Intellettuali meridionali esuli in Piemonte del decennio 1849/59
Transcript
Intellettuali meridionali esuli in Piemonte del decennio 1849/59
INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI Può sembrare irriverente chiamare in causa Hegel e le sue «astuzie della storia», e retorico affermare, dopo tanta passione e sanguinose vicissitudini, che dalle grandi sventure possono scaturire felici svolgimenti, che « le guerre e le rivoluzioni - come scriveva il filosofo di Stoccarda - non debbono considerarsi come male assoluto nè accidentalità semplicemente esteriore », ma, come ogni rivolgimento, hanno significato in ciò, «che per loro mezzo la salute etica dei popoli è conservata come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione nel quale lo ridurrebbe una quiete durevole». Retorico ed irriguardoso, fuori dalla organicità di quella riflessione sulla storia degli uomini, fuori di quella tensione conoscitiva del senso profondo ed unitario delle cose. Ma è un fatto sotto gli occhi di tutti che quel tanto o quel poco di integrazione reale tra Nord e Sud, tra Piemonte e Mezzogiorno, tanto sul piano della cultura che su quello della reciproca conoscenza e stima, e perfino dei rapporti umani e della progettazione e modello politico, sia in gran parte venuto, nei casi della vicenda risorgimentale ottocentesca, dalle grandi migrazioni seguite alle rivoluzioni represse del '99, del '20-21 e del '48. Certo v'era stato l'Illuminismo, fiorente nel Mezzogiorno come nella Milano teresiana e giuseppina o nella Toscana granducale e nei ducati padani; e perfino nel Piemonte, che si teneva in qualche modo al modello prussiano-federiciano, meno che nel rapporto con gli intellettuali, data la scarsa udienza di cui godevano i suoi Vasco, 1 i Radicati, e più tardi, non molto più ascoltati, i Denina e i Caluso; sospinti anzi, almeno i primi, alla dissidenza e all'utopia; e nonostante la decennale presenza/prigionia di un Giannone: anche questo un innesto doloroso, rapportabile alle già ricordate astuzie di questa infaticabile rimescolatrice che è la storia. Epperò, nonostante gli scambi, che furono intensi e continui nell'arco di tutto il Settecento, secolo di viaggi, frequentazionì, conversazioni e commerci umani per eccellenza, la vicenda culturale e politica italiana rimaneva aggregata entro ambiti definiti e sostanzialmente «separati», corrispondenti alle regioni storiche, che erano poi anche gli Stati, politicamente distinti e talvolta «distanti» per ragioni ideologiche o di politica generale, oltre che tariffaría e doganale; con non poca conseguenza sul commercio delle idee e dei libri, come gli studi recenti di Berengo hanno chiarito 1. Sicchè, nonostante tutto, il rapporto unitario, che pur in qualche modo si riusciva a costituire, rimaneva affidato tradizionalmente alla conversazione e allo scambio epistolare dei dotti, dei letterati o scienziati o filosofi, economisti e studiosi di statistica e riformatori, certamente impegnati in un discorso sovraregionale di ambito più vasto ed unitario, ed anzi, ben collegati con gl'intellettuali europei dei centri di più vivace cultura. In tal senso ce li rivelano l'epistolario magliabechiano ricchissimo del primo Settecento e gli altri epistolari e diari di viaggio della seconda metà del secolo. Ma v'era pur sempre il limite della oggettiva condizione politica, l'orizzonte angusto degli Stati, che si fa sentire come una barriera, qualche volta oppressiva, all'ansia di europeismo dell'intellettuale settecentesco. Alfieri, ma non solo lui, in questo senso costituisce riferimento eloquente. E v'erano, a frapporre diaframmi, i particolari rapporti con il Potere, la specificità delle situazioni, le censure, le polizie. D'altro canto è questo poi il senso della tradizione o linea di tendenza o carattere particolare delle diverse «culture»: stratificazioni determinate dalla storia, risultato di essa; ma, a loro volta, condizioni agenti, talora senza riparo, sui suoi svolgimenti di breve o di medio periodo. Non dirò quanto abbiano influito le vicende della migrazione seguita al 1799 nel far conoscere e fruttificare nella Lombardia le novità della cultura napoletana del primo e del secondo Settecento. Si tratta di cose ben note. La presenza fisica, protratta nel tempo, non occasionale, di uno o di molti, e le cause che la resero necessaria e la passione che 1. - M. BERENGO, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980. 2 l'animò: son tutte cose che possono assai più, determinando un vero e proprio salto di qualità nei rapporti tra due culture, di quanto non possa la lettura di un libro o un viaggio o un carteggio anche fitto e non superficiale. Nè dirò del flusso migratorío successivo agli avvenimenti del fallito esperimento costituzionale napoletano del 1820-21, che portò la generazione dei Troya, dei Blanch, dei Pepe, dei Baldacchini, dei Bonghi, a restituire quasì alla Toscana gli apporti settecenteschi dei vari Tanuccí e Bartolomeo Intíeri, venuti nel Sud per avvenimenti meno tempestosi. La «grande migrazione», come è noto, fu quella del decennio 1849-59, quel decennio dominato dalla figura e dall'opera di Cavour, in cui il Piemonte si offrì come l'unico polo possibile (e rassicurante) della rivoluzione italiana trasferita sul terreno della diplomazia europea; l'emigrazione politica da ogni parte d'Italia e dal Mezzogiorno fu massiccia e qualificata, e contribuì non poco, sia pure attraverso spinte di segno diverso, e non di rado tra irrequietezze, polemiche ed incomprensioni, alla risoluzione risorgimentale. Certamente ad una maggiore e positiva « comprensione » di culture e mentalità diverse. Erano in molti, in quella Torino degli anni '50 in cui, nella garanzia di un Re Galantuomo, la cui fermezza costituisce un merito che non riesce appannato da debolezze o rozzezze di sorta, politici illuminati e lungimirantí si sforzavano di piegare le resistenze di una aristocrazia ancien régime recalcitrante ai rischi dell'avventura rivoluzionaria, sia pure nella riduzione diplomatica del progetto cavourriano. Erano in molti, diversi, sovente in disaccordo tra loro, ispidi, diffidenti, orgogliosi nella povertà, scomodi i più, guardati con sospetto anche negli ambienti liberali. Ma negli attriti di una convivenza imposta dagli eventi e non sempre gradita dagli uni e dagli altri, quell'incontro fu certamente uno dei fatti più positivi per la cultura e direi per la stessa Nazione ìtalìana, che vi ebbero un fruttuoso momento di confronto, ricevendone ciascuno positive conseguenze e conservandone i frutti. Sulla influenza della filosofia napoletana in Piemonte e sul giobertismo nel Mezzogiorno ha scritto con ampiezza di informazione Oldrini, e sarà dato anche in questa sede di ritornare sull'argomento 2. 2 - G. OLDRINI, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari, Laterza, 1973; ed il precedente volume antologico Primo helegelosmo italiano, Firenze, Vallecch 1969. Al riguardo si veda, tra l'altro, lo studio di M. SANSONE, La letteratura a Napoli dal 1800 al 1860, nel vol. IX della Storia di Napoli, Napoli, 1972; ed il mio studio, M. DELL'AQUILA, Critica e letteratura in tre hegeliani di Napoli, Bari, Adriatica, 1969. 3 Ma direi che, oltre la sfera filosofica, la cultura in generale e i modelli di vita dell'ancor chiuso Piemonte subalpino uscirono rinsanguati dall'apporto di tante esperienze e passioni; le egemonie politiche e i modelli pedagogici non sono casuali: trovano nella storia le loro motivazioni e radici. Dall'altra parte, infatti, quella società e quel modello di vita venne proponendosi, proprio in quegli anni con evidenza, nei suoi valori più alti, ch'eran poi proprio quelli più quotidiani e modesti, di ordine, tenacia, fermezza, probità: fino a giustificare un «piemontesismo» non solo come ideologia politica, ma come modello pedagogico per quella stessa generazione, una volta fatta l'Unità. Forse non si è riflettuto abbastanza sulla considerazione che le basi, se non culturali, direi comportamentali dell'ambizioso progetto di pedagogia civile elaborato dagli hegeliani di Napoli, da Bertrando Spaventa a De Meis a De Sanctis, dopo l'Unità, lo Stato etico mutuato da Hegel, ma esemplato, si è detto da molti, sul modello prussiano-bismarkiano, anche per il forte fascino esercitato da quel referente negli anni '70 - è stato concepito ed è venuto rafforzandosi nei suoi teorici proprio in Torino, ove erano tutti in quegli anni '50: nella considerazione e nell'ammirazione di quelle virtù di popolo e ordinata amministrazione di governo, dello Stato e della vita piemontese, prima che germanica e prussiana. A misurare la partita doppia di quell'incontro non facile, in cui non mancarono gli ostracismi e le preclusioni (basti pensare al mediocre e pressochè anonimo Capellina preferito al De Sanctis per l'insegnamento universitario torinese); ma vi furono le integrazioni e l'attento ascolto (ancora De Sanctis e molti altri collaboratori apprezzati del «Cimento» e delle altre riviste e fogli torinesi di quegli anni); a misurar quella partita doppia non basterebbe un libro, e molti ne sono stati scritti. V'eran molti meridionali in quella emigrazione. Faremo solo qualche nome: Pasquale Stanislao Mancini, Antonio Scialoja, De Meis, il barone Carlo Poerio, Bertrando Spaventa e il Conforti, e il Bonghi, De Sanctis, D'Ayala, Tommasi, Paolo Emilio e Vittorio Imbriani, Diomede Marvasi, Antonio Ciccone; l'elenco non si ferma qui; e fra i pugliesi Giuseppe Del Re, il terzo di «una famiglia di patrioti» come ebbe a definirla il Croce, presenti nelle rivoluzioni di Napoli dal '99 al '21, al '48; ed ora, questo Giuseppe, già editore apprezzato in Napoli, ove lo si ricorda per gli eleganti volumetti dell'«Iride», ed in Torino editore e collaboratore di riviste, apprezzato per i suoi studi sulla lirica tedesca, oltre che generoso benefattore di esuli, fino alla rovina economica; e Giuseppe Pisanelli, Luigi Zuppetta, e Giuseppe Ricciardi, fondatore e direttore in Napoli nel '32 del «Progresso», la più moderna ed europea delle riviste napole4 tane degli anni della « rinascenza » ferdinandea, esule poi a Parigi e a Ginevra3 Tra gli altri, Giuseppe Massari4 , di cui ci limiteremo a dire, quasi un caso esemplare tra tutti, nei meriti e nei limiti: il segretario di Cavour negli anni decisivi dell'impresa unitaria, il redattore-direttore in Torino della « Gazzetta Ufficiale » l'amico/discepolo di Gioberti, riordinatore delle sue carte, editore delle sue cose inedite, messaggero della sua filosofia nel Mezzogiorno; il biografo di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora; il relatore della prima inchiesta parlamentare sul brigantaggio nelle provincie merìdionali: insomma un pugliese/piemontese (con trascorsi napoletani, parigini e fiorentini) ottimista ed operoso, fiducioso in quel «piemontesismo» che aveva in quegli anni il suo momento di forte suggestione, prima che risultasse deteriorato, anche come termine, nelle delusioni e nelle polemiche aspre del «dopo». Un moderato: giobertiano/cavourriano/cattolico/liberale, con trascorsi giovanili (appena un momento) mazziniani, largamente emendati da una lunga e ferrea fedeltà al partito della ragione, dell'ordine, della costituzione. Non sembri una contraddizione: le radici cattoliche e la vocazione liberal/risorgimentale in molti, come in lui, ed anche oltre gli anni giobertiani e di Pio IX, risolvevano possibili contraddizioni in una empirica volontà di unione, di concordia, di azione disciplinata, che troncava alla radice ogni divergenza ed antinomia. In Massari una tale inclinazione sembrava essere più forte perfino della sua non comune cultura ed esperienza politica, che dovevano inostrargli quanto intricata fosse la matassa dei consensi e delle convergenze. Perciò fu nemico delle sette, nelle quali vedeva la negazione della concordia; e poi, senza ombra di sospetto, di mazziniani e garibaldini, nei quali vedeva pericolosi guastatori dell'opera sagace di Cavour. 3 - Per alcune linee di svolgimento della cultura pugliese tra Sette e Ottocento rimando alla bibliografia contenuta in alcuni miei studi, M. DELL'AQUILA, Per una storia della cultura pugliese tra Sette e Ottocento, in "Lingua e storia in Puglia", VIII (1980) e La cultura nell'Ottocento, in AA.VV., Storia della Puglia, II, Bari, Rai-Adda, 1979; ed i saggi raccolti nel vol. Humilemque Italiam. Roma, Bulzoni, 1985. 4 - Si rimanda innanzi tutto agli scritti di Massari, che sono disseminati in decine di giornali e riviste cui collaborò in Italia e in Europa, alcuni dei quali ricordati in questo scritto. Poi alle lettere, anche queste numerosissime, migliaia, molte delle quali ancora inedite o non identificate, giacenti in fondi privati e pubblici di biblioteche e archivi. Massari, com'è noto, fu in corrispondenza per ragioni culturali o politiche con moltissime personalità italiane ed europee. 5 Un esempio di quanto fitti possano essere stati questi carteggi, è fornito dal volume Gioberti-Massari. Carteggio (1838-1852), pubblicato e annotato da G. BALSAMO CRIVELLI Torino, Bocca, 1920; e dalle sue Lettere alla marchesa Arconati Visconti, pubblicate con assai minor precisione e perizia, Bari, Accolti, 1921. Saggi delle corrispondenze di Massari sono stati pubblicati in riviste varie: per esempio, alcune lettere tra Bonghi e Massari, a cura di G. Infante, in "Japigia" XV (1944) pp. 12-34 e 84-103; ventiquattro lettere di Massari al De Mazade, pubblicate da Maurizio Visconti nell'Annuario del Liceo-Ginnasio "P. Colletta” di Avellino, nel 1932; una serie di lettere tra il Massari e G. Pepe, pubblicato da G.M. Monti nell'Archivio storico calabro-lucano", 1937, 1-2; una serie di lettere di Massari a Guglielmo Libri, a cura di E. De Carlo, in “Japigia” VI (1935), pp. 184 segg.; un carteggio con i toscani C. Ridolfi, U. Peruzzi. L. Galeati, V. Salvanoli, etc. Massari, che in vita ebbe tanta cura delle carte altrui (riordinò, com'è noto, l'autobiografia di G. Pepe rivedendone la forma per incarico dello stesso generale; pubblicò scritti di Gioberti; avviò l'edizione dei discorsi parlamentari di Cavour; etc.) non ebbe la fortuna di avere riordinatori ed editori che si prendessero buona cura delle sue cose. In qualche caso l'entusiasmo di alcuni produsse danni e richiese successivi faticosi interventi riparatori. Tutte le sue carte, almeno non disseminate qua e là e andate disperse, le lasciò morendo all'amico Emilio Visconti-Venosta che in seguito, per consiglio di Silvio Spaventa e di Raffaele De Cesare, le consegnò a Giovanni Beltrani che prometteva una edizione del Diario, uscita poi successivamente nel 1927 e nel 1931. Secondo Omodeo (Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951, p. 584) sarebbero andate disperse non poche carte ed un intero quaderno del Diario, che risulta infatti lacunoso per il periodo dal 24 marzo al 19 settembre 1860. Ora quel manoscritto, escluso il predetto quaderno ancora disperso, e molte altre carte e lettere sono nel museo Centrale del Risorgimento di Roma, mentre altre lettere ed autografi sono sparsi nel Museo del Risorgimento di Torino, Milano e nelle biblioteche Nazionali di quelle città, di Firenze, di Napoli, di Roma e di Bari. I tre articoli sull'Introduzione allo studio della filosofia, scritti sotto l'impressione della lettura de La teorica del soprannaturale del Gioberti, che è fra i suoi primi scritti, sono ne “Il Progresso” di Napoli, 1841 (XXIX), pp. 5-32; 165-181; e 1842 (XXX), pp. 5-22. Il libretto I casi di Napoli dal principio del 1848 al novembre del 1849 fu pubblicato in Torino presso Ferrero e Franco, 1849 ed in seconda edizione, arricchita dai due discorsi commemorativi sul Massari, letti in Bari da Silvio Spaventa (20 sett. 1885) e da Raffaele De Cesare (29 ottobre 1894), Trani, Vecchi, 1895. Massari curò anche la pubblicazione, del suo Gioberti, delle Operette politiche, Torino, Daelli, 1850, con un Proemio al secondo volume in cui Massari meritava la commossa riconoscenza del filosofo; e delle Opere Postume. Del Carteggio Gioberti-Massarì pubblicato da G. BALSAMO CRIVELLI, Si è già fatto cenno. Le lettere del Gladstone sul malgoverno napoletano furono da Massari tradotte e raccolte in un volumetto dal titolo Il Sig. Glandstone e il governo napoletano, Torino, De Lorenzo, 1851. Il secondo scritto del Glandstone, in risposta ai tentativi di confutazione del governo napoletano, fu tradotto da Massari pubblicato in un opuscolo dal titolo Esame della risposta ufficiale del governo napoletano del molto onorevole Guglielmo Gladstone, Torino, De Lorenzo, 1852. Il rapporto sul brigantaggio, oltre che negli Atti parlamentari, fu pubblicato con il titolo Il brigantaggio nelle provincie napoletane. Relazioni fatte a nome della Commissione d'inchiesta della Camera de' Deputati da G. Massari e S. Castagnola, Napoli, Stamperia dell'Iride, 1863. Del Diario esistono le seguenti edizioni a stampa: una parziale, pubblicata a cura di G. Beltrami sotto gli auspici del Comune di Bari, con il titolo Diario politico di G. Massari dal 2 agosto al 31 dicembre 1858, Bari, Accolti, 1927; una completa, a cura dello stesso G. BELTRAMI, Diario 1858-1860 sull'azione politica di Cavour, Bologna, 6 Un politico al centro dì moltì avvenimenti. Ma forse più veramente un collaboratore ed esecutore di funzioni politiche e diplomatíche. Un uomo di lettere, colto, fine, senza iattanza. Un oratore: non privo di ímpennate retoriche e di toni elevati, lui, così misurato nella scrittura. Un gìornalista: questo sì, senza dubbio di notevole levatura e instancabile attività, passato attraverso esperienze molteplicì, ìn dìversissimi ambienti, nei quali subito riusciva ad avere conoscenze, accesso, accoglienza. Operosissimo, tenuto caro da quanti ebbero a servirsene. Riservato, preciso, efficiente, onesto fino allo scrupolo, poverissimo, senza ambizionì che non fossero di collaborazione e di servizio. Spentosi in casa d'altri, senz'altra eredità che un fascio di carte e pochi librì. Ce n'era abbastanza per una gloria, magari un po' di maniera, in positura rigida, corre tuttì queì «padri della patria» che i segreti complessi di colpa delle generazioni seguenti, scivolate nel compromesso e peggio, hanno confinato nelle piazze e sulle lapidi, in positure sforzate, difformi dalla loro più vera e umana natura; e li rìtrovìamo con difficoltà, oltre quella crosta, e facciamo fatica, quando ci ricordiamo di essi, a sentirli vicini. Anche Massari, naturalmente, ha monumentato in Bari, e íntestata una piazza centrale, e una lapide nell'Università, dettata dal Cappelli, 1931: l'una e l'altra con molte interpretazioni del manoscritto frettolose ed arbitrarie, che fecero auspicare all'Omodeo e ad altri una edizione più accurata; la quale è stata fornita dalla EMILIA MORELLI, Diario dalle cento voci 1859-1860, Bologna, Cappelli, 1959. Alcuni stralci del Diario aveva pubblicato A. Luzio nel vol. Aspromonte e Mentana. Documenti inediti, Firenze, Le Monnier, 1939. Massari fu anche autore, com'è noto, di tre biografie: Ricordi biografici del Conte di Cavour, Torino, Eredí, Botta, 1873; La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, 2 volte, Milano, Treves, 1878; Vita del generale Alfonso La Marmora, Firenze, F. Barbera, 1880. I discorsi parlamentari di Cavour, che pure prese a raccogliere per una vagheggíata pubblicazione, rimasero per via. Penserà poi, in altra epoca, Adolfo Omodeo a pubblicarli. I suoi discorsi ed interpellanze parlamentari sono negli Atti della Camera dei Deputati, ove sedette ininterrottamente dal 1861 fino all'84, anno della sua morte, con l'eccezione della XIII legislatura, nelle file dei moderati. Massari fu autore anche di un breve scritto autobiografico relativo ai suoi primi anni di studio e di formazione, dal titolo Il primo passo, pubblicato in un volumetto della "Domenica letteraria". Una raccolta delle sue commernorazionì e profili è stata pubblìcata da G. INFANTE, Uomini di Destra, con Prefazione di A. Luzio, contenente scritti rnassariani su P. Rossi, G. Berchet, Gioberti, Balbo, Siccardì, D'Azeglio, C. Poerìo, Ricasolì, Lanza, etc., Bari, Laterza, 1934, pp. XVI-173. Le commemorazioni fatte alla Camera, nel 1884 in atti parlamentari, VX leg. 1ª sess. pp. 6993-7001; le commemorazioni di M. Minghetti, Bologna, 1884; di Q. Leoni, Roma, 1884; Viterbo, in Uomini di Puglia, Martina Franca, 1916, pp. 57-71; G. M. MONTI, Per la storia dei Borboni di napoli e dei patrioti meridionali, Trani, Vecchi, 1939; E. De carlo, M. e Cousin, in "Japigia" VI (1935) pp. 453-457. 