Intellettuali meridionali esuli in Piemonte del decennio 1849/59

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Intellettuali meridionali esuli in Piemonte del decennio 1849/59
INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE
NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI
Può sembrare irriverente chiamare in causa Hegel e le sue «astuzie della
storia», e retorico affermare, dopo tanta passione e sanguinose vicissitudini, che
dalle grandi sventure possono scaturire felici svolgimenti, che « le guerre e le
rivoluzioni - come scriveva il filosofo di Stoccarda - non debbono considerarsi
come male assoluto nè accidentalità semplicemente esteriore », ma, come ogni
rivolgimento, hanno significato in ciò, «che per loro mezzo la salute etica dei
popoli è conservata come il movimento dei venti preserva il mare dalla
putrefazione nel quale lo ridurrebbe una quiete durevole». Retorico ed
irriguardoso, fuori dalla organicità di quella riflessione sulla storia degli uomini,
fuori di quella tensione conoscitiva del senso profondo ed unitario delle cose.
Ma è un fatto sotto gli occhi di tutti che quel tanto o quel poco di
integrazione reale tra Nord e Sud, tra Piemonte e Mezzogiorno, tanto sul piano
della cultura che su quello della reciproca conoscenza e stima, e perfino dei
rapporti umani e della progettazione e modello politico, sia in gran parte
venuto, nei casi della vicenda risorgimentale ottocentesca, dalle grandi
migrazioni seguite alle rivoluzioni represse del '99, del '20-21 e del '48.
Certo v'era stato l'Illuminismo, fiorente nel Mezzogiorno come nella
Milano teresiana e giuseppina o nella Toscana granducale e nei ducati padani; e
perfino nel Piemonte, che si teneva in qualche modo al modello
prussiano-federiciano, meno che nel rapporto con gli intellettuali, data la scarsa
udienza di cui godevano i suoi Vasco,
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i Radicati, e più tardi, non molto più ascoltati, i Denina e i Caluso; sospinti anzi,
almeno i primi, alla dissidenza e all'utopia; e nonostante la decennale
presenza/prigionia di un Giannone: anche questo un innesto doloroso,
rapportabile alle già ricordate astuzie di questa infaticabile rimescolatrice che è la
storia.
Epperò, nonostante gli scambi, che furono intensi e continui nell'arco di
tutto il Settecento, secolo di viaggi, frequentazionì, conversazioni e commerci
umani per eccellenza, la vicenda culturale e politica italiana rimaneva aggregata
entro ambiti definiti e sostanzialmente «separati», corrispondenti alle regioni
storiche, che erano poi anche gli Stati, politicamente distinti e talvolta «distanti»
per ragioni ideologiche o di politica generale, oltre che tariffaría e doganale; con
non poca conseguenza sul commercio delle idee e dei libri, come gli studi
recenti di Berengo hanno chiarito 1.
Sicchè, nonostante tutto, il rapporto unitario, che pur in qualche modo si
riusciva a costituire, rimaneva affidato tradizionalmente alla conversazione e allo
scambio epistolare dei dotti, dei letterati o scienziati o filosofi, economisti e
studiosi di statistica e riformatori, certamente impegnati in un discorso
sovraregionale di ambito più vasto ed unitario, ed anzi, ben collegati con
gl'intellettuali europei dei centri di più vivace cultura. In tal senso ce li rivelano
l'epistolario magliabechiano ricchissimo del primo Settecento e gli altri epistolari
e diari di viaggio della seconda metà del secolo.
Ma v'era pur sempre il limite della oggettiva condizione politica,
l'orizzonte angusto degli Stati, che si fa sentire come una barriera, qualche volta
oppressiva, all'ansia di europeismo dell'intellettuale settecentesco. Alfieri, ma
non solo lui, in questo senso costituisce riferimento eloquente. E v'erano, a
frapporre diaframmi, i particolari rapporti con il Potere, la specificità delle
situazioni, le censure, le polizie.
D'altro canto è questo poi il senso della tradizione o linea di tendenza o
carattere particolare delle diverse «culture»: stratificazioni determinate dalla
storia, risultato di essa; ma, a loro volta, condizioni agenti, talora senza riparo,
sui suoi svolgimenti di breve o di medio periodo.
Non dirò quanto abbiano influito le vicende della migrazione seguita al
1799 nel far conoscere e fruttificare nella Lombardia le novità della cultura
napoletana del primo e del secondo Settecento. Si tratta di cose ben note.
La presenza fisica, protratta nel tempo, non occasionale, di uno o di
molti, e le cause che la resero necessaria e la passione che
1. - M. BERENGO, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino,
Einaudi, 1980.
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l'animò: son tutte cose che possono assai più, determinando un vero e proprio
salto di qualità nei rapporti tra due culture, di quanto non possa la lettura di un
libro o un viaggio o un carteggio anche fitto e non superficiale.
Nè dirò del flusso migratorío successivo agli avvenimenti del fallito
esperimento costituzionale napoletano del 1820-21, che portò la generazione
dei Troya, dei Blanch, dei Pepe, dei Baldacchini, dei Bonghi, a restituire quasì
alla Toscana gli apporti settecenteschi dei vari Tanuccí e Bartolomeo Intíeri,
venuti nel Sud per avvenimenti meno tempestosi.
La «grande migrazione», come è noto, fu quella del decennio 1849-59,
quel decennio dominato dalla figura e dall'opera di Cavour, in cui il Piemonte si
offrì come l'unico polo possibile (e rassicurante) della rivoluzione italiana
trasferita sul terreno della diplomazia europea; l'emigrazione politica da ogni
parte d'Italia e dal Mezzogiorno fu massiccia e qualificata, e contribuì non
poco, sia pure attraverso spinte di segno diverso, e non di rado tra irrequietezze, polemiche ed incomprensioni, alla risoluzione risorgimentale. Certamente
ad una maggiore e positiva « comprensione » di culture e mentalità diverse.
Erano in molti, in quella Torino degli anni '50 in cui, nella garanzia di un
Re Galantuomo, la cui fermezza costituisce un merito che non riesce appannato
da debolezze o rozzezze di sorta, politici illuminati e lungimirantí si sforzavano
di piegare le resistenze di una aristocrazia ancien régime recalcitrante ai rischi
dell'avventura rivoluzionaria, sia pure nella riduzione diplomatica del progetto
cavourriano.
Erano in molti, diversi, sovente in disaccordo tra loro, ispidi, diffidenti,
orgogliosi nella povertà, scomodi i più, guardati con sospetto anche negli
ambienti liberali.
Ma negli attriti di una convivenza imposta dagli eventi e non sempre
gradita dagli uni e dagli altri, quell'incontro fu certamente uno dei fatti più
positivi per la cultura e direi per la stessa Nazione ìtalìana, che vi ebbero un
fruttuoso momento di confronto, ricevendone ciascuno positive conseguenze e
conservandone i frutti.
Sulla influenza della filosofia napoletana in Piemonte e sul giobertismo
nel Mezzogiorno ha scritto con ampiezza di informazione Oldrini, e sarà dato
anche in questa sede di ritornare sull'argomento 2.
2 - G. OLDRINI, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari, Laterza, 1973;
ed il precedente volume antologico Primo helegelosmo italiano, Firenze, Vallecch 1969. Al
riguardo si veda, tra l'altro, lo studio di M. SANSONE, La letteratura a Napoli dal 1800 al
1860, nel vol. IX della Storia di Napoli, Napoli, 1972; ed il mio studio, M. DELL'AQUILA,
Critica e letteratura in tre hegeliani di Napoli, Bari, Adriatica, 1969.
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Ma direi che, oltre la sfera filosofica, la cultura in generale e i modelli di vita
dell'ancor chiuso Piemonte subalpino uscirono rinsanguati dall'apporto di tante
esperienze e passioni; le egemonie politiche e i modelli pedagogici non sono
casuali: trovano nella storia le loro motivazioni e radici. Dall'altra parte, infatti,
quella società e quel modello di vita venne proponendosi, proprio in quegli anni
con evidenza, nei suoi valori più alti, ch'eran poi proprio quelli più quotidiani e
modesti, di ordine, tenacia, fermezza, probità: fino a giustificare un
«piemontesismo» non solo come ideologia politica, ma come modello
pedagogico per quella stessa generazione, una volta fatta l'Unità.
Forse non si è riflettuto abbastanza sulla considerazione che le basi, se
non culturali, direi comportamentali dell'ambizioso progetto di pedagogia civile
elaborato dagli hegeliani di Napoli, da Bertrando Spaventa a De Meis a De
Sanctis, dopo l'Unità, lo Stato etico mutuato da Hegel, ma esemplato, si è detto
da molti, sul modello prussiano-bismarkiano, anche per il forte fascino
esercitato da quel referente negli anni '70 - è stato concepito ed è venuto
rafforzandosi nei suoi teorici proprio in Torino, ove erano tutti in quegli anni
'50: nella considerazione e nell'ammirazione di quelle virtù di popolo e ordinata
amministrazione di governo, dello Stato e della vita piemontese, prima che
germanica e prussiana.
A misurare la partita doppia di quell'incontro non facile, in cui non
mancarono gli ostracismi e le preclusioni (basti pensare al mediocre e pressochè
anonimo Capellina preferito al De Sanctis per l'insegnamento universitario
torinese); ma vi furono le integrazioni e l'attento ascolto (ancora De Sanctis e
molti altri collaboratori apprezzati del «Cimento» e delle altre riviste e fogli
torinesi di quegli anni); a misurar quella partita doppia non basterebbe un libro,
e molti ne sono stati scritti.
V'eran molti meridionali in quella emigrazione. Faremo solo qualche
nome: Pasquale Stanislao Mancini, Antonio Scialoja, De Meis, il barone Carlo
Poerio, Bertrando Spaventa e il Conforti, e il Bonghi, De Sanctis, D'Ayala,
Tommasi, Paolo Emilio e Vittorio Imbriani, Diomede Marvasi, Antonio
Ciccone; l'elenco non si ferma qui; e fra i pugliesi Giuseppe Del Re, il terzo di
«una famiglia di patrioti» come ebbe a definirla il Croce, presenti nelle
rivoluzioni di Napoli dal '99 al '21, al '48; ed ora, questo Giuseppe, già editore
apprezzato in Napoli, ove lo si ricorda per gli eleganti volumetti dell'«Iride», ed
in Torino editore e collaboratore di riviste, apprezzato per i suoi studi sulla
lirica tedesca, oltre che generoso benefattore di esuli, fino alla rovina
economica; e Giuseppe Pisanelli, Luigi Zuppetta, e Giuseppe Ricciardi,
fondatore e direttore in Napoli nel '32 del «Progresso», la più moderna ed
europea delle riviste napole4
tane degli anni della « rinascenza » ferdinandea, esule poi a Parigi e a Ginevra3
Tra gli altri, Giuseppe Massari4 , di cui ci limiteremo a dire, quasi un caso
esemplare tra tutti, nei meriti e nei limiti: il segretario di Cavour negli anni
decisivi dell'impresa unitaria, il redattore-direttore in Torino della « Gazzetta
Ufficiale » l'amico/discepolo di Gioberti, riordinatore delle sue carte, editore
delle sue cose inedite, messaggero della sua filosofia nel Mezzogiorno; il
biografo di Cavour, di Vittorio Emanuele e di La Marmora; il relatore della
prima inchiesta parlamentare sul brigantaggio nelle provincie merìdionali:
insomma un pugliese/piemontese (con trascorsi napoletani, parigini e fiorentini)
ottimista ed operoso, fiducioso in quel «piemontesismo» che aveva in quegli
anni il suo momento di forte suggestione, prima che risultasse deteriorato,
anche come termine, nelle delusioni e nelle polemiche aspre del «dopo».
