Claudia Andujar - Fondazione Fotografia

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Claudia Andujar - Fondazione Fotografia
Claudia Andujar
Claudia Andujar, Senza Titolo, 1981 / Yanomami, dalla serie A Casa, 1974-1976, © l’artista
“Emigrata negli Stati Uniti d’America per sfuggire al nazismo (molti suoi familiari sono invece deceduti nei campi di
concentramento), Claudia Andujar ha speso tutta la sua vita nella difesa degli indios Yanomami, un’importante società
indio che vive in Amazzonia, al confine fra Brasile e Venezuela. Dal 1958 innanzi ha documentato la loro vita e la loro lotta
per la sopravvivenza minacciata dal “progresso”, prima con la costruzione della Rodovia Transamazonica e poi con gli
insediamenti dovuti alle nuove miniere di oro e diamanti.
Le sue immagini, tanto forti quanto emblematiche ed essenziali, superano il classico reportage pur documentando nel
dettaglio la condizione degli indios. Il suo lavoro, elegante e profondo, invita al rispetto non solo dell’essere umano, quanto
della cultura delle tribù Yanomami, dei loro costumi e tradizioni, della loro appartenenza a una terra con la quale, da secoli,
esiste un rapporto di simbiosi primitivo e puro, arcaico e unico. Non è solo la difesa di un’identità sociale o culturale,
antropologica, quanto la difesa di un sistema eco-ambientale di cui l’uomo è regista, interprete e beneficiario.”
(Filippo Maggia, Fondazione Fotografia Modena)
Nota biografica
Claudia Andujar è nata nel 1931 a Neuchâtel (Svizzera) e ha trascorso la sua infanzia in Romania e in Ungheria. Nel 1956 emigra
in Brasile, dove inizia la sua carriera da fotoreporter con un progetto di documentazione della vita quotidiana delle popolazioni
Carajà, situate nel Brasile centrale. Il suo lavoro è stato pubblicato su numerosi magazine brasiliani e internazionali, come Life,
Look, Fortune, Aperture, Realidade, Setenta.
Nel corso degli anni, l’artista ha utilizzato il mezzo fotografico per celebrare la ricca cultura degli Indios Yanomami, nel bacino
amazzonico del Nord del Brasile. Le sue fotografie hanno fornito al mondo esterno uno sguardo sul complesso mondo magico e
spirituale di questa popolazione. Nel 1998, ha pubblicato il libro Yanomami: The House, The Forest, The Invisible con 85
fotografie. Il suo lavoro è stato esposto a livello internazionale, sia all’interno di mostre collettive sia con personali. Le sue opere
sono entrate nelle collezioni di importanti musei come il Museum of Modern Art di New York, la Eastman House di Rochester
(Usa), l’Amsterdam Art Museum. Ha contribuito a numerose pubblicazioni, documentari e mostre fotografiche dedicate
all’Amazzonia e alle popolazioni indigene.
Claudia Andujar è tra i membri fondatori del Committee For the Creation of the Yanomami Park (CCPY), associazione nata a difesa
della vita, del territorio e della cultura degli Indios Yanomami in Brasile.
Rineke Dijkstra
Rineke Dijkstra, Almerisa, Asylum Center Leiden, Leiden, The Netherlands, March 14, 1994 / Odessa, Ukraine, August 4 1993, © l’artista,
courtesy l’artista e Marian Goodman Gallery
“Per oltre 20 anni, Rineke Dijkstra ha contribuito a ridefinire la fotografia di ritratto. La sua forza risiede nell’abilità di
rivelare il sé dietro all’identità proiettata con apparente sicurezza, mentre l’ingannevole oggettività di rappresentazione e lo
sguardo diretto del soggetto cercano di produrre nell’osservatore una reazione viscerale, chiamandolo a riconsiderare la
sua propria percezione di sé. Attraverso austeri ritratti a figura intera, sullo sfondo di paesaggi o fondali indistinguibili,
l’artista spesso ritrae i suoi soggetti nel momento di una transizione fisica o psicologica.
