Comunicazione e relazioni interpersonali nelle commedie di

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Comunicazione e relazioni interpersonali nelle commedie di
Comunicazione e relazioni interpersonali
nelle commedie di Menandro
Un’indagine sul Dyscolos e sulla Samia
Inaugural-Dissertation
zur
Erlangung der Doktorwürde
der Philologischen Fakultät
der Albert-Ludwigs-Universität
Freiburg i. Br.
vorgelegt von
G i a d a So r re n t i n o
aus Atripalda (Italien)
SS 2012
Erstgutachter:
Zweitgutachter:
Drittgutachter:
Prof. Dr. Bernhard Zimmermann
Prof. Dr. Stefan Pfänder
Prof. Dr. Felix Heinzer
Vorsitzender des Promotionsausschusses
der Gemeinsamen Kommission der
Philologischen, Philosophischen und Wirtschaftsund Verhaltenswissenschaftlichen Fakultät: Prof. Dr. Bernd Kortmann
Datum der Fachprüfung im Promotionsfach Griechische Philologie:
25.03.2013
II
Sommario
III
1. INTRODUZIONE
1
1.1 Oggetto e scopi della ricerca
1
1.2 La pragmatica
5
1.2.1 Definizione e ambiti
5
1.2.1.1 La pragmatica linguistica
7
1.2.1.1.1 L’influenza del contesto sulla parola: la deissi
7
1.2.1.1.2 Fare cose con le parole: la teoria degli atti linguistici
11
1.2.1.1.3 Implicatura e presupposizione
17
1.2.1.1.4 Politeness e mitigazione
24
1.2.1.1.5 Tra etnometodologia e linguistica: l’analisi della conversazione
27
1.2.2 Un approccio integrato all’analisi della comunicazione
e delle relazioni interpersonali
30
1.2.3 Pragmatica e testo drammatico
44
1.2.4 Pragmatica e filologia classica
49
1.2.5 Comunicazione e relazioni interpersonali nella presente ricerca
55
2. PRAGMATICA DEL DIALOGO
65
2.1 Analisi della conversazione: il Dyscolos
65
2.1.1 L’apertura di conversazione
65
2.1.1.1 L’apertura nella conversazione reale
65
2.1.1.2 Le aperture di conversazione nel Dyscolos
66
2.1.1.2.1 Criteri di individuazione
66
2.1.1.2.2 Elenco delle aperture
68
2.1.1.2.3 Caratteristiche delle aperture di conversazione
70
2.1.2 La chiusura di conversazione
79
2.1.2.1 La chiusura nella conversazione reale
79
2.1.2.2 Le chiusure di conversazione nel Dyscolos
81
2.1.2.2.1 Criteri di individuazione
81
2.1.2.2.2 Elenco delle chiusure
82
2.1.2.2.3 Caratteristiche delle chiusure di conversazione
84
2.1.3 Il sistema di avvicendamento dei turni nel Dyscolos
91
III
2.1.3.1. La successione dei turni nella conversazione reale
91
2.1.3.1.1 Regole fondamentali del passaggio di parola
91
2.1.3.1.2 Modalità di funzionamento del sistema
92
2.1.3.1.3 L’organizzazione delle preferenze
95
2.1.3.1.4 Dalla forma al contenuto: l’introduzione e il passaggio di argomento
100
2.1.3.2 Il sistema di avvicendamento dei turni nel Dyscolos
100
2.1.3.2.1 Criteri di applicazione
100
2.1.3.2.2 Elenco dei dialoghi
102
2.1.3.2.3 Caratteristiche del sistema di avvicendamento dei turni
all’interno dei dialoghi
104
2.1.3.2.3.1 Passaggio di parola
104
2.1.3.2.3.2 Struttura dei turni di conversazione
114
2.1.3.2.3.3 Interruzioni, sovrapposizioni, riparazioni, ripetizioni
115
2.1.3.2.3.4 Organizzazione delle preferenze
118
2.1.3.2.3.5 Introduzione e cambiamento di argomento
119
2.1.3.2.3.6 Caratteristiche dei dialoghi raccontati o immaginati
120
2.2 Analisi della conversazione: la Samia
126
2.2.1 L’apertura di conversazione
126
2.2.1.1 Elenco delle aperture
126
2.2.1.2 Caratteristiche delle aperture di conversazione
127
2.2.2 La chiusura di conversazione
135
2.2.2.1 Elenco delle chiusure
135
2.2.2.2 Caratteristiche delle chiusure di conversazione
136
2.2.3 Il sistema di avvicendamento dei turni nella Samia
144
2.2.3.1 Elenco dei dialoghi della Samia
144
2.2.3.2 Caratteristiche del sistema di avvicendamento dei turni
all’interno dei dialoghi
145
2.2.3.2.1 Passaggio di parola
145
2.2.3.2.2 Struttura dei turni di conversazione
150
2.2.3.2.3 Silenzi, sovrapposizioni, interruzioni, riparazioni, ripetizioni
151
2.2.3.2.4 Organizzazione delle preferenze
160
2.2.3.2.5 Il malinteso conversazionale
163
2.2.3.2.6 Introduzione e cambiamento di argomento
165
2.2.3.2.7 Caratteristiche dei dialoghi raccontati o immaginati
166
IV
2.3 FTA e politeness
170
2.3.1 Politeness e interazione verbale
170
2.3.1.1 Una teoria della politeness
170
2.3.1.2 Problemi e sviluppi della teoria – Osservazioni metodologiche sulla
sua applicazione in questo studio
173
2.3.2. Strategie di politeness
177
2.3.2.1 Politeness positiva
177
2.3.2.2 Politeness negativa
187
2.3.2.3 Off recordness
197
2.3.2.4 Agli estremi della politeness
205
2.3.3 FTA e politeness nel Dyscolos
208
2.3.3.1 Atti di richiesta, ordine, supplica
209
2.3.3.2 Atti di consiglio e invito
215
2.3.3.3 Atti di impegno e promessa
217
2.3.3.4 Atti di offerta
218
2.3.3.5 Atti di proposta
219
2.3.3.6 Atti di rimprovero
220
2.3.4 FTA e politeness nella Samia
226
2.3.4.1 Atti di richiesta, ordine, supplica
226
2.3.4.2 Atti di consiglio e invito
232
2.3.4.3 Atti di impegno e promessa
234
2.3.4.4 Atti di offerta
235
2.3.4.5 Atti di proposta
235
2.3.4.6 Atti di rimprovero
236
3. COMPORTAMENTI INTERAZIONALI DEI PERSONAGGI
240
3.1 Dyscolos
240
3.1.1 Cnemone
240
3.1.2 Sostrato
252
3.1.3 Cherea
263
3.1.4 Callippide
268
3.1.5 Gorgia
270
3.2 Samia
276
3.2.1 Moschione
276
V
3.2.2 Demea
285
3.2.3 Criside
294
4. COMUNICAZIONE E RELAZIONI INTERPERSONALI
298
4.1 Dyscolos
298
4.1.1 Cnemone contro tutti
298
4.1.1.1 I paradossi della δυσκολία di Cnemone.
I: ‘comunicare il rifiuto di comunicare’
298
4.1.1.2 I paradossi della δυσκολία di Cnemone.
II: la gestione dei rapporti familiari
313
4.1.1.3 Un cambiamento dopo l’incidente?
319
4.1.1.4 La scena della beffa nel V atto
331
4.2 Samia
336
4.2.1 Moschione e Demea
336
4.2.1.1 Un rapporto ‘quasi’ perfetto: padre e figlio nel monologo di Moschione
336
4.2.1.2 Moschione e Demea tra realtà e faccia
349
4.2.1.3 Parole e silenzi alla base dell’equivoco
360
4.2.1.4 La parola inefficace: il confronto tra padre e figlio fino allo
scioglimento dell’equivoco
369
4.2.1.5 Un’occasione persa
377
4.2.1.6 La rabbia di Moschione all’inizio del V atto
383
4.2.1.7 Il mantello e la spada
390
4.2.1.8 Il finale e i nodi irrisolti del rapporto padre-figlio
396
4.2.2 Demea e Criside
406
4.2.2.1 Il ruolo dell’eponima
406
4.2.2.2 Parole e silenzi di Demea e Criside
411
4.2.2.3 Una vittoria silenziosa
418
5. CONCLUSIONI
424
Tavola sinottica dei dialoghi del Dyscolos
429
Tavola sinottica dei dialoghi della Samia
430
Tabella 1 Elenco degli FTA
431
Tabella 2 Strategie di politeness
432
VI
Bibliografia
433
Zusammenfassung
Hinweis: Eine leicht überarbeitete Version dieser Arbeit wird in absehbarer Zeit in Buchform
erscheinen.
VII
I. INTRODUZIONE
1.1 Oggetto e scopi della ricerca
In un’epoca di crisi irreversibile della polis qual è quella in cui è attivo Menandro, la
famiglia è divenuta nella percezione comune l’essenziale contesto di riferimento dell’azione
dell’uomo, che in essa trova massimamente la propria ragion d’essere. E’ soprattutto questa la
motivazione per cui le opere del commediografo ateniese – come probabilmente gran parte della
produzione comica a lui contemporanea – sono caratterizzate sul livello della trama dalla centralità
di rapporti familiari ed affettivi che nel corso dell’azione drammatica vengono creati, mantenuti o
ridiscussi nell’impostazione e nei principi da cui sono informati1.
Così – per citare alcuni esempi – se in una delle vicende rappresentate si assiste alla delicata
definizione della relazione tra un padre e suo figlio (Samia), un’altra è dominata dall’inquietante
figura di un misantropo con il cui carattere si scontrano parenti e sconosciuti (Dyscolos), una terza
vede una famiglia, scossa da un (presunto) lutto, dividersi tra le ragioni dell’affetto e quelle del
profitto e dell’interesse personale (Aspis), mentre in altre rapporti di concubinato (Periciromene,
Misumenos ma anche Samia) o di matrimonio (Epitrepontes) entrano in crisi e rischiano la rottura
in seguito ad un equivoco.
All’interno della ricerca menandrea le relazioni interpersonali hanno di rado costituito un
oggetto di studio indipendente. La considerazione riservata ai modi del loro funzionamento nelle
commedie è stata infatti in passato notevolmente inferiore a quella ricevuta dal carattere dei singoli
personaggi, crescendo soltanto negli ultimi anni soprattutto grazie a studi che, nell’indagare i modi
in cui le norme e le convenzioni della società ateniese dell’epoca hanno condizionato lo
svolgimento delle vicende comiche, hanno avuto modo di approfondire gli aspetti giuridici, sociali e
talora financo politici dei rapporti umani intorno ai quali esse ruotano2. Nonostante sia in questi sia
in altri lavori sia stata riconosciuta l’importanza che per lo sviluppo di tali rapporti riveste la
comunicazione tra i loro membri, tanto che nell’“enfasi sull’interazione umana”3 si è visto uno dei
fondamentali criteri informatori dell’arte di Menandro e che le difficoltà del comunicare sono state
indicate come un importante motore dell’azione drammatica nelle sue vicende4, manca a tutt’oggi
uno studio sistematico dei meccanismi di funzionamento delle interazioni svolte all’interno della
1
Sul nesso tra la vita cittadina dell’epoca e le tematiche familiari e quotidiane affrontate nelle commedie cfr. Del Corno
1979, 265-299 e Patterson 1998, 195-225.
2
Tra gli studi più estesi ricordo almeno Zagagi 1994, soprattutto 66-71 e 94-141, Konstan 1995, 91-168 e Lape 2004.
3
Zagagi 1994, 66, la quale riferisce l’espressione alla tendenza menandrea “towards developing the personal
relationships between his characters and promoting a solution to the plot complication through direct interaction
between the dramatis personae” (67).
4
Cfr. ad esempio Ireland 1994 (pubblicazione elettronica).
1
finzione drammatica che metta in luce come esse esprimano gli equilibri relazionali stabiliti tra i
personaggi e contribuiscano, nelle diverse fasi di una vicenda, a mantenerli o modificarli. L’aspetto
interazionale delle relazioni tra i personaggi ha infatti tutt’al più dato luogo, nella concreta analisi
dei drammi, ad osservazioni sporadiche ed impressionistiche sui comportamenti comunicativi
dispiegati dai loro membri in determinati momenti dell’azione drammatica.
Nel presente lavoro mi propongo appunto di contribuire a colmare l’attuale vuoto,
occupandomi di questo oggetto di indagine multidimensionale e dinamico nel Dyscolos e nella
Samia, che delle commedie menandree pervenuteci sono quelle meglio conservate.
Per affrontare questa tematica occorrerà innanzitutto appuntare lo sguardo sul primo dei due
poli attorno ai quali essa si articola, quello dell’interazione tra i personaggi, e dunque in particolare
sul dialogo, che ne costituisce la forma principale. Il fondamentale ruolo rivestito dal dialogo nelle
commedie menandree risulta facilmente comprensibile quando si rifletta sullo speciale rapporto
esistente nel dramma tra linguaggio e azione, in base al quale il primo non si limita a riferirsi alla
seconda, ad esempio raccontandola o commentandola, ma di solito la costituisce direttamente sulla
scena identificandosi con essa: se è vero dunque che attraverso “l’agire parlante”5 dei personaggi la
gran parte degli scambi verbali determina un progresso nell’intreccio, appare chiaro che quando,
come in Menandro, al centro dell’azione sono le relazioni interpersonali, il dialogo diviene nella
finzione drammatica lo strumento privilegiato attraverso il quale i partecipanti esprimono,
negoziano o modificano le loro rispettive posizioni all’interno di queste. Nella sua prima parte
questa ricerca prenderà in esame la raffigurazione, nei dialoghi menandrei, dell’azione comune
compiuta generalmente dai partecipanti ad uno scambio verbale perché questo proceda e dei modi
in cui ognuno esprime le proprie intenzioni comunicative al suo interno: riguarderà perciò gli atti in
essi compiuti dai parlanti, i modi di apertura e di chiusura, le strategie che ciascuno utilizza per
influenzarne lo sviluppo nel modo voluto (che può coincidere o no con quello cercato
dall’interlocutore), le reazioni di ognuno ai comportamenti del partner di interazione, l’introduzione
e la gestione dei temi in discussione, l’insorgenza e il superamento di difficoltà comunicative.
Se oggi, più che in passato, è possibile prendere in esame gli scambi verbali secondo questa
prospettiva, ciò si deve senz’altro ai significativi risultati che negli ultimi decenni sono stati
raggiunti nello studio delle interazioni verbali da diverse discipline a cominciare dalla pragmatica,
che, nata in ambito linguistico e filosofico nel secolo scorso, si occupa appunto di spiegare il
funzionamento della lingua nei concreti processi comunicativi, giovandosi degli apporti provenienti
da aree disciplinari diverse, dalla sociologia alla psicologia e all’antropologia culturale6. È per
questa ragione che la mia ricerca attingerà ampiamente nell’analisi dei dialoghi a categorie
5
6
Pfister 2000, 169.
Bertuccelli Papi 1993, 2.
2
elaborate in campo pragmatico come quelle di “atto linguistico” e di “implicatura”, a nozioni
sociologiche e psicologiche ritenute ormai imprescindibili dai pragmatisti come quelle di “faccia” e
“posizione” e a metodi e procedure di indagine delle interazioni verbali come quelli dell’analisi
conversazionale di matrice sociologica per comprendere come i partecipanti ai dialoghi agiscano
reciprocamente attraverso il linguaggio nell’occasione dello scambio verbale.
I vantaggi dell’applicazione di categorie e metodi sviluppati dalla pragmatica (e dalle
discipline ad essa connesse) constatati nello studio degli scambi reali possono venire amplificati a
proposito del dialogo drammatico, delle cui funzioni di azione la pragmatica risulta particolarmente
atta a dare conto, purché si prendano in considerazione i complessi di problemi legati alle
peculiarità possedute da quest’ultimo rispetto alle interazioni reali.
I risultati ottenuti attraverso l’esame dei dialoghi costituiranno il punto di partenza per il
lavoro dedicato al secondo polo dell’indagine, quello delle relazioni interpersonali rappresentate
nelle commedie. In questa seconda fase della ricerca, infatti, si seguirà l’evolversi dei rapporti in cui
sono coinvolti i personaggi principali nel corso di ogni vicenda, mettendo in evidenza come le
regolarità e i cambiamenti mostrati dai loro comportamenti interazionali nella successione degli
scambi verbali in cui sono coinvolti esprimano il funzionamento, i problemi, le eventuali
trasformazioni e gli esiti delle relazioni che intrattengono. Tutto ciò sarà svolto ovviamente da una
parte tenendo conto delle peculiarità e delle implicazioni sociali dei rapporti presi in esame (anche
in questa sezione senza rinunciare al ricorso agli spunti provenienti dai moderni studi sulla
comunicazione e sui rapporti interpersonali) e dall’altra prestando attenzione alle caratteristiche
specifiche dell’intreccio e in genere ai condizionamenti imposti dalle norme del genere letterario.
Da questa prospettiva si tenterà così di dare risposta a dibattute questioni interpretative
relative ai rapporti posti al centro delle vicende considerate. A proposito del Dyscolos, si prenderà
le mosse dai comportamenti assunti dal protagonista in interazione per esaminare come questi gli
consentano di evitare di entrare in relazione con gli altri e come si ripercuotano sul rapporto con sua
figlia, l’unico che intende portare avanti, e sulla vita dei membri del suo oikos frantumato, e per
comprendere in che cosa essi si modifichino dopo l’incidente occorsogli e se raffigurino un
mutamento non solo nella sua personalità ma anche nell’avere a che fare con gli altri. Nel caso della
Samia, l’attenzione si rivolgerà in primo luogo alla relazione posta al centro dell’intreccio, quella,
apparentemente esemplare, tra il vecchio Demea e il figlio adottivo Moschione, che si incrina a
causa di un equivoco: attraverso l’analisi dei comportamenti comunicativi dispiegati
vicendevolmente dai due, si cercherà di identificare con maggiore chiarezza i problemi da cui essa è
afflitta e di affrontare la questione del suo epilogo; in seguito sarà trattato il rapporto tra lo stesso
Demea e l’etera Criside, che conosce nel corso dell’azione una rottura ed una ricomposizione,
3
illustrando, anche in questo caso sulla base dei loro comportamenti interazionali, i termini dell’una
e dell’altra.