7 Fornari, in cui lo si ricorda per «precoce ingegno/precoce ardente indomito/amore di patria/proscritto/esule due volte/deputato al Parlamento/aiutò coi libri/con la fluida ornata parola/con la vita irreprensibile/la risorgente nazione/ e le conciliò il favore dell'Europa civile ... ». Si ebbe giudizi lusinghieri da Gioberti e da Cavour; dal prìmo anche una riconoscente amicizia e un fitto carteggio, dal secondo se non proprio i segreti della politica, la confidenza e la fiducia in missioni di grande delicatezza. L'uno e l'altro seguì, e quasi idolatrò, facendosene una bandiera, insieme al Berchet e a Pellegrino Rossi: questi ultimi, però, su un piano diverso, più vicini agli anni suoi giovani. Raffaele De Cesare in un suo discorso commemorativo usò molte parole sopra tono nel lodarlo; ma in un passaggio, quando lo ritrae giornalista politico, enuncia con corrispondenza al vero come Massari, a parte di tanti segreti del «palazzo», intendesse quella professione: «un'alta missione civile, che richiede cultura, coerenza di principi, schiettezza di convincimenti e discrezione grande»5. Aveva ragione Lord Hudson, l'ambasciatore inglese a Torino, nel definirlo « a common friend with brains and without tongue »: un amico dì molti, con cervello e senza lingua: un complimento, secondo annotava lo stesso Massari che «m'andò molto a sangue» (Diario, 3). Silvio Spaventa, in altra commemorazione precedente aveva già toccato di quella sua professione gìornalistica esercitata su autorevoli fogli d'Italia e d'Europa, affermando che la parte migliore della sua vita «fu tutta spesa nella difesa della causa italiana e della politica del Piemonte immedesimata con quella»; e che le collaborazioni alla «Rassegna politica mensile», al «Cimento» e alla «Rívísta contemporanea », tra il '54 ed il '60, offrono « il primo saggio in Italia di letteratura politica di simil genere... un commento assai utile alla politica dei Conte di Cavour, e come una ripercussione che questa trovava nella parte più colta del paese, e giovò molto a farne apprezzare la grandezza e chiarirne gli intenti, anche fuori d'Italia»6. Tutti, anche i più severì nei suoi confronti, gli riconobbero questi meriti di pubblicista della causa d'Italia, e di esser stato intermediario utilissimo tra dirigenza e opinione pubblica, tra dirigenza 5 - R. DE CESARE, Discorso commemorativo, nel vol. di G. MASSARI, I casi di Napoli, Trani, Vecchi, 1895, p. XXVI. 6 - S. SPAVENTA, Discorso commemorativo, nel vol. I casi di Napoli, cit. p. LXIII. Per questo discorso sembra che lo Spaventa abbia avuto la collaborazione attiva del giovane nipote Benedetto Croce, allora diciannovenne, ma già nutrito di studi storici ed eruditi. 8 e diplomazia, e tra uomini politici diversi, spesso distanti, quali Cavour e Ricasoli, La Marmora, gli ambascíatorí in Torino, l'opinione liberale in Firenze ed in altre città, l'inquieto mondo della emigrazione. E così la sua socievolezza, la capacità di far filtrare una notizia «al momento gìusto e alla persona giusta», l'assoluto disinteresse, l'efficienza del perfetto segretario, vuoi d'un politico, vuoi d'un filosofo. La vasta cultura, l'oratoria forbíta, la conversazíone piacevole, la misurata scrìttura, sia dì giornalista che dì biografo, tanto più quando c'era da dir cose, non parole, c'era bisogno di precisione e duttilità: la Morelli giustamente fa rivelare che nel Diario «anche nella sua parte buttata giù di fretta, sera per sera, mai una svista, una ripetizione, un periodo lasciato a metà»7; la incapacità, rimasta proverbiale, e perfin derisa con una punta d'ironia, di richieder cariche o posti di potere. Naturalmente v'eran le voci che mettevano in luce altri aspetti, non sempre positivi, con ironia e sufficienza, che qualche volta era malanimo: il suo esser contento dei larghi sorrisi di tutti; l'instancabile e soddisfatto scendere e salir scale di ministeri, ossequiato da uscieri e funzionari; il suo esser servizievole «al di là che non glielo chiaggano» (Petruccelli della Gattìna, I moribondi di palazzo Carignano, Milano, Perelli, 1862, pp. 97-98); la sua devozione, sempre « platonica » per le signore - eccetto la giovanile infatuazione un po' burrascosa per la Belgioioso a Parigi; l'esser la «chítarra del ministero» (Diario, 63) o «il pappagallo di Gíoberti»: cose tutte di cui nel suo cuore schietto si rideva. Ed ancora certe strettezze e limitazioni di orizzonte politico, da cui pure avrebbero dovuto salvaguardarlo la cultura e l'esperienza di vita, l'anti-mazzinianesimo e l’anti-garibaldismo viscerali che gli facevano veder rosso non solo ogni rivoluzionario, ma ogni «genovese», fino a chiedersi, tra il serio e il faceto, ma piú sul serio, se Cavour potrà far mai il miracolo di farli «diventare buoni Italiani» (Diario, p. 83). E forse proprio conoscendo certi suoi limiti e antipatie. Cavour gli celava i suoi maneggi con Garibaldi e con la Società Nazionale -come ha osservato bene la Morelli, la quale non manca di rilevare che quello stesso Massari era l'uomo che s'indignava per le grettezze conservatrici di certa aristocrazia piemontese ancien régime che poneva bastoni tre le ruote al progetto innovativo del suo Cavour. Talora, però, cavourrianamente aveva imparato anche lui a star « in chiesa cò santi e in taverna cò ghiottoni », a barcamenarsi 7 - G. MASSARI, Diario, dalle cento voci, 1858-1860 introd. di Emilia Morelli, Bologna, Cappelli, 1959, p. V. 9 con quei rivoluzionari, di cui «è utile servirsene»; e si troverà d'accordo con D'Azeglio, di cui registra questa battuta su Garibaldi: «è un mastino, a cui si deve togliere la museruola, quando deve mordere, e non tenerlo sciolto in galleria, perchè morderà le gambe di tutti» (Diario, 426); o di Minghetti: «siamo condannati, finchè c'è un austriaco in Italia, noi conservatori, all'alleanza coi rivoluzionari per non lasciar a questi il monopolio dei sentimenti generosi. Com'è dura la posizione di noi altri poveri diavoli di moderati» (Diario, 311): quello stesso Minghetti che, scherzando, ma non troppo, diceva di pensare per sè a questa epigrafe: «Nacque per essere conservatore, e fu condannato ad essere rivoluzionario» (Diario, 322). In quanto a lui, Massari, nè conservatore, nè rivoluzionario. Moderato, moderato, fin nelle midolla. E poco incline, nonostante il patriottismo, alle faccende ove fosse il rischio di finir arruolati, o peggio, sulle barricate o in galera. Della fisionomia e funzione storica di quel partito «moderato» Silvio Spaventa ci ha lasciato una definizione che ancor oggi può far riflettere: «Quel partito essenzialmente fu ed è, qualunque nome gli si dia, un partito medio, proprio di quei paesi, dove gli elementi veramente conservativi non si accordano colle nuove istituzioni dello Stato per formarne il naturale e più sicuro puntello, e gli elementi progressivi tendono rapidamente o sono portati al di là delle istituzioni stesse: cosicchè gli uffici di rattenere e di spingere quanto conviene e non più di quanto conviene il moto della vita pubblica attributi opposti di due partiti organici di governo - finiscono coll'essere il compito di un partito solo, con tutte le preminenze e le responsabilità che ne derivano, la potenza lungamente indivisa e l'invidia inestinguibile che vi guadagna» (Disc. commemorativo nel vol. I casi di Napoli, cit., p. LXVII). Quando fu eletto deputato a Napoli, dopo lunghi indugi si decise a raggiungere la città in subbuglio, tra il '48 ed il '49 « ove lo chiamava il dovere di deputato»: la Costanza Arconati, non senza l'ironia e la sufficienza di tante dame aristocratiche che seguon le rivoluzioni dagli osservatori dei loro salotti, ne dava notizia ad un suo corrispondente, aggiungendo: «poverino ci va a malincuore perchè non v'è speranza di essere utile e v'è manifesto pericolo di essere assassinati» (Il risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi, a cura di A. Malvezzi, Milano, Hoepli, 1924, p. 353; riportato dalla Morelli). Ma, alla fin fine, se Massari non aveva un'anima di guerriero (e non v'era bisogno di riprove), anche il «guerriero» Foscolo da altre dame da salotto interessate agli eventi della rivoluzione s'era sentito dir cose simili. 10 Doveva aver avuto critiche ed attacchi ben più duri di quei pettegolezzi dai suoi avversari politici, quale membro della «camarilla» dei governativi, se Petruccelli della Gattina, che non aveva simpatie per essi, gli rendeva giustizia scrivendo: «E’ l'uomo più calunniato tra i mestatori della politica governativa; ma in verità è cento volte migliore della sua rinomanza e, comparato ad altri della consorteria, un modello (I moribondi di palazzo Carignano, cit., pp. 97-98). Omodeo, in tempi recenti, ebbe un giudizio piuttosto duro: parlò di «mediocre ingegno»8: si è detto, non ebbe ingegno originale, riuscendo peraltro buon divulgatore ed ottimo collaboratore di ingegni più vivi ed originali di lui. Balsamo-Crivelli, a proposito delle lettere a Gioberti, da lui curate in carteggio, dice di una «loro verbosità talvolta stucchevole»9: certo non hanno la densità di quelle di Gioberti; ma chi parlò, anche con riferimento ad altre due cose, di opacità della scrittura, non tenne conto, in un'opera certo diseguale, più di giornalista, di redattore, di estensore di documenti e di rapporti e di missive, della precisione e compiutezza del suo dettato, quasi sempre gettato giù senza la lunga riflessione dello scrittore, della straordinaria vivacità e nitidezza del suo Diario, veramente, come fu detto dall'Omodeo - in questo più equanime - « dalle cento voci », per la coralità e lo sfumato del quadro della vita politico-diplomatica in quegli anni di grandi avvenimenti, sia pure nel particolare punto di vista. Ma, sbozzato il ritratto, non è del valore in assoluto dell'uomo o dello scrittore che qui si vuol dire, quanto della sua funzione difficile di tramite tra culture diverse, tra regioni storiche diverse. In ciò v'è chi ha avuto maggiori riconoscimenti, soprattutto nell'emigrazione napoletana, da De Sanctis e Scialoja, al barone Poerio, a De Meis, per dir solo di alcuni; piú di quanto non sia avvenuto di Massari, di questo «moderato» pugliese/piemontese omologato nella sua seconda patria da sentirla in tutto come sua: che con la sua personale vicenda s'inscrive in una relazione Puglia/Piemonte che ha conosciuto negli aspri attriti della nostra storia momenti di grande vivacità ed emigrazioni intellettuali, operaie, industriali e militari, di cui non è semplice segnare la partita doppia e i cui saldi, in attivo o in passivo, ammesso che sia consentito, andranno segnati con molta ponderazione, senza concessioni alle facili retoriche o alle ideologie preconcette. 