sulla prima e sull’ulti-
238
Il paese degli smeraldi
ma; però non dovrebbe sfuggire, ma agire in modo subliminale tutta la sua
forza devastante. Nel dare come affermazione fatta nel blog un’affermazione ivi mai fatta e palesemente falsa, lei riesce a rendere false a priori altre
affermazioni effettivamente fatte che false non sono o quant’altri mai non
lo sono scontatamente e palesemente. La gente, io, Cristina, può confondersi e essere indotta a chiedere perdono e alla penitenza.
Lei scrive anche: «Mi è capitato di vedere un vecchio libro a lei noto:
Il potere della psicoanalisi (...). ‘Il potere dell’analisi collettiva’? ‘Corsi e ricorsi’? Oppure candidamente ‘percezione delirante da parte di alcuni, come lei stesso scrisse qualche anno fa?». Vede la tecnica? Sta in
quell’«oppure» e in quel punto interrogativo. Essi sono la vasellina che
rende impercepibile la violenza; Carmelo Ottaviano, Rocco Buttiglione,
papa Ratzinger sanno bene che un’affermazione perentoria ha maggiori
probabilità di essere percepita e accolta se posta in forma dubitativa.
Più grave, e forse non a caso su di essa ha puntato l’attenzione Cristina, c’è l’ambiguità di quell’interrogativo «Corsi e ricorsi?». La frase
successiva ad esso, che comincia con quell’«oppure», induce a intendere
che l’insieme dei commenti apparsi sul sito costruirebbe un ricorso di quel
libro del 1973, una sua ripetizione, e così nasconde il senso vero della cosa
e cioè che purtroppo il ricorso, la ripetizione sta nelle vicende di cui quei
commenti trattano; ripetizione, più propriamente, di situazioni e comportamenti della Società italiana di psicoanalisi degli anni Sessanta che quel
libro metteva a nudo, in particolare di quella che il libro chiamava “politica
della rimozione” e che qui viene chiamata “politica del silenzio” o “politica
dell’oblio” cui ci si oppone.
A questo proposito, debbo riconoscere che lei ha ragione quando parla
di alcuni interventi fatti con eccesso di voce e di rabbia che possono rasentare la scorrettezza, dissonanze inevitabili in un coro improvvisato come
questo; però mentre lei stesso scrive “alcuni”, sembra suggerire “tutti”.
Inoltre lei sa bene che quei pochi alcuni non mi piacciono: li ritengo inutili
e al limite stupidi, tant’è che sembra riconoscermelo quando mi loda per la
mia attività di censore; ma allora perché usa la formula «lei riconoscerà»,
anziché il più diretto e affermativo “lei riconosce”? Se lo avessero fatto
Carmelo Ottaviano, Rocco Buttiglione o papa Ratzinger sarei stato indotto
a pensare che era per lasciare acceso il sospetto che io sia consenziente
a quegli eccessi. Voglio però credere che non è questo il suo caso. L. A.
Armando
Tutto questo turbine di risentimenti, delusioni, irrisioni, dubbi feroci,
rabbie, critiche puntigliose a episodi anche minimi, svelamenti di retro-
Sulla storia
239
scena torbidi circa eventi accettati come chiaro svolgimento di una pratica terapeutica e di ricerca, questa ribellione a ciò che una volta veniva
considerata “La Ribellione” contro la cultura dominante, mi fa pensare a
quello smarrimento degli anni Settanta che rese molte persone disposte ad
accettare la promessa (ancora una volta) di un’idea di umanità nuova, sana,
forse felice, comunque autentica.
Credo che gli smarrimenti fossero due, di due nature diverse: uno aveva
un orizzonte storico-culturale, l’altro no, era intimo, a volte segreto, e forse
queste due dimensioni sono state motivo di una confusione che, ancora
oggi, non si è dissipata e coinvolge la “nuova generazione”. Evidentemente
non si poteva fare a meno di quella speranza, che si disse essere la speranza
del neonato. E questa nascita piena di speranza veniva tenuta appesa come
una carota a una lunga canna per stimolare il cammino della mandria che
doveva attraversare il deserto. A volte la lunga canna veniva usata sulla
groppa di qualcuno per rammentargli di non poter andarsene per i fatti suoi
rischiando di morire e di mettere strane idee in testa al resto della mandria.