Da quanto affermato, si comprende come il mio sia uno studio-pilota, che utilizza un metodo
composito e per molti aspetti nuovo per catturare un oggetto di indagine tanto accattivante quanto
sfuggente: anche per questa ragione, ho ritenuto opportuno che precedessero l’analisi delle
commedie una presentazione degli ambiti e delle categorie fondamentali della pragmatica nonché
dei contributi forniti da altre discipline allo studio delle interazioni verbali e dei rapporti umani, una
riflessione sul rapporto tra la pragmatica e le caratteristiche del testo drammatico, una veloce
rassegna delle applicazioni di metodi e nozioni della disciplina sinora svolte in filologia classica e
in ultimo una più dettagliata descrizione della mia applicazione, che seguono il presente paragrafo
andando a completare questa parte introduttiva.
4
1.2 La pragmatica
1.2.1 Definizione e ambiti
La prima definizione di pragmatica si deve al filosofo americano Charles Morris, che in uno
scritto del 1938 la indica insieme a sintassi e semantica come una delle componenti della semiotica,
precisando che mentre la sintassi è lo studio delle relazioni tra i segni e la semantica quello delle
relazioni tra i segni e gli oggetti, la pragmatica si occupa dei rapporti tra i segni e i loro utenti7. Se
Morris estendeva l’ambito della pragmatica ai sistemi di segni in generale e a gran parte dei
fenomeni che intervengono nel loro funzionamento, nella successiva riflessione si è presto
affermata la tendenza ad usare il termine in particolare a proposito del linguaggio8.
Applicando dunque a quest’ultimo la definizione di Morris, si può facilmente comprendere
l’importanza, per la disciplina, della concreta situazione comunicativa nella quale i parlanti sono
necessariamente immersi quando usano la lingua, o almeno di quelle tra le sue componenti che
risultano rilevanti per quanto si dice. In ragione di ciò si afferma spesso anche che la pragmatica è
lo studio della lingua in un contesto9. Per contesto non si intende semplicemente la situazione
oggettiva di proferimento di un enunciato, della quale fanno parte ad esempio l’identità di parlante e
interlocutore, il tempo e il luogo del proferimento, ecc.: esso comprende anche le dimensioni
psicologica e sociale degli interlocutori, ossia la rete di credenze, intenzioni, attività, rapporti che li
caratterizzano e ha perciò un carattere complesso e dinamico, in quanto suscettibile di continui
cambiamenti10.
Da quanto detto emerge come la pragmatica sia necessariamente una disciplina al crocevia
di diverse aree di ricerca, quali ad esempio la filosofia del linguaggio, la linguistica, la retorica, la
semiotica, la sociologia, la psicologia. L’ampiezza di nozioni come quelle, già richiamate nella sua
definizione, di “uso” e “contesto” ha fatto sì che essa finisse col tempo per configurarsi come un
vero e proprio conglomerato di ricerche volte a spiegare, in forme e modi anche tra loro molto
distanti, il funzionamento della lingua nei processi comunicativi, ricerche che non sono soltanto
linguistiche, ma si estendono a tutte le aree disciplinari poco prima ricordate. Soltanto da alcuni
anni essa è impegnata nel tentativo di abbandonare questo status e trovare i propri fondamenti
epistemologici, definire il proprio strumentario concettuale e porsi come sistema coerente di
7
Morris 1938, 77-138.
In Levinson 1993, 17-49 e Bertuccelli Papi 1993, 1-117 vengono presentate e discusse le più autorevoli concezioni di
pragmatica. Sulla sua definizione cfr. anche Caffi 2002, 11-22 e Bianchi 2003, 4-20.
9
Cfr. Bianchi 2003, 10, Kerbrat-Orecchioni 2000, 70.
10
Per la nozione di contesto e la differenziazione tra questo e la situazione comunicativa in generale cfr. van Dijk 1980,
282.
8
5
conoscenza della lingua e dell’uomo. In questo processo ancora in fieri si fronteggiano due opposte
tendenze. Ad una visione piuttosto ristretta della disciplina, che l’ha collocata al gradino più alto di
una scala gerarchica ospitante tutte le branche della linguistica, dalla fonologia alla semantica,
individuandone il dominio nell’attribuzione del significato effettivo all’interno del contesto d’uso e
dunque ritenendola complementare alle altre11, se ne è infatti presto contrapposta una più generale,
che intende la pragmatica come una prospettiva in grado di spiegare i fenomeni linguistici
osservabili a vari livelli correlandoli ai tratti contestuali, dunque come la cornice entro la quale
inserire tutte le altre discipline linguistiche12.
Se il primo modo di concepire la pragmatica la vede come studio di determinate tematiche
legate alle influenze che il contesto e il linguaggio possono reciprocamente esercitare l’uno
sull’altro, quali la deissi, gli atti linguistici, i significati impliciti dell’enunciato, il secondo, pur
riconoscendo la centralità di questi argomenti, ritiene che essi non esauriscano l’ambito della
disciplina, la quale non può trascurare nessuno dei campi in cui si articola lo studio del linguaggio
ma deve esaminarli tutti dal punto di vista del processo comunicativo al fine di rendere conto di
alcune loro fondamentali dimensioni altrimenti difficili da cogliere.
Da quest’ultima visione procedono, sempre più numerosi e seguiti, i tentativi di rendere la
pragmatica “una teoria generale del sistema comunicativo nel cui àmbito diverse dimensioni
convergono e interagiscono”13, ossia non solo quelle linguistiche e retorico-stilistiche, ma anche
quelle antropologiche, sociologiche e psicologiche. Criterio unificante di queste prospettive è una
considerazione a tutto tondo del soggetto parlante, che nell’uso del linguaggio mette in campo
dimensioni plurime, da quella fisica a quella sociale, a quella cognitiva e a quella affettiva, che non
possono essere ignorate se non si intende fare di esso un semplice simulacro formale14. Se su un
piano teorico si cerca perciò di stabilire i punti di raccordo tra le diverse discipline richiamate,
ritenendo di non poter prescindere da nozioni elaborate in campo sociologico come quella di
“faccia”15 nella riflessione sulla costituzione del significato degli enunciati e riconoscendo l’agire
simultaneo di fattori sociali e psicologici nella produzione e nella strutturazione di un atto
linguistico, nella pratica dell’analisi delle interazioni verbali, nelle quali massimamente i soggetti
costruiscono e negoziano le rispettive identità, si accolgono frequentemente i metodi e i risultati di
11
Questa concezione “componenziale” della pragmatica è vicina a quella che vede nella pragmatica il “waste-paper
basket” (Bar-Hillel 1971) della semantica, destinandola a quell’insieme di fenomeni che oltrepassano il dominio della
semantica (cfr. Bertuccelli Papi 1993, 96-97).
12
Questa visione della disciplina è nota come “prospettica” (Bertuccelli Papi 1993, 98 e sgg.).
13
Caffi 2001, I. Favorevoli ad una visione ampia della pragmatica sono anche Bertuccelli Papi 1993, 300-303 e Mey
2001, 3-15.
14
Cfr. Bertuccelli Papi, in particolare 302 e Caffi 2001, 1-11, 16-17 e 32-35.
15
Di questa nozione parlerò diffusamente infra, 26 e 171-177.
6
approcci nati in ambiti esterni alla linguistica, come ad esempio quelli dell’analisi conversazionale
di matrice etnometodologica16.
In ogni caso, appare utile illustrare i temi finora privilegiati dall’indagine pragmatica, a
proposito dei quali essa ha raggiunto molti dei suoi risultati più originali e interessanti, per
mostrarne dettagliatamente la novità rispetto agli approcci tradizionali al linguaggio.
1.2.1.1 La pragmatica linguistica
Quella che segue è una presentazione al tempo stesso teorica e storica: ritengo infatti
necessario situare le molteplici aree di interesse della disciplina nei diversi contesti storico-culturali
in cui si sono sviluppate, al fine di cogliere in profondità le ragioni delle prospettive da esse adottate
sul linguaggio, spesso tra loro notevolmente differenti, e prendere in esame le possibilità e i
tentativi di conciliazione. In ragione della duplice pretesa di completezza e sinteticità,
quest’introduzione andrà inevitabilmente incontro a semplificazioni, che, forse difficilmente
accettabili nell’ambito della riflessione teorica sulla disciplina, possono a mio parere ritenersi
legittime nel presente tentativo, tutto sommato pionieristico anche se successivo ad altri di taglio e
portata vari, di applicare alcuni dei suoi risultati allo studio del teatro e della letteratura antichi17. Le
note corredanti questa introduzione contengono comunque i principali riferimenti bibliografici
relativi a questo o quel problema specifico. Nel seguito dello studio, inoltre, ogni momento
dell’applicazione sarà preceduto da una trattazione dettagliata dei concetti e dei temi della
pragmalinguistica considerati, nella quale affronterò anche, pur senza perdere di vista le finalità di
questa ricerca, alcuni tra i numerosi dibattiti apertisi tra gli studiosi relativamente alla loro
interpretazione e al loro impiego, chiarendo e motivando le scelte da me di volta in volta operate in
proposito.
1.2.1.1.1 L’influenza del contesto sulla parola: la deissi
Uno dei fenomeni linguistici che rappresentano in modo più evidente l’intervento del
contesto nella determinazione del contenuto degli enunciati del linguaggio naturale è la deissi18. Per
decodificare segni deittici come “questo”, “io”, “qui”, “ora” ecc. occorre necessariamente conoscere
le coordinate contestuali in cui essi sono proferiti, date dal soggetto che parla e dalle sue intenzioni,
16
Alla discussione sulla possibilità di includere l’analisi conversazionale nella pragmatica farò cenno infra, 28-30.
Di essi parlerò infra, 49-55.
18
La deissi costituisce uno degli ambiti più contesi tra semantica e pragmatica. Per una discussione dell’argomento e
una presentazione chiara e sintetica dei metodi di spiegazione del funzionamento delle espressioni deittiche cfr. Bianchi
2003, 31-48.
17
7
dal luogo e dal tempo del proferimento19. La deissi viene generalmente distinta in tre categorie
fondamentali, che sono quelle della persona, del luogo e del tempo.
Per deissi della persona si intende l’insieme delle espressioni che codificano nella
grammatica il riferimento al ruolo dei partecipanti in uno scambio comunicativo: ne fanno parte i
pronomi personali, gli aggettivi e i pronomi possessivi e la morfologia verbale. Tra i pronomi, la
prima persona codifica il ruolo del parlante, la seconda quella di uno o più interlocutori, la terza
quella di persone o entità che non sono né parlanti né interlocutori. Quest’ultima è comunque
diversa dalle prime due, in quanto non corrisponde a nessun ruolo specifico riguardo alla
partecipazione all’evento comunicativo. Inoltre, il plurale non si applica alla prima persona allo
stesso modo che alla terza: “noi” non indica infatti più di un parlante, mentre “essi” si riferisce a più
di un’entità di terza persona. In molte lingue inoltre esistono sistemi pronominali più ricchi che ad
esempio in italiano o in inglese. Tra le altre, il greco antico sovrappone alle differenze di persona
già illustrate quelle fondate sulla pluralità con il numero duale. In molte altre lingue, inoltre, sono
attestati due pronomi plurali di prima persona, di cui uno è inclusivo e l’altro esclusivo
dell’interlocutore. In altre ancora, i sistemi pronominali sono particolarmente ricchi poiché
distinguono il sesso del parlante, lo stato sociale della persona cui ci si riferisce, il grado di intimità
con quest’ultima, ecc.
Oltre ai pronomi e alla concordanza dei predicati, esistono altri modi per contrassegnare la
persona dei partecipanti. Ad esempio i titoli e i termini di parentela spesso appartengono a due
insiemi ben differenziati, l’uno per l’uso appellativo e l’altro per l’uso referenziale. Altre volte
capita invece che soltanto una parte dei nomi di questo tipo usati referenzialmente possa essere
usata anche per rivolgersi all’interlocutore (si pensi all’italiano “cugino”, generalmente non trovato
come vocativo). I vocativi sono di per sé interessanti, in quanto sintagmi nominali che si riferiscono
all’interlocutore senza essere incorporati nella sintassi dell’enunciato in cui compaiono. Essi
vengono distinti in appelli e allocuzioni. I primi servono a chiamare una persona o a individuarla
all’interno di un gruppo, occorrendo in modo naturale all’inizio di un enunciato e anzi spesso
all’inizio di un discorso e costituendo atti indipendenti. Quanto alle seconde, esse sono parentetiche
e possono comparire in tutte le posizioni. Le allocuzioni possono essere sempre usate come appelli,
mentre non tutte le forme di appello possono funzionare come allocuzioni20.
Il ruolo dei partecipanti può inoltre essere codificato in modo differente a seconda del tipo di
interazione: ad esempio, quando un’interazione non è faccia a faccia il modo il cui il parlante si
autointroduce può cambiare anche riguardo ai verbi e alle persone usate. I due ruoli fondamentali
19
La mia presentazione attinge abbondantemente a quelle dei manuali di pragmatica citati (in particolare Bianchi 2003,
28-31 e soprattutto Levinson 1993, 74-107).
20
Per l’opposizione tra appello e allocuzione cfr. Zwicky 1974, 787-801.
8
dei partecipanti (parlante e ascoltatore) non sono inoltre sempre gli unici ad essere differenziati
grammaticalmente, poiché diverse lingue modificano l’uso dei dimostrativi e il punto di vista a
seconda dei presenti all’evento comunicativo anche quando essi non vi partecipano o non sono
destinatari dell’enunciato che si sta proferendo.
La deissi spaziale codifica la collocazione spaziale rispetto alla posizione di chi parla,
segnalando in genere almeno la distinzione tra prossimale e distale (ossia rispettivamente vicino e
lontano dal parlante, come in greco ὅδε e οὗτος, indicanti ciò che è vicino a chi parla, dei quali il
primo è riferito in particolare a ciò che è presente e può essere visto e indicato, posti in opposizione
ad ἐκεῖνος, riferito a ciò che è lontano), ma potendo in diverse lingue contenere anche indicazioni
più precise (codificando ad esempio anche la distanza dall’interlocutore, come avviene in latino con
hic, iste e ille, o in italiano con “questo”, “codesto”, “quello”). Alcuni verbi presentano costituenti
intrinseci di tipo deittico: si pensi ad esempio all’opposizione presente in italiano tra “venire” e
“andare”, distinti in base alla direzione del movimento rispetto ai partecipanti all’evento
comunicativo. Un uso interessante della deissi di luogo è quello empatico, che consiste ad esempio
nel passaggio da “quello” a “questo” per manifestare vicinanza emotiva o in quello opposto per
mostrare distacco. Questa “deissi empatica”21 riveste, come si può immaginare, una certa
importanza per l’esame dei rapporti tra parlante e interlocutore (o interlocutori) nel corso di
un’interazione verbale, dato che fornisce spesso preziose indicazioni sul grado di distanza emotiva
che li separa e ha evidenti ricadute interazionali. Essa mostra come oltre a rappresentare, come si è
detto, un esempio di influenza del contesto sulla parola, l’uso della deissi possa costituire anche uno
dei modi in cui la parola trasforma il contesto22.
Le espressioni deittiche temporali codificano punti e intervalli di tempo relativamente al
momento in cui è stato prodotto un enunciato. Essi comprendono avverbi e avverbiali di tempo
(“ieri”, “oggi”, “ora”, “un mese fa”) e i tempi verbali. Come per gli altri tipi di deittici, l’uso di
quelli temporali richiede una competenza insieme linguistica e culturale, poiché le società hanno
diversi sistemi di categorizzare, misurare e suddividere il tempo (ci sono lingue che hanno lo stesso
termine per indicare il giorno del proferimento e il giorno prima, lingue che codificano con deittici
non solo i giorni immediatamente vicini a quello del proferimento, ecc.). Anche riguardo alla deissi
temporale possono esserci slittamenti del punto di vista: in latino e in greco ad esempio esistono i
tempi epistolari, con i quali il parlante pone come centro deittico non il tempo in cui ha codificato
gli enunciati di una lettera, ma quello di ricezione della stessa, assumendo dunque il punto di vista
del destinatario. Va inoltre notato che la deissi temporale è in grado di condizionare altri elementi
21
Lyons 1977, 677.
La deissi empatica è per le ragioni indicate alla base di comuni strategie di politeness. Per questo ne parlerò più
diffusamente nella presentazione dettagliata della mitigazione degli atti linguistici infra, 181.
22
9
deittici di una lingua, come ad esempio i saluti: si pensi all’italiano “buongiorno” e “buonanotte”,
usati non soltanto in momenti diversi, ma anche in fasi diverse di un incontro (ossia all’inizio il
primo e alla fine il secondo).
A queste categorie fondamentali si aggiungono generalmente quelle della deissi testuale e
della deissi sociale.
La deissi del discorso o testuale codifica il riferimento a segmenti del discorso in cui si situa
l’enunciato. Concerne pertanto l’uso, all’interno di un enunciato, di espressioni che si riferiscono ad
una parte del discorso che contiene quell’enunciato23. Essa non possiede espressioni specifiche, ma
utilizza generalmente espressioni tipiche della deissi temporale o di quella spaziale (“qui”, “ora”,
“prima”, “sopra”, ecc.).
La deissi sociale, infine, codifica le differenze sociali relativamente ai ruoli dei partecipanti
e soprattutto gli aspetti delle relazioni sociali che legano un parlante ai suoi interlocutori o alle
persone cui si riferisce. Molte lingue registrano distinzioni di grado estremamente sottili tra le
posizioni sociali che legano il parlante e l’interlocutore. Queste si trovano spesso codificate nella
morfologia ma si manifestano regolarmente anche nei vocativi e nella scelta dei pronomi: si pensi
ad esempio alla distinzione tra pronomi familiari come quello di seconda persona singolare e
pronomi di rispetto quali ad esempio in alcune lingue la seconda persona plurale (si pensi al
francese “vous”) e in altre la terza singolare o plurale (come rispettivamente l’italiano “Lei” e il
tedesco “Sie”). In alcune lingue i ruoli sociali dei partecipanti ad un’interazione possono essere
codificati anche in altri aspetti del sistema linguistico (ad esempio nelle scelte lessicali, nella
morfologia con particelle e affissi, nella prosodia, ecc.). Le forme del sistema verbale e pronominale
codificanti i rapporti tra parlante e interlocutore note come onorifici sono numerosissime nelle
lingue asiatiche, nelle quali nessuna frase potrebbe ricevere una descrizione linguistica completa
senza il ricorso alla deissi sociale. Di particolare interesse è inoltre la deissi che riguarda il rapporto
tra parlante e situazione. Quasi tutte le lingue presentano infatti un uso diverso a seconda del livello
di formalità della situazione, ma in alcune questa distinzione è grammaticalizzata in modo stabile.