8 -A.OMODEO, Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951. 9- GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, a cura G. BALSAMO-CRIVELLI, Torino, Bocca, 1920, p. XI. 11 Non traccerò la storia frettolosa della sua vita. Altri lo ha fatto: una storia uguale a tante altre di uomini di quella generazione: studi, rivoluzione, esilio, esperienze, varie di vita. Solo qualche punto caratterizzante ai fini del nostro tema di riflessione: la nascita a Taranto, nell'estate del 1821, mentre andava spegnendosi a Napoli e nel Mezzogiorno, la rivoluzione carbonara e costituzionale. Studi letterari e filosofici, come usava, fino a quattordici anni, nel seminario di Avellino. I seminari allora, si sa, eran tornati a tener luogo dei ginnasi e dei licei, in un sistema d'istruzione pubblica ritornato con i Borboni all'antica decrepitezza, affidato in gran parte a ordini religiosi. Poi a Napoli, a studiarvi la matematica e l'ingegneria, cui avrebbe voluto avviarlo il padre, un ingegnere barese di ponti e strade, uno dei tanti di quella borghesia delle professioni che veniva prendendo consistenza nel Sud, fino a risultar rappresentativa, in qualche caso, della nuova cultura, assai più viva, nella sua specificazione scientifica e tecnica, di quanto non mostrasse sotto la crosta filosofico-letteraria tradizionale, conformata questa, nell'imitazione tardiva di superati modelli e movimenti. In quella Napoli in cui s'allentavano, dopo il '30 e nei primi decenni del lungo regno ferdinandeo i rigori della Restaurazione, e fiorivano riviste di cultura, strenne, ebdomari; in cui lentamente, e con la necessaria cautela, sotto la occasione della scienza e della lingua si tenevano Congressi, s'aprivano scuole e studi privati, s'animavano salotti; ed una società «letteraria» sembrava voler riprendere, con le remore e i ritardi di un trentennio e più, l'antico discorso degli ammodernamenti e delle riforme interrotto nel '99 e dopo il decennio francese: in quella Napoli in cui già v'era il De Sanctis alla scuola del Galluppi e del Puoti; in cui l'operazione romantica, in Lombardia e Toscana, già così moderata, o era ignorata o contrastata e fraintesa nelle resistenze di un classicismo di maniera; il nostro Massari lasciò cadere progressivamente i progetti paterni e poi gli studi di medicina, che pure aveva tentato, inclinando sempre più verso occupazioni di filosofia e di letteratura. Di quegli studi giovanili, di matematica, di scienze, doveva serbar buona memoria, come di tutte le sue cose, se riuscì poi, negli anni dell'esilio, a scriverne con competenza di specializzate riviste estere. Prese a frequentare la casa dell'insigne geologo abate Teodoro Monticelli, un altro pugliese innestato nel tessuto culturale della capitale, che era ritrovo di molti che avevano avuto parte nelle trascorse vicende e ne parlavano, pacatamente, come di una passata bufera. Le pagine di un suo scritto autobiografico, Primo passo, sono ricche di queste notazioni. Ma i suoi interessi veri erano le lezioni di Galluppi, del quale 12 più che la filosofia aveva caro il sentimento di libertà e la difesa che ne fece in uno scritto sulla rivoluzione del '20, dal titolo Lo sguardo dell’Europa sul Regno di Napoli, che circolava clandestino. Ma più ancora i poeti che avevano eccitato gli animi nel '20-21, e che ora erano in esilio: Berchet, prima di ogni altro, del quale era lettore appassionato e del quale intorno al '38, poco prima di lasciar Napoli, pare preparasse una edizione alla macchia delle poesie. Berchet era poco conosciuto a Napoli, come attesta il De Sanctís nella Giovinezza, anche negli anni intorno al '40-42, tanto più nelle sue liriche che si leggevano in rare copie sfuggite ai controlli della polizia10. Massari era intanto entrato a far parte di una delle società segrete, forse un'affiliazione della «Giovane Italia», di cui era fondatore nel napoletano Benedetto Musolino. Questa sua scelta giovanile, comprensibile per i tempi e per l'età in cui fu fatta, gli sarà poi sempre ricordata da quanti non consentivano con la scelta fatta dal Cavour, di un Massari segretario, direttore della «Gazzetta Ufficiale» piemontese e, nel '58, Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro11. Ma non solo dal versante dei conservatori arrabbiati quella compromissione gli sarà ricordata. Anche Mazzini, nella vivace polemica politica degli anni '40, attaccando la « Gazzetta italiana » della Belgioioso, di cui era collaboratore Massari in Parigi, scrisse di «un Giuseppe Massari, napoletano, (che) dopo essere stato rivoluzionario repubblicano, s'era fatto cattolico, senza credere in cosa alcuna»12. La vicenda storica avrebbe mostrato, peraltro, allo stesso Mazzini come sovente i mutamenti sono imposti dai fatti, oltre che dagli anni, e importante è solo conservare l'animo integro. Lo stesso Massari, che pure in seguito fu contro le sette, e come tanti della parte moderata - ma un tempo anche lo stesso Foscolo - vi riconosceva il segno della discordia d'Italía, scriverà poi ripetutamente che esse, riprovevoli in assoluto, sono state pure, in certi momenti, la via obbligata della rivoluzione. Ma, per tornare al giovinetto infiammato di Berchet, quel momento giovanile di studi doveva subire una brusca accelerazione: il padre ingegnere, passato a nuove nozze dopo la morte della prima moglie, nel timore che il ragazzo potesse cacciarsi nei guai, già se10 - F. DE SANCTIS, La giovinezza, a cura di G. SAVARESE, Torino, Einaudi, 1961. Per i riferimenti all'ambiente culturale napoletano si rimanda alla nota 3 e alla relativa bibliografia. 11 – L’”Armonia” n. 234 del 13 ottobre 1858; citato da R. COTUGNO, La vita e i tempi di G.M., Trani, Vecchi, 1931, p. 5. 12 - R. COTUGNO, La vita CIT., P. 6. 13 guito com'era nelle sue mosse dalla polizia, e nel timore che fosse nell'aria, dopo l'arresto di Settembrini, una nuova repressione, con brusca previdenza imbarcò il ragazzo sul primo battello in partenza per Marsiglia, consegnandolo a un tempo alle durezze dell'esìlio e della indigenza, ma anche alla sopravvivenza e alla libertà. Marsiglia era approdo tradizionale per gli esuli. V’era stato anche Mazzini. Ma Massari la lasciò subito per Parigi. Non aveva diciotto anni, era privo di mezzi. Ma seppe subito entrare nel giro della più qualificata emigrazione italìana: la Belgioioso, gli Arconati, Guglielmo Pepe e quanti frequentano le loro case; l'ambiente era vario, spesso rissoso, certamente vivace e polemico. Già da allora Massari avrebbe desiderato più concordia e unità; sarebbe stata l'aspirazione costante e un po' ingenua della sua vita. Conobbe il conte Arrivabene, Filippo Buonarroti, Pier Silvestro Leopardi, il Tommaseo, Filippo Canuti, il piemontese conte Giacinto Provana di Collegno, Terenzio Mamiani, Michele Amari, Guglielmo Librì, Federico Confalonieri, Giuseppe Ricciardi, i Salfi e ìl suo Berchet, esule anch'egli in quegli anni; ed ancora, in quella Parigi di Luigi Filippo che registrava la ripresa della cultura liberale e borghese, Cousin, Guizot, Thiers, Villemaine, Fauriel e gli altri della precedente generazione romantica, i nuovi scrittori, Balzac, Hugo. L'elenco sarebbe ancor lungo. Tra Parigi, Bruxelles, Londra, Massari cominciava a tessere quella tela di relazioni che si manterrà viva ininterrottamente nel tempo, con nuovi interlocutori, attraverso conversazioni, carteggi, confidenze, che ne avrebbe fatto uno dei testimoni più informati di quegli anni. Si presentava come allievo del Galluppi, che lo aveva incoraggiato a continuare negli studi, ed anche per lettera mostrava di ricordarsene e di averlo caro13. Erano anni anche in cui l'emìgrazione soffriva le sue pene e combatteva le sue battaglie in quelle capitali, conquistando non poco del favore dell'opinione pubblica europea alla sua causa. Ed anche in ciò il contributo di Massari non risulta trascurabile. Ma l'incontro, se così si può dire, decisivo per lui, fu con Gioberti, con la sua Teoria del Sovrannaturale, letto, riletto, postillato, sino ad infiammarsene, e a scrìvere all'autore, in quegli anni in esilio a Bruxelles. Il suo stile nell'enfasi un po' foscoliana dell'esule povero e dignitoso, era questo: «Signore, perdonerete certamente l'ardire di un giovane a voi sconosciuto, che spinto da riverenza singolare e da affetto per una 13 - R. COTUGNO, La vita cit., p. 9. 