Va be’, non era il deserto, era il mare, e non era una mandria, era l’equipaggio di una barca.
Mi chiedo se le testimonianze di questo blog indicano che stiamo uscendo dal deserto, magari per ritrovarci in un altro luogo rispetto a quello che
credevamo essere la nostra meta. O che non ne siamo ancora usciti e non
se ne vede la fine e questo rende qualcuno deluso, nervoso e rancoroso,
mentre qualcun’altro vi ha trovato il proprio ambiente ideale. Che ci stiamo riprendendo da quello smarrimento collettivo riacquistando ognuno la
propria realtà individuale. Oppure che lo smarrimento permane, in un’altra
forma, rispetto a un orizzonte diverso da quello di prima. Per quanto mi riguarda, a volte ho anche l’impressione di non essere mai partito. Ma allora
perché mi rivolgerei a voi? Sisammo
241
GLOSSARIO*
Aulamagna/Aulemagna: Espressione con cui si sono indicati gli affollati “Incontri
di ricerca psichiatrica” tenuti nell’Aula magna dell’Università “La Sapienza”
di Roma dal 2000. Essi succedono ad alcuni convegni organizzati da N. Lalli a partire dal 1994 nella stessa sede intesi al confronto tra teorie e pratiche
terapeutiche diverse; ma se ne differenziano sempre più assumendo la forma
di monologhi del conduttore dell’analisi collettiva in quanto sia i relatori che
quanti intervenivano con domande, non solo proponevano il suo solo pensiero,
ma spesso non facevano altro che recitare testi redatti da lui.
Azzurro/verde: «Che importa a questo mare essere azzurro o verde?». Frase di
F. Guccini in “Bisanzio” (1981). Alla metà del VI secolo nella Bisanzio imperiale, originando da due fazioni sportive, si erano formati due partiti politici
denominati “azzurri” e “verdi”. All’esterno dei confini dell’impero bizantino
cominciavano a premere le popolazioni barbariche: il testo della canzone di
Guccini suggerisce come, forse, in quel frangente storico sarebbe stato meglio
preoccuparsi dell’incombente pericolo esterno piuttosto che azzuffarsi in lotte
intestine. Così, nello svolgersi del blog, ad alcuni, di fronte alla novità costituita
dalla possibilità di una critica verso un’esperienza che non la prevede al suo
interno, appariva di importanza secondaria procedere, già in quella sede, alla
strutturazione di una serie di distinguo tra le posizioni di critica.
Battere forte le mani: Locuzione alla quale si è spesso ricorso nel blog per sottolineare la completa e indiscussa adesione a ogni espressione e/o rappresentazione
del pensiero e delle ipotesi teoriche di Fagioli da parte dei frequentanti l’analisi
collettiva e i piccoli gruppi. Nelle apparizioni pubbliche, quali ad esempio le
“Aulemagna” (v.) o le lezioni tenute a Chieti, Fagioli è sempre seguito da un
nutritissimo numero di fans che fanno sentire la loro presenza attraverso scroscianti e lunghissimi applausi nei suoi confronti, né più né meno di quelli che si
tributano a un grande attore o a un grande personaggio dello sport.
Borderline: Il termine non è usato in senso strettamente clinico, ma come sinonimo di individuo apparentemente in buona salute e in realtà capace se non di
distruggere almeno di ferire, manipolandola, la vita di chi gli sta accanto. È
*
A cura di Claudio, Rowan, Rudra.
242
Il paese degli smeraldi
emerso nel blog nel corso della ricerca di una definizione della falsa coscienza che caratterizza buona parte dei partecipanti all’analisi collettiva: non solo
coloro che svolgono attività di proselitismo, ma anche quelli che, cercando di
conformarsi e di conformare i propri rapporti a un malinteso ideale di sanità,
finiscono con lo smarrire il senso e la elementare umanità di quegli stessi rapporti. Con una sfumatura ironica e autoironica, facendo il verso all’abitudine
nefasta del ricorso abituale alla diagnosi psichiatrica anche nelle questioni di
tutti i giorni, esso è stato evocato per spiegare episodi altrimenti non spiegabili
come scorrettezze, menzogne, manipolazioni, oblio.
Dolce stil vuoto: Indica nel blog un certo linguaggio ampolloso che nasconde
confusioni e ripetizioni.