Poiché la deissi sociale, oltre a identificare la persona del destinatario, ha la capacità di indicare la
posizione occupata nel contesto sociale in cui parlante e destinatario sono immersi, essa ha bisogno
di essere non soltanto percepita, ma anche accettata24.
23
Per la problematica differenziazione tra deissi testuale e anafora cfr. Levinson 1993, 97-98 (che in linea di principio
indica così la distinzione: “quando si riferisce ad un’espressione linguistica (o parte di discorso), il pronome ha funzione
deittico-testuale; quando si riferisce alla stessa entità di un’espressione linguistica precedente, il pronome è anaforico”
(97)).
24
Sulle forme di address e la deissi sociale in generale cfr. anche Mey 2001, 272-275, che a proposito della deissi
sociale in alcune lingue antiche osserva: “The earlier languages of the Indo-European family did not have a distinctive
possibility of showing respect through the use of lexical or morphological categories: thus Cicero expostulating with
Catiline in the Roman senate, the dying Caesar speaking to his assassin Brutus, the ghost of father Anchises addressing
10
Come si è visto, i sistemi deittici delle lingue naturali non sono organizzati arbitrariamente
intorno a tratti di uno qualsiasi dei numerosi mezzi e contesti d’uso della lingua. Viene invece
assunta come punto di riferimento l’interazione faccia a faccia: per questa ragione la deissi
costituisce l’espressione più evidente del fatto che le lingue naturali sono principalmente
caratterizzate per essere usate nello scambio verbale diretto. Un’altra caratteristica generalmente
(ma non sempre) vera della deissi è il suo carattere egocentrico, ossia organizzato intorno alla
persona del parlante, alla sua collocazione spaziale, al momento in cui prende la parola, al punto del
discorso in cui si trova nel corso della produzione del suo enunciato, al suo status sociale e al
rapporto tra questo e quello degli interlocutori e delle entità cui si fa riferimento.
Le espressioni deittiche possono avere un’utilizzazione gestuale o simbolica. La prima fa sì
che certi termini possano essere interpretati soltanto con riferimento ad un controllo sensoriale
dell’evento comunicativo (ad es. in greco ciò accade spesso col pronome-aggettivo ὅδε, indicante
ciò che appare vicino o è comunque in vista rispetto alla persona del parlante), mentre la seconda
richiede semplicemente, per essere interpretata, la conoscenza dei parametri fondamentali
dell’evento comunicativo (ciò che accade con gli altri pronomi dimostrativi). Le stesse espressioni
sono tuttavia anche soggette ad usi non deittici (si pensi ad es. all’uso del “tu generico”, ecc.).
1.2.1.1.2 Fare cose con le parole: la teoria degli atti linguistici
Alle origini della pragmatica è la riflessione sugli usi del linguaggio sviluppatasi nel corso
del Novecento25, la quale dà i suoi frutti in filosofia prima ancora che in linguistica, conducendo
l’oxoniense John L. Austin, esponente della filosofia del linguaggio ordinario26, a soffermarsi sugli
impieghi della lingua diversi dalla semplice rappresentazione di condizioni e stati del reale.
Partendo dalla differenziazione aristotelica tra discorso apofantico e non apofantico, ossia tra
enunciati assertivi, suscettibili di una valutazione in termini di verità o falsità, ed enunciati che,
Aeneas (Vergil, Aen. VI :851), Horace rejoicing in his former lover Lyce’s lost looks (Od. IV:xiii) and ‘Yeshua HaNostri’ (alias ‘Jesus the Nazarene’) confounding Pilate (in Mikhail Bulgakov’s The Master and Margarita) all use the
uniform Latin mode of addressing a singular interlocutor, viz., tu ‘you (sg.)’: tu Catilina, tu Brute, tu Romane, tu Lyce,
tu Pilate” (272).
25
Conte 1983, 94-95 individua le tre ragioni fondamentali della nascita e dello sviluppo della pragmatica linguistica
nella riflessione filosofica sulle funzioni e sugli usi del linguaggio, nella reazione ad una carenza della grammatica
generativa, che, concentrata sulla sintassi, non considera la molteplicità delle funzioni di linguaggio né la rilevanza della
situazione di discorso, e nella nascita della linguistica testuale, che ha operato due estensioni del dominio della
linguistica, quella al co-testo dell’enunciato e quella al contesto pragmatico del testo. Una trattazione più ricca ma al
contempo piuttosto agevole delle origini filosofiche della pragmatica è contenuta in Bianchi 2003, 12-20. Sullo sviluppo
del termine “pragmatica” si sofferma Levinson 1993, 17-21.
26
Per una presentazione sintetica della filosofia del linguaggio ordinario, che sviluppa rispetto alla tradizione
precedente una prospettiva nuova relativamente al linguaggio naturale, apprezzandone la ricchezza e il potere
espressivo, e dei suoi esponenti cfr. Bianchi 2003, 14-15.
11
come la preghiera, non possono invece essere valutati secondo questi criteri27, Austin traccia una
distinzione tra enunciati “constativi”, descriventi stati del mondo (ad es. “Il gatto è sotto il tavolo”),
ed enunciati “performativi”, utilizzati per compiere atti regolati da norme, istituzioni o consuetudini
sociali (ad es. “Scommetto mezzo scellino che domani pioverà” o “Sì”, pronunciato dagli sposi ad
un dato momento della cerimonia nuziale)28. In una prima fase della sua riflessione, il filosofo
inglese riteneva possibile isolare i performativi in una classe ben definita da un punto di vista
grammaticale e lessicale. Li vedeva infatti caratterizzati dalla presenza di determinati verbi alla
prima persona dell’indicativo presente attivo e come si è visto sosteneva che, anziché veri o falsi,
potessero essere soltanto riusciti o non riusciti, ossia compiere effettivamente gli atti per cui
vengono impiegati o fallire in seguito alla violazione di regole (o condizioni) di tre tipi, riunite nei
seguenti gruppi:
condizioni A= Deve esistere una procedura convenzionale accettata, consistente nel
pronunciare certe parole da parte di determinate persone in certe circostanze, che ha come effetto
convenzionale il compimento dell’atto e deve essere applicata in modo adeguato, cioè dalle persone
indicate e in circostanze appropriate. L’atto può fallire perché la procedura convenzionale invocata
nel compiere l’atto non esiste (ad es. nelle società occidentali non ha alcun effetto giuridico dire alla
propria moglie “Divorzio da te”, poiché l’atto sociale o giuridico del divorzio non viene effettuato
tramite atto linguistico, mentre in alcune società musulmane la procedura è invece proprio questa),
oppure perché la procedura convenzionale non viene usata nelle circostanze previste (la frase che
realizza il matrimonio, ad es., non ha senso se non pronunciata dinanzi alle autorità che possono
celebrarlo);
condizioni B= La procedura deve essere eseguita in modo corretto e completo. L’atto può
dunque fallire in seguito a difetti o lacune nella procedura (ad es. se, quando ho annunciato che
scommetterò su un fatto, nessuno raccoglie la scommessa, con una frase come “Ci sto”);
condizioni Γ29= Qualora la procedura sia destinata all’impiego da parte di persone aventi
certi pensieri o sentimenti o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenziale da parte
di qualcuno degli interessati, allora chi si richiama alla procedura deve effettivamente avere quei
pensieri o quei sentimenti e i partecipanti devono avere l’intenzione di seguire quel comportamento
27
Aristot., Int. 17a (ἔστι δὲ λόγος ἅπας µὲν σηµαντικός, οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ ὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην·
ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς, ἀλλ’ ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει· οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει, οἷον ἡ εὐχὴ λόγος µέν,
ἀλλ’ οὔτ’ ἀληθὴς οὔτε ψευδής. οἱ µὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, —ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς οἰκειοτέρα ἡ σκέψις,— ὁ
δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας).
28
Austin 1987, 7-14.
29
La motivazione dell’indicazione del terzo gruppo di ragioni di cattiva riuscita di un atto performativo (corrispondente
in negativo al terzo gruppo di condizioni di felicità dello stesso) con una lettera dell’alfabeto greco risiede nel fatto che
Austin le ritiene di ordine diverso rispetto alle altre: se queste ultime (quelle dei gruppi A e B) determinano la non
riuscita dell’atto, quelle del gruppo Γ non annullano l’atto, ma lo rendono semplicemente insincero. È per questo che
Austin etichetta i primi due tipi di infelicità come “colpi a vuoto” e l’ultimo come “abuso” (Austin 1987, 17-19).
12
e in seguito devono effettivamente adottarlo. La procedura convenzionale è viziata se viene usata
senza che si abbiano i pensieri, i sentimenti e le intenzioni richiesti dalla procedura stessa o anche
quando i partecipanti non si comportano in seguito in modo conforme all’atto eseguito. Anche se in
questi casi l’atto è tecnicamente valido, si possono far valere considerazioni di insincerità per
poterlo annullare.
In seguito lo stesso Austin si accorse che anche le asserzioni, che aveva precedentemente
classificato come constativi, erano soggette a condizioni di felicità, ad esempio rispetto a quanto
implicano logicamente, a quanto danno per implicito o a quanto presuppongono: quando si
producono asserzioni contraddittorie, insincere o presupponenti fatti non veri si dirà che esse sono
infelici o nulle piuttosto che false.
La distinzione precedentemente proposta tra constativi e performativi venne dunque
annullata da Austin, il quale si dedicò invece all’elaborazione di una teoria generale degli atti che è
possibile compiere con un enunciato30. Egli distinse tre tipi di atto che è possibile compiere
simultaneamente proferendo un enunciato: l’atto locutorio, l’illocutorio e il perlocutorio.
Atto locutorio= E’ il fatto di dire qualcosa, il proferimento di un’espressione ben formata
sintatticamente e dotata di un significato (ossia esprimente un riferimento e una predicazione).
Atto illocutorio= Corrisponde all’azione che viene effettivamente compiuta nel pronunciare
l’atto locutorio, determinata dalla sua forza, ossia dalla funzione comunicativa che assume in un
determinato contesto. Lo stesso enunciato (ad es. “Lascia perdere!”), pur mantenendo uguale
significato, può avere il valore di comando, consiglio, richiesta, sfida ecc. L’atto illocutorio è
convenzionale, in quanto risulta esplicitabile attraverso formule come ad es. le frasi performative
esplicite “Io ti ordino/consiglio/supplico, ecc.”.
Atto perlocutorio= Riguarda gli effetti ottenuti dall’atto illocutorio, le conseguenze
psicologiche o comportamentali dello stesso, intenzionali o meno. Ad esempio se il consigliare è,
come abbiamo detto, un atto illocutorio, il convincere è invece una perlocuzione. Le conseguenze
perlocutorie dei nostri atti illocutori dipendono dalle specifiche circostanze in cui l’atto viene
compiuto e non sono sempre programmabili in quanto non convenzionali31. Con un atto di
avvertimento posso infatti ottenere l’effetto di mettere in guardia una persona ma anche quello di
allarmarla, di spaventarla o al contrario di divertirla. Per questo gli effetti perlocutori si distinguono
30
Austin 1987, 42, 52-62, 63-70.
Austin 1987, 77 ritiene che la convenzionalità dell’atto illocutorio sia ciò che primariamente lo differenzia da quello
perlocutorio: “ … si può dire che il primo sia convenzionale, nel senso che lo si potrebbe per lo meno rendere esplicito
attraverso la formula performativa, mentre ciò non si potrebbe fare con il secondo. Così possiamo dire «io sostengo
che» o «io ti avverto che» ma non possiamo dire «io ti convinco che» o «io ti allarmo che». Inoltre, possiamo chiarire
del tutto se qualcuno ha sostenuto una tesi o meno senza accennare alla questione se ha convinto qualcuno o no”.
31
13
in “obiettivi perlocutori”, rappresentati dagli effetti programmati di un certo dire, e “seguiti
perlocutori”, costituiti invece da quelli non previsti32.
Al fine di classificare le possibili forze illocutorie degli enunciati, Austin redige un elenco di
verbi inglesi capaci di rendere esplicita la forza di un enunciato e di chiarire quale atto illocutorio si
sta eseguendo nel proferire quell’enunciato. Egli riunisce questi verbi nei seguenti cinque gruppi: 1)
verdettivi, consistenti nell’emissione di un giudizio, per esempio da una giuria (assolvere, valutare,
diagnosticare, riconoscere colpevole, ecc.); 2) esercitivi, svolti nell’esercizio di un potere, di un
diritto, di un’influenza (ad es. nominare, ordinare, abolire, consigliare, dichiarare qualcosa chiuso o
aperto, concedere, supplicare, chiedere, decretare, proclamare, pregare, dare nome, scomunicare,
avvertire, condannare); 3) commissivi, caratterizzati dal fatto di impegnare chi li pronuncia ad una
certa condotta (come promettere, impegnarsi, incaricarsi di, giurare di, scommettere, schierarsi per),
ecc.; 4) comportativi, i quali includono la nozione di reazione ai comportamenti degli altri (ad es.
scusarsi, ringraziare, dolersi, felicitarsi, criticare, (dis)approvare, salutare, benedire, augurare,
sfidare); 5) espositivi, attraverso i quali si illustrano opinioni, si chiariscono ragioni, si portano
avanti argomentazioni (ad es. affermare, negare, classificare, obiettare, replicare, domandare,
menzionare, ecc.).
La classificazione di Austin risulta, come egli stesso ammette nel presentarla33, imperfetta
anche per la possibile sovrapposizione delle categorie individuate. Per questo negli anni successivi
sarà sottoposta a critiche e sostituita da altre classificazioni. La novità più interessante della teoria di
Austin, che ha resistito a molte critiche e costituisce ancora oggi la base per la riflessione sugli atti
linguistici, è senza dubbio rappresentata dalla nozione di illocuzione (o atto illocutorio), in
precedenza ignota nella riflessione sulla lingua o comunque da essa trascurata.
Gli scritti di Austin divennero presto, anche dopo la sua scomparsa, la base di una riflessione
sugli atti linguistici il cui sviluppo si deve soprattutto al filosofo americano John R. Searle.
Sicuramente influenzato dagli orientamenti filosofici e linguistici vigenti negli Stati Uniti negli anni
’6034, Searle dà degli atti una caratterizzazione linguistica: dopo averli assunti come fondamento
della comunicazione linguistica35, ne individua le condizioni di realizzazione in forma di regole che
ascrive alla competenza linguistica dei parlanti.
Le regole che devono essere rispettate per potere utilizzare l’indicatore di forza illocutoria in
modo appropriato sono le seguenti: 1) una regola legata al contenuto proposizionale dell’enunciato
32
Austin 1987, 88.
Austin 1987, 110 e 111.
34
Per il rapporto tra la visione di Searle e i paradigmi filosofici e linguistici forti in America negli anni ’60 (in
particolare il generativismo) cfr. Bertuccelli Papi 1993, 29-30 e Caffi 2002, 39.
35
Searle 1976: “ogni comunicazione linguistica comporta atti linguistici” e “gli atti linguistici … sono le unità minime
o di base della comunicazione linguistica” (40).
33
14
in cui si trova l’atto (ossia a ciò che viene detto in esso): ad esempio per eseguire una promessa
occorre che l’enunciato predichi un atto futuro del parlante, mentre per eseguire un ringraziamento
l’enunciato deve predicare un atto passato dell’interlocutore; 2) una regola includente le condizioni
preparatorie di un atto, cioè quelle che motivano o rendono possibile il compimento dell’atto: ad
esempio, sono condizioni preparatorie di una promessa il fatto che l’ascoltatore preferisce che il
parlante compia l’atto e che il parlante ne sia informato ma anche il fatto che non è ovvio che il
parlante avrebbe fatto ciò che promette anche senza prometterlo; sono condizioni preparatorie di
una richiesta il fatto che l’ascoltatore è in grado di compiere l’azione richiesta e il parlante lo sa e il
fatto che non è ovvio che l’ascoltatore compia l’azione richiesta spontaneamente, senza cioè l’atto
di richiesta; 3) una regola di sincerità, costituita dalla sincerità degli stati psicologici espressi nei
diversi atti (ad esempio nelle richieste il desiderio che l’ascoltatore compia l’azione che gli viene
richiesta, nelle promesse l’intenzione del parlante di compiere l’azione promessa, ecc.); 4) una
regola essenziale, la quale fa sì che l’enunciazione di promesse, richieste, ordini, ecc. conti come
esecuzione di questi atti36.
In seguito Searle tenta una nuova classificazione degli atti illocutori in sostituzione di quella
austiniana, da lui fortemente criticata. A tale scopo distingue quelle che a suo parere sono le
dimensioni di variazione degli atti illocutori, individuandone almeno dodici, tra le quali ad esempio
quella dello scopo illocutorio (che per la richiesta consiste nel tentativo di indurre il destinatario a
fare qualcosa, per la promessa nell’assunzione, da parte del parlante, di un impegno a fare qualcosa,
ecc.)37, quella della direzione del vettore di adattamento (in quanto alcune illocuzioni, come
l’asserzione, tendono ad adattare le parole al mondo, mentre altre, come la promessa e la richiesta,
tendono all’opposto ad adattare il mondo alle parole), quella degli stati psicologici espressi (ad es.
credenza nella affermazione, intenzione nella promessa, volere o desiderio nella richiesta e
nell’ordine, ecc.), e ancora quelle dell’intensità con cui si presenta lo scopo illocutorio, dell’influsso
che le differenze di status tra parlante e interlocutore possono esercitare sulla forza illocutoria, delle
differenze relative al rapporto dell’enunciato con gli interessi degli interlocutori, e così via.
Sulla base di queste dimensioni (soprattutto delle prime tre, che ritiene le più importanti)
egli distingue le seguenti cinque classi di illocuzione:
1) rappresentativi: sono gli atti linguistici con cui si esprimono le proprie credenze sul
mondo (affermare, asserire, credere, ecc.). Usandoli il parlante cerca di adattare le sue
parole al mondo e si impegna alla verità di quanto afferma;
36
Searle 1976, 95-103.