Un moderato: giobertiano/cavourriano/cattolico/liberale, con trascorsi
giovanili (appena un momento) mazziniani, largamente emendati da una lunga e
ferrea fedeltà al partito della ragione, dell'ordine, della costituzione.
Non sembri una contraddizione: le radici cattoliche e la vocazione
liberal/risorgimentale in molti, come in lui, ed anche oltre gli anni giobertiani e
di Pio IX, risolvevano possibili contraddizioni in una empirica volontà di
unione, di concordia, di azione disciplinata, che troncava alla radice ogni
divergenza ed antinomia. In Massari una tale inclinazione sembrava essere più
forte perfino della sua non comune cultura ed esperienza politica, che
dovevano inostrargli quanto intricata fosse la matassa dei consensi e delle
convergenze.
Perciò fu nemico delle sette, nelle quali vedeva la negazione della
concordia; e poi, senza ombra di sospetto, di mazziniani e garibaldini, nei quali
vedeva pericolosi guastatori dell'opera sagace di Cavour.
3 - Per alcune linee di svolgimento della cultura pugliese tra Sette e Ottocento
rimando alla bibliografia contenuta in alcuni miei studi, M. DELL'AQUILA, Per una storia
della cultura pugliese tra Sette e Ottocento, in "Lingua e storia in Puglia", VIII (1980) e La
cultura nell'Ottocento, in AA.VV., Storia della Puglia, II, Bari, Rai-Adda, 1979; ed i saggi
raccolti nel vol. Humilemque Italiam. Roma, Bulzoni, 1985.
4 - Si rimanda innanzi tutto agli scritti di Massari, che sono disseminati in decine di
giornali e riviste cui collaborò in Italia e in Europa, alcuni dei quali ricordati in questo
scritto. Poi alle lettere, anche queste numerosissime, migliaia, molte delle quali ancora
inedite o non identificate, giacenti in fondi privati e pubblici di biblioteche e archivi.
Massari, com'è noto, fu in corrispondenza per ragioni culturali o politiche con moltissime
personalità italiane ed europee.
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Un esempio di quanto fitti possano essere stati questi carteggi, è fornito dal volume Gioberti-Massari. Carteggio (1838-1852), pubblicato e annotato da G. BALSAMO CRIVELLI Torino, Bocca, 1920; e dalle sue Lettere alla marchesa Arconati Visconti, pubblicate
con assai minor precisione e perizia, Bari, Accolti, 1921.
Saggi delle corrispondenze di Massari sono stati pubblicati in riviste varie: per
esempio, alcune lettere tra Bonghi e Massari, a cura di G. Infante, in "Japigia" XV (1944)
pp. 12-34 e 84-103; ventiquattro lettere di Massari al De Mazade, pubblicate da Maurizio
Visconti nell'Annuario del Liceo-Ginnasio "P. Colletta” di Avellino, nel 1932; una serie di
lettere tra il Massari e G. Pepe, pubblicato da G.M. Monti nell'Archivio storico
calabro-lucano", 1937, 1-2; una serie di lettere di Massari a Guglielmo Libri, a cura di E. De
Carlo, in “Japigia” VI (1935), pp. 184 segg.; un carteggio con i toscani C. Ridolfi, U.
Peruzzi. L. Galeati, V. Salvanoli, etc.
Massari, che in vita ebbe tanta cura delle carte altrui (riordinò, com'è noto, l'autobiografia di G. Pepe rivedendone la forma per incarico dello stesso generale; pubblicò
scritti di Gioberti; avviò l'edizione dei discorsi parlamentari di Cavour; etc.) non ebbe la
fortuna di avere riordinatori ed editori che si prendessero buona cura delle sue cose. In
qualche caso l'entusiasmo di alcuni produsse danni e richiese successivi faticosi interventi
riparatori.
Tutte le sue carte, almeno non disseminate qua e là e andate disperse, le lasciò
morendo all'amico Emilio Visconti-Venosta che in seguito, per consiglio di Silvio
Spaventa e di Raffaele De Cesare, le consegnò a Giovanni Beltrani che prometteva una
edizione del Diario, uscita poi successivamente nel 1927 e nel 1931.
Secondo Omodeo (Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951, p. 584) sarebbero andate disperse non poche carte ed un intero quaderno del Diario, che risulta infatti
lacunoso per il periodo dal 24 marzo al 19 settembre 1860.
Ora quel manoscritto, escluso il predetto quaderno ancora disperso, e molte altre
carte e lettere sono nel museo Centrale del Risorgimento di Roma, mentre altre lettere ed
autografi sono sparsi nel Museo del Risorgimento di Torino, Milano e nelle biblioteche
Nazionali di quelle città, di Firenze, di Napoli, di Roma e di Bari.
I tre articoli sull'Introduzione allo studio della filosofia, scritti sotto l'impressione della
lettura de La teorica del soprannaturale del Gioberti, che è fra i suoi primi scritti, sono ne “Il
Progresso” di Napoli, 1841 (XXIX), pp. 5-32; 165-181; e 1842 (XXX), pp. 5-22.
Il libretto I casi di Napoli dal principio del 1848 al novembre del 1849 fu pubblicato in
Torino presso Ferrero e Franco, 1849 ed in seconda edizione, arricchita dai due discorsi
commemorativi sul Massari, letti in Bari da Silvio Spaventa (20 sett. 1885) e da Raffaele De
Cesare (29 ottobre 1894), Trani, Vecchi, 1895.
Massari curò anche la pubblicazione, del suo Gioberti, delle Operette politiche,
Torino, Daelli, 1850, con un Proemio al secondo volume in cui Massari meritava la
commossa riconoscenza del filosofo; e delle Opere Postume.
Del Carteggio Gioberti-Massarì pubblicato da G. BALSAMO CRIVELLI, Si è già
fatto cenno.
Le lettere del Gladstone sul malgoverno napoletano furono da Massari tradotte e
raccolte in un volumetto dal titolo Il Sig. Glandstone e il governo napoletano, Torino, De
Lorenzo, 1851.
Il secondo scritto del Glandstone, in risposta ai tentativi di confutazione del governo napoletano, fu tradotto da Massari pubblicato in un opuscolo dal titolo Esame della
risposta ufficiale del governo napoletano del molto onorevole Guglielmo Gladstone, Torino, De
Lorenzo, 1852.
Il rapporto sul brigantaggio, oltre che negli Atti parlamentari, fu pubblicato con il
titolo Il brigantaggio nelle provincie napoletane. Relazioni fatte a nome della Commissione
d'inchiesta della Camera de' Deputati da G. Massari e S. Castagnola, Napoli, Stamperia
dell'Iride, 1863.
Del Diario esistono le seguenti edizioni a stampa: una parziale, pubblicata a cura di
G. Beltrami sotto gli auspici del Comune di Bari, con il titolo Diario politico di G. Massari
dal 2 agosto al 31 dicembre 1858, Bari, Accolti, 1927; una completa, a cura dello stesso G.
BELTRAMI, Diario 1858-1860 sull'azione politica di Cavour, Bologna,
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Un politico al centro dì moltì avvenimenti. Ma forse più veramente un
collaboratore ed esecutore di funzioni politiche e diplomatíche. Un uomo di
lettere, colto, fine, senza iattanza. Un oratore: non privo di ímpennate retoriche
e di toni elevati, lui, così misurato nella scrittura. Un gìornalista: questo sì, senza
dubbio di notevole levatura e instancabile attività, passato attraverso esperienze
molteplicì, ìn dìversissimi ambienti, nei quali subito riusciva ad avere
conoscenze, accesso, accoglienza. Operosissimo, tenuto caro da quanti ebbero
a servirsene. Riservato, preciso, efficiente, onesto fino allo scrupolo,
poverissimo, senza ambizionì che non fossero di collaborazione e di servizio.
Spentosi in casa d'altri, senz'altra eredità che un fascio di carte e pochi librì.
Ce n'era abbastanza per una gloria, magari un po' di maniera, in positura
rigida, corre tuttì queì «padri della patria» che i segreti complessi di colpa delle
generazioni seguenti, scivolate nel compromesso e peggio, hanno confinato
nelle piazze e sulle lapidi, in positure sforzate, difformi dalla loro più vera e
umana natura; e li rìtrovìamo con difficoltà, oltre quella crosta, e facciamo
fatica, quando ci ricordiamo di essi, a sentirli vicini.
Anche Massari, naturalmente, ha monumentato in Bari, e íntestata una
piazza centrale, e una lapide nell'Università, dettata dal
Cappelli, 1931: l'una e l'altra con molte interpretazioni del manoscritto frettolose ed
arbitrarie, che fecero auspicare all'Omodeo e ad altri una edizione più accurata; la quale è
stata fornita dalla EMILIA MORELLI, Diario dalle cento voci 1859-1860, Bologna, Cappelli,
1959. Alcuni stralci del Diario aveva pubblicato A. Luzio nel vol. Aspromonte e Mentana.
Documenti inediti, Firenze, Le Monnier, 1939.
Massari fu anche autore, com'è noto, di tre biografie: Ricordi biografici del Conte di
Cavour, Torino, Eredí, Botta, 1873; La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, 2 volte, Milano,
Treves, 1878; Vita del generale Alfonso La Marmora, Firenze, F. Barbera, 1880.
I discorsi parlamentari di Cavour, che pure prese a raccogliere per una vagheggíata
pubblicazione, rimasero per via. Penserà poi, in altra epoca, Adolfo Omodeo a pubblicarli.
I suoi discorsi ed interpellanze parlamentari sono negli Atti della Camera dei Deputati, ove sedette ininterrottamente dal 1861 fino all'84, anno della sua morte, con
l'eccezione della XIII legislatura, nelle file dei moderati.
Massari fu autore anche di un breve scritto autobiografico relativo ai suoi primi
anni di studio e di formazione, dal titolo Il primo passo, pubblicato in un volumetto della
"Domenica letteraria".
Una raccolta delle sue commernorazionì e profili è stata pubblìcata da G. INFANTE, Uomini di Destra, con Prefazione di A. Luzio, contenente scritti rnassariani su P. Rossi,
G. Berchet, Gioberti, Balbo, Siccardì, D'Azeglio, C. Poerìo, Ricasolì, Lanza, etc., Bari,
Laterza, 1934, pp. XVI-173.