Mostrando il difficile rito di passaggio dall’adolescenza nell’acclamata serie Beach Portraits (1992-1998), seguendo un
giovane rifugiato bosniaco nella sua nuova vita nell’Ovest in Almerisa (1994-2005), o documentando lo sviluppo di un
giovane uomo nel suo arruolamento nella Legione Straniera in Olivier Silva (2000-2003), i suoi ritratti colpiscono per il
modo in cui le identità vengono simultaneamente costruite e smantellate.
Paradossalmente il lavoro di Rineke Dijkstra possiede aspetti freddamente tassonomici, reminiscenti del lavoro di August
Sander, quanto aspetti più poetici e psicologici in grado di catturare con brutale onestà le imperfezioni uniche e personali.
Nel corso della sua carriera ha dato un contributo unico al linguaggio della fotografia, rappresentando una modalità visione
che è divenuta punto di riferimento.”
(Eline Van Der Vlist, curatrice alla Fondazione Darat Al Funun, Amman, Giordania)
Nota biografica
Nata nel 1959 a Sittard, nei Paesi Bassi, Rineke Dijkstra vive e lavora ad Amsterdam. Completa la sua formazione alla Rietveld
Academie di Amsterdam diplomandosi nel 1986. Commissionata da una rivista olandese di rappresentare il concetto di estate,
nei primi anni Novanta scatta una serie di fotografie a bagnanti adolescenti. Queste immagini daranno origine al progetto Beach
Portraits (1992-1994), una lunga serie di ritratti di teenager e preadolescenti - stampati a grandezza naturale - realizzati tra USA,
Polonia, Regno Unito, Ucraina e Croazia. La serie guadagna presto rilievo internazionale: nel 1997 è inclusa nella mostra annuale
del MoMA di New York sulla nuova fotografia e nel 1999 il museo presenta una fotografia dalla serie a fianco di un ritratto di
bagnante di Cézanne. Seguono numerosi altri lavori, presentati l’artista sia in forma di fotografie che di video-installazioni.
Le opere di Rineke Dijkstra sono state allestite nel corso di numerose rassegne internazionali, tra cui la Biennale di Venezia (1997
e 2001), la Biennale di San Paolo (1998), la Biennale internazionale di Fotografia di Torino (1999) e la Triennale di Fotografia e
Video all’International Center for Photography di New York. Esposizioni personali del suo lavoro sono state organizzate presso il
Museum fur Moderne Kunst di Francoforte (2013), il Guggenheim Museum di New York (2012), il Fotomuseum Winterthur, in
Svizzera (2005), e l’Art Institute of Chicago (2001). Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Kodak Award Nederland
(1987), l’Art Encouragement Award Amstelveen (1993), il Werner Mantz Award (1994), il Citibank Private Bank Photography Prize
(1998) e il Macallan Royal Photography Prize (2012).
Jim Goldberg
Jim Goldberg, dalla serie Rich and Poor: USA. San Francisco. 1977-1985, © l’artista courtesy l'artista e Pace/MacGill Gallery, NY
“Se la crisi della fotografia documentaria è stata in parte una crisi di identità – compreso il rapporto del fotografo con le
comunità di cui si ergeva a portavoce – allora uno degli autori che si è impegnato con maggiore successo in questa
problematica è Jim Goldberg. Dalle sue prime opere di metà anni Settanta – in particolare un progetto sugli ospiti
temporanei del Mission District, a San Francisco – ha iniziato a chiedere alle persone fotografate di scrivere commenti alle
immagini scattate. Facendo ciò Goldberg incoraggiava un processo di riconoscimento attraverso la rappresentazione di sè.
Questo espediente divenne una pratica consolidata che nel tempo lo portò a collaborare con gruppi sociali marginalizzati,
realizzando lavori confluiti in numerosi libri fotografici ormai divenuti classici: Rich and Poor (1985, nuova edizione 2014),
Raised by Wolves (1995) e Open See (2009).
Goldberg ha costeggiato le problematiche della soggettività nella fotografia documentaria, mettendo continuamente la sua
pratica in connessione con questioni di prominenza sociale. Nel perseguire una politica rappresentativa di autoriconoscimento nelle immagini, ha inoltre indagato i confini con l’uso privato della fotografia, esplorando ad esempio le
specificità sociali negli scatti tra migranti. Se la fotografia è un atto di scambio tra il fotografo e il fotografato, il lavoro di
Goldberg ha sempre cercato sia di bilanciare che di rendere complessa questa relazione.”