Diagnosi: Il termine indica in medicina un complesso e articolato ragionamento
che, a partire da una raccolta accurata di dati empirici, induce a scoprire o ipotizzare la causa di un disturbo o di malattia. Il conduttore dell’analisi collettiva
lo usa invece per designare l’effetto di una sua capacità di scoprire, senza alcuna
base empirica o più spesso sulla base di eventi falsificati o inventati, le dimensioni inconsce con le quali l’altro gli si rivolge (ovviamente ostili, distruttive o
invidiose), effetto che conseguirebbe a una sua “capacità intuitiva” che non può
essere sottoposta ad alcuna critica. Il fatto che, nonostante ciò, venga lasciata
al termine tutta la sua valenza medica, fa sì che la “diagnosi” valga per colui
rispetto al quale viene pronunciata come una minaccia e un anatema i quali, se
si comporta bene, possono essere tolti, salvo poi venire riproposti.
Fagiolisti: Da una fase in cui i partecipanti all’analisi collettiva venivano definiti
“fagiolini” dagli altri in senso sminuente, si passò a un’altra in cui essi usavano,
riferito a se stessi, l’aggettivo “fagioliano” per indicare qualcosa di più serio e
con riferimento alla teoria (un po’ come dire “marxiano” qualcuno che si fonda
sulla teoria di Marx); “fagiolisti” è invece un termine coniato dal blog per sottolineare l‘ultimissima fase di agitazione e propaganda attraversata dal gruppo,
ovvero i suoi attivisti.
Fiume in piena: Espressione con la quale si è indicato lo speciale andamento del
blog che dalla seconda metà del marzo 2007 a l’11 settembre 2007 ha raggiunto
il numero di 3031 interventi, con un ritmo di decine al giorno.
Grande iceberg: Termine usato nel blog in riferimento alla vicenda del Titanic
per dire di una difficoltà incontrata dall’analisi collettiva lungo il suo percorso
subito dopo il convegno di Napoli del 1999 (v. Uomo antibiotico).
I 150/149: In occasione della lettera scritta da E. Pappagallo a “La Repubblica” in
reazione all’intervista di L. Sica a M. Mancia del 10 Luglio 2007 per la prima
volta si quantifica, in base all’elenco dei nomi presenti nei comitati editoriale e
di redazione della rivista “Il sogno della farfalla”, in 150 il numero dei terapeuti
afferenti alla cosiddetta Scuola romana di psicoterapia (v.). La diminuzione di
Glossario
243
un’unità – si noti bene: una sola – ha voluto indicare nel blog la speranza di
una compattezza non sovietica, fondata sull’eventuale venire meno di un allineamento conseguente la presa d’atto, da parte di uno qualsiasi dei 150, dei
contenuti del blog.
Incontri dell’analisi collettiva: Così sono designate le occasioni di esposizione
pubblica del gruppo costituito dai frequentatori dell’analisi collettiva e dai pazienti degli psicoterapeuti facenti capo a questa: sia quelle nell’Aulamagna (v.)
de “La Sapienza”, che altre come le lezioni all’Università di Chieti, le riunioni
nella libreria “Amore e Psiche” e quella del 1 Giugno 2007, per la presentazione
della rivista “Alternative per il socialismo”, tra il direttore Fausto Bertinotti e
l’analisi collettiva.
I vestiti dell’imperatore: “I vestiti nuovi dell’imperatore“ è una fiaba danese scritta da H. C. Andersen e pubblicata nel 1837. La fiaba è metafora di una situazione in cui una maggioranza di persone sceglie volontariamente di non proferire
parola su uno o più fatti evidenti a tutti, fingendo di non conoscerli (o dando
loro un’importanza marginale mentre marginali non risultano affatto) per non
mettersi in opposizione al leader, ovvero per compiacerlo. Ad esempio nel blog
è stato sottolineato come la vicenda di “Nuova Psichiatria” che coinvolgeva tra
gli altri anche N. Lalli (si veda al cap IV, par. 1-b) si sia sviluppata nella realtà
in una maniera totalmente differente dalla versione che ne circola ai seminari.
Lo stato delle cose non può che corrispondere a quanto testimoniato dallo stesso
Lalli e poi confermato da A. Seta e S. Casini (si veda al cap. VI, par. 4 ): il fatto
che fra partecipanti ai seminari possa campeggiare la convinzione che Lalli volesse portare l’Analisi collettiva nelle braccia di AN è un esempio, insieme ad
altri, di come si vogliano continuare a vedere… i vestiti dell’imperatore!