Le commemorazioni fatte alla Camera, nel 1884 in atti parlamentari, VX leg. 1ª
sess. pp. 6993-7001; le commemorazioni di M. Minghetti, Bologna, 1884; di Q. Leoni,
Roma, 1884; Viterbo, in Uomini di Puglia, Martina Franca, 1916, pp. 57-71; G. M. MONTI,
Per la storia dei Borboni di napoli e dei patrioti meridionali, Trani, Vecchi, 1939; E. De carlo, M. e
Cousin, in "Japigia" VI (1935) pp. 453-457.
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Fornari, in cui lo si ricorda per «precoce ingegno/precoce ardente
indomito/amore di patria/proscritto/esule due volte/deputato al
Parlamento/aiutò coi libri/con la fluida ornata parola/con la vita irreprensibile/la risorgente nazione/ e le conciliò il favore dell'Europa civile ... ».
Si ebbe giudizi lusinghieri da Gioberti e da Cavour; dal prìmo anche una
riconoscente amicizia e un fitto carteggio, dal secondo se non proprio i segreti
della politica, la confidenza e la fiducia in missioni di grande delicatezza. L'uno
e l'altro seguì, e quasi idolatrò, facendosene una bandiera, insieme al Berchet e a
Pellegrino Rossi: questi ultimi, però, su un piano diverso, più vicini agli anni suoi
giovani.
Raffaele De Cesare in un suo discorso commemorativo usò molte
parole sopra tono nel lodarlo; ma in un passaggio, quando lo ritrae giornalista
politico, enuncia con corrispondenza al vero come Massari, a parte di tanti
segreti del «palazzo», intendesse quella professione: «un'alta missione civile, che
richiede cultura, coerenza di principi, schiettezza di convincimenti e discrezione
grande»5.
Aveva ragione Lord Hudson, l'ambasciatore inglese a Torino, nel
definirlo « a common friend with brains and without tongue »: un amico dì
molti, con cervello e senza lingua: un complimento, secondo annotava lo stesso
Massari che «m'andò molto a sangue» (Diario, 3).
Silvio Spaventa, in altra commemorazione precedente aveva già toccato
di quella sua professione gìornalistica esercitata su autorevoli fogli d'Italia e
d'Europa, affermando che la parte migliore della sua vita «fu tutta spesa nella
difesa della causa italiana e della politica del Piemonte immedesimata con
quella»; e che le collaborazioni alla «Rassegna politica mensile», al «Cimento» e
alla «Rívísta contemporanea », tra il '54 ed il '60, offrono « il primo saggio in
Italia di letteratura politica di simil genere... un commento assai utile alla politica
dei Conte di Cavour, e come una ripercussione che questa trovava nella parte
più colta del paese, e giovò molto a farne apprezzare la grandezza e chiarirne
gli intenti, anche fuori d'Italia»6.
Tutti, anche i più severì nei suoi confronti, gli riconobbero questi meriti
di pubblicista della causa d'Italia, e di esser stato intermediario utilissimo tra
dirigenza e opinione pubblica, tra dirigenza
5 - R. DE CESARE, Discorso commemorativo, nel vol. di G. MASSARI, I casi di Napoli, Trani, Vecchi, 1895, p. XXVI.
6 - S. SPAVENTA, Discorso commemorativo, nel vol. I casi di Napoli, cit. p. LXIII. Per
questo discorso sembra che lo Spaventa abbia avuto la collaborazione attiva del giovane
nipote Benedetto Croce, allora diciannovenne, ma già nutrito di studi storici ed eruditi.
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e diplomazia, e tra uomini politici diversi, spesso distanti, quali Cavour e
Ricasoli, La Marmora, gli ambascíatorí in Torino, l'opinione liberale in Firenze
ed in altre città, l'inquieto mondo della emigrazione.
E così la sua socievolezza, la capacità di far filtrare una notizia «al
momento gìusto e alla persona giusta», l'assoluto disinteresse, l'efficienza del
perfetto segretario, vuoi d'un politico, vuoi d'un filosofo. La vasta cultura,
l'oratoria forbíta, la conversazíone piacevole, la misurata scrìttura, sia dì
giornalista che dì biografo, tanto più quando c'era da dir cose, non parole, c'era
bisogno di precisione e duttilità: la Morelli giustamente fa rivelare che nel Diario
«anche nella sua parte buttata giù di fretta, sera per sera, mai una svista, una
ripetizione, un periodo lasciato a metà»7; la incapacità, rimasta proverbiale, e
perfin derisa con una punta d'ironia, di richieder cariche o posti di potere.
Naturalmente v'eran le voci che mettevano in luce altri aspetti, non
sempre positivi, con ironia e sufficienza, che qualche volta era malanimo: il suo
esser contento dei larghi sorrisi di tutti; l'instancabile e soddisfatto scendere e
salir scale di ministeri, ossequiato da uscieri e funzionari; il suo esser servizievole
«al di là che non glielo chiaggano» (Petruccelli della Gattìna, I moribondi di palazzo
Carignano, Milano, Perelli, 1862, pp. 97-98); la sua devozione, sempre «
platonica » per le signore - eccetto la giovanile infatuazione un po' burrascosa
per la Belgioioso a Parigi; l'esser la «chítarra del ministero» (Diario, 63) o «il
pappagallo di Gíoberti»: cose tutte di cui nel suo cuore schietto si rideva.
Ed ancora certe strettezze e limitazioni di orizzonte politico, da cui pure
avrebbero dovuto salvaguardarlo la cultura e l'esperienza di vita,
l'anti-mazzinianesimo e l’anti-garibaldismo viscerali che gli facevano veder rosso
non solo ogni rivoluzionario, ma ogni «genovese», fino a chiedersi, tra il serio e
il faceto, ma piú sul serio, se Cavour potrà far mai il miracolo di farli «diventare
buoni Italiani» (Diario, p. 83).
E forse proprio conoscendo certi suoi limiti e antipatie. Cavour gli
celava i suoi maneggi con Garibaldi e con la Società Nazionale -come ha
osservato bene la Morelli, la quale non manca di rilevare che quello stesso
Massari era l'uomo che s'indignava per le grettezze conservatrici di certa
aristocrazia piemontese ancien régime che poneva bastoni tre le ruote al progetto
innovativo del suo Cavour.
Talora, però, cavourrianamente aveva imparato anche lui a star « in
chiesa cò santi e in taverna cò ghiottoni », a barcamenarsi
7 - G. MASSARI, Diario, dalle cento voci, 1858-1860 introd. di Emilia Morelli, Bologna, Cappelli, 1959, p. V.
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con quei rivoluzionari, di cui «è utile servirsene»; e si troverà d'accordo con
D'Azeglio, di cui registra questa battuta su Garibaldi: «è un mastino, a cui si
deve togliere la museruola, quando deve mordere, e non tenerlo sciolto in
galleria, perchè morderà le gambe di tutti» (Diario, 426); o di Minghetti: «siamo
condannati, finchè c'è un austriaco in Italia, noi conservatori, all'alleanza coi
rivoluzionari per non lasciar a questi il monopolio dei sentimenti generosi.
Com'è dura la posizione di noi altri poveri diavoli di moderati» (Diario, 311):
quello stesso Minghetti che, scherzando, ma non troppo, diceva di pensare per
sè a questa epigrafe: «Nacque per essere conservatore, e fu condannato ad
essere rivoluzionario» (Diario, 322).
In quanto a lui, Massari, nè conservatore, nè rivoluzionario. Moderato,
moderato, fin nelle midolla. E poco incline, nonostante il patriottismo, alle
faccende ove fosse il rischio di finir arruolati, o peggio, sulle barricate o in
galera.
Della fisionomia e funzione storica di quel partito «moderato» Silvio
Spaventa ci ha lasciato una definizione che ancor oggi può far riflettere:
«Quel partito essenzialmente fu ed è, qualunque nome gli si dia, un
partito medio, proprio di quei paesi, dove gli elementi veramente conservativi
non si accordano colle nuove istituzioni dello Stato per formarne il naturale e
più sicuro puntello, e gli elementi progressivi tendono rapidamente o sono
portati al di là delle istituzioni stesse: cosicchè gli uffici di rattenere e di spingere
quanto conviene e non più di quanto conviene il moto della vita pubblica attributi opposti di due partiti organici di governo - finiscono coll'essere il
compito di un partito solo, con tutte le preminenze e le responsabilità che ne
derivano, la potenza lungamente indivisa e l'invidia inestinguibile che vi
guadagna» (Disc. commemorativo nel vol. I casi di Napoli, cit., p. LXVII).
Quando fu eletto deputato a Napoli, dopo lunghi indugi si decise a
raggiungere la città in subbuglio, tra il '48 ed il '49 « ove lo chiamava il dovere
di deputato»: la Costanza Arconati, non senza l'ironia e la sufficienza di tante
dame aristocratiche che seguon le rivoluzioni dagli osservatori dei loro salotti,
ne dava notizia ad un suo corrispondente, aggiungendo: «poverino ci va a
malincuore perchè non v'è speranza di essere utile e v'è manifesto pericolo di
essere assassinati» (Il risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi, a cura di
A. Malvezzi, Milano, Hoepli, 1924, p. 353; riportato dalla Morelli).
Ma, alla fin fine, se Massari non aveva un'anima di guerriero (e non v'era
bisogno di riprove), anche il «guerriero» Foscolo da altre dame da salotto
interessate agli eventi della rivoluzione s'era sentito dir cose simili.
10
Doveva aver avuto critiche ed attacchi ben più duri di quei pettegolezzi
dai suoi avversari politici, quale membro della «camarilla» dei governativi, se
Petruccelli della Gattina, che non aveva simpatie per essi, gli rendeva giustizia
scrivendo: «E’ l'uomo più calunniato tra i mestatori della politica governativa;
ma in verità è cento volte migliore della sua rinomanza e, comparato ad altri
della consorteria, un modello (I moribondi di palazzo Carignano, cit., pp. 97-98).
Omodeo, in tempi recenti, ebbe un giudizio piuttosto duro: parlò di
«mediocre ingegno»8: si è detto, non ebbe ingegno originale, riuscendo peraltro
buon divulgatore ed ottimo collaboratore di ingegni più vivi ed originali di lui.
Balsamo-Crivelli, a proposito delle lettere a Gioberti, da lui curate in
carteggio, dice di una «loro verbosità talvolta stucchevole»9: certo non hanno la
densità di quelle di Gioberti; ma chi parlò, anche con riferimento ad altre due
cose, di opacità della scrittura, non tenne conto, in un'opera certo diseguale, più
di giornalista, di redattore, di estensore di documenti e di rapporti e di missive,
della precisione e compiutezza del suo dettato, quasi sempre gettato giù senza la
lunga riflessione dello scrittore, della straordinaria vivacità e nitidezza del suo
Diario, veramente, come fu detto dall'Omodeo - in questo più equanime - «
dalle cento voci », per la coralità e lo sfumato del quadro della vita
politico-diplomatica in quegli anni di grandi avvenimenti, sia pure nel
particolare punto di vista.