(Duncan Forbes, direttore Fotomuseum Winterthur, Svizzera)
Nota biografica
Nato a New Haven, Connecticut nel 1953, Jim Goldberg si è laureato in Fotografia e Scienze dell’Educazione alla Western
Washington University di Bellingham nel 1975, conseguendo successivamente un master presso il San Francisco Art Institute nel
1979. Ha iniziato a esplorare una modalità sperimentale di storytelling e le potenzialità delle combinazioni tra testi e immagini con
Rich and Poor (1977-1985), un lavoro nel quale accosta i residenti di un centro di accoglienza sociale con persone dell’alta
società ritratte nei loro eleganti appartamenti, indagando così la natura del mito americano su classi, potere e felicità. In Raised
by Wolves (1985-1995) ha lavorato a stretto contatto con adolescenti scappati di casa di San Francisco e Los Angeles, creando
un libro e una mostra che combinavano fotografie originali, testi, istantanee, immagini di film, disegni e stralci di diari personali,
così come video, sculture, oggetti trovati e altri elementi tridimensionali.
Nel 1984 il MoMA ha incluso opere da Rich and Poor in una mostra collettiva a fianco di Robert Adams e Joel Sternfeld,
consacrandolo tra i grandi fotografi documentari. Dal 2006 è membro ufficiale dell’Agenzia Magnum. Attualmente insegna presso
il California College of Arts and Crafts.
Jim Goldberg ha ricevuto tre National Endowment for the Arts Fellowships (1980, 1989 e 1990), una Guggenheim Fellowship
(1985), l’Henri Cartier-Bresson Award (2007) e il Deutsche Börse Photography Prize (2011). Le sue opere sono entrate nelle
collezioni dei più importanti musei americani, tra cui Museum of Modern Art di New York, il LACMA di Los Angeles, il J. Paul Getty
Museum, il Whitney Museum of Art di New York, il SFMOMA di San Francisco e il Museum of Fine Arts di Houston.
Santu Mofokeng
Santu Mofokeng, Comrade-Sister, White City Jabavu (c.1985)/ Easter Sunday Church Service (1996), © l’artista
“Santu Mofokeng è forse uno dei fotografi più acuti e profondi del suo Paese e, ancora oggi, il suo lavoro non è così
conosciuto come invece dovrebbe essere. A fianco dei suoi importanti progetti fotografici, ha rivolto il suo impegno nel
raccontare la storia della popolazione nera del Sudafrica attraverso la ricerca di fotografie storiche d’archivio che ha
raccolto nel corso degli anni presentandole poi nel progetto The Black Photo Album.
Attraverso l’intera sua carriera, Mofokeng è stato in grado di catturare la vera essenza e natura dell’umanità, divenendo un
prezioso testimone del suo tempo.”
(Tania Silvia Gianesin, Lettera 27, Milano)
Nota biografica
Santu Mofokeng è nato nel 1956 a Johannesburg, dove attualmente vive e lavora. Ha iniziato la sua carriera come fotografo di
strada di Soweto. Tra i più rispettati fotografi degli anni della lotta contro l’Apartheid (prima come membro dell’Afrapix Collective,
1985-1992, e poi come fotogionalista per il quotidiano locale New Nation, 1987-1988), Mofokeng ha focalizzato non solo la
durezza del periodo dell’Apartheid ma anche la spensieratezza della vita mondana, registrando la vita quotidiana degli abitanti
nelle township. Uno degli aspetti più importanti del lavoro di Mofokeng è il fatto che le immagini sono molto di più che la semplice
registrazione di un momento. Ogni fotografia è intrinsecamente collegata alla ricerca di comprendere l’identità, la spiritualità e la
responsabilità umana.
Dal 1988 al 1998 ha lavorato come fotografo documentario e come ricercatore all’Università di Witwatersrand di Johannesburg. Il
suo lavoro di ricerca è sfociato nella creazione di un archivio di foto delle classi nere lavoratrici sudafricane tra il 1890 e il 1950,
poi raccolto col titolo The Black Photo Album/Look At Me. Con questo progetto, Mofokeng ha salvato la memoria di questi ritratti
famigliari d’inizio Novecento, offrendo una nuova prospettiva sulle comunità nere delle città, sulle loro aspirazioni e la storia
sociale.