È importante chiarire che secondo Searle lo scopo illocutorio non si identifica con la forza illocutoria, ma ne è
soltanto una componente. Ad esempio, come lo stesso autore precisa, la richiesta e il comando hanno lo stesso scopo
illocutorio ma differiscono quanto alla forza (Searle 1978a, 170).
37
15
2) direttivi: con essi si tenta di indurre gli altri a fare o a non fare qualcosa (es. gli atti di
vietare, ordinare, richiedere, ma anche sfidare e domandare). Attraverso un direttivo il
parlante cerca di far sì che il mondo si adatti alle sue parole, mediante l’intervento del
destinatario;
3) commissivi: con essi il parlante si impegna a fare qualcosa in futuro (es. promettere,
incaricarsi, rifiutare, scommettere), perciò vuole che il mondo si adatti alle sue parole;
4) espressivi: sono gli atti linguistici il cui scopo è quello di esprimere gli stati psicologici
del parlante (come congratularsi, rallegrarsi, condolersi, ringraziare, scusarsi). Negli
espressivi non si riscontra nessuna direzione di adattamento, in quanto la verità della
proposizione espressa viene data per scontata;
5) dichiarazioni: sono gli atti linguistici capaci di modificare stati del mondo, spesso stati
istituzionali (es. sposare, dichiarare guerra, condannare, licenziare). L’uso di un
dichiarativo è regolato da complesse istituzioni sociali, e per compierlo il parlante deve
avere un certo status giuridico o sociale. In questo caso secondo Searle la direzione di
adattamento è duplice, sia dalle parole al mondo sia dal mondo alle parole38.
Ancora a Searle si deve l’introduzione della nozione di atto linguistico indiretto, indicante i
“casi in cui un atto illocutorio viene eseguito indirettamente attraverso l’esecuzione di un altro”39.
Capita infatti spesso nell’interazione reale che atti illocutori di qualunque tipo vengano espressi non
in modo letterale, ossia attraverso il performativo esplicito o l’uso di modi verbali appropriati, ma
attraverso forme tipiche di atti linguistici diversi: si pensi ad esempio alla richiesta, che non viene
sempre comunicata con una frase performativa esplicita (del tipo “Io ti chiedo di passarmi il sale”) o
con un imperativo (“Passami il sale”), ma si trova di solito espressa con enunciati destinati ad altri
atti linguistici (come ad esempio “Puoi passarmi il sale?” o “Ti dispiacerebbe passarmi il sale?”, “Ti
sarei grato se mi passassi il sale”, “Mi servirebbe il sale”, ecc., i quali non possiedono come parte
del loro significato una forza imperativa e in determinate situazioni potrebbero essere usati anche
nel loro significato letterale). Secondo Searle pronunciando un atto indiretto il parlante compie sia
l’atto illocutorio letterale sia quello non letterale (nel caso del nostro primo esempio, sia la domanda
sia la richiesta). Lo studioso nota come in generale la produzione di un atto linguistico indiretto
avvenga con il riferimento alla soddisfazione delle regole o condizioni di felicità dell’atto stesso (ad
esempio per una richiesta affermando che è soddisfatta la condizione di sincerità, ossia il fatto che il
parlante vuole che l’ascoltatore compia l’azione richiesta, oppure chiedendo se sia soddisfatta la
condizione preparatoria rappresentata dal fatto che l’ascoltatore è in grado di compiere l’azione).
38
39
Searle 1978a, 180-188.
Searle 1978b, 253.
16
Secondo Searle la comprensione di un atto linguistico indiretto è resa possibile dai principi che
reggono la conversazione operanti sul bagaglio di conoscenze dei partner dello scambio in cui
occorre l’atto indiretto40 oltre che dai meccanismi di funzionamento degli atti linguistici; molti di
essi si sono inoltre convenzionalizzati, tanto da richiedere per essere compresi un processo
inferenziale minimo a chi ne è destinatario. La motivazione principale, sebbene talvolta non la sola,
per l’uso di queste forme indirette è secondo Searle la cortesia: usando forme come quelle citate si
evita infatti di presumere che l’ascoltatore sia in grado o disposto a compiere un atto e gli si rende
più agevole un rifiuto41.
Come quella austiniana, anche la classificazione degli atti linguistici proposta da Searle è
stata messa in discussione al pari delle caratterizzazioni degli atti da lui effettuate. Entrambe sono
tuttavia ancora ritenute un valido strumento per l’individuazione dei comportamenti esibiti dai
parlanti in una situazione comunicativa, venendo ancora, sia pure limitatamente o con
accompagnamento di precisazioni e specificazioni, impiegate nell’analisi delle interazioni verbali42.
1.2.1.1.3 Implicatura e presupposizione
I principi della cooperazione conversazionale invocati da Searle per spiegare il
funzionamento e la comprensione degli atti linguistici indiretti sono quelli individuati e discussi dal
filosofo Herbert Paul Grice, le cui idee sulle interazioni verbali hanno avuto un’importanza
fondamentale per lo sviluppo di numerosi ambiti della pragmatica.
Grice parte dalla considerazione che l’interazione costituisca soltanto una delle tante attività
finalizzate e razionali compiute dagli individui, essendo soggetta perciò a determinate procedure
che devono essere rispettate da tutti coloro che vi partecipano perché possa andare avanti. La
comunicazione è dunque un’attività cooperativa: i nostri scambi verbali sono sforzi di collaborare
secondo uno scopo e una direzione comuni, stabiliti all’inizio della conversazione o negoziati nel
suo svolgersi. A governarli è secondo Grice un principio di cooperazione, che egli espone nei
termini seguenti: “Il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui
avviene, con lo scopo o l’orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato”43.
Ad ogni stadio della conversazione certe mosse, pur possibili, saranno rifiutate in quanto
inappropriate dal punto di vista conversazionale. Il principio di cooperazione si declina in massime
40
I principi della conversazione cui Searle si riferisce sono quelli individuati da Grice nella sua teoria della
cooperazione conversazionale (Grice 1978, 199-219; cfr. paragrafo successivo, 1.2.1.1.3).
41
Searle 1978b, 270-271.
42
È quanto si osserva ad esempio in Caffi 2001 (vd. soprattutto 338-345 e 350-353) e Caffi 2002, 35, 38-39, 53-65 (le
ultime pagine citate contengono l’analisi di un testo letterario secondo le categorie di Austin e di Searle).
43
Grice 1978, 204.
17
conversazionali, rispecchianti le aspettative che un soggetto può ragionevolmente intrattenere sulle
mosse comunicative del suo interlocutore, sempre che ne presupponga la razionalità. Le massime
sono suddivise in quattro gruppi.
Massime di Quantità= 1) Dai un contributo tanto informativo quanto richiesto nello scambio
linguistico in corso; 2) Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto.
Massime di Qualità= 1) Non affermare ciò che credi essere falso; 2) Non affermare ciò per
cui non hai prove adeguate.
Massima di Relazione= Sii pertinente.
Massime di Modo= 1) Evita di esprimerti con oscurità; 2) Evita di essere ambiguo; 3) Sii
breve (evita la prolissità non necessaria); 4) Sii ordinato nell’esposizione.
Su uno sfondo di sostanziale rispetto del principio di cooperazione, sono possibili diversi
atteggiamenti in relazione alle massime: 1) il parlante può semplicemente conformarsi ad esse; 2) il
parlante può violare una massima, ad es. per mentire o ingannare l’interlocutore. Naturalmente, in
questo caso il parlante sceglie di non cooperare senza però rendere manifesta la sua scelta. E’
proprio sfruttando l’aspettativa generale di cooperazione (e quindi di sincerità) che è possibile
mentire; 3) il parlante può ancora scegliere di uscire dal raggio di azione di una massima
manifestando la decisione di non cooperare; 4) qualora due massime entrino tra loro in conflitto, il
parlante può trovarsi a decidere quale delle due rispettare. Ad esempio, se due parlanti A e B stanno
insieme programmando un viaggio in Francia per andare a far visita al loro amico C e A domanda a
B “Dove abita C?” un’eventuale risposta di B: “Da qualche parte nel sud della Francia” è
compatibile col principio di cooperazione se si suppone che esista un conflitto tra la massima di
quantità (che imporrebbe a B di essere più preciso) e la seconda massima di qualità (che impone a B
di dire solo cose per cui ha prove adeguate) e inferirne che B non sa precisamente dove C abiti; 5)
un parlante può sfruttare una massima per ottenere effetti comunicativi particolari. In caso di
violazione palese di una massima, infatti, il destinatario deve avanzare ipotesi supplementari per
scartare l’ipotesi di una trasgressione. Ad esempio l’enunciato “La guerra è guerra” essendo una
tautologia viola la massima di quantità, ma vuole in genere comunicare più di quanto effettivamente
dice. Casi analoghi a quello appena menzionato sono rappresentati da enunciati palesemente falsi in
quanto pronunciati con ironia, impieganti metafore, iperboli, sineddochi o altre figure retoriche.
Non tutte le massime sono sullo stesso piano e anche la loro violazione assume un peso
diverso a seconda della massima che si decide di ignorare. Ad esempio, mentire sarà giudicato con
maggiore severità rispetto al violare la massima di relazione. Comunque i parlanti hanno a
disposizione una serie di espressioni, come “per quanto ne so”, “tra parentesi”, “a proposito”,
“come sai”, ecc. per segnalare convenzionalmente che stanno violando o rischiano di violare una
18
massima: l’esistenza di tali espressioni è il segno del fatto che i parlanti sono coscienti delle
massime e vogliono mostrare che le osservano o le violano in modo consapevole. Ad esempio,
nell’enunciato “Come sai, A ha incontrato B”, si segnala la violazione della prima massima di
qualità (il parlante sta richiamando informazioni note), mentre in “A proposito, A ha incontrato B”
si segnala la violazione della massima di relazione (il parlante sta cambiando oggetto di
conversazione).
L’azione costante che le massime conversazionali esercitano, se non su un piano superficiale
sicuramente ad un livello profondo, negli scambi verbali, spiega come sia possibile negli scambi
verbali quotidiani comunicare molto di più di quanto si dice esplicitamente, che è quanto accade
quando si usano delle implicature.
Grice chiama “implicature” le proposizioni che, in determinati contesti, possono essere
comunicate da un enunciato senza essere esplicitamente dette, senza essere quindi parte del
significato convenzionale dell’enunciato44. Tipi particolari di implicature sono le implicature
convenzionali: in esse le proposizioni addizionali comunicate da un enunciato non dipendono da
particolari circostanze d’uso dell’enunciato ma sono associate in modo stabile, cioè in ogni
contesto, a determinate espressioni, quali ad esempio “ma”, “quindi”, “persino” (es. “Persino Paolo
è venuto” → proprio tutti sono venuti, “Egli è inglese, quindi coraggioso” → c’è una correlazione
tra essere inglese ed essere coraggioso). Le implicature conversazionali45 sono invece le
proposizioni che possono essere comunicate usando un enunciato solo in contesti particolari e non
sono legate all’uso di determinate espressioni linguistiche46. Consideriamo il seguente scambio di
battute. A: “Andiamo al cinema?” B: “Sono stanco”. B dice letteralmente di essere stanco, ma nella
conversazione che abbiamo riportato è naturale supporre che intenda comunicare di non volere
andare al cinema. Come possiamo inferirlo? Per calcolare un’implicatura conversazionale il
destinatario deve considerare: 1) il significato convenzionale dell’enunciato; 2) l’informazione
presente nel contesto in cui l’enunciato viene prodotto; 3) le massime conversazionali e l’ipotesi che
il parlante si conformi ad esse. Nel caso considerato, per capire il senso dell’enunciato di B, si potrà
fare il seguente ragionamento: B sembra con la sua risposta aver violato la massima di rilevanza,
ma poiché non ci sono indizi sufficienti a pensare che l’abbia fatto si deve supporre che lo stia
rispettando. Ora, il principio di cooperazione può ritenersi rispettato soltanto se si suppone che
l’enunciato “Sono stanco” abbia in qualche modo a che fare con la proposta di andare al cinema
44
Grice 1978, 201-203.
D’ora in poi quando userò il termine implicatura senza ulteriori specificazioni mi riferirò all’implicatura
conversazionale.
46
Grice denomina questa fondamentale caratteristica dell’implicatura conversazionale “indistaccabilità” (Grice 1978,
219): il fatto che essa sia legata al contenuto semantico di un enunciato e non alla sua forma linguistica fa sì infatti che
se anche l’enunciato che produce l’implicatura venisse espresso con parole diverse essa non risulterebbe eliminata ma
resterebbe legata al significato da esso espresso.
45
19
pronunciata immediatamente prima. Poiché l’essere stanchi potrebbe costituire una ragione valida
per non accettare la proposta di andare al cinema, B ha forse utilizzato quell’enunciato come
espressione non diretta di un rifiuto47.
Per comprendere il senso veicolato da un’implicatura per un enunciato proferito da un
determinato parlante sarà dunque in genere necessario all’ascoltatore un procedimento inferenziale
che Grice illustra nei seguenti termini: “Egli ha detto che p; non c’è motivo di credere che non si
stia conformando alle massime, o per lo meno al pdc [principio di cooperazione, n.d.r.]; egli non
potrebbe farlo se non pensasse che q; sa (e sa che io so che lui sa) che io posso capire che è richiesta
la supposizione che lui pensa che q; non ha fatto niente per impedirmi di pensare che q; intende
farmi pensare, o almeno è disposto a lasciarmi pensare, che q; e dunque ha implicato che q”48.
La correttezza dell’inferenza non potrà essere garantita in anticipo data la sua dipendenza
dal contesto e dal principio di cooperazione: spesso ci sarà dunque spazio per altre possibilità
interpretative di quanto è stato detto. Da questo dipende anche un’altra fondamentale proprietà delle
implicature: la possibilità di essere cancellate nel seguito del discorso, ad esempio con l’aggiunta a
quanto si è appena detto di precisazioni che escludano certe implicature, come avviene se il parlante
specifica di essere uscito dal principio di cooperazione (nel nostro esempio, B potrebbe dire “Sono
stanco. Per questo mi farebbe bene andare al cinema”).
Il sorgere delle implicature è, come si è visto, strettamente connesso al contesto di
conversazione. Il legame tra implicature e contesto viene meno soltanto nel caso delle implicature
conversazionali generalizzate, quelle, cioè, entrate nell’uso, che non richiedono, da parte del
destinatario, alcuna conoscenza particolare delle circostanze di proferimento dell’enunciato.
Dall’esempio, citato da Grice, “X ha un appuntamento con una donna stasera” si è portati a
desumere che la donna in questione non è né una donna della famiglia di X né una sua amica
platonica, attraverso un’implicatura che non dipende dal contesto particolare in cui viene proferito
l’enunciato ma risulta valida indipendentemente da questo. Diversamente da quanto avviene per le
implicature convenzionali, tuttavia, in questo caso l’implicatura è cancellabile, ad esempio da una
precisazione successiva49.
La teoria di Grice ha avuto immediata risonanza negli ambiti della filosofia del linguaggio e
della linguistica suscitando lunghi dibattiti tra gli studiosi di pragmatica riguardo alla sua
accettabilità e dando luogo a una moltitudine di posizioni diverse dovute a tentativi di ampliarla,
47
Quella della calcolabilità, ossia della comprensibilità dell’implicatura soltanto per mezzo di un ragionamento, è
un’altra caratteristica che distingue l’implicatura conversazionale da quella convenzionale (Grice 1978, 210).
48
Grice 1978, 210.
49
Le implicature conversazionali generalizzate sono trattate in Grice 1978, 217-218.
20
ridurla, modificarla parzialmente o confutarla in toto50. Pur omettendo in questa sede di passare in
rassegna tutte le obiezioni ad essa mosse51, possiamo dire che si è rivelata problematica sotto diversi
aspetti (ad esempio quello delle caratteristiche distintive dell’implicatura conversazionale) e in parte
inadeguata a rendere conto dello scambio comunicativo nella sua complessità52, ma che alcuni tra i
suoi punti fondamentali, come la nozione di implicatura basata sulla ricerca razionale da parte dei
parlanti di un’interpretazione di quanto è stato detto e di quanto è stato lasciato implicito dalla quale
conseguano informazioni da utilizzare per il successivo comportamento, sono ritenuti ancora oggi
validi: essi hanno costituito anzi, come si è in parte visto a proposito della nozione searliana di atto
linguistico indiretto, la base dei ragionamenti sulle forme di espressione e di modulazione degli
speech acts rivestendo, come vedremo in seguito53, un ruolo fondamentale per l’elaborazione di
alcuni tra i più fortunati modelli di politeness.
Un tipo di inferenza diverso dall’implicatura ma altrettanto interessante per l’utilizzo che se
ne può fare nel discorso è la presupposizione, costituente uno dei concetti più dibattuti in filosofia
prima ancora che in linguistica, di cui mi limiterò in questa sede a trattare gli aspetti fondamentali54.
Nel parlare comune per presupposizione si intende qualsiasi tipo di ipotesi di fondo sulla base della
quale un fatto, un’azione, un’espressione o un enunciato hanno un senso o risultano razionali. In
senso tecnico, invece, si definisce comunemente la presupposizione come un’inferenza legata ad
elementi della struttura superficiale dell’enunciato che hanno la capacità di attivarla e sono perciò
detti triggers o attivatori della presupposizione55. Alcuni esempi possono aiutare a distinguere le
presupposizioni da altri fenomeni come le implicazioni logiche e le implicature.
Negli enunciati:
a) Agata tradisce Bruno;
b) Ogni moglie tradisce il proprio marito;
c) Non sapevo che Agata vedesse così spesso Ciro;
50
Sulla fortuna della teoria griceana dal periodo immediatamente successivo alla sua diffusione fino ai primi anni del
nuovo millennio cfr. almeno Bertuccelli Papi 1993, 50-56 e Bianchi 2003, 138-139. Più recentemente, un’interessante
riflessione sulla validità delle massime griceane è stata condotta dai due linguisti Stefan Pfänder e Jörg Wagner
(Pfänder/Wagner 2008), i quali, dopo avere applicato le massime a diversi tipi di comunicazione (dall’interazione
uomo-macchina degli utenti di computer a quella sviluppata in chat e a quella face-to-face), evidenziano come il
principio di cooperazione conversazionale di Grice trascuri la fondamentale funzione sociale dell’interazione umana, la
quale ne fa un luogo privilegiato di costruzione di identità, creazione di solidarietà e condivisione, risoluzione di
conflitti talora a scapito della veridicità dell’informazione comunicata e condizionando la sua quantità (146-149); i due
studiosi giungono perciò a formulare in forma di ipotesi nuove massime conversazionali basate sugli essenziali aspetti
della partecipazione spontanea e creativa, del sapere comune e della capacità di reciproco adattamento dei partecipanti
ad un’interazione (152-154), le quali daranno senz’altro nuovo impulso alla ricerca su queste tematiche.