Ma, sbozzato il ritratto, non è del valore in assoluto dell'uomo o dello
scrittore che qui si vuol dire, quanto della sua funzione difficile di tramite tra
culture diverse, tra regioni storiche diverse.
In ciò v'è chi ha avuto maggiori riconoscimenti, soprattutto
nell'emigrazione napoletana, da De Sanctis e Scialoja, al barone Poerio, a De
Meis, per dir solo di alcuni; piú di quanto non sia avvenuto di Massari, di
questo «moderato» pugliese/piemontese omologato nella sua seconda patria da
sentirla in tutto come sua: che con la sua personale vicenda s'inscrive in una
relazione Puglia/Piemonte che ha conosciuto negli aspri attriti della nostra storia
momenti di grande vivacità ed emigrazioni intellettuali, operaie, industriali e
militari, di cui non è semplice segnare la partita doppia e i cui saldi, in attivo o
in passivo, ammesso che sia consentito, andranno segnati con molta
ponderazione, senza concessioni alle facili retoriche o alle ideologie preconcette.
8 -A.OMODEO, Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951.
9- GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, a cura G. BALSAMO-CRIVELLI, Torino,
Bocca, 1920, p. XI.
11
Non traccerò la storia frettolosa della sua vita. Altri lo ha fatto: una storia
uguale a tante altre di uomini di quella generazione: studi, rivoluzione, esilio,
esperienze, varie di vita. Solo qualche punto caratterizzante ai fini del nostro
tema di riflessione: la nascita a Taranto, nell'estate del 1821, mentre andava
spegnendosi a Napoli e nel Mezzogiorno, la rivoluzione carbonara e
costituzionale.
Studi letterari e filosofici, come usava, fino a quattordici anni, nel
seminario di Avellino. I seminari allora, si sa, eran tornati a tener luogo dei
ginnasi e dei licei, in un sistema d'istruzione pubblica ritornato con i Borboni
all'antica decrepitezza, affidato in gran parte a ordini religiosi. Poi a Napoli, a
studiarvi la matematica e l'ingegneria, cui avrebbe voluto avviarlo il padre, un
ingegnere barese di ponti e strade, uno dei tanti di quella borghesia delle
professioni che veniva prendendo consistenza nel Sud, fino a risultar rappresentativa, in qualche caso, della nuova cultura, assai più viva, nella sua
specificazione scientifica e tecnica, di quanto non mostrasse sotto la crosta
filosofico-letteraria tradizionale, conformata questa, nell'imitazione tardiva di
superati modelli e movimenti.
In quella Napoli in cui s'allentavano, dopo il '30 e nei primi decenni del
lungo regno ferdinandeo i rigori della Restaurazione, e fiorivano riviste di
cultura, strenne, ebdomari; in cui lentamente, e con la necessaria cautela, sotto la
occasione della scienza e della lingua si tenevano Congressi, s'aprivano scuole e
studi privati, s'animavano salotti; ed una società «letteraria» sembrava voler
riprendere, con le remore e i ritardi di un trentennio e più, l'antico discorso
degli ammodernamenti e delle riforme interrotto nel '99 e dopo il decennio
francese: in quella Napoli in cui già v'era il De Sanctis alla scuola del Galluppi e
del Puoti; in cui l'operazione romantica, in Lombardia e Toscana, già così
moderata, o era ignorata o contrastata e fraintesa nelle resistenze di un
classicismo di maniera; il nostro Massari lasciò cadere progressivamente i
progetti paterni e poi gli studi di medicina, che pure aveva tentato, inclinando
sempre più verso occupazioni di filosofia e di letteratura.
Di quegli studi giovanili, di matematica, di scienze, doveva serbar buona
memoria, come di tutte le sue cose, se riuscì poi, negli anni dell'esilio, a
scriverne con competenza di specializzate riviste estere.
Prese a frequentare la casa dell'insigne geologo abate Teodoro
Monticelli, un altro pugliese innestato nel tessuto culturale della capitale, che era
ritrovo di molti che avevano avuto parte nelle trascorse vicende e ne parlavano,
pacatamente, come di una passata bufera.
Le pagine di un suo scritto autobiografico, Primo passo, sono ricche di
queste notazioni.
Ma i suoi interessi veri erano le lezioni di Galluppi, del quale
12
più che la filosofia aveva caro il sentimento di libertà e la difesa che ne fece in
uno scritto sulla rivoluzione del '20, dal titolo Lo sguardo dell’Europa sul Regno di
Napoli, che circolava clandestino.
Ma più ancora i poeti che avevano eccitato gli animi nel '20-21, e che ora
erano in esilio: Berchet, prima di ogni altro, del quale era lettore appassionato e
del quale intorno al '38, poco prima di lasciar Napoli, pare preparasse una
edizione alla macchia delle poesie.
Berchet era poco conosciuto a Napoli, come attesta il De Sanctís nella
Giovinezza, anche negli anni intorno al '40-42, tanto più nelle sue liriche che si
leggevano in rare copie sfuggite ai controlli della polizia10.
Massari era intanto entrato a far parte di una delle società segrete, forse
un'affiliazione della «Giovane Italia», di cui era fondatore nel napoletano
Benedetto Musolino.
Questa sua scelta giovanile, comprensibile per i tempi e per l'età in cui fu
fatta, gli sarà poi sempre ricordata da quanti non consentivano con la scelta
fatta dal Cavour, di un Massari segretario, direttore della «Gazzetta Ufficiale»
piemontese e, nel '58, Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro11.
Ma non solo dal versante dei conservatori arrabbiati quella
compromissione gli sarà ricordata. Anche Mazzini, nella vivace polemica
politica degli anni '40, attaccando la « Gazzetta italiana » della Belgioioso, di cui
era collaboratore Massari in Parigi, scrisse di «un Giuseppe Massari, napoletano,
(che) dopo essere stato rivoluzionario repubblicano, s'era fatto cattolico, senza
credere in cosa alcuna»12.
La vicenda storica avrebbe mostrato, peraltro, allo stesso Mazzini come
sovente i mutamenti sono imposti dai fatti, oltre che dagli anni, e importante è
solo conservare l'animo integro.
Lo stesso Massari, che pure in seguito fu contro le sette, e come tanti
della parte moderata - ma un tempo anche lo stesso Foscolo - vi riconosceva il
segno della discordia d'Italía, scriverà poi ripetutamente che esse, riprovevoli in
assoluto, sono state pure, in certi momenti, la via obbligata della rivoluzione.
Ma, per tornare al giovinetto infiammato di Berchet, quel momento
giovanile di studi doveva subire una brusca accelerazione: il padre ingegnere,
passato a nuove nozze dopo la morte della prima moglie, nel timore che il
ragazzo potesse cacciarsi nei guai, già se10 - F. DE SANCTIS, La giovinezza, a cura di G. SAVARESE, Torino, Einaudi,
1961. Per i riferimenti all'ambiente culturale napoletano si rimanda alla nota 3 e alla relativa
bibliografia.
11 – L’”Armonia” n. 234 del 13 ottobre 1858; citato da R. COTUGNO, La vita e i
tempi di G.M., Trani, Vecchi, 1931, p. 5.
12 - R. COTUGNO, La vita CIT., P. 6.
13
guito com'era nelle sue mosse dalla polizia, e nel timore che fosse nell'aria,
dopo l'arresto di Settembrini, una nuova repressione, con brusca previdenza
imbarcò il ragazzo sul primo battello in partenza per Marsiglia, consegnandolo
a un tempo alle durezze dell'esìlio e della indigenza, ma anche alla
sopravvivenza e alla libertà.
Marsiglia era approdo tradizionale per gli esuli.
V’era stato anche Mazzini. Ma Massari la lasciò subito per Parigi. Non
aveva diciotto anni, era privo di mezzi. Ma seppe subito entrare nel giro della
più qualificata emigrazione italìana: la Belgioioso, gli Arconati, Guglielmo Pepe
e quanti frequentano le loro case; l'ambiente era vario, spesso rissoso,
certamente vivace e polemico. Già da allora Massari avrebbe desiderato più
concordia e unità; sarebbe stata l'aspirazione costante e un po' ingenua della sua
vita.
Conobbe il conte Arrivabene, Filippo Buonarroti, Pier Silvestro
Leopardi, il Tommaseo, Filippo Canuti, il piemontese conte Giacinto Provana
di Collegno, Terenzio Mamiani, Michele Amari, Guglielmo Librì, Federico
Confalonieri, Giuseppe Ricciardi, i Salfi e ìl suo Berchet, esule anch'egli in quegli
anni; ed ancora, in quella Parigi di Luigi Filippo che registrava la ripresa della
cultura liberale e borghese, Cousin, Guizot, Thiers, Villemaine, Fauriel e gli altri
della precedente generazione romantica, i nuovi scrittori, Balzac, Hugo.
L'elenco sarebbe ancor lungo. Tra Parigi, Bruxelles, Londra, Massari
cominciava a tessere quella tela di relazioni che si manterrà viva
ininterrottamente nel tempo, con nuovi interlocutori, attraverso conversazioni,
carteggi, confidenze, che ne avrebbe fatto uno dei testimoni più informati di
quegli anni.
Si presentava come allievo del Galluppi, che lo aveva incoraggiato a
continuare negli studi, ed anche per lettera mostrava di ricordarsene e di averlo
caro13.
Erano anni anche in cui l'emìgrazione soffriva le sue pene e combatteva
le sue battaglie in quelle capitali, conquistando non poco del favore
dell'opinione pubblica europea alla sua causa. Ed anche in ciò il contributo di
Massari non risulta trascurabile.
Ma l'incontro, se così si può dire, decisivo per lui, fu con Gioberti, con
la sua Teoria del Sovrannaturale, letto, riletto, postillato, sino ad infiammarsene, e a
scrìvere all'autore, in quegli anni in esilio a Bruxelles.
Il suo stile nell'enfasi un po' foscoliana dell'esule povero e dignitoso, era
questo:
«Signore, perdonerete certamente l'ardire di un giovane a voi
sconosciuto, che spinto da riverenza singolare e da affetto per una
13 - R. COTUGNO, La vita cit., p. 9.
14
persona tanto degna quanto voi, vi dirige queste poche righe...
La mia patria è Taranto nel regno di Napoli: il mio cuore è tutto italiano
ed adusto dal desiderio di vedere un giorno tornata all'antico splendore la
sventuratissima nostra patria comune... » 14.
Gli si dichiarava ammirato e devoto. Gioberti gli rispondeva più
pacatamente, ringraziandolo ed esortandolo al lavoro, poichè «la contentezza e
la tranquillità dell'animo non consistono già nella quiete, ma nel moto, non nel
riposo, ma nelle operazioni, godere e operare sono sinonimi quaggiù ... »15.