14 persona tanto degna quanto voi, vi dirige queste poche righe... La mia patria è Taranto nel regno di Napoli: il mio cuore è tutto italiano ed adusto dal desiderio di vedere un giorno tornata all'antico splendore la sventuratissima nostra patria comune... » 14. Gli si dichiarava ammirato e devoto. Gioberti gli rispondeva più pacatamente, ringraziandolo ed esortandolo al lavoro, poichè «la contentezza e la tranquillità dell'animo non consistono già nella quiete, ma nel moto, non nel riposo, ma nelle operazioni, godere e operare sono sinonimi quaggiù ... »15. Cominciava così un carteggio assai intenso, protratto fino al '52, ed un rapporto di amicizia e di stima reciproco e, come sempre per Massari, di grande e generosa dedizione. Gioberti ne metteva a frutto la memoria ed erudizione per compilar elenchi di letterati, filosofi e uomini di cultura italiani da includere nel suo «Primato » 16: più tardi, nel '48, Massari seguirà Gioberti nel viaggio da questi compiuto per l'Italia, a Milano, Genova Bologna, Firenze, e poi nel Congresso federalista di Torino, e «presterà» letteralmente la sua voce al filosofo afflitto da laringite, nei frequenti discorsi di quegli anni. Ma, oltre l'amicizia e la dedizione, per cui tanti aneddoti son fioriti, sino a quello di «pappagallo di Gioberti» già ricordato, Massari pel suo Gioberti seppe fare anche altro. Nel 1841 apparve, infatti, nel «Progresso» di Napoli un suo lungo articolo in tre puntate17 in cui si estendeva ad illustrare analiticamente la giobertiana Introduzione allo studio della filosofia: una esposizione che fu lodata non solo da Gioberti che trovava lo scritto «bellissimo, ordinato sugoso, nervoso, voi avete perfettamente asseguito le idee di cui siete esponitore»18, ma anche da Pier Silvestro Leopardi, dal conte Arrivabene, dall'abate Stefani e dal Tommaseo cui parve «ordinata e nervosa», e che provocò non poco scalpore e interesse nel mondo culturale napoletano 19. Il «Progresso», già fondato e diretto dal pugliese Giuseppe Ricciardi, esule in questi anni egli pure a Parigi, ed ora da Ludovico Bianchini, era tra le più qualificate ed avanzate riviste napoletane, esemplato in qualche modo sul modello dell'«Antologia» e della europea «Revue des deux mondes», con larghi interessi di statistica, di agricoltura, di economia, di finanze, ma, secondo l'indole meri14 - GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit. p. 1-2. 15 ibid., p. 8-9. 16 ibid. pp. 220, 255 e passim. 17 "Il Progresso", XXIX 6(1841) pp. 5-32; 165-181; XXX 18 pp. 5-22. 18 GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit., p. 179. 19 ibid., p. 139. 15 dionale, con una più larga inclinazione per le cose della filosofia. Vi scrivevano con molti altri quelli che poi, negli anni '40 saranno gli hegeliani di Napoli, Stanislao Gatti, Stefano Cusani, Giambattista Ajello, già allievi con il De Sanctis alla scuola del Puoti, tra i giovani più vivaci del momento 20. La filosofia a Napoli e nel Mezzogiorno era stata ferma per lungo tempo al sensismo. Galluppi vi aveva introdotto interessi psicologici, ed era nome chiaro in Europa, noto al Cousin, che quando il nostro Massari gli si professava allievo, dichiarava di averlo presente e ben noto. Ottavio Colecchi, altro maestro di filosofia, conoscitore del filone tedesco, vi aveva portato, spiegandola nei dettagli, la filosofia kantiana. Per il resto, le novità in quei tardi anni '30 erano appunto Cousin con il suo tentativo eclettico, per il quale si nutriva vero entusiasmo, e dopo qualche anno, i sociologisti francesi, Villemaine innanzitutto. Tutto questo fino agli anni '40 avanzati, quando cominciò ad essere letto Hegel, prima negli scritti di estetica che si offrivano nella traduzione francese di Ch. Bénard, attraverso cui li conobbe anche il De Sanctis prima dell'apprendimento e dell'esercizio del suo tedesco nel carcere di Castel dell'Ovo, quando gli capitò di tradurre da Hegel e da Rosenckrantz. De Sanctis, com'è noto, negli anni dal '44 al '48 aveva tenuto scuola nel Vìco Bisi, ed aveva applicato quella sua prima infarinatura hegeliana ai fatti della letteratura. Ma nel '41, quando apparvero gli articoli di Massari su Gioberti, Hegel era sconosciuto, ed era poco noto anche tutto il pensiero idealistico-romantico. Gioberti stesso era un estraneo al pensiero meridionale, anche nella conoscenza delle persone colte21. E’ sintomatico di ciò una nota redazionale della rivista, premessa allo scritto massariano, in cui si diceva di non concordare su molte idee e giudizi relativi a persone riportate nell'articolo, in riferimento, com'è chiaro, più al Gioberti che al Massari. Proprio per questo, una tale esposizione, che provocò non poche discussioni, ad opera di un giovanissimo e poco noto volgarizzatore, può ascriversi, mi sembra, tra i contributi di rilievo a quell'interscambio ed integrazione reale tra le culture del Piemonte e del Mezzogiorno, che costituisce nel caso nostro il motivo di riflessione sull'attività massariana. Aveva trovato il suo Mentore. «Voi siete il mio maestro, il duca 20 - De "Progresso” è stato pubblicato un indice sistematico con schede degli articoli, a cura di U. Dotti relativamente ai soli primi tre anni di vita (1832-34) quando era diretto da G. Ricciardi (Roma. Studium, 1970). 21 - G. OLDRINI, La cultura filosofica napolerana, cit.; primo hegelismo italiano, cit.; M. DELL'AQUILA, Critica e letteratura in tre hegeliani di Napoli, cit. 16 mio ... » scriveva al Gioberti in data 14 giugno 184222 . Rimase giobertiano convinto, anche quando per le vicissitudini politiche inclinò all'albertismo e poi al piemontesismo cavourriano/sabaudo. Non sottilizzava, come tanti altri, fermandosi alle contraddizioni ed alle divergenze. Gli stava a cuore l'intento risorgimentale, la liberazione d'Italia dallo straniero, il compimento dell'operazione costituzionale e poi unitaria. Pio IX, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele potevano indifferentemente esserne i portainsegne, i «baiuli» in qualche modo successivi e intercambiabili, secondo gli eventi e le opportunità. Il campo delle forze era variegato: a restar solo nell'ambito moderato, Balbo, Gioberti, Mamiani, Cavour, neoguelfismo e ghibellismo, per non dire poi di Mazzini, ed oltre; ma egli vedeva, con semplicità ed onestà, piuttosto le possibili integrazioni di forze, che le divisioni e le opposizioni. E certa «semplicità» era largamente assorbita nella generosità ed onestà dell'azione. Pur del suo Gioberti non fece molto conto dei successivi mutamenti di pensiero: rimase nell'intimo fedele al «suo» primo Gioberti, quasi un simbolo «supre partes» dello sforzo risorgimentale che chiedeva partecipazione e sacrifici di tutti. Di Gioberti pronunziò l'elogio funebre, riordinò le carte, avviò edizioni di opere inedite, tenne vivo il culto, diffondendone nei discorsi e negli scritti il pensiero. In realtà, non avendo ingegno speculativo, aveva caro tenersi fermo al pensiero di qualcuno, fino a farsene una ragione di vita. La stessa cosa che avvenne nel suo rapporto con Cavour, dal quale era dominato e nel quale era felice di annullarsi, collaboratore fedele, scrupoloso ed efficiente. E non solo le edizioni giobertiane, ma il carteggio fitto, da quel 1838, in cui diciassettenne gli si rivolgeva, al 1852, anno della morte del filosofo, dimostrando lo spessore degli interessi, certamente anche i limiti del suo ingegno; ma certamente l'ampiezza della cultura, dell'informazione, l'operosità, la duttilità di chi sa vivere in mezzo agli altri: son doti che valgono, anche se troppo spesso son posposte ad altri meriti di vivacità e di acutezza, e non di rado si offrono alle facili maldicenze di mediocri ricordati nella storia solo per la capacità corrosiva di una battuta. Ma torniamo all'esule parigino. Frequentava l'ambiente dell'emigrazione, s'impadroniva della migliore cultura francese, faceva conoscenze che gli sarebbero state utili poi, negli anni del servizio politico e diplomatico. Doveva essere uno - hanno scritto di lui - che chiedeva sem22 - GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit. p. 173. 17 pre la carta da visita anche all'interlocutore del più affollato salotto, tanto i suoi ricordi di nomi e di persone sono precisi. La sera certamente annotava tutto, come farà poi per il Diario: neppur la sua straordinaria memoria può giustìficare quella precisione e tempestività. Nel '43 tentò di ritornare in Italia, nella speranza di prender dimora in Toscana: aveva avviato, infatti, buoni rapporti col Mamiani e con quegli intellettuali. Ma da Milano, ove s'era fermato, proveniente dal Piemonte e da Torino, individuato dalla polizia, fu riaccompagnato alla frontiera e costretto a tornare in Francia. Si diceva di lui che a Parigi s'era riconciliato con la « Giovane Italia » e la polizia lo aveva per «uno dei più tremendi rivoluzìonari»: povero Massari, lui così mansueto! In quel tentativo ebbe modo, dunque, di avere un primo contatto e una breve dimora in Torino, ove non fu disturbato, ed anzi si ebbe cortesie e riguardo, oltre che conversazioni ed accoglienza da non pochi: dal Provana, dal Sauli, dal Sismonda, dal Balbo, dal Sacchi, dal Lisio, dal Baldise, dal Gazzera. Quella società, così misurata e positiva fino a sembrar fredda, ma all'occorrenza concretamente fattiva non lo lasciava indifferente. Da segni appena percettibili poteva pensare, anzi, ch'essa potesse anche accoglierlo, come fece di lì a poco. Provana gli scriveva: «Ognuno d'essi (quei personaggi conosciuti), a modo suo, chi ridendo, chi filosofando, chi arrabbiando, chi fremendo, chi meditando, m'incarica di esprimerti un mondo di cose ed affettuose: t'accerto che se fai masserizia di tutte di troverai ricco di molto tesoro di amicizia» 23 . Massari era buon massaro in far masserizia di conoscenze; ma i tempi non erano ancora maturi, ed anzi Torino ed il regno sardo erano governati da una aristocrazia arida e di nessuno slancio. Con essa di lì a qualche anno dovrà misurarsi Cavour, per vincerne la grettezza conservatrice, l'antipatia per quella moltitudine di inquieti e di teste calde venuti da ogni parte d'Italia. Qualche giudizio severo di Massari su Torino, anche nel Diario, deve intendersi in questa direzione. Intanto, tornato a Parigi, nel '45 cominciò a scrivere nella « Gazzetta italiana» della Belgioioso, con saggi su Galluppi, Gioberti, la filosofia contemporanea; collaborava con articoli di mineralogia e di paleontologia su riviste prettamente scientifiche, come quella diretta dal Ravaisson; traduceva dall'inglese. Guglielmo Pepe gli affidò, con l'incarico di rivederne la redazione, le sue Memorie, che puntualmente uscirono l'anno appresso. 23 - Lettera pubblicata in parte da R. COTUGNO, la vita, cit., p. 60-61. 