51
Per una loro sintetica trattazione rinvio agli studi citati nella nota precedente.
52
Cfr. ad esempio Sawyer 2001, 48-49.
53
Cfr. infra, 24-27.
54
Per una storia della riflessione su questo concetto in logica e in filosofia prima ancora che in linguistica rinvio a
Levinson 1993, 175-185.
55
Levinson 1993, 186-193.
21
d) Bruno si è reso conto che Agata lo tradisce;56
b), c) e d) intrattengono relazioni differenti con la proposizione (p) espressa in a) “Agata
tradisce Bruno”, cioè: b) ha come conseguenza logica p; c) può implicare conversazionalmente p; d)
presuppone p, la assume come fatto, il che viene indicato dal verbo “rendersi conto”: una
presupposizione è infatti ciò che si deve assumere, dare per scontato, per un uso appropriato di un
enunciato.
Il verbo usato nell’enunciato appena considerato appartiene all’insieme degli attivatori
presupposizionali, di cui fanno anche parte: 1) le descrizioni definite (ad es. “Nel mio giardino sono
state raccolte le rose gialle”, presupponente che ci sono rose gialle nel mio giardino); 2) i verbi detti
“fattivi”, come “rendersi conto, rimpiangere, dispiacersi, essere contenti”, presupponenti la verità
della proposizione da essi retta (oltre all’enunciato già citato in questa pagina, si pensi ad esempio a
“Rimpiango di non avere terminato gli studi di medicina”, presupponente che non ho terminato gli
studi di medicina); 3) verbi detti “implicativi” in quanto implicanti la verità dell’enunciato che
reggono, come “dimenticare, evitare di” (ad esempio “Mario è riuscito ad aprire la porta”,
presupponente che Mario ha cercato di aprire la porta); 4) verbi che indicano un cambiamento di
stato, come iniziare, terminare, ecc. (ad esempio “Ha smesso di picchiare sua moglie”,
presupponente che l’individuo che costituisce il soggetto della frase picchiava sua moglie); 5)
espressioni iterative, come “ancora, un’altra volta, di nuovo”, verbi come “ritornare”, ecc. (come
nell’esempio “Guido ha telefonato un’altra volta” presupponente che Guido aveva già telefonato in
precedenza); 6) le frasi scisse (ad esempio “Non sono stato io a rompere lo specchio”,
presupponente che qualcuno ha rotto lo specchio); 7) le proposizioni temporali (come in “Prima
della scoperta del radio non era possibile fare certe cose” presupponente che il radio è stato
scoperto); 8) le ipotetiche controfattuali (come in “Se Mario avesse letto il cartello attentamente,
non avrebbe sbagliato strada” presupponente che Mario non ha letto il cartello con attenzione).
Gli esempi appena citati lasciano emergere come le presupposizioni vengano generate da
un enunciato ma anche dalla sua negazione (es. “Mario non è riuscito ad aprire la porta”, “Non ha
smesso di picchiare sua moglie?”), nonché dalle forme interrogativa, imperativa, ecc. (come in “Ha
smesso di picchiare sua moglie?” o in “Smetti di picchiare tua moglie!”)57. Questa caratteristica è
stata a lungo ritenuta distintiva delle presupposizioni da altri tipi di inferenze, insieme a quella, già
citata, del loro legame con determinate espressioni linguistiche, nella quale si è vista la più notevole
differenza tra queste e le implicature conversazionali58. Tutto ciò ha contribuito a dare della
presupposizione l’idea di un aspetto associato in modo stabile al significato di un’espressione e
56
Questi esempi sono ripresi con qualche variazione da Bianchi 2003, 86.
Bianchi 2003, pp. 85-90.
58
Cfr. supra, 17-19 e n. 46.
57
22
dunque non dipendente dal contesto linguistico ed extralinguistico in cui viene prodotto un
enunciato. In realtà è stato dimostrato che le presupposizioni non sono né stabili né invarianti, in
quanto possono cadere se nel contesto del discorso sono presenti determinate conoscenze o se
vengono cancellate dal procedere dello stesso (ad esempio, l’enunciato “Elisa ha pianto prima di
scrivere il testamento” può presupporre che Elisa ha scritto il testamento, ciò non avviene con
“Elisa è morta prima di scrivere il testamento”; allo stesso modo, “Sono riuscito a rompermi la
caviglia”, che sembra presupporre che ho tentato di rompermi la caviglia, non lo fa se viene usato in
senso ironico, come il contesto potrebbe facilmente chiarire). La nozione di presupposizione risulta
dunque ancora problematica e meritevole di ulteriore discussione. Riguardo ad essa si è rivelata più
fruttuosa l’adozione di un punto di vista pragmatico, il quale, anziché concepirla come relazione tra
enunciati e proposizioni la vede come relazione tra parlante, contesto ed enunciato. Da questo punto
di vista, le presupposizioni coincidono con le conoscenze di sfondo che il parlante mostra di
condividere con l’interlocutore al momento dell’interazione, come si evince dalla seguente
definizione di Stalnaker: “Un parlante presuppone che P in un dato momento in una conversazione,
se è disposto ad agire, nel suo comportamento linguistico, come se desse per scontata la verità di P,
e come se assumesse che il suo uditorio riconosca che egli la sta dando per scontata”59. Questa
definizione ha bisogno di precisazioni, risultando di per sé fortemente approssimativa, ma ha tra i
suoi meriti60 quello di distinguere il presupporre da un atteggiamento mentale come quello di
credere, ritenendolo invece una disposizione a comportarsi nell’uso della lingua come se si avessero
certe credenze e conoscenze e come se anche l’interlocutore le avesse. Da ciò si capisce come le
presupposizioni si prestino a costituire un’arma di persuasione spesso subdola per il fatto di dare per
acquisiti fatti che forse non lo sono ponendoli sullo sfondo di un enunciato e proteggendoli in tal
modo da eventuali contestazioni, in modo da orientare il pensiero dell’interlocutore o degli astanti61.
Si pensi ad esempio all’uso che se ne fa in contesti politici e giudiziari (contesti da cui possono
trarsi i seguenti esempi: “La gente sa che la manovra finanziaria del governo è stata fallimentare”,
presupponente che la manovra finanziaria sia stata un fallimento, oppure “Da quanto tempo
conosceva la vittima?” presupponente che il destinatario della domanda conoscesse la vittima).
Anche le condizioni di felicità degli atti linguistici possono essere viste come
presupposizioni, anche se di diverso tipo rispetto a quelle appena descritte62. Ad esempio, il fatto
che un parlante dia un ordine al suo interlocutore presuppone che egli abbia un potere
59
Stalnaker 1978, 242.
Per i vantaggi di questa definizione e di una considerazione pragmatica della presupposizione cfr. Bertuccelli Papi
1993, 231-233. Per una discussione di diverse teorie pragmatiche della presupposizione cfr. Levinson 1993, 211-231.
61
Cfr. Caffi 2002, 77-78.
62
L’interpretazione delle condizioni di felicità di un atto linguistico come caso particolare di presupposizione viene
effettuata da Caffi 2002, 80-81.
60
23
sull’interlocutore, che appunto gli consente di impartirgli degli ordini. Per questo, spesso per
rifiutare un ordine si rifiuta questa presupposizione (che costituisce anche una delle sue condizioni
di felicità), affermando che chi ha dato l’ordine non possiede l’autorità per farlo, mentre quando si
accoglie l’ordine si accetta la validità della presupposizione in esso contenuta.
1.2.1.1.4 Politeness e mitigazione
Dall’idea griceana del principio di cooperazione e delle massime conversazionali prendono
l’avvio soprattutto in linguistica la riflessione e il dibattito relativi alle norme pragmatiche che
regolano l’interazione linguistica, al loro funzionamento, al loro rapporto con gli scopi delle singole
occasioni comunicative. Presto si avverte in linguistica l’esigenza di rintracciare, accanto alle
massime che Grice aveva introdotto per spiegare lo svolgimento della comunicazione efficiente,
delle regole in grado di rendere conto degli aspetti relazionali e sociali del comportamento
interazionale, ritenute non meno importanti delle prime. Tra i primi studiosi che hanno riservato
attenzione a questi aspetti c’è la linguista americana Robin Lakoff, la quale, soprattutto in uno
scritto divenuto poi necessario punto di riferimento per gli studi successivi63, individua delle regole
pragmatiche che ritiene attive nelle interazioni verbali al pari di quelle semantiche e sintattiche
sostenendo che lo studio scientifico del linguaggio dovrebbe occuparsene in collaborazione
interdisciplinare con altre scienze come la sociologia e l’antropologia. Le “regole della competenza
pragmatica”64 sono secondo la studiosa essenzialmente due: 1) Sii chiaro; 2) Sii cortese. Con la
prima vengono da lei identificate le massime componenti il principio di cooperazione di Grice,
accettate pur con qualche riserva65, mentre la seconda, ritenuta per molti aspetti opposta alla prima,
viene articolata in tre “regole della cortesia”66, ritenute anch’esse, come le massime griceane,
applicabili a tutte le transazioni cooperative umane e suscettibili di violazioni, la quali vengono
formulate come segue:
a) Non ti imporre;
b) Offri delle alternative;
c) Metti il tuo interlocutore a suo agio – Sii amichevole.
Le regole a) si applicano al discorso formale, in cui si suppone una differenza di status o di
potere fra i partecipanti. Esse ingiungono di non chiedere azioni o parole che costano
all’interlocutore o quanto meno di chiedere il permesso o di scusarsi se le si chiede. Questo
63
Lakoff 1978, 220-239.
Lakoff 1978, (soprattutto) 226 e 227.
65
Lakoff 1978, 227-228.
66
Lakoff 1978, 229.
64
24
significa evitare di dare giudizi o opinioni personali, usare espressioni impersonali o costruzioni
passive, astenersi da argomenti tabù come il sesso, i bisogni corporali, ecc., e, se li si affronta, usare
termini tecnici.
Le regole b) riguardano il discorso fra partecipanti di pari status ma senza particolare
intimità e impongono di lasciare che sia l’interlocutore a decidere come reagire. Si concretizzano
nell’uso di espressioni attenuative, nella scelta di esprimere opinioni e richieste in modo che
possano essere ignorate senza perdere la faccia, o con l’uso massiccio di implicature e, per i temi
tabù, di eufemismi.
Le regole c) si applicano al discorso informale fra persone di pari status legate da un
rapporto di amicizia o intimità. Impongono di far sentire l’interlocutore a proprio agio e di mostrare
interesse nei suoi confronti, quindi nel dare e domandare opinioni personali, nel dare del tu e usare
nomi propri e soprannomi, nell’intercalare con espressioni che dimostrano partecipazione attiva
come “se ti va”, “voglio dire”, nell’uso di un linguaggio diretto, e anche crudo, per gli argomenti
tabù.
E’ notevole che se ci aspettiamo le regole c), l’uso di regole più formali sarà interpretato
come segnale di distanza o di ironia o addirittura come un venir meno della cortesia. Da un lato le
regole c), quando sono applicabili (cioè quando gli interlocutori sono in rapporto di amicizia o di
intimità), hanno la precedenza su ogni altra regola. Dall’altro, le stesse massime griceane della
conversazione possono essere reinterpretate come sottocasi delle regole a) della cortesia: la cortesia,
nel discorso formale, si manifesta nel trasmettere il messaggio in poco tempo e imponendo il
minimo sforzo al destinatario. Ecco perché la violazione delle massime griceane (la violazione di
a)) preserva la cortesia nel discorso fra pari (ossia b) e c)). Queste regole sono secondo Lakoff
regole pragmatiche universali, che ammettono però vari ordini di priorità in diverse culture o a
seconda dei diversi scopi dei parlanti. I parlanti possono avere inoltre differenti percezioni della
situazione comunicativa o del rispettivo status, nonché un diverso stile conversazionale che può
privilegiare alcuni aspetti rispetto ad altri.
Sia sulla riflessione di Robin Lakoff sia sui successivi lavori di altri studiosi riguardo alla
cortesia (o politeness, come di solito la denominerò in questo studio67) hanno esercitato un
importante influsso i risultati delle ricerche avviate in campo sociologico dall’americano Erving
Goffman relativamente ai comportamenti comunicativi della vita quotidiana. Goffman distingueva
nell’agire interazionale una componente sistemica, relativa alle competenze linguistiche in senso
stretto dei parlanti, ed una componente rituale, riguardante quelle regole, diverse a seconda delle
67
Ho scelto di mantenere la voce inglese preferendola alla traduzione “cortesia” per sottolineare con maggiore
chiarezza che intendo il termine nel significato tecnico delineato dai due autori anglofoni Brown e Levinson nel loro
studio sull’argomento (Brown/Levinson 1987), cui in massima parte mi rifarò in questo lavoro.
25
cornici comunicative entro le quali ci si trova ad agire, che è indispensabile sapere applicare per
essere ritenuti membri competenti di una comunità poiché, pur non essendo sempre facilmente
percepibili in quanto spesso sottili, garantiscono il mantenimento dell’ordine sociale. L’osservanza
delle regole dell’agire comunicativo da parte dei parlanti contribuisce in modo determinante a
costituire per ogni individuo quella che Goffman chiama “faccia” (face), intesa come l’immagine
sociale positiva che ciascuno reclama per se stesso, la quale, lungi dall’essere un’immagine fissa
preesistente ad ogni scambio comunicativo, viene in massima parte costruita nel corso stesso di
un’interazione in base ai comportamenti di ogni singolo partecipante, rivelandosi pertanto un’entità
estremamente instabile che viene attribuita socialmente e può essere continuamente rinegoziata68.
I concetti elaborati da Goffman sono stati negli ultimi anni collocati al centro della
riflessione pragmatica, dato che costituiscono degli spunti dai quali non è possibile prescindere
quando si voglia elaborare una teoria del funzionamento del linguaggio nei reali processi
comunicativi ed analizzare gli usi del linguaggio nelle relazioni interpersonali e sociali. In
particolare, i due linguisti Penelope Brown e Stephen C. Levinson hanno posto il concetto di faccia
alla base del funzionamento di quell’universale del linguaggio che secondo loro è la politeness.
Nella loro concezione, la politeness è l’insieme delle strategie attraverso le quali un parlante riesce a
bilanciare le esigenze di faccia propria ed altrui nel compimento di atti potenzialmente minacciosi
della faccia (face threatening acts o FTA) all’interno di un’interazione e in quanto tale costituisce
una delle principali ragioni per cui si sceglie di allontanarsi dai modi più diretti e semplici di
parlare, che sono quelli derivanti dal rispetto costante delle massime griceane. I due studiosi
elaborano, sulla base dei concetti goffmaniani, del principio di cooperazione di Grice e della teoria
degli atti linguistici69, un complesso modello di funzionamento della politeness che ha avuto
immensa fortuna nella successiva riflessione sull’argomento, dando origine ad applicazioni in
diverse culture e ambiti interazionali, a correzioni e a modificazioni70, ma anche a critiche radicali,
le più forti delle quali sono quelle rivolte contro le pretese universalistiche avanzate dai due autori.
Se alcuni elementi della teoria di Brown e Levinson (come la gerarchia da loro stabilita tra le
diverse strategie di politeness individuate) non sono sopravvissuti alle critiche, diversi risultati sono
ritenuti tuttora validi e per questo vengono ancora utilizzati negli studi linguistici. Ciò avviene sia in
elaborazioni nuove del concetto e della teoria della politeness71 sia in studi che, evitando di basarsi
su rigide costruzioni teoriche e di indulgere a classificazioni e tassonomie, ricercano i mezzi
linguistici attraverso i quali si ottengono effetti di modulazione degli speech acts nell’interazione,
68
Goffman 1955, 213-231 e 1967.
Cfr. infra, 170-173.
70
Cfr. infra, 173-176.
71
Tra questi anche Watts 2003, che pure sottopone a dura critica il modello di Brown e Levinson.
69
26
come quello che la linguista italiana Claudia Caffi ha dedicato alla mitigazione in contesti di
interazione terapeutica (in massima parte quella tra medico e paziente)72. Muovendo da una
concezione allargata di pragmatica, che vede nella disciplina lo studio del “linguaggio in
movimento”73 e nella comunicazione un processo estremamente complesso, multilivellare e
multidimensionale – opera di soggetti la cui competenza interattiva, definita “consapevolezza
metapragmatica”74, comprende non soltanto regole linguistiche ma anche quel sistema di regolarità
e di attese stabilite dal contesto sociale per i diversi tipi di interazione – che necessita di essere
studiato adottando una prospettiva dinamica, integrante dimensioni diverse (linguistica, sociale,
psicologica, emotiva e cognitiva) e facente attenzione sia al contesto extralinguistico di uno
scambio verbale sia alla posizione dei singoli enunciati all’interno di esso, questo lavoro costituisce
una lettura preziosa per chi voglia occuparsi di interazioni verbali, e ciò per diverse ragioni:
anzitutto, in quanto elabora un modello di analisi delle interazioni che, pur essendo in primo luogo
destinato ad un determinato tipo di attività comunicativa istituzionale, risulta utile per gli scambi
verbali in generale; in secondo luogo, poiché illustra in profondità i meccanismi di azione della
mitigazione di determinati atti linguistici, individuando gli ambiti dell’atto linguistico su cui essa
agisce; infine, grazie al fatto di conferire la giusta importanza a quella dimensione psicologica
dell’agire linguistico che per troppo tempo era stata accantonata negli studi75.