Cominciava così un carteggio assai intenso, protratto fino al '52, ed un
rapporto di amicizia e di stima reciproco e, come sempre per Massari, di
grande e generosa dedizione. Gioberti ne metteva a frutto la memoria ed
erudizione per compilar elenchi di letterati, filosofi e uomini di cultura italiani da
includere nel suo «Primato » 16: più tardi, nel '48, Massari seguirà Gioberti nel
viaggio da questi compiuto per l'Italia, a Milano, Genova Bologna, Firenze, e
poi nel Congresso federalista di Torino, e «presterà» letteralmente la sua voce al
filosofo afflitto da laringite, nei frequenti discorsi di quegli anni.
Ma, oltre l'amicizia e la dedizione, per cui tanti aneddoti son fioriti, sino a
quello di «pappagallo di Gioberti» già ricordato, Massari pel suo Gioberti seppe
fare anche altro.
Nel 1841 apparve, infatti, nel «Progresso» di Napoli un suo lungo
articolo in tre puntate17 in cui si estendeva ad illustrare analiticamente la
giobertiana Introduzione allo studio della filosofia: una esposizione che fu lodata non
solo da Gioberti che trovava lo scritto «bellissimo, ordinato sugoso, nervoso,
voi avete perfettamente asseguito le idee di cui siete esponitore»18, ma anche da
Pier Silvestro Leopardi, dal conte Arrivabene, dall'abate Stefani e dal
Tommaseo cui parve «ordinata e nervosa», e che provocò non poco scalpore e
interesse nel mondo culturale napoletano 19.
Il «Progresso», già fondato e diretto dal pugliese Giuseppe Ricciardi,
esule in questi anni egli pure a Parigi, ed ora da Ludovico Bianchini, era tra le
più qualificate ed avanzate riviste napoletane, esemplato in qualche modo sul
modello dell'«Antologia» e della europea «Revue des deux mondes», con larghi
interessi di statistica, di agricoltura, di economia, di finanze, ma, secondo
l'indole meri14 - GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit. p. 1-2.
15 ibid., p. 8-9.
16 ibid. pp. 220, 255 e passim.
17 "Il Progresso", XXIX 6(1841) pp. 5-32; 165-181; XXX 18 pp. 5-22.
18 GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit., p. 179.
19 ibid., p. 139.
15
dionale, con una più larga inclinazione per le cose della filosofia. Vi scrivevano
con molti altri quelli che poi, negli anni '40 saranno gli hegeliani di Napoli,
Stanislao Gatti, Stefano Cusani, Giambattista Ajello, già allievi con il De Sanctis
alla scuola del Puoti, tra i giovani più vivaci del momento 20.
La filosofia a Napoli e nel Mezzogiorno era stata ferma per lungo
tempo al sensismo. Galluppi vi aveva introdotto interessi psicologici, ed era
nome chiaro in Europa, noto al Cousin, che quando il nostro Massari gli si
professava allievo, dichiarava di averlo presente e ben noto. Ottavio Colecchi,
altro maestro di filosofia, conoscitore del filone tedesco, vi aveva portato,
spiegandola nei dettagli, la filosofia kantiana. Per il resto, le novità in quei tardi
anni '30 erano appunto Cousin con il suo tentativo eclettico, per il quale si nutriva vero entusiasmo, e dopo qualche anno, i sociologisti francesi, Villemaine
innanzitutto.
Tutto questo fino agli anni '40 avanzati, quando cominciò ad essere letto
Hegel, prima negli scritti di estetica che si offrivano nella traduzione francese di
Ch. Bénard, attraverso cui li conobbe anche il De Sanctis prima
dell'apprendimento e dell'esercizio del suo tedesco nel carcere di Castel
dell'Ovo, quando gli capitò di tradurre da Hegel e da Rosenckrantz. De Sanctis,
com'è noto, negli anni dal '44 al '48 aveva tenuto scuola nel Vìco Bisi, ed aveva
applicato quella sua prima infarinatura hegeliana ai fatti della letteratura.
Ma nel '41, quando apparvero gli articoli di Massari su Gioberti, Hegel
era sconosciuto, ed era poco noto anche tutto il pensiero idealistico-romantico.
Gioberti stesso era un estraneo al pensiero meridionale, anche nella conoscenza
delle persone colte21.
E’ sintomatico di ciò una nota redazionale della rivista, premessa allo
scritto massariano, in cui si diceva di non concordare su molte idee e giudizi
relativi a persone riportate nell'articolo, in riferimento, com'è chiaro, più al
Gioberti che al Massari.
Proprio per questo, una tale esposizione, che provocò non poche
discussioni, ad opera di un giovanissimo e poco noto volgarizzatore, può
ascriversi, mi sembra, tra i contributi di rilievo a quell'interscambio ed
integrazione reale tra le culture del Piemonte e del Mezzogiorno, che costituisce
nel caso nostro il motivo di riflessione sull'attività massariana.
Aveva trovato il suo Mentore. «Voi siete il mio maestro, il duca
20 - De "Progresso” è stato pubblicato un indice sistematico con schede degli
articoli, a cura di U. Dotti relativamente ai soli primi tre anni di vita (1832-34) quando era
diretto da G. Ricciardi (Roma. Studium, 1970).
21 - G. OLDRINI, La cultura filosofica napolerana, cit.; primo hegelismo italiano, cit.; M.
DELL'AQUILA, Critica e letteratura in tre hegeliani di Napoli, cit.
16
mio ... » scriveva al Gioberti in data 14 giugno 184222 . Rimase giobertiano
convinto, anche quando per le vicissitudini politiche inclinò all'albertismo e poi
al piemontesismo cavourriano/sabaudo.
Non sottilizzava, come tanti altri, fermandosi alle contraddizioni ed alle
divergenze. Gli stava a cuore l'intento risorgimentale, la liberazione d'Italia dallo
straniero, il compimento dell'operazione costituzionale e poi unitaria. Pio IX,
Carlo Alberto, Vittorio Emanuele potevano indifferentemente esserne i
portainsegne, i «baiuli» in qualche modo successivi e intercambiabili, secondo gli
eventi e le opportunità.
Il campo delle forze era variegato: a restar solo nell'ambito moderato,
Balbo, Gioberti, Mamiani, Cavour, neoguelfismo e ghibellismo, per non dire
poi di Mazzini, ed oltre; ma egli vedeva, con semplicità ed onestà, piuttosto le
possibili integrazioni di forze, che le divisioni e le opposizioni. E certa
«semplicità» era largamente assorbita nella generosità ed onestà dell'azione.
Pur del suo Gioberti non fece molto conto dei successivi mutamenti di
pensiero: rimase nell'intimo fedele al «suo» primo Gioberti, quasi un simbolo
«supre partes» dello sforzo risorgimentale che chiedeva partecipazione e sacrifici
di tutti.
Di Gioberti pronunziò l'elogio funebre, riordinò le carte, avviò edizioni
di opere inedite, tenne vivo il culto, diffondendone nei discorsi e negli scritti il
pensiero. In realtà, non avendo ingegno speculativo, aveva caro tenersi fermo al
pensiero di qualcuno, fino a farsene una ragione di vita. La stessa cosa che
avvenne nel suo rapporto con Cavour, dal quale era dominato e nel quale era
felice di annullarsi, collaboratore fedele, scrupoloso ed efficiente.
E non solo le edizioni giobertiane, ma il carteggio fitto, da quel 1838, in
cui diciassettenne gli si rivolgeva, al 1852, anno della morte del filosofo,
dimostrando lo spessore degli interessi, certamente anche i limiti del suo
ingegno; ma certamente l'ampiezza della cultura, dell'informazione, l'operosità,
la duttilità di chi sa vivere in mezzo agli altri: son doti che valgono, anche se
troppo spesso son posposte ad altri meriti di vivacità e di acutezza, e non di
rado si offrono alle facili maldicenze di mediocri ricordati nella storia solo per
la capacità corrosiva di una battuta.
Ma torniamo all'esule parigino. Frequentava l'ambiente dell'emigrazione,
s'impadroniva della migliore cultura francese, faceva conoscenze che gli
sarebbero state utili poi, negli anni del servizio politico e diplomatico.
Doveva essere uno - hanno scritto di lui - che chiedeva sem22 - GIOBERTI-MASSARI, Carteggio, cit. p. 173.
17
pre la carta da visita anche all'interlocutore del più affollato salotto, tanto i suoi
ricordi di nomi e di persone sono precisi. La sera certamente annotava tutto,
come farà poi per il Diario: neppur la sua straordinaria memoria può
giustìficare quella precisione e tempestività.
Nel '43 tentò di ritornare in Italia, nella speranza di prender dimora in
Toscana: aveva avviato, infatti, buoni rapporti col Mamiani e con quegli
intellettuali. Ma da Milano, ove s'era fermato, proveniente dal Piemonte e da
Torino, individuato dalla polizia, fu riaccompagnato alla frontiera e costretto a
tornare in Francia.
Si diceva di lui che a Parigi s'era riconciliato con la « Giovane Italia » e la
polizia lo aveva per «uno dei più tremendi rivoluzìonari»: povero Massari, lui
così mansueto!
In quel tentativo ebbe modo, dunque, di avere un primo contatto e una
breve dimora in Torino, ove non fu disturbato, ed anzi si ebbe cortesie e
riguardo, oltre che conversazioni ed accoglienza da non pochi: dal Provana, dal
Sauli, dal Sismonda, dal Balbo, dal Sacchi, dal Lisio, dal Baldise, dal Gazzera.
Quella società, così misurata e positiva fino a sembrar fredda, ma
all'occorrenza concretamente fattiva non lo lasciava indifferente.
Da segni appena percettibili poteva pensare, anzi, ch'essa potesse anche
accoglierlo, come fece di lì a poco.
Provana gli scriveva: «Ognuno d'essi (quei personaggi conosciuti), a
modo suo, chi ridendo, chi filosofando, chi arrabbiando, chi fremendo, chi
meditando, m'incarica di esprimerti un mondo di cose ed affettuose: t'accerto
che se fai masserizia di tutte di troverai ricco di molto tesoro di amicizia» 23 .
Massari era buon massaro in far masserizia di conoscenze; ma i tempi
non erano ancora maturi, ed anzi Torino ed il regno sardo erano governati da
una aristocrazia arida e di nessuno slancio. Con essa di lì a qualche anno dovrà
misurarsi Cavour, per vincerne la grettezza conservatrice, l'antipatia per quella
moltitudine di inquieti e di teste calde venuti da ogni parte d'Italia.
Qualche giudizio severo di Massari su Torino, anche nel Diario, deve
intendersi in questa direzione.
Intanto, tornato a Parigi, nel '45 cominciò a scrivere nella « Gazzetta
italiana» della Belgioioso, con saggi su Galluppi, Gioberti, la filosofia
contemporanea; collaborava con articoli di mineralogia e di paleontologia su
riviste prettamente scientifiche, come quella diretta dal Ravaisson; traduceva
dall'inglese. Guglielmo Pepe gli affidò, con l'incarico di rivederne la redazione,
le sue Memorie, che puntualmente uscirono l'anno appresso.
23 - Lettera pubblicata in parte da R. COTUGNO, la vita, cit., p. 60-61.
18
Si era così al '46, l'anno di Pio IX, che faceva apparir profetico il Primato.
