Alona Kimhi Un vivace, divertente romanzo

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Alona Kimhi Un vivace, divertente romanzo
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Alona Kimhi
“LILY LA TIGRE”: LA VITA QUOTIDIANA AL FEMMINILE
Un vivace, divertente romanzo ambientato nella Tel Aviv dei giorni nostri che ruota
attorno ad una protagonista, sensuale Venere di 112 chili, a cui si affiancano una
giovane immigrata dell’est, ex-prostituta, e una tassista rude e impicciona. Le agitate
vicende parallele di queste tre donne finiscono per intrecciarsi con l’arrivo di un
tigrotto che cambierà, drasticamente, le carte in tavola e le sorti del racconto.
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di Federica Levi
Lily, sensuale Venere dagli orgogliosi 112 chili, ci apre le porte della sua esistenza intima e
quotidiana. Accanto a lei, Ninush, giovane immigrata dell’est, ex-prostituta e vittima di un
compagno ossessivo e violento. A completare il triangolo, Mikhaela, tassista rude, impicciona e
forte, che si trasformerà per amore. Tutt’intorno una Tel Aviv abitata da personaggi degni di una
corte dei miracoli, comici e tragici insieme, come solo la vita sa essere. Un affresco ben riuscito
della società israeliana, una storia mai scontata, che trasuda femminilità e che verrà sconvolta
dall’arrivo di un tenero cucciolo di tigre. Un racconto leggero, capace però di insegnare qualcosa
sulla vita e sui conflitti che affrontiamo quotidianamente.
“Nessuno riuscirà mai a convincermi che un bagno con la schiuma sia un semplice trattamento
cosmetico. Piuttosto, è un rituale pagano, fatto per rammentare alla donna che ogni abluzione è un
ritorno alla schiuma primordiale da cui è nata la Venere che è dentro di lei”. Così ha inizio Lily la
tigre, eclettico romanzo di Alona Kimhi (Guanda, 2007, pp. 297, € 16.00, tr. it. E. Loewenthal),
ambientato in una frenetica e accaldata Tel Aviv dei giorni nostri. Tutto ruota intorno ad una tanto
debordante quanto seduttiva protagonista, Lily, igienista per intima vocazione, fragile, forte,
vulnerabile, libera, costretta in un corpo che si fa sempre più ingombrante, ma straripante di vita.
Attorno a lei si muovono come macchiette figure di uomini insignificanti o semplicemente estranei,
ad eccezione di Taro, il suo primo amore, casualmente ritrovato e non a caso trasformatosi in una
virile donna, domatrice di belve feroci. Sì, perché il romanzo è donna, qui niente è ciò che sembra e
tutto prima o poi è destinato a cambiare. E se le situazioni, raccontate con ironica leggerezza,
sfiorano e a volte superano il limite del possibile, i sentimenti espressi sono nitidi, forti, saldamente
femminili. Accanto a Lily, Ninush e Mikhaela: tre donne, tre stati d’animo, tre vicende parallele, tre
vite che si incontrano, tre amicizie che si sostengono vicendevolmente e che si rafforzano con
l’arrivo di un cucciolo di tigre che cambierà, drasticamente, le carte in tavola e le sorti del racconto.
Fin qui una possibile lettura della storia. Ma Lily la tigre è un romanzo che si compone di molti
strati, molte interpretazioni e che lascia sedimentare nel lettore diversi stati d’animo. Non si pensa
mentre si è immersi nella lettura della storia. La narrazione scorre veloce, ironica, tagliente, giocata
su fulminei colpi di scena e intromissioni di personaggi da moderna corte dei miracoli. Il ‘bello’
viene dopo. Quando si chiude il libro, dopo i ringraziamenti di copertina, si inizia a riflettere sulla
profondità di un racconto che non è reale, non è magico, non è divertente, non è tragico, non è
femminile, non è ‘pornografico’, non è cronachistico, non è di denuncia, non è intrattenimento: è
tutto questo insieme, un complesso e affascinante affresco della società israeliana da parte di
un’attenta pittrice.