Il grande bluff: Espressione coniata per evidenziare l’aura di mistero che circonda
la “scesa in campo” e la proposta politica dell’analisi collettiva. Nelle discussioni scaturite anche su altri forum sulla rete, i sostenitori dell’analisi collettiva
non sono mai stati in grado di spiegare con chiarezza quale fosse la proposta
politica, come cioè la “teoria sulla realtà umana” potesse essere trasformata in
proposte concrete.
Il
paese degli smeraldi:
È il titolo di questo volume tratto dal racconto di F. L.
Baum Il mago di Oz pubblicato nel 1900. Il mago di Oz, lungo il racconto, si
rivela ai protagonisti e in particolare alla piccola Dorothy, come un comune
mortale che nel corso della sua vita si è ritrovato leader di una comunità alla
quale a un certo punto fa costruire la Città di Smeraldo, imponendo a tutti quanti
vi abitano o vi vogliano entrare di indossare occhiali (per non venire accecati, la
motivazione ufficiale) con lenti verdi, in modo tale che in seguito tutto apparirà
- in virtù di tale filtro - colorato di un bellissimo verde, e soprattutto facendo
loro credere di essere un potentissimo mago. Più interventi del blog mettono
in risalto come il conduttore dell’analisi collettiva regni incontrastato nella sua
città di smeraldo sui suoi “sudditi” che gli sono devotissimi (v. Battere forte le
244
Il paese degli smeraldi
mani) e come egli da moltissimi anni filtri ogni avvenimento della storia, della
cronaca oppure ogni semplice scambio umano attraverso la sua teoria che si
fonda sulla sua scoperta.
La
fattoria degli animali: La fattoria degli animali è un racconto dello scrittore
inglese George Orwell, pubblicato nel 1944. Metafora lucidissima e critica del
sistema socio-politico dell’Unione Sovietica. Nel blog si è fatto riferimento al
racconto di Orwell in virtù delle analogie che vi si possono ritrovare col “mondo dell’analisi collettiva”. Fra queste, ad esempio, l’assoluta mancanza di una
possibilità di critica, una chiave di lettura omniesplicativa per tutto lo scibile
umano, una fase iniziale (secondo alcuni) di purezza di ideali abbastanza rapidamente seguita da quella che nel blog è stata definita come «la perversione
dell’eresia in istituzione».
Lui si prof: In Italia possono usare il titolo di “professore” insegnanti delle medie
inferiori e superiori, professori universitari associati, ordinari e a contratto a patto che specifichino a quale di queste categorie appartengono e, per quelli a contratto, solo per il periodo in cui svolgono tale incarico. Il termine “Lui si prof”
viene nel blog riferito a chi sia effettivamente titolare di cattedra universitaria
per rimarcare la forzatura implicita nell’ uso del termine “professore” quando
riferito a Fagioli, titolare di un modulo di approfondimento di 14 ore nell’ambito dell’insegnamento di psicologia generale del corso di laurea in scienze delle
professioni educative dell’Università di Chieti.
Mondo a parte: Espressione con la quale si è indicata nel blog la sensazione di
molte persone, al loro ingresso in analisi collettiva o nei piccoli gruppi, di avere
a che fare con un mondo altro in cui non erano valide le leggi e anche le comuni
regole di buon senso, le aspirazioni e gli obiettivi di quello reale e in cui tutto
era incentrato sul pensiero e sulla persona del fondatore e sulle aspirazioni, gli
obiettivi e le attività dell’analisi collettiva, che venivano considerati come propri (v. Pensiero unico, Replicanti).
Pensiero trasteverino/il trasteverino: Espressione che molti partecipanti hanno trovato particolarmente efficace per descrivere, oltre alla scarsa diffusione
incontrata dalla teoria di Fagioli in ambito scientifico e accademico, anche la
vicinanza fra i luoghi dove hanno sede i seminari di analisi collettiva, la casa
editrice della rivista “Il sogno della farfalla”, la libreria “Amore e psiche” e
l’abitazione di Fagioli.