1.2.1.1.5 Tra etnometodologia e linguistica: l’analisi della conversazione
Poiché la conversazione è “il prototipo dell’uso linguistico, la forma in cui tutti siamo
esposti alla lingua inizialmente, la matrice dell’acquisizione della lingua stessa”76, diversi aspetti
dell’organizzazione pragmatica (tra cui la deissi, l’implicatura, la presupposizione, le regole di
cortesia, molti tipi di atti linguistici) possono essere compresi soltanto al suo interno77. L’analisi di
questa forma di interazione è stata principalmente affrontata a partire da due prospettive diverse: la
prima, nota come analisi del discorso, utilizza il metodo, i principi teorici e le categorie della
linguistica per individuare un insieme di unità del discorso e formulare delle regole di
concatenazione del discorso conversazionale che permettano di distinguere le sequenze ben formate
da quelle male strutturate; la seconda, sviluppatasi invece in campo sociologico, è nota come analisi
72
Caffi 2001.
Caffi 2002, 51.
74
Caffi 2001, soprattutto 64 e Caffi 2002, 19.
75
I risultati fondamentali di Caffi 2001 (relativi ad esempio agli scopes su cui agisce la mitigazione, al ruolo
dell’emotività per la modulazione di un atto linguistico, ecc.) saranno da me illustrati in dettaglio (infra, 176 n. 277).
76
Levinson 1993, 289.
77
Cfr. Levinson 1993, 289-366.
73
27
della conversazione e costituisce un modo rigorosamente empirico di esaminare i dati78. Ad ispirare
le ricerche dell’analisi conversazionale79 sono stati negli anni ’60 un gruppo di sociologi americani
noti come etnometodologi, convinti che l’oggetto primario dello studio sociologico sia l’insieme
delle tecniche utilizzate dai membri di una società per interpretare il loro mondo sociale e per agire
all’interno dello stesso. La comunicazione sarebbe una di queste tecniche, necessitando in quanto
tale di essere studiata attraverso le stesse categorie che i parlanti utilizzano in una interazione e
senza lasciare spazio a costrutti teorici prestabiliti o a intuizioni non sostanziate dai dati. Poche idee
di base guidano pertanto, fin dagli inizi, le ricerche degli analisti della conversazione, la più
importante delle quali è quella secondo cui l’interazione parlata tra gli individui non sia casuale ma
proceda secondo specifiche regole organizzative, responsabili delle relazioni che si creano tra
quello che un parlante dice in un determinato momento, quello che è stato appena detto
dall’interlocutore e quello che sarà detto immediatamente dopo80. Grazie al rispetto, solitamente
inconsapevole, di queste regole da parte dei parlanti si sviluppa l’impressione che le nostre
conversazioni quotidiane fluiscano senza difficoltà e con un sostanziale accordo sul modo di
procedere: i partecipanti alla conversazione non parlano tutti insieme, ma uno alla volta, senza
lasciare momenti imbarazzanti di silenzio e senza controversie troppo accese su chi deve prendere
la parola; soltanto quando la conversazione non scorre in modo fluido divengono evidenti o devono
essere rese esplicite le regole della conversazione, che stabiliscono a chi tocca parlare, per quanto
tempo, chi può intervenire, in quale modo, quali espressioni segnalano la fine del contributo di un
singolo parlante o della conversazione stessa, ecc.
La conversazione, attività cooperativa che richiede coordinazione tra i partner, comporta
infatti anche una lotta per il controllo della parola: presa, possesso e cessione della parola sono
regolati da convenzioni e consuetudini, anche nelle conversazioni più disinteressate e quotidiane.
Nella conversazione sovrapposizioni, fraintendimenti sui turni di presa di parola, indicati anche
semplicemente come “turni”, e silenzi prolungati sono considerati significativi – generalmente di
imbarazzo, disaccordo, ostilità. Sono casi in cui il parlante comunica di più di quanto non dica,
come ad es. se B rimane muto alla domanda di A “Dove sei stato?” o se non risponde al “Ciao!” di
C. Questo perché una domanda è un’esplicita cessione del proprio turno di parola all’interlocutore
selezionato, mentre il saluto è la prima parte di una coppia adiacente, di cui ricordiamo i seguenti
tipi: appello/risposta, saluto/saluto, offerta/accettazione, ringraziamento/minimizzazione, ecc. Si
tratta di schemi automatici che rappresentano veri e propri atti sociali: se il destinatario della prima
78
Per un raffronto tra analisi del discorso (o discourse analysis) e analisi della conversazione ed una critica alle
premesse teoriche e ai metodi della prima cfr. Levinson 1993, 291-298.
79
La genesi dell’analisi conversazionale è illustrata con ricchezza di dettagli da Fele 2007, 9-16.
80
Cfr. Fele 2007, 9.
28
parte di una coppia non fornisce la seconda parte, o ne fornisce una inattesa, tale mancanza verrà
considerata significativa e comunicherà più di quanto non dica. Richieste, offerte e affermazioni
sono atti sociali compiuti tipicamente con l’aspettativa di un’accettazione e di un accordo piuttosto
che di un rifiuto o di un disaccordo. Si dirà perciò che i primi sono atti “preferenziali” rispetto ai
secondi. Il silenzio segnala in genere che il destinatario non può produrre un accordo o
un’accettazione – ma anche in questo caso sono molte le strategie che un parlante può intraprendere
per evitare di esprimere in modo diretto un rifiuto o un disaccordo: da esitazioni e pause all’uso di
mitigatori o introduttori (“beh”), dall’espressione di dubbio o scuse (“non so”, “mi dispiace”)
all’offerta di spiegazioni (“devo fare…”, “non ho tempo”), dalla richiesta di comprensione
(“capisci”, “vedi”) all’impersonalità (“è necessario fare…”). Compiere un atto sociale in situazioni
di distanza sociale o interpersonale comporta un gran dispiego di parole e quindi un maggiore
sforzo comunicativo, specialmente se si sta esprimendo un rifiuto o un disaccordo.
La scelta dei temi di conversazione ed il passaggio da un tema ad un altro sono anch’essi
frutto di strategie, più o meno sottili, che i partecipanti allo scambio conversazionale mettono in
atto. Nel passaggio da un tema ad un altro, ad es., si preferisce di solito tentare di collegare i due
argomenti, evitando i salti. Il modo di procedere più diffuso è il seguente. Se A parla del tema x e B
vuole parlare di z deve trovare un modo di introdurre il nuovo argomento tale che x e z siano
percepiti come appartenenti in modo naturale alla stessa categoria Y. Quest’appartenenza non è data
in partenza, ma si instaura soltanto nel concreto della conversazione. La coerenza argomentale non
si ottiene quindi attraverso una procedura calcolabile a priori ma si costruisce turno per turno con la
collaborazione dei partecipanti. Si rivela perciò interessante studiare anche come all’interno della
conversazione gli argomenti nuovi siano segnalati come “accennati”, “connessi” a quelli che li
precedono, “fuori luogo”, ecc., in che modo vengano evitati o messi in competizione con altri
argomenti e come, infine, siano portati a termine in collaborazione81.
Nonostante lo sviluppo autonomo dell’analisi conversazionale rispetto a quello della
pragmatica linguistica e l’atteggiamento critico da essa assunto nei confronti di molte categorie
astratte elaborate nello studio del linguaggio, le tematiche di cui si occupa sono strettamente
connesse a quelle pragmalinguistiche: le ragioni per cui viene da molti inclusa nella pragmatica
risiedono infatti in massima parte nell’attenzione che riserva agli usi del linguaggio e dunque al
contesto in cui questo viene prodotto (contesto definito, adottando il punto di vista dei partecipanti
ad uno scambio verbale, come ciò di fronte a cui ogni parlante si trova nel preciso momento dello
81
La trattazione ampia dei concetti e dei risultati dell’analisi conversazionale (coppie di adiacenza, preferenze, coerenza
argomentale, ecc.) verrà compiuta infra, 91-100.
29
scambio in cui il suo contributo può essere rilevante82) e nella considerazione del ruolo che i singoli
contributi svolgono all’interno di una interazione per farla procedere, determinarne il senso e
definire di volta in volta i rapporti tra chi vi partecipa, ossia del potere di azione che il
comportamento verbale costantemente possiede. È per questo che ogni approccio di tipo pragmatico
alle interazioni verbali non può più ignorare i risultati raggiunti dall’analisi della conversazione83.
1.2.2 Un approccio integrato all’analisi della comunicazione e delle relazioni interpersonali
Dai numerosi studi dedicati nell’ultimo cinquantennio alla comunicazione interpersonale
questa emerge come attività estremamente complessa, coinvolgente una pluralità di fattori spesso
eterogenei che rendono difficile considerarla secondo un’unica prospettiva teorica qualora si voglia
investigare la sua essenziale funzione di strumento di costruzione, mantenimento e modificazione
dei rapporti tra gli individui in essa impegnati84: uno spazio teorico adeguato a questo tipo di
indagine può essere offerto dalla pragmatica soltanto quando ne si riprenda la concezione più
ampia, da me sinteticamente illustrata nelle pagine precedenti85. È in questo modo che diviene
possibile procedere dall’indagine linguistica su un enunciato o un discorso a quella, ben più
articolata, sui soggetti enunciatori e sugli scopi e le valenze personali e sociali che quell’enunciato o
quel discorso assume per loro. I soggetti di un’enunciazione si delineeranno progressivamente
all’interno di un’interazione nelle loro competenze, nei loro scopi, nella loro emotività – in altre
parole, co-costruiranno, negoziandole continuamente tra loro attraverso lo scambio di messaggi, le
rispettive identità e le porranno in relazione, traendone i risultati più vari (reciproco riconoscimento,
conflitto, incomprensione e così via)86. Se è vero che questa nozione di pragmatica è ancora in via
di elaborazione e che non tutte le aree di possibile raccordo tra la ricerca linguistica e quella svolta
in altri ambiti sono state compiutamente esplorate, lo è altrettanto il fatto che sul piano dell’analisi
82
Cfr. Fele 2007, 29. Esso, come notano Mey 2001, 134 e Caffi 2002, 53, è equivalente a quello che la linguistica
testuale denomina “co-testo”.
83
Diversi sono i linguisti che assumono l’analisi della conversazione nell’alveo della pragmatica pur ammettendo che
essa si occupa soltanto superficialmente di questioni fondamentali per la linguistica come quella del rapporto tra
l’andamento della conversazione e la strutturazione grammaticale degli enunciati prodotti (ad esempio Levinson 1993,
soprattutto 362-366 e Bertuccelli Papi 1993, 283-284) oppure che la nozione di contesto che accoglie, limitata a quanto
precede e a quanto segue nello scambio interattivo, è troppo ristretta per dare conto di tutto ciò che avviene nella
conversazione e va pertanto integrata (Mey 2001, soprattutto 133-137). Inoltre, anche molti tra i sociologi che la
praticano la ritengono appartenente alla pragmatica del linguaggio per il fatto che al pari delle branche più ‘classiche’
della disciplina e pur provenendo da una tradizione intellettuale diversa ha alla base la concezione del “parlare come
azione” (tra gli altri Fele 2007, 31).
84
Un breve resoconto degli studi compiuti da diverse prospettive è contenuto in Kerbrat-Orecchioni 2000, 64-70.
Riguardo a quelli relativi agli aspetti relazionali del comunicare cfr. Holly 2001, 1382-1383. Sawyer 2001 è uno studio
sulla spontaneità e l’improvvisazione nella conversazione quotidiana che con stile agile e accattivante riflette sulle
numerose implicazioni (di tipo linguistico, sociologico, antropologico, psicologico) dell’interazione verbale, istituendo
interessanti confronti tra questa e la comunicazione teatrale, il gioco nonché la composizione e la performance musicali.
85
Cfr. supra, 6-7.
86
Cfr. Caffi 2001, soprattutto 1-5.
30
delle interazioni verbali gli approcci integrati da esso ammessi, quelli cioè che hanno accolto i
contributi di diverse aree di ricerca sulla comunicazione, si sono rivelati i più adatti a rendere conto
della complessità delle interazioni87. Simili approcci sono tra l’altro quelli più frequentemente
adottati anche da studiosi che non identificano con la pragmatica necessariamente tutti gli studi
sull’interazione verbale e sulla comunicazione ma ritengono che questi abbiano con essa vari gradi
di parentela88.
Come correttamente osservato da Werner Holly in una concisa ma puntuale rassegna delle
prospettive che, sia pure in ambiti diversi, è possibile adottare per studiare gli aspetti relazionali
della comunicazione89, la teoria degli atti linguistici fornisce innegabilmente numerosi elementi sui
quali basare un’analisi complessa e tuttavia necessita di essere integrata non soltanto dalla
prospettiva microsociologica dell’analisi conversazionale fondata sulla concezione della
comunicazione verbale come “joint production”90, ma anche da nozioni psicologiche e sociologiche
rivelatesi di estrema utilità nell’esame delle interazioni verbali. Tra esse vanno citate alcune
fortunate categorie della sociologia e della sociolinguistica quali quella goffmaniana di “faccia” e
quella di “contestualizzazione” di Gumperz91, che sono state variamente riprese e sviluppate in
metodologie di indagine sulla comunicazione elaborati in seguito, come la teoria della politeness e
la recente positioning theory (nota in italiano come “teoria del posizionamento sociale”92), senza
tuttavia dimenticare le osservazioni elaborate dalla scuola di psicologi di Palo Alto e presto
confluite nel sistema della “pragmatica della comunicazione umana”93, costituenti il frutto delle
prime indagini su tali aspetti94.
87
Particolarmente interessanti sono a tal proposito le parole di Mey 2001, 11 sui compiti “pratici” della pragmatica,
riguardanti a suo parere le più disparate questioni legate all’uso e al funzionamento del linguaggio in interazione. Cfr.
anche Caffi 2001, soprattutto 2-8 e 145-146, e Caffi 2002, 52-53, in cui la linguista italiana porta avanti l’idea di una
pragmatica come “teoria debole”, che si rifà a paradigmi epistemologici flessibili per cogliere la vertiginosa complessità
dell’agire comunicativo situato.
88
Tra questi ad esempio Kerbrat-Orecchioni 2000, 70 secondo la quale, per descrivere i fatti di ordine diverso che
intervengono all’interno di un’interazione, “il est nécessaire de faire feu de tout bois, c’est-à-dire de faire appel à des
outils de provenance diverse”. Holly 2001, 1385 a proposito del Beziehungsaspekt nell’interazione osserva: “Die
Komplexität der Dimensionen, die hier im Spiel sind, läßt erahnen, daß eine vollständige Modellierung des
Beziehungsaspekts in der Kommunikation noch für lange Zeit ein Desiderat bleiben wird”.
89
Holly 2001, 1382-1383.
90
Cfr. anche van Rees 1992, 31-47.
91
Il già citato concetto di “faccia” sarà da me esposto più dettagliatamente infra, 171-177. Una rapida presentazione
della nozione di contestualizzazione (per la quale si intende l’uso in interazione di segnali comunicativi che permettono
di connettere ciò che viene detto in una determinata situazione con il background di conoscenze, di valori e di attese dei
comunicanti) è presente in Caffi 2001, 27-28, che ne mostra la prossimità o addirittura la parziale sovrapponibilità con
fondamentali concetti della pragmatica linguistica e della pragmatica della comunicazione.
92
Per la denominazione italiana della positioning theory cfr. Orletti 2009, 94. Nel testo utilizzerò indifferentemente la
denominazione inglese e quella italiana.
93
Cfr. Watzlawick/Beavin/Jackson 1971.
94
Mey 2001, 69 deplora che la riflessione sulla comunicazione interpersonale degli studiosi di Palo Alto “never
attracted the attention it deserved among linguists”. Riferimenti alla loro concezione del comunicare sono in Caffi 2001,
soprattutto in 2 e 128-132. Anche Catherine Kerbrat-Orecchioni ascrive a demerito degli studi francesi sul linguaggio
31
Delle prospettive appena elencate la gran parte è stata da me già illustrata nella
presentazione della pragmatica linguistica, al cui interno vengono incluse anche l’analisi
conversazionale e le teorie della politeness: non resta dunque che presentare i concetti fondamentali
della pragmatica della comunicazione e della positioning theory, cui si farà riferimento in
particolare nella seconda parte dello studio, dedicata alle relazioni interpersonali.
Alla pragmatica della comunicazione elaborata tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento va
riconosciuto il merito di essersi occupata ancor prima della linguistica dei paradigmi e dei modelli
comunicativi attraverso i quali gli individui coinvolti in interazione si presentano l’uno all’altro
stabilendo tra loro una relazione95. Nello spostare l’oggetto della psicopatologia dai processi
intrapsichici ai comportamenti osservabili adottati in un determinato sistema interattivo (famiglia,
ambiente lavorativo, coppia, ecc.) e ai loro effetti sul contesto96, Paul Watzlawick e i suoi colleghi
del Mental Research Institute di Palo Alto, ispirandosi agli studi condotti dallo psicologo ed
antropologo Gregory Bateson, individuano in una serie di pubblicazioni97 quelli che a loro avviso
sono i meccanismi generali di funzionamento della comunicazione umana.
Alla base del modello da loro presentato è la convinzione che l’interazione umana sia
assimilabile a un sistema e debba dunque essere indagata facendo ricorso alla teoria generale dei
sistemi98. Dopo avere adottato la definizione generale di sistema come “insieme di oggetti e di
relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi”99 essi precisano che intenderanno per sistema interattivo
“due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione (o che si
trovano a un livello tale per farlo)”100 e sottolineano l’importanza dell’ambiente in cui un dato
sistema si trova per la comprensione di quest’ultimo, stabilendo di dover considerare gli individui
che comunicano sia nelle relazioni interne al sistema sia in quelle ad esso esterne. Il tipo di sistema
in cui si incarna l’interazione umana è quello aperto, caratterizzato dalle seguenti proprietà: 1) la
totalità, in base alla quale ogni parte del sistema si trova in un rapporto tale con le altre che una
qualunque modifica in una parte provoca cambiamenti nelle altre parti e in tutto il sistema. È una
proprietà dalla quale discendono la necessità di distinguere la configurazione ed il funzionamento
del tutto da quelli della somma delle sue parti, dato che l’insieme non risulterebbe spiegabile in base
che le prospettive sulla comunicazione sviluppate da questi studiosi non abbiano conosciuto in Francia una significativa
affermazione (Kerbrat-Orecchioni 2000, 66).
95
È quello che asserisce ad esempio Holly 2001, 1382.
96
Questo cambiamento di oggetto viene illustrato da Watzlawick e dai suoi colleghi con un significativo riferimento
alla tripartizione della semiotica effettuata da Charles Morris in sintassi, semantica e pragmatica, dalla quale scaturisce
la denominazione di “pragmatica” per il loro sistema per l’attenzione riservata ai rapporti tra l’individuo e il contesto in
cui vive ed agisce (Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 15-16).