Da Torino gli giungeva un segnale positivo, prova che quegli indirizzi di stima
che vi aveva notato non erano un suo vaneggiamento. L'editore Pomba lo
chiamava alla direzione di una sua rivista, «Il mondo illustrato», alla quale
collaboravano illustri letterati del tempo. Il momento era favorevole ad un
grande dibattito. Il giobertismo e l'ideologia neoguelfa nella sua proposta
politica federalista erano nel momento di maggior forza.
Massari nella rivista vi trattava la parte politica, ma con apertura europea:
portava nell'esame delle cose d'Italia, di quel risorgimento che sembrava
immìnente, il confronto con le esperienze inglesi e francesi; divulgava il pensiero
di quanti aveva avuto modo di conoscere; partecipava le sue letture; tracciava la
via italiana al risorgimento nel reciproco sostegno della religione e del
principato laico: l'idea giobertiana stemperata dal suo ottimismo un po' superficiale che, nella generosità degli intenti non gli faceva considerare con realismo le
resistenze.
Ma a Torino, in quegli anni prequarantotteschi, di resìstenze ne incontrò
molte. Sono di quest'anno 1847 le sue amarezze maggiori e qualche giudizio
duro su certo conservatorismo miope, su certa «freddezza» e sul modo in cui si
svolgeva la vicenda polìtica.
Conobbe, tra gli altri Silvio Spaventa e Giuseppe Del Re. Certo non
aveva l'anima del combattente, e comunque aveva bisogno di calore e di
consensi. Nel Diario, pìù tardi, più volte giudicherà «freddo e impassibile» il
popolo di Torino, che loderà tuttavia, per la sua compostezza nei momenti
cruciali.
Invitato da Cavour a collaborare come «estensore» al «Risorgimento»,
finisce con rinunciare: comincia così, con un diniego e quasi una
incomprensione, il suo rapporto con lui. Cavour, scrivendone a Giovanetti,
commentava: «L'aiuto dei buoni non ci manca, e le sottoscrizioni giungono
numerose ed autorevoli. Ma lo spavento è fra gli scrittori che temono
l'impopolarità. Pensavamo essere inteso con Massari, ma questi dopo aver
quasi impegnato la parola si rìtìra e lascia Torino per non mentire alle sue
opinioni e non incontrare l'odio dei nostri nemici» 24 .
Massari accettò l'invito del Salvagnoli che lo chiamava a Firenze a
collaborare alla «Patria».
Ma la situazione generale italiana precipitava verso la rivoluzione e la
guerra. Firenze certamente era un buon osservatorio. Vi aveva ritrovato tanti
della emigrazione a Parigi. Ma Torino era in prima linea; e Milano, con la sua
insurrezione e le Cinque giornate.
24 - C. CAVOUR, Lettere, Vol. V, Torino, Roux e Favale, 1886.
19
In qualche modo aveva sottovalutato certe cose, abbandonando disgustato la
capitale piemontese.
Non aveva compreso come, sotto la patina del conservatorismo, quella
apparente freddezza, tutta subalpina, covasse il fuoco della decisione a lungo
meditata.
E forse quel Carlo Alberto, quell'arnletico monarca così apparentemente
lontano e gelido, aveva bisogno di tutto quell'entusiasmo per la soluzione
giobertiana per decidersi a rompere gli indugi e per mostrare che, in fondo, la
soluzione vera passava per le strutture militari e governative sabaude, per quella
primogenitura piemontese che Balbo aveva teorizzato qualche decennìo avanti.
Massari ne rimase affascinato, anche se con qualche ritardo. Anche se,
nella sua innata inclinazione alla aggregazione degli sforzi, potè ritenere che
l'iniziativa albertiana s'inscrivesse nel progetto di grande federazione auspicata
da Gioberti.
Ma fu solo Massari a crederlo in quei mesi del '48 di generale
entusiasmo, con gli eserciti di tutti gli stati italiani, del Papa, dei Borboni, nella
pìanura padana a dar man forte al Piemonte?
Notizie di rivoluzione venivano anche da Napolì, ove, ottenuta la
Costituzione, aveva inizio un esperimento di governo liberale.
Massari lasciò la Toscana, si recò in Lombardia per incontrarvi Gioberti,
che accompagnò nel suo vìaggio a Roma e in Toscana, in Emilia, a Genova.
Era stato eletto deputato di Bari nelle elezioni del 15 aprile al Parlamento
napoletano. Il 15 maggio a Napoli fu giornata di rivoluzione con deliberazioni
drammatiche dell'Assemblea radunata in Monteoliveto e barricate per le vie.
Massari non era a Napoli. fE però nei processi seguiti alla repressione, nel 1852
fu condannato in contumacia a 25 anni di galera per la parte attribuitagli in
quella vicenda.
A Napoli, ci andò, sebbene con non molto entusiasmo, per la sessione
dell'Assemblea del 30 giugno, sedette sui banchi dell'opposizione al ministero
Bozzeli, pronunciò discorsi, soprattutto in sostegno di una maggior
partecipazione partenopea alla guerra comune.
In cuor suo aveva diffidenza verso quella città, dove «chi vuol essere
liberale ed onesto dev'essere per forza eroe» (Diario, 32).
Ma Gioberti lo chiamava a Torino per il Congresso federativo: vi andò
rappresentante di Napoli, con Silvio Spaventa, Pier Silvestro Leopardi e
Bonghi.
Tornò ancora a Napoli, ma dovè allontanarsi per il precipitare degli
eventi. Riparò a Firenze, ove, tra l'altro collaborò al moderato «Il Conciliatore».
Di lì ancora a Torino, con Gioberti nella redazione del «Saggiatore».
20
Soffrì molto per l'assassinio di Pellegrino Rossi, di cui era stato
discepolo, amico ed estimatore.
Comincia così, dal '49, un decennio e più di residenza e di vita
piemontese. I meridionali a Torino, si è detto, erano numerosi in quegli anni di
emigrazione. Tra gli altri Massari fu dei più attivi.
Giornalista, innanzi tutto, redattore de «La Legge», della «Rivìsta
contemporanea », del « Cimento », della « Gazzetta piemontense », e, come si è
detto, del «Saggiatore», del «Nazionale», e poi della «Gazzetta Ufficiale» che
arrivò a dirigere, dal'56, succedendo a Giuseppe Torelli, e suscitando non
poche mormorazioni; corrispondente di periodici esteri, come
«L'Indépendence Belge». E però quella febbrile attività di pubblicista non era
che una parte, neppure la più importante del suo lavoro.
Si fece innanzi tutto ambasciatore dei dolori e delle sventure della sua
terra in quell'ideale rappresentanza d'Italia che era diventato il Piemonte dopo
Novara, nella garanzia del Re Galantuomo.
Scrisse un libretto, I casi di Napoli, sulla triste esperienza costituzionale del
'48, che uscì a Torino nel '49, sulla scia di altre precedenti consimili
pubblicazioni di D'Azeglio (I casi di Romagna, I lutti di Lombardia, ecc.).
Non era certo il Saggio di un Cuoco, esso stesso, d'altro canto,
attraversato da una passione politica e da un intento pedagogico che ne
definivano il valore storiografico.
Si trattava, pel Massari, della testimonianza di un pubblicista, quale egli
fu, parte in causa negli avvenimenti, scritta a caldo, con l'intento di far
conoscere ove era necessario, in quel Piemonte che lasciava acceso un barlume
di speranza, le vicende tristi e le attese del Mezzogiorno, gli errori, gl'inganni di
una monarchia che ogni giorno più perdeva il titolo a mantenere quel regno.
E però, oltre lo sdegno e il dolore, un tentativo di decifrazione di quegli
avvenimenti è presente e risulta nella sua parte lucido e persuasivo: l'indicazione
degli errori della parte liberale, le divisioni, l'inadeguatezza di fronte alla grave
responsabilità dell'ora; ma soprattutto la denuncia del municipalismo dei
ministri del Re, la diffidenza della monarchia per ogni sia lieve concessione
costituzionale, l'ostilità dissimulata con doppiezza per la causa unitaria, l'intrigo e
la sotterranea intesa con la parte austriaca; e comunque, al di là di queste
denuncie, l'osservazione di un qualche peso che, forse, nonostante colpe passate
e tutto il sangue del '99 e delle repressioni seguite al '20-‘21, la monarchia
borbonica poteva riscattarsi se avesse lealmente sostenuto la guerra
d'indipendenza; più ancora se si fosse mesa a capo di essa, potendo acquistar
titolo e meriti dinanzi all'opinione liberale del Mezzogiorno e d'Italia. Lasciata
cadere l'occasione, non le rimaneva che attendere dagli eventi, che non sarebbero tardati, la sua condanna. La sua fine, venuta col '60, era già
21
segnata dal comportamento del '48.
Massari non scriveva, per sè, nè per i posteri, ma per quella opinione
liberale ch'era viva, anche se contrastata, in Piemonte, e per quel Re che aveva
mantenuto la costituzione anche dopo la sconfitta, quando la minaccia
dell'austriaco era più forte.
Volle offrirne una copia al Re.
Nella sua Vita di Vittorio Emanuele II, così, ricorda quell'incontro, e le
parole del sovrano:
«A significarmi il suo gradimento il re usò la bontà di concedermi
un'udienza. Allorchè all'ora indicata mi presentai nell'anticamera del sovrano
uscivano per l'appunto Massimo D'Azeglio ed il conte Siccardi. Il primo
sorridente mi disse: - Bravo, fai bene, vai dal tiranno. Vedrai che stoffa da
Ezzellino - Fui introdotto nella stanza del re. Mi par di vederlo: era in un vano
di finestra in divisa militare: mi fece cenno di mostrarmi e subito con piglio
affabile prese a dirmi: - La ringrazio del libro che mi ha mandato. Non l'ho
letto, e difficilmente a motivo delle mie occupazioni, potrò leggerlo; ma so di
che si tratta. Mi duole che il suo paese soffra tanto, comprendo il suo dolore e
il suo risentimento: bisogna aver pazienza. Non si sgomenti. Sia persuaso che
verrà il giorno nel quale ella e i suoi concittadíni saranno contenti. Il mio
desiderio è di veder felici tutti gli italiani, ma per ora, - e dicendo queste parole
traeva un sospiro che mi disse tutto - debbo occuparmi di qui»25.
Nel 1851-52 l'Europa liberale fu messa a rumore dalle celebri lettere del
Gladstone sulle vergogne della reazione napoletana: regime poliziesco dei più
cupi, delatori dappertutto, giudici asserviti al potere, processi da far arrossire
ogni uomo civile, carceri speventose, corruzione e sobillazione della plebaglia e
della malavita: una lugubre rappresentazione che poi si sarebbe letta nelle
Ricordanze di uno di quei carcerati, Settembrini.
Per il momento, però, si tentava di mascherare e perfino di negare
all'esterno tali vergogne.