Mofokeng ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Nel 1991 ha vinto l’Ernest Cole Scholarship, grazie al quale ha ottenuto
una borsa di studio presso l’International Centre for Photography di New York; nel 1992 il Mother Jones Award; nel 1998 la
Künstlerhaus Worpswede Fellowship e nel 2001 la DAAD Fellowship, entrambe in Germania. Nel 2009 è stato nominato Prince
Claus Fund Laureate for Visual Arts. La prima retrospettiva internazionale dedicata a Santu Mofokeng ha aperto nel 2011 a Jeu de
Paume di Parigi ed è stata presentata successivamente alla Kunsthalle Bern, alla Bergen Kunsthall e al Wits Art Museum di
Johannesburg. Nel 2002 ha partecipato a Documenta Kassel e nel 2013 alla Biennale d’Arte di Venezia, nel Padiglione Germania.
Yasumasa Morimura
Yasumasa Morimura, An Inner Dialogue with Frida : Collar of Thorns, 2001 / Vermeer Study:Looking Back (Mirror) 2008 / Dedicated To La
Duquesa de Alba / Black Alba 2004 © l’artista
“Nella sua lunga carriera Yasumasa Morimura ha investigato il tema dell’identità attraverso il mezzo dell’autoritratto. Le
sue serie sulla storia dell’arte e sulle attrici mettono in discussione aspetti di genere, nazionalità e differenze culturali tra la
società occidentale e orientale. Guardando le sue opere si può sentire a disagio, dato che le opere sono perfettamente
identiche all’originale eppure totalmente diverse per la presenza dell’artista al posto del protagonista. Per la serie Requiem
ha usato la fotografia giornalistica come soggetto, cercando l’identità come uomo o come potere. A volte inganna la stessa
figura rappresentata, ribaltando l’identità del soggetto nella sua stessa identità.”
(Yoshiko Isshiki, curatrice e sale consultant, Giappone)
“Dai primi autoritratti basati sulle opere dei grandi maestri della pittura occidentale come Manet, Rembrandt, Man Ray o
Duchamp, Yasumasa Morimura continuò a ritrarsi nei panni di cantanti pop come Madonna o Michael Jackson, dando vita
successivamente alla serie Actress con i personaggi di Audrey Hepburn, Marlene Dietrich, etc., e producendo un enorme
corpo di opere che è stato ampiamente apprezzato sia in Giappone che a livello internazionale. Il suo metodo di
espressione – nonostante sia basato sulla fotografia – ha via via incorporato anche pittura, scultura, grafiche digitali,
performance, narrazioni e video, spostandosi senza difficoltà tra questi diversi media. Confondendo i confini tra arte
ufficiale e cultura pop, Morimura ha scosso la gerarchia del mondo dell’arte.”
(Michiko Kasahara, chief curator del Tokyo Metropolitn Museum of Photography)
Nota biografica
Yasumasa Morimura (nato nel 1951 a Osaka, Giappone) lavora da oltre trent’anni come artista concettuale e film-maker.
Attraverso l’uso di arredi scenici, costumi, trucco e manipolazione digitale, l’artista si trasforma in soggetti riconoscibili, spesso
icone della cultura occidentale. Tra i soggetti del proprio lavoro vi sono dipinti di Frida Kahlo, Vincent Van Gogh, e Diego Velázquez,
così come immagini tratte da materiali storici, mass media e dalla cultura pop. Il riadattamento dell’artista delle icone fotografiche
e dei capolavori della storia dell’arte sfidano le normali associazioni tra l’osservatore e il soggetto, lanciando uno sguardo sul
modo in cui l’Oriente percepisce l’Occidente. Attraverso la riproposizione di personaggi femminili, Morimura ribalta la concezione
di “sguardo maschile”, sovvertendo in ogni immagine sia la nozione di identità che lo scopo tradizionale dell’autoritratto.