18 Si era così al '46, l'anno di Pio IX, che faceva apparir profetico il Primato. Da Torino gli giungeva un segnale positivo, prova che quegli indirizzi di stima che vi aveva notato non erano un suo vaneggiamento. L'editore Pomba lo chiamava alla direzione di una sua rivista, «Il mondo illustrato», alla quale collaboravano illustri letterati del tempo. Il momento era favorevole ad un grande dibattito. Il giobertismo e l'ideologia neoguelfa nella sua proposta politica federalista erano nel momento di maggior forza. Massari nella rivista vi trattava la parte politica, ma con apertura europea: portava nell'esame delle cose d'Italia, di quel risorgimento che sembrava immìnente, il confronto con le esperienze inglesi e francesi; divulgava il pensiero di quanti aveva avuto modo di conoscere; partecipava le sue letture; tracciava la via italiana al risorgimento nel reciproco sostegno della religione e del principato laico: l'idea giobertiana stemperata dal suo ottimismo un po' superficiale che, nella generosità degli intenti non gli faceva considerare con realismo le resistenze. Ma a Torino, in quegli anni prequarantotteschi, di resìstenze ne incontrò molte. Sono di quest'anno 1847 le sue amarezze maggiori e qualche giudizio duro su certo conservatorismo miope, su certa «freddezza» e sul modo in cui si svolgeva la vicenda polìtica. Conobbe, tra gli altri Silvio Spaventa e Giuseppe Del Re. Certo non aveva l'anima del combattente, e comunque aveva bisogno di calore e di consensi. Nel Diario, pìù tardi, più volte giudicherà «freddo e impassibile» il popolo di Torino, che loderà tuttavia, per la sua compostezza nei momenti cruciali. Invitato da Cavour a collaborare come «estensore» al «Risorgimento», finisce con rinunciare: comincia così, con un diniego e quasi una incomprensione, il suo rapporto con lui. Cavour, scrivendone a Giovanetti, commentava: «L'aiuto dei buoni non ci manca, e le sottoscrizioni giungono numerose ed autorevoli. Ma lo spavento è fra gli scrittori che temono l'impopolarità. Pensavamo essere inteso con Massari, ma questi dopo aver quasi impegnato la parola si rìtìra e lascia Torino per non mentire alle sue opinioni e non incontrare l'odio dei nostri nemici» 24 . Massari accettò l'invito del Salvagnoli che lo chiamava a Firenze a collaborare alla «Patria». Ma la situazione generale italiana precipitava verso la rivoluzione e la guerra. Firenze certamente era un buon osservatorio. Vi aveva ritrovato tanti della emigrazione a Parigi. Ma Torino era in prima linea; e Milano, con la sua insurrezione e le Cinque giornate. 24 - C. CAVOUR, Lettere, Vol. V, Torino, Roux e Favale, 1886. 19 In qualche modo aveva sottovalutato certe cose, abbandonando disgustato la capitale piemontese. Non aveva compreso come, sotto la patina del conservatorismo, quella apparente freddezza, tutta subalpina, covasse il fuoco della decisione a lungo meditata. E forse quel Carlo Alberto, quell'arnletico monarca così apparentemente lontano e gelido, aveva bisogno di tutto quell'entusiasmo per la soluzione giobertiana per decidersi a rompere gli indugi e per mostrare che, in fondo, la soluzione vera passava per le strutture militari e governative sabaude, per quella primogenitura piemontese che Balbo aveva teorizzato qualche decennìo avanti. Massari ne rimase affascinato, anche se con qualche ritardo. Anche se, nella sua innata inclinazione alla aggregazione degli sforzi, potè ritenere che l'iniziativa albertiana s'inscrivesse nel progetto di grande federazione auspicata da Gioberti. Ma fu solo Massari a crederlo in quei mesi del '48 di generale entusiasmo, con gli eserciti di tutti gli stati italiani, del Papa, dei Borboni, nella pìanura padana a dar man forte al Piemonte? Notizie di rivoluzione venivano anche da Napolì, ove, ottenuta la Costituzione, aveva inizio un esperimento di governo liberale. Massari lasciò la Toscana, si recò in Lombardia per incontrarvi Gioberti, che accompagnò nel suo vìaggio a Roma e in Toscana, in Emilia, a Genova. Era stato eletto deputato di Bari nelle elezioni del 15 aprile al Parlamento napoletano. Il 15 maggio a Napoli fu giornata di rivoluzione con deliberazioni drammatiche dell'Assemblea radunata in Monteoliveto e barricate per le vie. Massari non era a Napoli. fE però nei processi seguiti alla repressione, nel 1852 fu condannato in contumacia a 25 anni di galera per la parte attribuitagli in quella vicenda. A Napoli, ci andò, sebbene con non molto entusiasmo, per la sessione dell'Assemblea del 30 giugno, sedette sui banchi dell'opposizione al ministero Bozzeli, pronunciò discorsi, soprattutto in sostegno di una maggior partecipazione partenopea alla guerra comune. In cuor suo aveva diffidenza verso quella città, dove «chi vuol essere liberale ed onesto dev'essere per forza eroe» (Diario, 32). Ma Gioberti lo chiamava a Torino per il Congresso federativo: vi andò rappresentante di Napoli, con Silvio Spaventa, Pier Silvestro Leopardi e Bonghi. Tornò ancora a Napoli, ma dovè allontanarsi per il precipitare degli eventi. Riparò a Firenze, ove, tra l'altro collaborò al moderato «Il Conciliatore». Di lì ancora a Torino, con Gioberti nella redazione del «Saggiatore». 20 Soffrì molto per l'assassinio di Pellegrino Rossi, di cui era stato discepolo, amico ed estimatore. Comincia così, dal '49, un decennio e più di residenza e di vita piemontese. I meridionali a Torino, si è detto, erano numerosi in quegli anni di emigrazione. Tra gli altri Massari fu dei più attivi. Giornalista, innanzi tutto, redattore de «La Legge», della «Rivìsta contemporanea », del « Cimento », della « Gazzetta piemontense », e, come si è detto, del «Saggiatore», del «Nazionale», e poi della «Gazzetta Ufficiale» che arrivò a dirigere, dal'56, succedendo a Giuseppe Torelli, e suscitando non poche mormorazioni; corrispondente di periodici esteri, come «L'Indépendence Belge». E però quella febbrile attività di pubblicista non era che una parte, neppure la più importante del suo lavoro. Si fece innanzi tutto ambasciatore dei dolori e delle sventure della sua terra in quell'ideale rappresentanza d'Italia che era diventato il Piemonte dopo Novara, nella garanzia del Re Galantuomo. Scrisse un libretto, I casi di Napoli, sulla triste esperienza costituzionale del '48, che uscì a Torino nel '49, sulla scia di altre precedenti consimili pubblicazioni di D'Azeglio (I casi di Romagna, I lutti di Lombardia, ecc.). Non era certo il Saggio di un Cuoco, esso stesso, d'altro canto, attraversato da una passione politica e da un intento pedagogico che ne definivano il valore storiografico. Si trattava, pel Massari, della testimonianza di un pubblicista, quale egli fu, parte in causa negli avvenimenti, scritta a caldo, con l'intento di far conoscere ove era necessario, in quel Piemonte che lasciava acceso un barlume di speranza, le vicende tristi e le attese del Mezzogiorno, gli errori, gl'inganni di una monarchia che ogni giorno più perdeva il titolo a mantenere quel regno. E però, oltre lo sdegno e il dolore, un tentativo di decifrazione di quegli avvenimenti è presente e risulta nella sua parte lucido e persuasivo: l'indicazione degli errori della parte liberale, le divisioni, l'inadeguatezza di fronte alla grave responsabilità dell'ora; ma soprattutto la denuncia del municipalismo dei ministri del Re, la diffidenza della monarchia per ogni sia lieve concessione costituzionale, l'ostilità dissimulata con doppiezza per la causa unitaria, l'intrigo e la sotterranea intesa con la parte austriaca; e comunque, al di là di queste denuncie, l'osservazione di un qualche peso che, forse, nonostante colpe passate e tutto il sangue del '99 e delle repressioni seguite al '20-‘21, la monarchia borbonica poteva riscattarsi se avesse lealmente sostenuto la guerra d'indipendenza; più ancora se si fosse mesa a capo di essa, potendo acquistar titolo e meriti dinanzi all'opinione liberale del Mezzogiorno e d'Italia. Lasciata cadere l'occasione, non le rimaneva che attendere dagli eventi, che non sarebbero tardati, la sua condanna. La sua fine, venuta col '60, era già 21 segnata dal comportamento del '48. Massari non scriveva, per sè, nè per i posteri, ma per quella opinione liberale ch'era viva, anche se contrastata, in Piemonte, e per quel Re che aveva mantenuto la costituzione anche dopo la sconfitta, quando la minaccia dell'austriaco era più forte. Volle offrirne una copia al Re. Nella sua Vita di Vittorio Emanuele II, così, ricorda quell'incontro, e le parole del sovrano: «A significarmi il suo gradimento il re usò la bontà di concedermi un'udienza. Allorchè all'ora indicata mi presentai nell'anticamera del sovrano uscivano per l'appunto Massimo D'Azeglio ed il conte Siccardi. Il primo sorridente mi disse: - Bravo, fai bene, vai dal tiranno. Vedrai che stoffa da Ezzellino - Fui introdotto nella stanza del re. Mi par di vederlo: era in un vano di finestra in divisa militare: mi fece cenno di mostrarmi e subito con piglio affabile prese a dirmi: - La ringrazio del libro che mi ha mandato. Non l'ho letto, e difficilmente a motivo delle mie occupazioni, potrò leggerlo; ma so di che si tratta. Mi duole che il suo paese soffra tanto, comprendo il suo dolore e il suo risentimento: bisogna aver pazienza. Non si sgomenti. Sia persuaso che verrà il giorno nel quale ella e i suoi concittadíni saranno contenti. Il mio desiderio è di veder felici tutti gli italiani, ma per ora, - e dicendo queste parole traeva un sospiro che mi disse tutto - debbo occuparmi di qui»25. Nel 1851-52 l'Europa liberale fu messa a rumore dalle celebri lettere del Gladstone sulle vergogne della reazione napoletana: regime poliziesco dei più cupi, delatori dappertutto, giudici asserviti al potere, processi da far arrossire ogni uomo civile, carceri speventose, corruzione e sobillazione della plebaglia e della malavita: una lugubre rappresentazione che poi si sarebbe letta nelle Ricordanze di uno di quei carcerati, Settembrini. Per il momento, però, si tentava di mascherare e perfino di negare all'esterno tali vergogne. Chi, per ragioni anche fondate, ha avviato una revisione di giudizio storico sulla monarchia ed il governo borbonico nel Mezzogiorno, offrendo supporti involontari a futili nostalgie separatiste qua e là ravvisabili anche in qualche frangia letteraria e d'opinione pubblica - farà bene a riandare brevemente a queste vicende, che meno note di quelle del '99, furono certo più penose e avvilenti, e sono all'origine di un lungo avvilimento storico, se è vero che col carnefice esce umiliata civilmente anche la vittima. Gladstone certamente, oltre l'indole liberale e la sua umanità, 25 - G.MASSARI, Vita di Vitt. Eman. II, cit. 22 era mosso anche da altri scopi in quell'attacco alla monarchia borbonica. Resta il fatto, peraltro, che quelle