Pensiero unico: Ci si riferisce all’affermazione, contenuta nelle pubblicazioni e
nella pratica dei 150/149, che l’unica teoria sulla realtà umana e l’unica terapia
valida per tutte le malattie mentali sia quella contenuta nell’opera teorica e nella
prassi di Fagioli. Si è utilizzato questo termine nel blog per sottolineare l’atteggiamento di totale chiusura e rifiuto nei confronti di qualsiasi altro pensiero,
precedente e soprattutto successivo, alla “scoperta” di Fagioli.
Glossario
245
Potere psicocratico: Il potere intrinseco all’uso dello strumento dell’interpretazione psicologica al fine dell’instaurazione di una psicocrazia (v.).
Psicocrazia: Dominio ottenuto ed esercitato con lo strumento dell’interpretazione psicologica fondata sulla decontestualizzazione di parole e comportamenti
di qualcuno e sulla loro riduzione da parte di altri a un significato simbolico
conforme o disconforme rispetto al paradigma di riferimento di questi altri,
seguita, in caso di disconformità, dalla loro sanzione come se non avessero
più un significato simbolico, ma reale (ad es: tizio nel preparare una tavola
mette il coltello al posto della forchetta; la cosa viene interpretata come simbolica di un suo stato confusionale indotto da una sua ostilità nei confronti dei
commensali ed egli viene privato della sua funzione). Il blog trae il termine
da Il potere della psicoanalisi (AA. VV., 1974, pp. 15-25) ove veniva usato
per indicare la finalità dell’uso dell’interpretazione da parte degli psicoanalisti
dell’Istituzione psicoanalitica e se ne serve per indicare tale uso in analisi collettiva non solo da parte del suo conduttore e dei membri della Scuola romana
(v.), ma da qualsivoglia partecipante nella gestione di una propria identità
borderline (v.).
Psicoqualcosa/psicoqualsiasicosa: Termine usato nel blog in funzione della smitizzazione ironica e autoironica di un’identità psichiatrica ancora percepita come
una sorta di casta e per sottolineare come certe conoscenze non riguardino solo i
professionisti del settore.
Quod licet Jovi non licet bovi: Letteralmente: “Ciò che è lecito a Giove, non lo
è ai buoi”. È la formula con cui uno degli intervenuti nell’accesa discussione
sull’avvenuta o meno infrazione del codice deontologico da parte dello psichiatra Fagioli esprime il proprio parere in merito.
Replicanti: Termine usato nella letteratura e nel cinema di fantascienza come sinonimo di androide, robot con sembianze umane costruito con materiale esclusivamente artificiale o anche biologico (cyborg) e del tutto indistinguibile da un
essere umano. Al replicante, tuttavia mancano quelle caratteristiche peculiari
dell’essere umano e cioè la sua realtà interna, la libertà del pensiero, la corrispondenza interiore delle sue emozioni le quali per artificio della tecnica potrebbero essere manifeste esteriormente. Nell’ accezione del blog, il replicante
è un essere umano che tende ad assumere il pensiero e il comportamento di un
altro o di altri credendoli propri. La condizione di replicante è quindi necessaria
affinché venga innestato il pensiero unico (v.).
Scesa in campo/in politica: Espressione ben nota nella cronaca politica italiana
per descrivere la decisione di personaggi, fino a poco prima impegnati in altri
campi, di farsi valere in politica. Nel blog è riferita alla decisione di Fagioli di
schierarsi esplicitamente e attivamente con Rifondazione comunista e con Bertinotti al fine di affermarsi come il teorico di una nuova sinistra.
246
Il paese degli smeraldi
Schizofrenico: Termine usato in analisi collettiva in un modo che non ha nulla a
che fare con la nosografia psichiatrica per connotare chi non accetta o rimane
perplesso circa la validità di una affermazione del suo conduttore e sopratutto
chi, dopo aver condiviso una parte del percorso dell’analisi collettiva, se ne
allontana. Nell’uso comune “schizofrenico” equivale a incomprensibile: non
comprendere, ma sopratutto non accettare il verbo del suddetto conduttore è per
lui e per suoi seguaci incomprensibile quindi....schizofrenico.