Le sue opere sono state ampiamente presentate in tutto il mondo. Nel 2013 l’artista ha avuto un’ampia retrospettiva all’Andy
Warhol Museum di Pittsburgh, all’Hara Museum di Tokyo e alla Shiseido Gallery di Tokyo. Di recente è stato Direttore Artistico alla
Triennale di Yokohama nel 2014. Le sue opere sono incluse nelle collezioni di importanti musei internazionali, tra cui il Whitney
Museum of American Art di New York, il San Francisco Museum of Modern Art, il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Museum
of Fine Arts di Boston, il Museum of Contemporary Art di Chicago, il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e il Carnegie
Museum of Art di Pittsburgh.
Zanele Muholi
Zanele Muholi, MaID I, Syracuse, 2015, dittico © l’artista, courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town
“Zanele Muholi è un’attivista fotografa e per oltre 10 anni ha documentato la comunità nera di lesbiche e transessuali del
Sudafrica. Queste immagini non sono soltanto ritratti espressivi ma sono da intendersi come parte di un progetto più
ampio, l’archivio di una comunità, che comprende anche testi scritti e interviste. È la stessa artista a dichiarare: Volevo
coprire un vuoto nella storia visuale del Sudafrica, che a oltre dieci anni dalla caduta dell’Apartheid continuava a
escludere la nostra stessa esistenza. Queste immagini sono la prova visiva dell’esistenza di una comunità. Nonostante il
Sudafrica si sia dotato di una costituzione molto liberale, la legge è di rado applicata per i crimini di genere. Molte delle
persone ritratte da Muholi sono state vittime di violenza, alcune sono state uccise. I ritratti inclusi nella serie Faces &
Phases sono chiare e dirette, non hanno bisogno di sotterfugi o di teatralità, sono persone comuni. C’è una vitalità e una
consapevolezza di sé, nonostante alcune indossino abiti maschili. Non sono sprezzanti, presentano se stesse per quello
che sono. Come lei stessa ha detto, l’artista immagina il Paese in cui vorrebbe vivere.”
(Sandra S. Phillips, chief curator SFMOMA, San Francisco)
“Con Faces & Phases Muholi rivendica con forza la libertà e il diritto di vivere come donna lesbica in un Sudafrica postapartheid dove la comunità LBTG è ancora soggetta a incredibile violenza. Zanele Muholi è fotografa e attivista visiva
sudafricana. Il suo lavoro focalizza la molteplicità dell’identità e sessualità umana. Dall’inizio della sua carriera ha creato
nel suo Paese un archivio della comunità LGBT. Essendo anche lei parte della comunità ottiene la fiducia delle persone che
ritrae, che posano nelle immagini con naturalezza e piene di dignità. Muholi raffigura il corpo femminile con onestà e i suoi
ritratti di amanti sono incontri intimi, belli e teneri. Il suo approccio è aperto e diretto, gioioso e pieno di energia, ma allo
stesso tempo critico e impegnato. Una delle sue installazioni più impressionanti è Mo(u)rning, una griglia di ritratti da cui
mancano alcuni pezzi: le immagini che sono andate perdute durante un furto nella casa dell’artista nel 2014 e le persone
che Muholi non ha potuto fotografare perché vittime di violenza.”
(Hripsimé Visser, curatrice Stedelijk Museum, Amsterdam)
Nota biografica
Zanele Muholi è nata nel 1972 a Durban in Sudafrica. Vive e lavora a Johannesburg. Lavora come attivista dei diritti civili della
comunità LGTB. Ha fondato e collaborato con la piattaforma online Behind the Mask, nel 2002 ha fondato il Forum for the
Empowerment of Women e nel 2009 Inkanyiso, una organizzazione di tutela legale.
Ha studiato fotografia al Jarket Photo Workshop di Johannesburg, dove ha incontrato David Goldblatt, famoso fotografo
documentario. Ha conseguito un master alla Ryerson University di Toronto e ha partecipato a numerose mostre internazionali, tra
cui la Biennale di Venezia, Documenta, Les Rencontres de Bamako in Mali, e mostre organizzate presso il San Francisco Museum
of Modern Art, la Walther Collection di Ulm, in Germania, e il Carnagie International di Pittsburgh.