97
Quella cui farò costantemente riferimento in questo studio è Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, accanto a cui va citato
almeno Watzlawick/Weakland/Fisch 1974.
98
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 113-143.
99
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 114.
100
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 115.
32
agli elementi separatamente considerati, e quella di non interpretare i rapporti tra gli elementi come
unidirezionali, ossia attribuendo ogni evento e cambiamento del sistema all’azione di uno soltanto
degli elementi sugli altri e non alle loro reciproche influenze; 2) la retroazione (o feedback), in base
alla quale individuo e ambiente costituiscono un sistema circolare al cui interno ognuno dei termini
influenza l’altro e ne è influenzato attraverso uno scambio di informazioni che talvolta garantisce la
stabilità del sistema neutralizzando i nuovi dati trasmessi (retroazione negativa) e talvolta invece
favorisce il cambiamento al suo interno amplificando la loro portata e il loro significato (retroazione
positiva); 3) l’equifinalità, ossia il fatto che i risultati del funzionamento del sistema dipendono non
tanto dalle condizioni iniziali quanto dai parametri della sua organizzazione, per cui il sistema
costituisce la propria migliore spiegazione e lo studio della sua organizzazione in un dato momento
la metodologia appropriata per conoscerlo e comprenderlo.
I vantaggi del modello elaborato da Watzlawick e dai suoi colleghi vengono da loro
esplicitamente indicati nelle seguenti possibilità: 1) quella di abbandonare l’illusoria pretesa di
investigare il funzionamento di quella “scatola nera” che è la mente umana; 2) quella di considerare
irrilevante la consapevolezza di determinati comportamenti di un individuo, ritenuta indecidibile; 3)
quella di creare modelli di comportamento qui-e-ora, basati sull’osservazione della comunicazione
di determinati individui in relazione tra loro e non sulla loro memoria del passato, sempre
suscettibile di distorsioni e condizionata dalla situazione di comunicazione in cui viene attivata; 4)
quella di soffermarsi sugli effetti visibili dei comportamenti osservati anziché ricercarne le cause in
eventi passati; 5) la possibilità di relativizzare le nozioni di normalità e anormalità, che perdono
senso come attributi di singoli individui venendo ascritte ad interi contesti di comunicazione.
Secondo Watzlawick e i suoi colleghi il funzionamento della comunicazione umana trova
espressione in poche proprietà semplici a partire dalle quali è anche possibile spiegare la maggior
parte degli aspetti patologici della comunicazione e a cui essi attribuiscono la forma e il valore di
assiomi, pur precisando il loro carattere sperimentale e dunque provvisorio101.
Il primo degli assiomi universali della comunicazione umana stabilisce che “non si può non
comunicare”102. Poiché secondo gli studiosi di Palo Alto il comportamento non ha un suo opposto e
ogni comportamento in una situazione di interazione ha valore di comunicazione, ne consegue che
non soltanto con le parole, ma anche con il silenzio, l’inattività, la comunicazione assurda,
l’immobilità si lanciano messaggi ai propri partner e che si ha comunicazione anche quando i
messaggi ricevuti non eguagliano quelli inviati, ossia, in altre parole, quando si ha un
101
102
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 63.
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 44.
33
fraintendimento. Oltre a rivestire un ruolo centrale nel comportamento patologico103, i tentativi di
non comunicare sono comuni anche nell’interazione ordinaria. Essi possono avere come
conseguenza diversi comportamenti: dal rifiuto della comunicazione, che deve anch’esso essere
comunicato e non evita a chi lo compie di stabilire una relazione con il destinatario, alla sua
accettazione temporanea e forzata, che porterà a successivi tentativi più o meno velati di svincolarsi
dall’interazione, sino a comportamenti miranti a togliere valore alla comunicazione stessa o a
negarla (detti di “squalificazione della comunicazione”104), come “contraddirsi, cambiare
argomento o sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, ricorrere a uno stile oscuro o usare
manierismi, fraintendere, dare una interpretazione letterale delle metafore e una interpretazione
metaforica di osservazioni letterali, ecc.”105, o al convincere se stessi e i propri interlocutori
dell’esistenza e dell’azione di forze superiori che impediscono la comunicazione.
Un secondo assioma distingue nella comunicazione “un aspetto di contenuto e un aspetto di
relazione” dei quali “il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione”106. Ogni
messaggio non trasmette soltanto un’informazione (ossia un contenuto), ma dà anche informazione
su tale informazione, comunicando come essa deve essere intesa (ad esempio come un ordine, una
critica, una lamentela, ecc.) e dunque riferendosi in definitiva alla relazione tra i partecipanti, a
come essi – in quanto esprimono ad esempio gentilezza, rabbia, invidia, indifferenza, ecc. – vedono
se stessi e i destinatari del messaggio. Il livello relazionale della comunicazione è più elevato
rispetto a quello di contenuto, costituendo una comunicazione sulla comunicazione (o
metacomunicazione). Esso inoltre non è sempre esplicito, ma spesso, soprattutto in interazioni non
problematiche, recede sullo sfondo della comunicazione. La distinzione operata rende possibile
illustrare (e risolvere) in maniera efficace fenomeni di disaccordo e di crisi che altrimenti
risulterebbero difficilmente spiegabili. Accade spesso, infatti, che all’interno di un rapporto si
sviluppino dissensi o veri e propri conflitti apparentemente centrati sui contenuti più diversi ma in
realtà tutti riconducibili ad un unico, fondamentale problema di relazione, riguardante dunque il
modo in cui ogni partner dell’interazione e della relazione vede se stesso e l’altro, che non emerge e
può rimanere sconosciuto agli stessi individui coinvolti nel rapporto. Quando nel comunicare uno
dei partner definisce se stesso e l’altro, può infatti ricevere da quest’ultimo diverse reazioni, che
vanno dalla conferma delle immagini tracciate al loro rifiuto o infine a quella che viene definita
103
Nel loro scritto più importante gli studiosi si soffermano in particolare sul comportamento degli schizofrenici,
caratterizzato, oltre che da tentativi di non comunicare, dal compito impossibile di negare di stare comunicando e al
tempo stesso di negare che la negazione è anch’essa una forma di comunicazione (Watzlawick/Beavin/Jackson 1971,
44).
104
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 68. Su questa nozione (e quella affine di “disqualificazione”) cfr. Caffi 2001,
129-132.
105
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 68.
106
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 47.
34
“disconferma”107, consistente nel trascurare le motivazioni profonde, le esigenze, i sentimenti
dell’altro senza davvero rifiutarli. È chiaro che le diverse reazioni agli aspetti relazionali dei
messaggi lanciati dal partner di interazione saranno determinanti per il successivo sviluppo di un
rapporto tra gli individui coinvolti in una interazione: se infatti la conferma delle immagini di sé e
dell’altro che il messaggio in questione contiene garantirà uno sviluppo sano del rapporto mentre il
rifiuto potrà portare a conflitti più o meno acuti e dolorosi, la disconferma, che sembra essere il
prodotto di una mancanza di consapevolezza riguardo alle percezioni identitarie e relazionali del
partner, può dare origine a numerose situazioni relazionali, come il conflitto o più spesso una
sempre più profonda incomprensione tra i protagonisti del rapporto, dalla quale si svilupperanno
conseguentemente frustrazione e disperazione.
Secondo un terzo assioma “la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle
sequenze di comunicazione tra i comunicanti”108, ossia dalla percezione del loro ordine e del loro
rapporto di causalità, che non è sempre oggettivamente determinabile. A generare un problema di
comunicazione e, di conseguenza, di relazione è spesso una diversa punteggiatura della serie di
messaggi scambiati, il che accade ad esempio quando un individuo percepisce i propri messaggi
come reazioni a quelli del partner di interazione, attribuendone dunque a quest’ultimo la definitiva
responsabilità. Le differenze nella punteggiatura degli eventi interattivi e relazionali sono spesso
responsabili, all’interno di un rapporto, di complicazioni che sfociano in reciproche accuse di
cattiveria e di follia. Queste differenze possono banalmente avere origine da un diverso grado di
informazione degli individui coinvolti riguardo agli avvenimenti, ma, indipendentemente dalle loro
motivazioni, non si risolvono se gli individui non sono capaci di metacomunicare, rendendo la
comunicazione stessa oggetto della loro comunicazione. Il fenomeno più interessante a proposito
della punteggiatura è senz’altro quello della “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling
prophecy)109, costituito dal “comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel
dato comportamento sarebbe la risposta adeguata”110 e realizzantesi ad esempio quando un soggetto
sente a torto che gli altri lo vedono in un determinato modo e finisce per comportarsi con loro in
modo da apparire tale, costringendoli ad assumere certi atteggiamenti ma credendo di reagire ad
essi e non di provocarli.
“Gli esseri umani” – recita il successivo assioma – “comunicano sia con il modulo numerico
che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema
efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio
107
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 78.
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 52.
109
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 90.
110
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 91.
108
35
analogico ha la semantica ma non ha alcuna sintassi adeguata per definire in modo che non sia
ambiguo la natura delle relazioni”111. La distinzione tra i moduli numerico ed analogico equivale a
quella tra comunicazione verbale e quella non verbale, dato che del primo fa parte il linguaggio
mentre nel secondo viene fatto rientrare ogni tipo di comunicazione non verbale, dai gesti alle
espressioni del viso, ai movimenti del corpo, alle inflessioni della voce e financo ai segni
comunicativi presenti nel contesto di comunicazione. Il primo sistema impiegato per far riferimento
ad un oggetto è posto in una relazione del tutto arbitraria con l’oggetto rappresentato, mentre il
secondo, così detto in quanto basato su analogie con l’oggetto, risulta più generalmente
comprensibile. Connesse al secondo assioma sono la convinzione che i due sistemi di
comunicazione convivono e si completano vicendevolmente in ogni messaggio e l’ipotesi che la
comunicazione numerica sia più adatta a trasmettere l’aspetto di contenuto di una comunicazione,
mentre quella analogica l’aspetto relazionale.
Gli studiosi di Palo Alto si soffermano sulle differenze esistenti tra i due tipi di linguaggio,
affermando che il primo ha un grado di astrazione e di precisione infinitamente superiore ed è
pertanto capace di trasmettere i contenuti complessi ed astratti della scienza, mentre il secondo
riesce a rappresentare più efficacemente l’aspetto relazionale della comunicazione ma non dispone
di una sintassi adeguata a concetti e ragionamenti complessi (dagli indicatori di consequenzialità
logica alla distinzione tra passato, presente e futuro, ecc.). Nella comunicazione umana si ha la
costante necessità di tradurre da un modulo all’altro, il che risulta estremamente problematico, in
quanto la comunicazione numerica non possiede un vocabolario adeguato alla definizione di
relazioni mentre quella analogica non riesce, dal canto suo, a comunicare contenuti in modo non
ambiguo. Pertanto ogni traduzione dal numerico all’analogico comporta una notevole perdita di
informazione, mentre ogni scambio verbale avente come oggetto la relazione tra i parlanti risulta
molto difficile da portare avanti in quanto richiede una ‘numerizzazione’ di fenomeni che
ammettono traduzioni verbali molto diverse a seconda anche della personale disposizione di ogni
parlante e possono per questa ragione generare ambiguità. Esiste infatti la possibilità di errori di
traduzione dall’uno all’altro. In particolare, l’assenza, nel linguaggio analogico, di elementi come la
morfologia e la sintassi rende spesso i messaggi analogici contraddittori sotto diversi aspetti e
dunque difficili da tradurre ed interpretare. Portare un dono, ad esempio, è senza dubbio lanciare un
messaggio analogico, che può essere interpretato diversamente a seconda delle situazioni e della
relazione esistente tra il donatore e il destinatario: a quest’ultimo il gesto potrà sembrare una
manifestazione di affetto, un tentativo di corruzione, un modo per contraccambiare una cortesia,
111
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 59.
36
ecc.112 Capita spesso dunque di incorrere in errori di traduzione di messaggi analogici nel modulo
numerico, ma anche quando la traduzione risulta corretta appare spesso inadeguata ad esprimerne
pienamente il senso. Lungi dall’avere un valore assertivo o denotativo, nella maggior parte dei casi i
messaggi analogici sono semplicemente invocazioni di relazione. Un sistema per ovviare alle
difficoltà illustrate è costituito, non soltanto nella comunicazione umana (ma anche ad esempio in
quella animale), dal rituale, che formalizza spesso i materiali analogici delle diverse società umane
dando loro un senso facilmente riconoscibile.
L’ultimo assioma della pragmatica della comunicazione stabilisce che “tutti gli scambi di
comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o
sulla differenza”113. Esistono modelli di interazione basati sulla simmetria dei comportamenti dei
partner, ognuno dei quali tende a ricalcare quello dell’altro, e modelli basati invece sulla loro
complementarità, per cui il comportamento di uno dei partner di interazione si differenzia da quello
dell’altro completandolo. Nell’interazione complementare si avranno due diverse posizioni: quella
superiore, o one-up, e quella inferiore, o one-down, che è complementare alla prima. Le posizioni
interattive assunte all’interno della relazione non sono sempre frutto della scelta dei partner ma
vengono talora imposte dal contesto sociale e culturale (si pensi ad es. ai rapporti madre-figlio,
medico-paziente, ecc.). Atteggiamenti simmetrici e complementari possono coesistere all’interno di
una medesima relazione, manifestandosi in situazioni o ambiti diversi. Sono infine interessanti i
casi in cui uno dei partner ‘costringe’ l’altro ad adottare un comportamento simmetrico (o gli
consente di farlo) oppure ad assumere la direzione del proprio comportamento, con risvolti
paradossali di notevole importanza pragmatica. In questi ultimi casi si parla rispettivamente di
“pseudosimmetria” e di “metacomplementarità” di una relazione114. Né la simmetria né la
complementarità di atteggiamenti possono essere di per sé ritenute buone o cattive, normali o
anormali e solitamente perché una relazione si sviluppi in modo sano è necessario alternarle al suo
interno. Nelle relazioni puramente simmetriche o complementari si ha sempre il pericolo di una
runaway, ossia di una perdita di stabilità del sistema: in una relazione simmetrica, ad esempio, è
costante il pericolo della competitività, che può sfociare in litigi e crisi (si pensi ai rapporti di coppia
o a quelli tra gli stati), mentre in una relazione rigidamente complementare accade spesso che
atteggiamenti rivelatisi in determinati momenti positivi e sani divengano con il tempo del tutto
112
Allo stesso modo, per citare altri esempi, “ci sono lacrime di dolore e lacrime di gioia; l’atto di serrare i pugni si può
interpretare come un segno di aggressività oppure di costrizione; con un sorriso si può esprimere comprensione oppure
disprezzo; la riservatezza può essere una manifestazione di indifferenza oppure di tatto” (Watzlawick/Beavin/Jackson
1971, 58)
113
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 62.
114
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 62.
37
negativi (è quanto accade ad esempio nelle relazioni genitori-figli, che per mantenersi sane devono
necessariamente cambiare con il tempo).
Se gli assiomi nascono dall’osservazione di una vasta gamma di fenomeni di
comunicazione, essi servono anche a creare modelli di interazione a partire dallo studio di
comunicazioni continuative e ricorrenti. Le ricerche di Watzlawick e dei suoi colleghi si
concentrano dunque sui sistemi interattivi in corso, quelli che sono importanti per le parti in essi
coinvolte e di lunga durata, dunque ad esempio le amicizie, certe relazioni professionali e
soprattutto le relazioni familiari e coniugali. Tali relazioni sono infatti quelle in cui, più facilmente
che negli incontri singoli, casuali e tra estranei, si riscontrano delle “ridondanze”115, definite come
sequenze di comunicazione ripetitive che provocano le conseguenze a vasto raggio degli assiomi e
delle patologie illustrati e occorrono regolarmente in determinate condizioni (ad esempio dopo una
serie specifica di altri comportamenti).
Mantenendo una prospettiva descrittiva, finalizzata cioè alla comprensione delle modalità di
funzionamento di un sistema piuttosto che a quella delle ragioni dello stesso, e attribuendo estrema
importanza al contesto (che, oltre ad includere l’insieme dei fattori sociali, istituzionali, culturali
che influenzano l’agire dei comunicanti, comprende anche i messaggi che essi si sono già scambiati,
condizionanti le mosse successive), gli studiosi di Palo Alto osservano come spesso si stabiliscano
in un sistema delle regole di relazione, ossia delle ridondanze rilevabili sul piano relazionale (ad
esempio relativamente alla punteggiatura, alla simmetria e alla complementarità, ecc.) e non su
quello dei contenuti. In particolare all’interno della famiglia essi rinvengono alcuni meccanismi
tipici del funzionamento dei sistemi, quali ad esempio la totalità, per cui ogni cambiamento nel
comportamento di uno dei membri si ripercuote sui comportamenti degli altri e sul funzionamento
del sistema interattivo familiare, conseguentemente la retroazione, con meccanismi di retroazione
negativa, tendenti a minimizzare il cambiamento anche quando potrebbe portare ad un
miglioramento nei rapporti, o al contrario di retroazione positiva, ossia di apprendimento e di
crescita.
I risultati interessanti di questa analisi riguardano la comunicazione paradossale. All’interno
dei processi interattivi esaminati risulta infatti estremamente frequente quel fenomeno cui viene
dato il nome di “paradosso pragmatico”116. Esso consiste in un messaggio paradossale prodotto in
contesto interattivo. Gli esempi di paradosso pragmatico citati da Watzlawick e dai suoi colleghi
sono numerosi ed eterogenei, comprendendo definizioni di sé paradossali che tolgono credibilità a
quanto si sta dicendo (come il paradosso di chi, in una situazione di interazione in cui è importante
sviluppare reciproca fiducia con l’interlocutore, dice di essere un incallito bugiardo), ingiunzioni di
115
116
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 26-32.
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 187 e 191-208.