vergogne furono denunciate autorevolmente, riproposto il problema italiano come problema di dignità umana, di pericolo per l'Europa civile, di necessità, di una solidarietà liberale anche a livello internazionale; di una risoluzione negoziata e garantita e soprattutto rassicurante per tutti, se non si voleva che violenza chiamasse violenza e ne venisse una pericolosa crisi europea. Altre solidarietà ci venivano dalla Francia postquarantottesca, con i suoi intellettuali, anche Cousin e Thiers, lodati da Massari. I «garanti» francese ed inglese, già di disponevano, dunque ad un intervento politico e ne preperavano i presupposti ideologici e diplomatici, nella prospettiva non secondaria di una estensione delle rispettive sfere d'influenza. Spetterà al Cavour cogliere queste disposizioni, alimentarle, piegarle al progetto italiano: e a una serie di fortunate combinazioni e contrapposti equilibri, volgere tutto per il meglio. Massari, per il momento, non ancora inserito nel gioco diplomatico, fu abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità da cui poteva venir bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella lettere che pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo napoletano), appena dopo che esse erano state divulgate a Londra. Fu una lungimiranza già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo secondo scritto sul Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica intercorsa tra il governo napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai suoi ospiti torinesi, e di lì a tutti gli italiani e amici dell'Italia, non solo risultarono un contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l'effetto di denuncia nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una più precisa collocazione in quel variegato ambiente dell'emigrazione nei cui confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non grande simpatia e molte volte con sospetto. Massari veniva sempre più distinguendosi. Le sue idee di moderato e di fautore della soluzione piemontese, insieme a Scialoja e a Mancini lo tenevano vicino agli ambienti di governo, sia al D'Azeglio, sia al Rattazzi, e poi stabilmente al Cavour; ma almeno fino al ‘56, senza incarichi speciali nè retribuzioni: sotto questo profilo Massari rischiò perfino di esser giudicato un ingenuo, e vi sono giudizi ironici su questa sua estrema discrezione, che lo accompagnerà poi in tutta la sua carriera di «govemativo»: una virtù che egli evidentemente esaurì tutta nella pianta italica, se si stenterà tanto poi a trovarne ancora. Viveva della sua attività di redattore e di corrispondente. E 23 frattanto manteneva viva ed ampliava la sfera delle sue conoscenze, la. fitta rete della corrispondenza, delle conversazioni con i personaggi maggiori della vita politica, culturale e mondana, con il mondo della diplomazia e quello della rivoluzione. Era persuaso, come sarà persuaso Cavour, che in questo seppe ben scegliere l'uomo, che la pubblicità della causa italiana e piemontese nella opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e tempestività, e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar simpatie alla causa: Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la diplomazia di Francia, de Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti vicini a Napoleone III, il gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani, i circoli e le personalità milanesi, gli ambienti ufficiali e quelli ufficiosi, i ministri, le ambasciate, i salotti, le redazioni: quel variegato scenario entro cui si «facevano» le sorti d'Italia non è mai descritto con l'intento del narratore, eppure risalta al vivo negli scorci epistolari, nelle notazioni di diario, nelle relazioni. Quelle lettere e scritti sono ora nelle biblioteche e negli archivi pubblici e nei fondi privati: molte migliaia, un numero incredibile, tessere di un mosaico che aiutano a ricomporre l'immagine di una società e di un momento storico. Scriveva preciso, denso, sfumato, elegante, nello stile della buona diplomazia filtrato attraverso molte letture e pratica di giornalismo. Sapeva dire e tacere, far intendere e far filtrare cose al momento giusto, nella forma giusta. In questo Cavour era ben affidato. Massari era la persona giusta per una conversazione informale ed esplorativa, per esporre e rilevare punti di vista; era bravissimo ogni volta che, senza parere, era necessario che qualche giornale in una qualche città uscisse con una nota «ispirata». Nella occasione del «murattismo», che impensierì non poco Cavour, proponendosi come una insospettata complicazione, fu decisamente per la soluzione piemontese, come De Sanctis e non pochi altri meridionali dell'emigrazione. Degli anni più intensi della vita politica piemontese, dal 1858 al '60, nei quali ebbe mansioni di segretario del Cavour al Ministero, tenne un Diario, che risulta per molti versi assai interessante, come quello di ogni diplomatico che sia testimone e parte di avvenimenti rilevanti. Di questo diario sarà bene dire qualcosa. La sua edizione a stampa per molto tempo non è stata soddisfacente. Scritto in prima stesura dal Massari su piccoli quaderni, la sera stessa di ogni giornata di quegli anni (quindi in forma di registrazione e promemoria 24 degli incontri e delle conversazioni) venne ricopiato parzialmente da lui stesso in due grossi quaderni, senza paraltro che fosse mutata l'impostazione e la finalità di documento. Finito tra le carte dell'autore, tutte o in gran parte lasciate al Visconti-Venosta, fu da questi consegnato al Beltrani che ne prometteva una edizione. Il Beltrani, si sa, era studioso piano di entusiasmo e di straordinario amore per la storia pugliese. Fu autore, tra l'altro, di uno scritto su Valdemaro Vecchi, un piacentino venuto dopo l'Unità a portare in Puglia l'arte della buona stampa e ad impiantarvi una tipografia e casa editrice che è stata ben nota tra Otto e Novecento e piacque a Croce che vi fece stampare tra l'altro la « Napoli nobilissima» e, fino al 1926, i fascicoli della «Critica». Ma una certa insicurezza filologica e non poche forzature dello studioso di provincia gli guastarono il lavoro, che almeno nella parte testuale non gli si addiceva. Uscì una prima edizione, patrocinata dal Comune di Bari, che riproduceva con criteri di poca fedeltà una parte del manoscritto (Diario politico, ecc.). Poi, nel 1931, presso l'editore Cappelli di Bologna, il Beltrani fornì una edizione completa (con la sola mancanza di alcune parti andate disperse, non si sa bene se per responsabilità sua), non per questo però più fedele nè sicura. Il manoscritto, soprattutto nella prima stesura, era certamente di ardua interpretazione, come hanno potuto constatare i successivi editori; ma si deve riconoscere che il Beltrani, molte volte spazientito, si prese molte libertà interpretative. L'edizione fu duramente criticata da Omodeo e da altri, con giudizi passati perfino nelle segnalazioni bibliografiche, ove s'invocava una più riguardosa edizione. Che fu affrontata, finalmente, dalla Morelli (benemerita, dunque, anche per i suoi studi massariani), la quale ne dà ragione nella premessa al volume, uscito dopo due anni di fatica presso lo stesso editore Cappeli, nel 1959, corredato da alcune opportune illustrazioni caricaturali, quasi tutte tratte da giornali umoristici inglesi, in cui la materia risorgimentale risulta sbassata di tono nello specchio deformante ma intelligente della satira politica. Il diario, così come si presenta, appare compatto e sicuro: l'autore si cela dietro ai fatti, riferisce quasi sempre battute o pensieri altrui, dietro le quali si riesce peraltro a capire la sua dislocazione; sono piuttosto rare le dichiarazioni personali, gli slanci, le irruzioni autobiografiche; perfino quando riferisce di alcuni incontri con la Belgioioso, la fiamma sua di un tempo a Parigi, riguardata poi con freddezza e il distacco di un incontro di routine, il suo atteggiamento non va oltre qualche considerazione malinconica per il tempo che passa e per lo sfiorire della bellezza. 25 La registrazione vera è dei fatti, dei pensieri, degli accadimenti, che hanno per personaggi le infinite comparse, comprimari e primattori di quello scorcio di Risorgimento: Cavour, Vittorio Emanuele, i ministri D'Azeglio, Minghetti, Rattazzi, Rìcasoli, La Marmora, lord Hudson con il quale i rapporti si fanno assai stretti, gli ambasciatori di Francia, d'Inghilterra, d'Austria, di Russia, il Nunzio, i funzionari, gli uomini di cultura, i pubblicisti, le dame che nei salotti, tra una conversazione e una civetteria, facevano politica, gli ambienti della Corte, Nigra, la Castiglioni, lord Carrington, l'emigrazíone, anche quella più radicale, come l'Orsini: un grande palcoscenico, su cui avveniva una grande rappresentazione. Massari annotava tutto di quelle giornate, tutte intense, alcune febbrili con scenari che mutano da un momento all'altro, con il mutare e il succedersi delle notizie. Proprio questo, anzi, questa capacità senza intento narrativo, di mostrar dal di dentro le drammatiche sequenze dell'azione diplomatica e l'impatto con la realtà dalle mille facce di un progetto politico, i retroscena degli eventi e delle espressioni rimaste famose, come è il caso delle sequenze perfettamente descritte che preparano il discorso della Corona del gennaio 1859, con la frase famosa del «grido di dolore», nella cui preparazione ebbero parte Napoleone III, Vittorio Emanuele, il gabinetto con Cavour, e, in non piccola parte, lo stesso Massari che fu estensore delle successive redazioni: proprio questo accresce la drammatícíà del racconto ed è un merito non minore, anche se non ricercato, del Diarío. Massari si mostra informato di tutto, dentro ogni risvolto degli avvenimenti, discreto secondo il suo naturale, fedele e preciso esecutore di quanto Cavour gli chiede di fare. Qualche volta sembra perfino entrare nella determinazione dei grandi avvenimenti, come nel caso accennato, o nelle vicende complicate delle annessioni, o nei difficili rapporti tra Rattazzi e Cavour, tra Ricasoli e Cavour, nei casi del risorgente murattismo, nei plebisciti: ma non v'è mai una attribuzione di meriti, nè alcuna