Chi, per ragioni anche fondate, ha avviato una revisione di giudizio
storico sulla monarchia ed il governo borbonico nel Mezzogiorno, offrendo
supporti involontari a futili nostalgie separatiste qua e là ravvisabili anche in
qualche frangia letteraria e d'opinione pubblica - farà bene a riandare
brevemente a queste vicende, che meno note di quelle del '99, furono certo più
penose e avvilenti, e sono all'origine di un lungo avvilimento storico, se è vero
che col carnefice esce umiliata civilmente anche la vittima.
Gladstone certamente, oltre l'indole liberale e la sua umanità,
25 - G.MASSARI, Vita di Vitt. Eman. II, cit.
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era mosso anche da altri scopi in quell'attacco alla monarchia borbonica.
Resta il fatto, peraltro, che quelle vergogne furono denunciate
autorevolmente, riproposto il problema italiano come problema di dignità
umana, di pericolo per l'Europa civile, di necessità, di una solidarietà liberale
anche a livello internazionale; di una risoluzione negoziata e garantita e
soprattutto rassicurante per tutti, se non si voleva che violenza chiamasse
violenza e ne venisse una pericolosa crisi europea.
Altre solidarietà ci venivano dalla Francia postquarantottesca, con i suoi
intellettuali, anche Cousin e Thiers, lodati da Massari.
I «garanti» francese ed inglese, già di disponevano, dunque ad un
intervento politico e ne preperavano i presupposti ideologici e diplomatici, nella
prospettiva non secondaria di una estensione delle rispettive sfere d'influenza.
Spetterà al Cavour cogliere queste disposizioni, alimentarle, piegarle al
progetto italiano: e a una serie di fortunate combinazioni e contrapposti
equilibri, volgere tutto per il meglio.
Massari, per il momento, non ancora inserito nel gioco diplomatico, fu
abile per la sua parte a cogliere a volo quella opportunità da cui poteva venir
bene alla causa, e tradusse subito in bella prosa italiana quella lettere che
pubblicò a Torino (Il sig. Gladstone e il governo napoletano), appena dopo che esse
erano state divulgate a Londra.
Fu una lungimiranza già quasi cavourriana? Resta il fatto che questo
secondo scritto sul Mezzogiorno e gli altri che seguirono, sulla polemica
intercorsa tra il governo napoletano ed il Gladstone, così tempestivi e rivolti ai
suoi ospiti torinesi, e di lì a tutti gli italiani e amici dell'Italia, non solo risultarono
un contributo notevole alla causa risorgimentale, ampliando l'effetto di
denuncia nei confronti degli screditati Borboni, ma conferirono al Massari una
più precisa collocazione in quel variegato ambiente dell'emigrazione nei cui
confronti opinione pubblica e governo piemontese guardavano con non
grande simpatia e molte volte con sospetto.
Massari veniva sempre più distinguendosi. Le sue idee di moderato e di
fautore della soluzione piemontese, insieme a Scialoja e a Mancini lo tenevano
vicino agli ambienti di governo, sia al D'Azeglio, sia al Rattazzi, e poi
stabilmente al Cavour; ma almeno fino al ‘56, senza incarichi speciali nè
retribuzioni: sotto questo profilo Massari rischiò perfino di esser giudicato un
ingenuo, e vi sono giudizi ironici su questa sua estrema discrezione, che lo
accompagnerà poi in tutta la sua carriera di «govemativo»: una virtù che egli
evidentemente esaurì tutta nella pianta italica, se si stenterà tanto poi a trovarne
ancora.
Viveva della sua attività di redattore e di corrispondente. E
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frattanto manteneva viva ed ampliava la sfera delle sue conoscenze, la. fitta rete
della corrispondenza, delle conversazioni con i personaggi maggiori della vita
politica, culturale e mondana, con il mondo della diplomazia e quello della
rivoluzione.
Era persuaso, come sarà persuaso Cavour, che in questo seppe ben
scegliere l'uomo, che la pubblicità della causa italiana e piemontese nella
opinione pubblica europea fosse da curare con estrema saggezza e tempestività,
e Massari non trascurò una occasione che potesse procacciar simpatie alla causa:
Gladstone, gli ambienti liberali inglesi, la cultura e la diplomazia di Francia, de
Mazade, con cui avvia un fitto carteggio, gli ambienti vicini a Napoleone III, il
gruppo degli intellettuali fiorentini, gli emiliani, i circoli e le personalità milanesi,
gli ambienti ufficiali e quelli ufficiosi, i ministri, le ambasciate, i salotti, le
redazioni: quel variegato scenario entro cui si «facevano» le sorti d'Italia non è
mai descritto con l'intento del narratore, eppure risalta al vivo negli scorci
epistolari, nelle notazioni di diario, nelle relazioni.
Quelle lettere e scritti sono ora nelle biblioteche e negli archivi pubblici e
nei fondi privati: molte migliaia, un numero incredibile, tessere di un mosaico
che aiutano a ricomporre l'immagine di una società e di un momento storico.
Scriveva preciso, denso, sfumato, elegante, nello stile della buona
diplomazia filtrato attraverso molte letture e pratica di giornalismo. Sapeva dire
e tacere, far intendere e far filtrare cose al momento giusto, nella forma giusta.
In questo Cavour era ben affidato. Massari era la persona giusta per una
conversazione informale ed esplorativa, per esporre e rilevare punti di vista; era
bravissimo ogni volta che, senza parere, era necessario che qualche giornale in
una qualche città uscisse con una nota «ispirata».
Nella occasione del «murattismo», che impensierì non poco Cavour,
proponendosi come una insospettata complicazione, fu decisamente per la
soluzione piemontese, come De Sanctis e non pochi altri meridionali
dell'emigrazione.
Degli anni più intensi della vita politica piemontese, dal 1858 al '60, nei
quali ebbe mansioni di segretario del Cavour al Ministero, tenne un Diario, che
risulta per molti versi assai interessante, come quello di ogni diplomatico che sia
testimone e parte di avvenimenti rilevanti.
Di questo diario sarà bene dire qualcosa. La sua edizione a stampa per
molto tempo non è stata soddisfacente. Scritto in prima stesura dal Massari su
piccoli quaderni, la sera stessa di ogni giornata di quegli anni (quindi in forma di
registrazione e promemoria
24
degli incontri e delle conversazioni) venne ricopiato parzialmente da lui stesso in
due grossi quaderni, senza paraltro che fosse mutata l'impostazione e la finalità
di documento.
Finito tra le carte dell'autore, tutte o in gran parte lasciate al
Visconti-Venosta, fu da questi consegnato al Beltrani che ne prometteva una
edizione.
Il Beltrani, si sa, era studioso piano di entusiasmo e di straordinario
amore per la storia pugliese. Fu autore, tra l'altro, di uno scritto su Valdemaro
Vecchi, un piacentino venuto dopo l'Unità a portare in Puglia l'arte della buona
stampa e ad impiantarvi una tipografia e casa editrice che è stata ben nota tra
Otto e Novecento e piacque a Croce che vi fece stampare tra l'altro la « Napoli
nobilissima» e, fino al 1926, i fascicoli della «Critica».
Ma una certa insicurezza filologica e non poche forzature dello studioso
di provincia gli guastarono il lavoro, che almeno nella parte testuale non gli si
addiceva. Uscì una prima edizione, patrocinata dal Comune di Bari, che
riproduceva con criteri di poca fedeltà una parte del manoscritto (Diario politico,
ecc.). Poi, nel 1931, presso l'editore Cappelli di Bologna, il Beltrani fornì una
edizione completa (con la sola mancanza di alcune parti andate disperse, non si
sa bene se per responsabilità sua), non per questo però più fedele nè sicura.
Il manoscritto, soprattutto nella prima stesura, era certamente di ardua
interpretazione, come hanno potuto constatare i successivi editori; ma si deve
riconoscere che il Beltrani, molte volte spazientito, si prese molte libertà
interpretative.
L'edizione fu duramente criticata da Omodeo e da altri, con giudizi
passati perfino nelle segnalazioni bibliografiche, ove s'invocava una più
riguardosa edizione.
Che fu affrontata, finalmente, dalla Morelli (benemerita, dunque, anche
per i suoi studi massariani), la quale ne dà ragione nella premessa al volume,
uscito dopo due anni di fatica presso lo stesso editore Cappeli, nel 1959,
corredato da alcune opportune illustrazioni caricaturali, quasi tutte tratte da
giornali umoristici inglesi, in cui la materia risorgimentale risulta sbassata di tono
nello specchio deformante ma intelligente della satira politica.
Il diario, così come si presenta, appare compatto e sicuro: l'autore si cela
dietro ai fatti, riferisce quasi sempre battute o pensieri altrui, dietro le quali si
riesce peraltro a capire la sua dislocazione; sono piuttosto rare le dichiarazioni
personali, gli slanci, le irruzioni autobiografiche; perfino quando riferisce di
alcuni incontri con la Belgioioso, la fiamma sua di un tempo a Parigi, riguardata
poi con freddezza e il distacco di un incontro di routine, il suo atteggiamento
non va oltre qualche considerazione malinconica per il tempo che passa e per lo
sfiorire della bellezza.
25
La registrazione vera è dei fatti, dei pensieri, degli accadimenti, che hanno
per personaggi le infinite comparse, comprimari e primattori di quello scorcio
di Risorgimento: Cavour, Vittorio Emanuele, i ministri D'Azeglio, Minghetti,
Rattazzi, Rìcasoli, La Marmora, lord Hudson con il quale i rapporti si fanno
assai stretti, gli ambasciatori di Francia, d'Inghilterra, d'Austria, di Russia, il
Nunzio, i funzionari, gli uomini di cultura, i pubblicisti, le dame che nei salotti,
tra una conversazione e una civetteria, facevano politica, gli ambienti della
Corte, Nigra, la Castiglioni, lord Carrington, l'emigrazíone, anche quella più
radicale, come l'Orsini: un grande palcoscenico, su cui avveniva una grande
rappresentazione.
Massari annotava tutto di quelle giornate, tutte intense, alcune febbrili con
scenari che mutano da un momento all'altro, con il mutare e il succedersi delle
notizie.
Proprio questo, anzi, questa capacità senza intento narrativo, di mostrar
dal di dentro le drammatiche sequenze dell'azione diplomatica e l'impatto con
la realtà dalle mille facce di un progetto politico, i retroscena degli eventi e delle
espressioni rimaste famose, come è il caso delle sequenze perfettamente
descritte che preparano il discorso della Corona del gennaio 1859, con la frase
famosa del «grido di dolore», nella cui preparazione ebbero parte Napoleone
III, Vittorio Emanuele, il gabinetto con Cavour, e, in non piccola parte, lo
stesso Massari che fu estensore delle successive redazioni: proprio questo
accresce la drammatícíà del racconto ed è un merito non minore, anche se non
ricercato, del Diarío.
Massari si mostra informato di tutto, dentro ogni risvolto degli
avvenimenti, discreto secondo il suo naturale, fedele e preciso esecutore di
quanto Cavour gli chiede di fare. Qualche volta sembra perfino entrare nella
determinazione dei grandi avvenimenti, come nel caso accennato, o nelle
vicende complicate delle annessioni, o nei difficili rapporti tra Rattazzi e
Cavour, tra Ricasoli e Cavour, nei casi del risorgente murattismo, nei plebisciti:
ma non v'è mai una attribuzione di meriti, nè alcuna personale iattanza. Quel
che gli dà soddisfazione è sentirsi al centro di quelle manovre.