L’autrice, nata 40 anni fa in Ucraina, ma immigrata da bambina in Israele, viene dal mondo del
teatro. Un mondo che si affaccia timidamente nella storia di Lily, un mondo a cui appartengono i
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suoi genitori e dal quale ‘la tigre’ decide con fermezza di allontanarsi. Si tratta di un distacco che
non riesce ad Alona Kimhi, perché la sua storia ha il sapore di una commedia dell’assurdo e trasuda
teatro, palcoscenico e devozione. Il racconto subisce un continuo spostamento tra finzione e realtà,
con rimandi ad un mondo più che vero immaginato, esagerato, recitato. Un mondo in cui tutto ciò
che avviene appare istintivamente credibile, ma lascia al lettore la stessa sensazione di smarrimento
che si prova guardando un quadro di Chagall. Il racconto sembra a tratti deragliare: dal crudo e
inaspettato rigore realista iniziale si passa a situazioni via via sempre meno plausibili, che si
trasformano alla fine in pura fantasia. Una fantasia non fine a se stessa: l’intreccio e la sua
realizzazione linguistica si avvicinano molto al realismo-magico della letteratura sudamericana e
solo grazie a questo duplice registro si riescono a mescolare sulla tela elementi fantastici e piccoligrandi fatti della vita quotidiana.
Ed è proprio la vita quotidiana, nonostante tutto, la vera protagonista di questa storia. Una
quotidianità, si badi bene, fatta soprattutto di sentimenti e sensazioni. Una vita totalmente in rosa,
femminile in ogni sua parte.
Dopo la stagione dei ‘grandi maestri’, la letteratura israeliana delle nuove generazioni è piuttosto
sconosciuta al grande pubblico, soprattutto quando non indaga i problemi politico-sociali del
conflitto israelo-palestinese. Forse anche per questo è una letteratura molto viva e, contrariamente a
quanto possa apparire, non disimpegnata.
L’impegno di molti giovani scrittori consiste appunto nel documentare la vita e l’atmosfera di un
Paese, soprattutto di quella parte di Paese che orbita intorno a Tel Aviv. È scomparsa o almeno
molto sfumata quella scrittura legata alle ideologie, all’impegno politico, alla fede. I nuovi scrittori
tendono a registrare una situazione, a raccontarla senza cercarvi significati a ogni costo, in uno stile
il più possibile antiretorico. Quello che viene fuori è allora un puzzle dove i pezzi non combaciano
mai, dove il disagio e i contrasti che si avvertono nella società portano al crearsi di situazioni
esilaranti e paradossali.
Forse questo libro non verrà ricordato negli annali di storia della letteratura, ma è vivo, divertente e
insegna qualcosa di importante su come affrontare la vita. Parlavamo prima dell’apparente
disimpegno: in effetti, a volerlo, sono molti i significati più profondi che potrebbero essere trovati.
Sin dalle prime pagine il romanzo è anche una storia di metamorfosi e liberazione, dalla bulimia nel
cibo e nel sesso, dalla sofferenza per l’amore e dalla dipendenza dagli uomini. È un racconto di un
viaggio dalle strade della propria città all’immensità del deserto. È una denuncia dell’estraneità
dagli uomini, dalla loro violenza e forse anche dalle loro guerre. In un frangente si accenna anche
all’esistenza del mondo arabo, nonostante il fatto che i personaggi del libro provengano da ogni
dove e convivano con leggera naturalità. L’incontro tra i due mondi avviene quando Lily, in un
periodo di ingordigia sessuale, ‘conosce’ tra gli altri un uomo arabo. Nonostante qualche
pregiudizio, si tratta pur sempre di un uomo, un uomo come tutti gli altri, uno strumento per cercare
quel piacere e quella sazietà che sembrano non arrivare. Del resto, come la stessa Alona Kimhi
sostiene, “la gente ha paura di confessare i veri motivi per cui combatte. La guerra islamica non è
un conflitto culturale. Una delle qualità peculiari degli esseri umani è che tendono a presentarsi
come ideologi e non come esseri pragmatici o spiriti animali che vogliono mangiare, fare sesso e
divertirsi. A volte invece i problemi si risolvono se alla gente si permette di fare un po’ di dolce
vita. Dovremmo seguire il consiglio di Aristotele: tra un confine e l’altro esiste un ‘sentiero dorato’
che va seguito”.
È questa la strada di Lily. Una strada sofferta e mai scontata, come niente lo è da quelle parti. Da
leggere. Alla vigilia della Fiera del Libro di Torino, per rispondere alle insensate polemiche con una
splendida voce di donna e con un pizzico di saggezza aristotelica.