personale iattanza. Quel che gli dà soddisfazione è sentirsi al centro di quelle manovre. Ma ciò che colpisce il lettore è la precisione di dettaglio, la frastagliatura dei pensieri e delle espressioni, la duttilità della scrittura che senza sforzo registra una realtà dalle mille sfumature. Diarìo delle cento voci, è stato detto, proprio perchè Massari riesce nel miracolo di far parlar tutti, di riportare il pensiero di tutti, collocando ciascuno nel suo ruolo, grande o piccolo, importante o insignificante, in un grande affresco: il Re, impaziente, rude, generoso, galantuomo; Cavour, duttile, abile, epperò egli pure impaziente e a volte furioso; Napoleone III, ambiguo, tutta grandeur, da prendere con le pinze: Plon Plon, cioè il principe Girolamo, fatuo e gonfio di vanità: D'Azeglio, simbolo vivente dell'establishment pie26 montese, non senza le civetterie e le originalità dell'artista; Torino, ora fredda, ora composta, ora consapevole ed orgogliosa del ruolo che veniva assumendo: a sentir Brofferio, una città dove si viveva «fra una pagina di Plutarco ed una favola di Esopo» (Diario, 70); La Marmora, il militare duro ma galantuomo «che ha cuore italiano e testa piemontese» (Diario, 328); Ricasoli, il barone di ferro; l'ambiente inquieto dell'emigrazione; quello attento e percettivo delle ambasciate e dei salotti. Ogni pagina è un frammento interessante e cangiante di quel vario caleidiscopio, tanto che una esemplificazione, anche larga porterebbe ad un impoverimento. Di tutto quel complesso disegno però Massari non conosceva tutto. Cavour, forse conoscendo le sue preclusioni anti-garibaldine, gli nascondeva molte cose su Garibaldi, sulla Società Nazionale, sulle mene per manovrare i plebisciti. Insomma se ne serviva come di segretario per certe cose e non per altre. D'altro canto è nota la battuta che Cavour avrebbe avuto segreti anche con se stesso. Per tornare però allo stile ed alla concitazione densa del diario, non va passato sotto silenzio certa laconicità, propria della scrittura del genere, e soprattutto l'uso accorto di certe domande, di certa forma interrogativa, efficacissima per esprimere impersonalmente, ma non tanto da non adombrare coinvolgimenti personali, l'indirizzo politico e di opinione pubblica, la problematicità delle cose. Insomma, il libro di uno scrittore diplomatico, com'è nella tradizione migliore di certa nostra diplomazia, sul quale si dovrà forse tornare, e non solo per interessi d'ordine storico-politico. Con gli avvenimenti napoletani del '60, mentre De Sanctis andava a Napoli e assumeva incarichi nel governo provvisorio, Massari, con Mancini e Scialoja rimaneva a Torino per maggiore informazione di Cavour. Raggiunta infine Napoli, collaborò attivamente al nuovo giornale «Il Nazionale», sostenendo la soluzione unitaria sabauda. Ne era assertore convinto, non dovè far forza a se stesso. Quella monarchia borbonica gli sembrava ormai irrimediabilmente compromessa e indegna di regnare. Aveva conosciuto da vicino altri modelli, ai quali ormai si manteneva fedele con piena lealtà. Al primo Parlamento, unitario, con Bonghi, Carlo Poerio e Mancini rappresentò il Mezzogiorno sui banchi dei governativi. Da allora, quasi ininterrottamente fu deputato pugliese, fino alla fine. Nel '61 pronunciò un importante discorso sulle cose di Napoli, adoprandosi per la soppressione della Luogotenenza. Ma è del '63 il suo atto parlamentare più importante. Con l'aggravarsi della piaga del brigantaggio, di fronte a incomprensioni, 27 durezze di giudizi e comportamenti ingiusti (la legge Pica sulla repressione è di quello stesso anno), nella divisione degli animi, volle partecipare ai lavori della Commissione dì inchiesta nominata dal Parlamento, e ne fu relatore, insieme all'on. Castagnola. Quella relazione che lesse in Comitato segreto della Camera nelle sedute del 3 e 4 maggìo 1863 è consegnata alla storia e alla letteratura polìtica italiana di queì difficili anni unitari e alla storia del Mezzogiorno 26. Profondità di diagnosi, esame delle cause remote e recenti, invocazione di rimedi che non fossero soltanto di polizia. In lui, che pure verso il Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in ogni occasione le manchevolezze e la fredda partecipazione al processo unitario, agiva questa volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di un malgoverno remoto nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili, l'«inveterata corruzione del governo e della burocrazia», le complicità, l'omertà, sollecitata, le connivenze, alimento incessante di malessere e malcontento. Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state poi alla base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si può richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del cafone tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso sospinto sulla strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate repressioni, che portavano a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche per reati minori, provocati chiaramente dall'indigenza delle popolazioni. Massari era per una linea ferma, senza cedimenti, ma che si preoccupasse innanzi tutto di rimuovere le cause di quella ìnquietudìne, non legittimando la convinzione largamente diffusa nel Mezzogiorno avvezzo a dominazioni straniere, che «il Governo in se stesso fosse una potenza nemica, da cui era da attendersi ogni male» - come ebbe a scrivere nel suo discorso Silvio Spaventa. In Massari si può rilevare anzi una coincidenza con la posizione di Nievo espressa qualche anno prima dallo scrittore friulano nel Frammento sulla rivoluzione nazíonale27rimasto lungamente inedito, e dunque sconosciuto al Massari: in entrambi gli scritti la convinzione che per liberare dalle suggestioni di Vandea e di reazione le masse contadine, e per legarle agli interessi progressisti della rívoluzione liberale, fosse innanzi tutto da risolvere la questione economica delle loro condizioni di vita, che voleva dire poi la questìone 26 - G. MASSARI, Il brigantaggio nelle provincie napoletane cit., Napolí, Staperia dell'Iride, 1863. 27 - I. NIEVO, Frammento sulla rivoluzione nazionale, in Opere, a cura di S. Ro- 28 della terra. Innanzi tutto, prima ancora di ogni programma pedagogico e di istruzione obbligatoria, destinato altrimenti a cadere nel vano. Può essere interessante notare come in quegli stessi anni in cui da parte degli intellettuali meridionali di orientamento hegeliano, De Sanctis, Villari, De Meis, Spaventa, cominciasse a porsi le basi teoriche di uno stato etico, in uno sforzo di pedagogia politica che sarebbe rimasto il più ambizioso in quel primo decennio di vita nazionale, da parte di Massari (e dell'inedito Nievo) venisse una esortazione prammatica, un richiamo al porro unum di un minimo di benessere ineludibile (ed ahimè ancora una volta eluso) nella decisione politica. Gli anni di quei decenni Massari li impiegò in una instancabile attività parlamentare e di scrittore. «Poco curante delle clientele e degli interessi locali secondo lo descrive Spaventa - aveva il senso del ridicolo e della vanità degli uomini, sdegnava la volgarità»28. Non richiese nessuna carica governatica. Fu a lungo segretario della Camera e ne organizzò i lavori. I suoi interventi, qualche volta di tono severo e solenne, non furono mai mossi da interessi di provincia. Nelle battaglie per le leggi anticlericali la sua coscienza religiosa lo portò ad esser tiepido e misurato. La Camera si servì sovente della sua capacità di scrittore/diplomatico nell'affidargli incarichi di indirizzi a Sovrani e di commemorazioni. Nel progressivo sgretolamento del mito piemontese corroso dalle polemiche regionalistiche e dalla politica trasformista, Massari fu tra i pochi a rimanervi fedele, e negli anni in cui esso non poteva evidentemente ìncarnarsi nel «vinattier di Stradella»/De Pretis, riproponeva i suoi eroi, scrivendone le biografie: Cavour, Vittorio Emanuele, La Marmora. Certo non erano biografie, come oggi si dice, critiche. Erano larghe di aneddoti, ma riuscivano non di rado a centrare la fisionomia dei personaggi. Quella di Vittorio Emanuele, soprattutto, succosa e colorita, ricca di informazione, di battute, di aneddoti quasi sempre di prima mano, con il contrappunto talora ironico, altre volte ammirato, di personaggi stranieri, Napoleone III, la regina Vittoria; un libro di gradevole lettura, del quale, credo, abbiano fatto tesoro, senza citarlo, molte più recenti e celebrate biografie. Negli ultimi anni viveva a Roma, in una stanza a pigione di un vecchio quartiere centrale, in via Monterone. I mesi della malattia che lo portò alla morte furono penosi. Era incredibile che un uomo MAGNOLI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 1079-1081. 28 - S. SPAVENTA, Discorso commemorativo, in I casi di Napoli, cit., p. LXXXIII, segg. 29 sempre al centro degli avvenimenti nazionali fosse in condizioni di tanta povertà. Morì in casa di amici che gli avevano offerto provvisoria e più decorosa dimora. Prima di morire ricevè tutta la Roma politica che andava a chiederne notizie. E tutti si ritrovarono a seguirne le spoglie in quella giornata di marzo del 1884 quando venne meno. I grandi padri della patria erano già scomparsi tutti ad uno ad uno, Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini, D'Azeglio, De Sanctis. Veniva meno anche Massari, di tanto più modesto di quelli, ma della stessa dirittura e disinteresse: ormai una sopravvivenza del passato per l'Italietta e l'Italiona degli scandali bancari, delle speculazioni edilizie e delle imprese industriali; una sopravvivenza scomoda, da cancellare, anche se con onori e commosse commemorazioni, come per un resistente rimorso, o, più probabilmente, per una cinica simulazione. Il mito piemontese a livello politico avrebbe dovuto attendere Giolitti per riproporsi ad una certa statura; ma solo dopo le fucilate di Milano e il regicidio di Monza. E non senza ombre e riserve di giudizio. Ma ormai il Piemonte aveva altre forze di suggestione per il Mezzogiorno d'Italia, anche queste non prive di insidie e di attrito, come la storia del nostro secolo s'è incaricata di mostrare. MICHELE DELL'AQUILA 30