Ma ciò che colpisce il lettore è la precisione di dettaglio, la frastagliatura
dei pensieri e delle espressioni, la duttilità della scrittura che senza sforzo registra
una realtà dalle mille sfumature.
Diarìo delle cento voci, è stato detto, proprio perchè Massari riesce nel
miracolo di far parlar tutti, di riportare il pensiero di tutti, collocando ciascuno
nel suo ruolo, grande o piccolo, importante o insignificante, in un grande
affresco: il Re, impaziente, rude, generoso, galantuomo; Cavour, duttile, abile,
epperò egli pure impaziente e a volte furioso; Napoleone III, ambiguo, tutta
grandeur, da prendere con le pinze: Plon Plon, cioè il principe Girolamo, fatuo e
gonfio di vanità: D'Azeglio, simbolo vivente dell'establishment pie26
montese, non senza le civetterie e le originalità dell'artista; Torino, ora fredda,
ora composta, ora consapevole ed orgogliosa del ruolo che veniva assumendo:
a sentir Brofferio, una città dove si viveva «fra una pagina di Plutarco ed una
favola di Esopo» (Diario, 70); La Marmora, il militare duro ma galantuomo
«che ha cuore italiano e testa piemontese» (Diario, 328); Ricasoli, il barone di
ferro; l'ambiente inquieto dell'emigrazione; quello attento e percettivo delle
ambasciate e dei salotti.
Ogni pagina è un frammento interessante e cangiante di quel vario
caleidiscopio, tanto che una esemplificazione, anche larga porterebbe ad un
impoverimento.
Di tutto quel complesso disegno però Massari non conosceva tutto.
Cavour, forse conoscendo le sue preclusioni anti-garibaldine, gli nascondeva
molte cose su Garibaldi, sulla Società Nazionale, sulle mene per manovrare i
plebisciti. Insomma se ne serviva come di segretario per certe cose e non per
altre. D'altro canto è nota la battuta che Cavour avrebbe avuto segreti anche
con se stesso.
Per tornare però allo stile ed alla concitazione densa del diario, non va
passato sotto silenzio certa laconicità, propria della scrittura del genere, e
soprattutto l'uso accorto di certe domande, di certa forma interrogativa,
efficacissima per esprimere impersonalmente, ma non tanto da non adombrare
coinvolgimenti personali, l'indirizzo politico e di opinione pubblica, la
problematicità delle cose.
Insomma, il libro di uno scrittore diplomatico, com'è nella tradizione
migliore di certa nostra diplomazia, sul quale si dovrà forse tornare, e non solo
per interessi d'ordine storico-politico.
Con gli avvenimenti napoletani del '60, mentre De Sanctis andava a
Napoli e assumeva incarichi nel governo provvisorio, Massari, con Mancini e
Scialoja rimaneva a Torino per maggiore informazione di Cavour. Raggiunta
infine Napoli, collaborò attivamente al nuovo giornale «Il Nazionale»,
sostenendo la soluzione unitaria sabauda. Ne era assertore convinto, non dovè
far forza a se stesso. Quella monarchia borbonica gli sembrava ormai
irrimediabilmente compromessa e indegna di regnare. Aveva conosciuto da
vicino altri modelli, ai quali ormai si manteneva fedele con piena lealtà.
Al primo Parlamento, unitario, con Bonghi, Carlo Poerio e Mancini
rappresentò il Mezzogiorno sui banchi dei governativi.
Da allora, quasi ininterrottamente fu deputato pugliese, fino alla fine.
Nel '61 pronunciò un importante discorso sulle cose di Napoli,
adoprandosi per la soppressione della Luogotenenza.
Ma è del '63 il suo atto parlamentare più importante. Con l'aggravarsi
della piaga del brigantaggio, di fronte a incomprensioni,
27
durezze di giudizi e comportamenti ingiusti (la legge Pica sulla repressione è di
quello stesso anno), nella divisione degli animi, volle partecipare ai lavori della
Commissione dì inchiesta nominata dal Parlamento, e ne fu relatore, insieme
all'on. Castagnola.
Quella relazione che lesse in Comitato segreto della Camera nelle sedute
del 3 e 4 maggìo 1863 è consegnata alla storia e alla letteratura polìtica italiana
di queì difficili anni unitari e alla storia del Mezzogiorno 26.
Profondità di diagnosi, esame delle cause remote e recenti, invocazione
di rimedi che non fossero soltanto di polizia. In lui, che pure verso il
Mezzogiorno non fu tenero, denunciandone in ogni occasione le
manchevolezze e la fredda partecipazione al processo unitario, agiva questa
volta la medesimezza con quella terra, la coscienza di un malgoverno remoto
nei secoli che aveva provocato guasti irreparabili, l'«inveterata corruzione del
governo e della burocrazia», le complicità, l'omertà, sollecitata, le connivenze,
alimento incessante di malessere e malcontento.
Intelligenza e pietà vibrano in quelle pagine, che sarebbero state poi alla
base di molti altri studi ed inchieste sulla questione meridionale. Si può
richiamare il passo noto in cui si descrivono le condizioni di vita del cafone
tentato dal miraggio di una migliore condizione e per ciò stesso sospinto sulla
strada del brigantaggio: e gli altri, sulle indiscriminate repressioni, che portavano
a inasprire gli animi, con punizioni eccessive anche per reati minori, provocati
chiaramente dall'indigenza delle popolazioni.
Massari era per una linea ferma, senza cedimenti, ma che si preoccupasse
innanzi tutto di rimuovere le cause di quella ìnquietudìne, non legittimando la
convinzione largamente diffusa nel Mezzogiorno avvezzo a dominazioni
straniere, che «il Governo in se stesso fosse una potenza nemica, da cui era da
attendersi ogni male» - come ebbe a scrivere nel suo discorso Silvio Spaventa.
In Massari si può rilevare anzi una coincidenza con la posizione di Nievo
espressa qualche anno prima dallo scrittore friulano nel Frammento sulla rivoluzione
nazíonale27rimasto lungamente inedito, e dunque sconosciuto al Massari: in
entrambi gli scritti la convinzione che per liberare dalle suggestioni di Vandea e
di reazione le masse contadine, e per legarle agli interessi progressisti della rívoluzione liberale, fosse innanzi tutto da risolvere la questione economica delle
loro condizioni di vita, che voleva dire poi la questìone
26 - G. MASSARI, Il brigantaggio nelle provincie napoletane cit., Napolí, Staperia
dell'Iride, 1863.
27 - I. NIEVO, Frammento sulla rivoluzione nazionale, in Opere, a cura di S. Ro-
28
della terra. Innanzi tutto, prima ancora di ogni programma pedagogico e di
istruzione obbligatoria, destinato altrimenti a cadere nel vano.
Può essere interessante notare come in quegli stessi anni in cui da parte
degli intellettuali meridionali di orientamento hegeliano, De Sanctis, Villari, De
Meis, Spaventa, cominciasse a porsi le basi teoriche di uno stato etico, in uno
sforzo di pedagogia politica che sarebbe rimasto il più ambizioso in quel primo
decennio di vita nazionale, da parte di Massari (e dell'inedito Nievo) venisse una
esortazione prammatica, un richiamo al porro unum di un minimo di benessere
ineludibile (ed ahimè ancora una volta eluso) nella decisione politica.
Gli anni di quei decenni Massari li impiegò in una instancabile attività
parlamentare e di scrittore. «Poco curante delle clientele e degli interessi locali secondo lo descrive Spaventa - aveva il senso del ridicolo e della vanità degli
uomini, sdegnava la volgarità»28.
Non richiese nessuna carica governatica. Fu a lungo segretario della
Camera e ne organizzò i lavori. I suoi interventi, qualche volta di tono severo e
solenne, non furono mai mossi da interessi di provincia. Nelle battaglie per le
leggi anticlericali la sua coscienza religiosa lo portò ad esser tiepido e misurato.
La Camera si servì sovente della sua capacità di scrittore/diplomatico
nell'affidargli incarichi di indirizzi a Sovrani e di commemorazioni.
Nel progressivo sgretolamento del mito piemontese corroso dalle
polemiche regionalistiche e dalla politica trasformista, Massari fu tra i pochi a
rimanervi fedele, e negli anni in cui esso non poteva evidentemente ìncarnarsi
nel «vinattier di Stradella»/De Pretis, riproponeva i suoi eroi, scrivendone le
biografie: Cavour, Vittorio Emanuele, La Marmora.
Certo non erano biografie, come oggi si dice, critiche. Erano larghe di
aneddoti, ma riuscivano non di rado a centrare la fisionomia dei personaggi.
Quella di Vittorio Emanuele, soprattutto, succosa e colorita, ricca di
informazione, di battute, di aneddoti quasi sempre di prima mano, con il
contrappunto talora ironico, altre volte ammirato, di personaggi stranieri,
Napoleone III, la regina Vittoria; un libro di gradevole lettura, del quale, credo,
abbiano fatto tesoro, senza citarlo, molte più recenti e celebrate biografie.
Negli ultimi anni viveva a Roma, in una stanza a pigione di un vecchio
quartiere centrale, in via Monterone. I mesi della malattia che lo portò alla
morte furono penosi. Era incredibile che un uomo
MAGNOLI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 1079-1081.
28 - S. SPAVENTA, Discorso commemorativo, in I casi di Napoli, cit., p. LXXXIII,
segg.
29
sempre al centro degli avvenimenti nazionali fosse in condizioni di tanta
povertà. Morì in casa di amici che gli avevano offerto provvisoria e più
decorosa dimora. Prima di morire ricevè tutta la Roma politica che andava a
chiederne notizie.
E tutti si ritrovarono a seguirne le spoglie in quella giornata di marzo del
1884 quando venne meno. I grandi padri della patria erano già scomparsi tutti
ad uno ad uno, Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini, D'Azeglio, De
Sanctis. Veniva meno anche Massari, di tanto più modesto di quelli, ma della
stessa dirittura e disinteresse: ormai una sopravvivenza del passato per l'Italietta
e l'Italiona degli scandali bancari, delle speculazioni edilizie e delle imprese
industriali; una sopravvivenza scomoda, da cancellare, anche se con onori e
commosse commemorazioni, come per un resistente rimorso, o, più
probabilmente, per una cinica simulazione.
Il mito piemontese a livello politico avrebbe dovuto attendere Giolitti
per riproporsi ad una certa statura; ma solo dopo le fucilate di Milano e il
regicidio di Monza. E non senza ombre e riserve di giudizio.
Ma ormai il Piemonte aveva altre forze di suggestione per il
Mezzogiorno d'Italia, anche queste non prive di insidie e di attrito, come la
storia del nostro secolo s'è incaricata di mostrare.
MICHELE DELL'AQUILA
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