Scuola romana di psicoterapia: Le uniche scuole di psicoterapia sono quelle riconosciute e autorizzate dal MIUR. Pertanto, non esistendo formalmente alcuna
scuola diretta da M. Fagioli, con la dizione “Scuola romana di psichiatria e
psicoterapia” si deve intendere l’insieme del 150/149 (v.), i quali hanno come
riferimento professionale l’opera teorica e la prassi dello stesso. Nel blog l’idea
di sedicente Scuola è spesso stata portata come esempio tangibile di assoluta autoreferenzialità e di difficoltà di confronto e dialogo con altre posizioni teoriche
nell’ambito della psicoanalisi. La forma della scuola privata ricalca quella degli
Istituti di psicoanalisi criticati da Fagioli negli anni Settanta proprio per il fatto
di autorizzarsi al di fuori delle leggi dello Stato.
Seconde generazioni: Espressione che indica i figli e i nipoti dei membri più anziani dell’analisi collettiva, i quali sono sempre vissuti nell’ambiente isolante
e totalizzante del movimento (v. Pensiero unico) senza aver avuto reale possibilità di confronto con il mondo esterno (v. Mondo a parte), fin da piccoli
assoggettati alla pedagogia fagioliana e direttamente o indirettamente inviati
dai genitori nell’adolescenza a sostenere una psicoterapia in un piccolo gruppo
o nell’analisi collettiva.
Tamarindo: Durante le lunghe giornate estive che hanno visto il blog animarsi
come un fiume in piena (v.), l’idea di gustarsi un tamarindo su una terrazza ombrosa e ventilata, da scherzoso e goliardico invito si è tramutata – senza perdere
la vena ironica – in un indice di gradevolezza dell’interlocutore. Ad esempio a
partire da uno dei suoi interventi nessuno sarebbe più stato disposto a sorseggiare un tamarindo con A. Balbino.
Uomo antibiotico: Nel 1999, in occasione di un convegno a Napoli (AA. VV.,
2000), si manifestò in Fagioli un’infezione da batterio pseudomonas aeruginosa che viene normalmente curata con terapia antibiotica. Dopo poco tempo
la causa di tale infezione fu da lui identificata nelle pulsioni negative della sua
compagna di allora e nella loro alleanza con le intenzioni da lui attribuite a quel
convegno, e la guarigione attribuita unicamente alle eccezionali caratteristiche
di vitalità del contagiato. A tutt’oggi (“Left” 29/6/2007) Fagioli scrive: “...certi
batteri, pseudomonas aeruginosa, che non sono attaccati dagli antibiotici”.
Viaggio in Grecia: Con il passaggio, nel 1979-1980, dei seminari dalla sede pubblica dell’Istituto di Psichiatria di via di Villa Massimo alla sede privata dello
studio di Fagioli in via di Roma libera si moltiplicano le occasioni in cui lo
Riferimenti bibliografici
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stesso si incontra con gli analizzandi al di fuori dello studio e delle ore dei
seminari. Si tratta di una riproposizione della pratica di stampo manicomiale
dello “stare insieme” che Fagioli aveva adottato allorché aveva condiviso spazi
e tempi di vita con i pazienti dell’Ospedale psichiatrico di Padova. Una delle
manifestazioni di questa riproposizione è un viaggio in Grecia compiuto insieme agli analizzandi nell’agosto del 1980. Essa si differenzia dalle altre perché in
occasione di quel viaggio Fagioli stabilì un rapporto privato con una donna che
frequentava i seminari riproponendo nel nuovo contesto la pratica, anch’essa di
stampo manicomiale, della “coppia terapeutica” che nel tempo avrebbe avuto
più edizioni e si sarebbe profondamente modificata rispetto alla formulazione
iniziale perdendo ogni connotazione di parità e collaborazione. Fagioli sosterrà
sempre più nettamente che non si può pensare a una attività terapeutica svolta
contemporaneamente da due persone, a una “coterapia”: come il motore immobile di Aristotele, il terapeuta non può essere che solo uno e il partner del
momento deve accettare di essere da lui gestito come egli meglio ritiene al fine
della cura del gruppo.
Villa Piccolomini: Luogo dove è avvenuto, il 5 Novembre del 2004, il primo incontro tra l’analisi collettiva, Pietro Ingrao e Fausto Bertinotti, ed avente come
tema la non violenza.
Vita precedente: Espressione che nel blog indica l’esperienza di vita affettiva e
conoscitiva accumulata precedentemente alla frequenza all’analisi collettiva o
a un piccolo gruppo.
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