38
comportamenti che per loro natura possono essere soltanto spontanei (si pensi ad esempio agli
ordini “Sii spontaneo!” oppure “Voglio che tu mi domini”, “Dovresti amarmi”, “Dovresti divertirti
a giocare con i bambini, come tutti gli altri padri”, “Non essere così ubbidiente”, ecc.), le quali
risultano paradossali poiché richiedono la simmetria di comportamenti ma lo fanno nello schema di
una relazione stabilita come complementare117, espressioni di attese paradossali, che, in quanto
impossibili da soddisfare, lasciano spesso il destinatario nel migliore dei casi perplesso, predizioni
paradossali, ossia messaggi in cui oltre alla predizione di un fatto o di un comportamento è presente
un elemento che nega la predizione stessa, ecc.
La produzione di paradossi pragmatici provoca spesso l’instaurarsi di quello che, già prima
di Watzlawick, Gregory Bateson e i suoi collaboratori118 avevano definito “doppio legame”. I
presupposti per l’occorrenza di un doppio legame vengono precisati da Watzlawick in modo da
avere: 1) alcuni individui coinvolti in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza
per almeno uno di essi, come il matrimonio, l’amicizia, l’amore, un rapporto familiare, la prigionia,
la fedeltà ad una credenza o ad una causa comune, ecc.; 2) l’emissione di un messaggio che risulta
essere un paradosso pragmatico in quanto ad una prima comunicazione ne segue un’altra che la
riguarda e le toglie valore (ad esempio, se il messaggio è un’ingiunzione, per obbedire a questa
bisogna disattenderla, se è una definizione di sé o dell’altro, la persona di cui si è data la definizione
è tale soltanto se non lo è) rendendo il senso del messaggio indecidibile; 3) l’impossibilità, per il
ricettore del messaggio, di uscire dallo schema da questo stabilito (ad esempio metacomunicando su
di esso o chiudendosi in se stesso). In questo modo il messaggio, pur essendo privo di significato,
diviene per i partecipanti alla comunicazione una realtà pragmatica alla quale non si può non reagire
ma non si può neanche reagire in modo adeguato, vincolando allo stesso modo sia chi ha prodotto il
messaggio sia chi lo ha ricevuto. A proposito degli effetti comportamentali del doppio legame,
Watzlawick e i suoi collaboratori, rifacendosi ancora a Bateson, indicano tra i più probabili lo
svilupparsi, in chi ha ricevuto il messaggio paradossale all’origine del fenomeno, della convinzione
che qualche elemento del messaggio gli sia sfuggito e della successiva ossessione di ricercare
questo elemento, oppure il tentare di rispettare il senso letterale del messaggio senza interpretarlo e
dunque assumendo comportamenti insensati, o ancora l’isolamento dovuto al tentativo di bloccare
l’ingresso dei canali di comunicazione. Gli studiosi avvertono che questi atteggiamenti non sono gli
unici possibili di fronte ad un processo di doppio legame: esistono infatti diverse deformazioni,
interminabili e sistematiche, nelle quali le vittime possono cadere.
117
I paradossi pragmatici in forma di ingiunzione non sono semplicemente contraddittori: se infatti le ingiunzioni
contraddittorie obbligano a scegliere un’alternativa che non è mai quella giusta, le ingiunzioni paradossali fanno fallire
la scelta stessa, come è possibile constatare non soltanto nella comunicazione umana ma anche in quella con gli animali
(Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 213-214).
118
Citati in Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 208.
39
Uno dei modi di uscire dal doppio legame, dall’illusione di alternative che esso offre
provocando in realtà stallo in un rapporto e disperazione nei soggetti coinvolti, è l’uscita dal
modello comunicativo da esso instaurato, la quale difficilmente può avvenire dall’interno dello
stesso e viene pertanto assegnata a fattori esterni, come un linguaggio diverso da quello usato nella
comunicazione ‘malata’ o una persona estranea che intervenga nel rapporto in modo da formare un
sistema nuovo ed allargato in cui non solo è possibile guardare il vecchio sistema dall’esterno, ma
anche utilizzare il potere del paradosso per ottenere un miglioramento.
Per la novità della prospettiva adottata nello studio delle interazioni e in generale del
comportamento, la pragmatica della comunicazione ha avuto immediata risonanza nel mondo
scientifico, costituendo per anni l’approccio di riferimento per chi volesse occuparsi di
comunicazione e relazioni interpersonali. Nel tempo, tanto i presupposti quanto i risultati delle
ricerche di Watzlawick e dei suoi collaboratori sono stati in parte messi in discussione o addirittura
accantonati, prime fra tutti l’assunzione secondo la quale ogni comportamento costituirebbe una
forma di comunicazione e dunque non sarebbe possibile “non comunicare” (come recita il primo
assioma), che ha ceduto il passo ad una concezione più ristretta e complessa di comunicazione
basata sullo scambio intenzionale di significati tra due o più individui119, e la presunta pretesa di
universalità degli assiomi formulati (peraltro più volte esplicitamente negata dai loro autori120).
Altri concetti, inoltre, tra i quali la distinzione tra il livello comunicativo di contenuto e quello di
relazione o quella tra i moduli analogico e numerico, hanno conosciuto notevoli ampliamenti e
sviluppi rendendo in parte superato il lavoro della scuola di Palo Alto121. Ciononostante, la maggior
parte degli studiosi di comunicazione riconosce ancora oggi il potenziale euristico della teoria di
Watzlawick, grazie alla ricchezza di suggestioni che essa offre all’indagine della natura delle
relazioni interpersonali che si stabiliscono con l’interagire122. Per questa ragione, appare in generale
importante per una comprensione profonda del funzionamento e dei problemi dei processi interattivi
tenere presente la terminologia e le categorie della pragmatica della comunicazione, evitando
tuttavia di accoglierne in modo rigido e acritico le tesi fondamentali.
Le nozioni di position e positioning sono state introdotte nell’ambito delle scienze sociali da
meno di un trentennio123. Il loro sviluppo in psicologia si colloca all’interno di una reinterpretazione
119
Burkart 2002, 20-34.
Cfr. supra, 33.
121
Ciò è avvenuto tra l’altro grazie alla pragmalinguistica (che ad esempio attraverso la teoria degli atti linguistici e le
teorie della politeness ha permesso di precisare il concetto di metacomunicazione) e alla psicologia discorsiva (ad
esempio con la teoria del posizionamento).
122
È quanto osserva tra gli altri Burkart 2002, 478-479. Cfr. anche Bercelli 1999, 90. Dell’importanza che pragmatisti
del calibro di Mey, Kerbrat-Orecchioni e Caffi attribuiscono ancora oggi alle teorie della scuola di Palo Alto ho già
parlato supra, 31, n. 94.
123
Nella loro presentazione della positioning theory, van Langenhove/Harré 1999, 16 indicano in uno studio di Wendy
Hollway sulla costruzione della soggettività nelle relazioni eterosessuali la prima elaborazione dei concetti (W.
120
40
dell’oggetto e degli ambiti della disciplina che ha portato un sempre maggiore numero di studiosi ad
intenderla essenzialmente come “studio delle pratiche discorsive”124, identificate come le attività
umane attraverso le quali principalmente prende forma una realtà psicologica e sociale125. In questa
prospettiva, positioning è l’insieme degli aspetti del discorso attraverso i quali gli individui si
collocano l’uno rispetto all’altro in pratiche come la conversazione, l’intervista terapeutica, il
racconto, ecc., costituendo in esse le proprie identità e su questa base negoziando le relazioni
interpersonali126. Tali aspetti comprendono non una determinata classe di atti verbali ma ogni tipo
di azione comunicativa che sia resa funzionale alla descrizione e alla costituzione dei partner di
interazione come persone psicologicamente e socialmente determinate (ossia occupanti o
rivendicanti una determinata “posizione” nello spazio sociale) mediante il riferimento diretto o
indiretto ad attributi di tipo personale, sociale o morale127. Come si è accennato, le identità dei
parlanti non vengono dunque più intese come realtà oggettive e unitarie, aventi caratteristiche
definite già prima di un’interazione: al contrario, si ritiene che esse vengano costruite, messe in
discussione, modificate dalle azioni di tutti i partecipanti nel corso di ogni scambio comunicativo,
anche quando vengono percepite come entità stabili, coerenti e del tutto indipendenti dalla
comunicazione. Esse possono invece variare in successivi momenti di uno scambio non soltanto a
causa delle differenti percezioni che di sé e degli altri hanno i diversi parlanti ma anche per
iniziativa di uno stesso parlante, che conduce in ogni situazione comunicativa la propria storia,
spesso dando di questa e conseguentemente di se stesso immagini plurime128. Il posizionamento,
che è sempre contemporaneamente di se stessi e di tutti quanti sono coinvolti nel discorso
(destinatari, referenti, ecc.)129, può avvenire in modo intenzionale oppure inconsapevole; nel primo
Hollway, Gender Difference and the Production of Subjectivity, in AA. VV. (a cura di), Changing the Subject, London
1984, 227-263).
124
Van Langenhove/Harré 1999, 15.
125
Riguardo al significato di “pratiche discorsive” cfr. Davies/Harré 1990, 45, che le intendono come “all the ways in
which people actively produce social and psychological realities” e precisano che il termine discourse indica “an
institutionalised use of language and language-like sign systems”, per il quale l’istituzionalizzazione “can occur at the
disciplinary, the political, the cultural and the small group level” (45). Van Langenhove/Harré 1999, 16 aggiungono:
“Many, if not most, mental phenomena are produced discursively. By this we do not mean that discursive activities
cause mental phenomena to come into existence. Many mental phenomena, like attitudes or emotions, are immanent in
the relevant discursive activities themselves”.
126
Cfr. van Langenhove/Harré 1999, 16-17, Lucius-Hoene/Deppermann 2004, 171-172.
127
Cfr. Lucius-Hoene/Deppermann 2004, 168.
128
Davies/Harré 1990, 48: “In speaking and acting from a position people are bringing to the particular situation their
history as a subjective being, that is the history of one who has been in multiple positions and engaged in different
forms of discourse”; ib., 46: “An individual emerges through the processes of social interaction, not as a relatively fixed
end product but as one who is constituted and reconstituted through the various discursive practices in which they
participate”; ib., 53: “If we are to come close to understanding how it is that people actually interact in everyday life we
need the metaphor of an unfolding narrative, in which we are constituted in one position or another within the course of
one story, or even come to stand in multiple or contradictory positions, or to negotiate a new position by ‘refusing’ the
positioning that the opening rounds of a conversation have made available to us”.
129
Cfr. van Langenhove/Harré 1999, 22, che scrivono: “within a conversation each of participants always positions the
other while simultaneously positioning him or herself”. Lucius-Hoene/Deppermann 2002, 196 spiegano a tal proposito:
“Selbst- und Fremdpositionierung sind als sprachliche Handlung im interpersonellen Raum miteinander verwoben.
41
caso, inoltre, può svolgersi in forma chiara e diretta oppure restare implicito ed essere pertanto
lasciato all’interpretazione dell’altro; è chiaro tuttavia che in ogni momento di un’interazione (o
anche al di fuori di essa) è possibile renderlo esplicito e discuterlo130. La sua costruzione, inoltre,
non costituisce sempre l’attività principale di uno scambio, ma si svolge di solito in concomitanza
con altre attività interazionali. Spesso il posizionamento si dispiega gradatamente in un’interazione,
emergendo come prodotto della joint action dei partecipanti ad essa, il che non avviene sempre in
modo lineare ma in molte occasioni attraverso conflitti, equivoci, discussioni e così via131.
La sua ricostruzione passa attraverso l’esame di tutte le azioni compiute nel corso di
un’interazione da chi vi partecipa (atti linguistici, silenzi, gesti, narrazioni, auto-presentazioni ecc.)
e dei modi della loro realizzazione (ad esempio attraverso l’uso di certe immagini e metafore, in
determinati momenti o sequenze conversazionali, con il riferimento a categorie morali, posizioni
ideologiche, stereotipi culturali ecc.). I richiami (espliciti o impliciti) ad attributi personali, a ruoli e
identità sociali (e ai diritti e i doveri ad essi legati) e/o a determinati ordini morali che ogni attività
di posizionamento presenta rendono necessario che l’indagine su di essa tenga conto degli orizzonti
morali e sociali in cui i partecipanti si muovono e del repertorio di fatti autobiografici relativi ad
ognuno che solitamente fa da sfondo alla comunicazione, quando questi nel corso della stessa
vengano resi rilevanti dai partner d’interazione132.
La teoria del posizionamento ha sinora conosciuto le sue più numerose applicazioni e
ottenuto i risultati più significativi ed originali nell’esame delle narrazioni costruite in ambito
interattivo (da quelle condotte nelle interviste terapeutiche a quelle che si sviluppano più o meno
casualmente nelle conversazioni ordinarie, ecc.)133. A tal proposito sono stati distinti vari livelli di
posizionamento: in primo luogo si ha quello reciproco dei diversi personaggi all’interno della storia
(ciascuno dei quali posiziona sempre contemporaneamente se stesso e gli altri attraverso le proprie
azioni comunicative), che va sempre visto anche come un posizionamento dei personaggi da parte
dell’io narrante e di quest’ultimo rispetto ad essi (ad esempio attraverso qualificazioni, giudizi di
valore, ecc.); in secondo luogo, si può cogliere il posizionamento dell’io narrante rispetto al
destinatario della storia nella situazione interattiva in cui questa viene raccontata (effettuato ad
esempio finalizzando certe scelte linguistiche nel racconto al compimento di azioni come biasimare,
scusarsi, dare un consiglio, ecc.); ad un terzo livello, infine, l’io narrante posiziona “se stesso verso
Jeder Positionierungsakt im Hinblick auf den Interaktanten (sich selbst oder den Partner) hat gleichzeitig immer auch
eine Komponente im Bezug auf den anderen, d. h. sowohl einen selbstbezüglichen als auch einen auf den
Interaktionspartner gerichteten Aspekt”.
130
Van Langenhove/Harré 1999, 22.
131
Lucius-Hoene/Deppermann 2002, 200.
132
Cfr. Lucius-Hoene/Deppermann 2002, 202.
133
Al posizionamento effettuato nel corso di narrazioni sono dedicati ad esempio i seguenti studi: Bamberg 1997,
Lucius-Hoene/Deppermann 2002, Lucius-Hoene/Deppermann 2004, Bamberg/Georgakopoulou 2008, Orletti 2009.
42
se stesso”134, rendendo chiaro attraverso quanto dice come vede se stesso e il proprio rapporto con il
più ampio contesto sociale esterno alla narrazione (valori, ideologie, ecc.)135. L’identità della
persona che racconta affiora dunque dai diversi livelli del racconto, tanto quelli interni quanto quelli
esterni ad esso. Si tratta pertanto di un’identità stratificata, costruita gradatamente e localmente, e di
conseguenza sfaccettata e complessa136.
La prospettiva appena illustrata fa sì che la positioning analysis relativa ai protagonisti di un
racconto condotto in interazione si svolga a diversi livelli, ognuno dei quali costituisce la premessa
dei successivi: al primo c’è l’indagine linguistico-stilistica, che attinge ampiamente agli strumenti di
analisi offerti da discipline quali la pragmalinguistica, la linguistica testuale ma anche la
narratologia, la teoria dell’argomentazione, ecc. allo scopo di individuare le modalità in cui i
protagonisti di un racconto sono presentati (attraverso determinate scelte lessicali, sintattiche o
sequenziali, mediante l’uso di certe figure del discorso, di forme di mitigazione o di rafforzamento
di atti linguistici, di determinati patterns intonazionali, ecc.) e messi in relazione tra di loro e con gli
eventi (marcandone ad esempio il grado di “agentività”137, ecc.)138 nonché, assumendo una
prospettiva pragmatica nei confronti del momento della narrazione, di comprendere quale valore
interattivo abbiano i contenuti e la struttura del racconto, solitamente funzionali agli scopi discorsivi
rilevanti per il narratore; infine, grazie alla proprietà indessicale del linguaggio riconosciuta da
Gumperz nei suoi studi sulla contestualizzazione139, le informazioni ricavate possono essere
utilizzate come indici di norme e convinzioni morali, stereotipi culturali, ecc., che emergono
direttamente o indirettamente dalle scelte linguistico-conversazionali compiute nel racconto (anche
perché di solito ad esse convenzionalmente legate), e dunque anch’esse come componenti
dell’identità del parlante, dell’immagine che esso rivendica per sé in una determinata interazione.
Tanto nelle interazioni all’interno delle quali si sviluppano narrazioni quanto nelle altre il
posizionamento dei partecipanti e di conseguenza la loro identità vengono dunque ad essere dei
prodotti linguistici, costruiti attraverso gli atti comunicativi da essi compiuti nella successione dei
turni140. Per questa ragione, di fondamentale importanza è il primo livello dell’indagine, di natura
necessariamente linguistico-conversazionale, da cui si sviluppano i successivi. Sebbene la genesi
134
Bamberg 1997, 337: “narrators position themselves to themselves”.
Orletti 2009, 95.
136
Su questo cfr. soprattutto Bamberg 1997, 337.
137
Il concetto si riferisce al grado di responsabilità di un’azione attribuito ai personaggi di un racconto (cfr. Orletti
2009, 95 e 106-107).
138
Per i legami tra la positioning theory e la teoria degli atti linguistici cfr. van Langenhove/Harré 1999, 17 e
Davies/Harré 1990, 45 i quali connettono chiaramente la prima alla seconda sostenendo inoltre la necessità di inserire
ogni atto illocutorio nella struttura della conversazione. All’utilizzo, da parte della positioning theory, di presupposti
teorici e metodologie di analisi sviluppati dall’AC per il primo livello di indagine è dedicato Korobov 2001.
139
Citato in Korobov 2001, 28.
140
Korobov 2001, 35: “subjectivity/agency is … also a set of micro-managed semiotic/linguistic constructions”. Cfr.
Lucius-Hoene/Deppermann 2002, soprattutto 200 e 212.
135
43
della positioning theory sia come si è detto esterna alla linguistica, essa attinge però ampiamente,
sia riguardo ai fondamenti teorici sia nelle sue applicazioni, ai modelli esplicativi delle interazioni
verbali elaborati dalla pragmalinguistica, quali ad esempio il binomio illocuzione/perlocuzione,
impiegato per comprendere le azioni che ciascun parlante compie attraverso le parole e i gesti che
rivolge all’interlocutore141, oppure le metodologie di indagine turno per turno sviluppate dall’analisi
conversazionale. Le stesse nozioni di position e positioning si avvicinano notevolmente a quella,
ampiamente utilizzata negli studi sulle politeness strategies e sulla mitigazione, di “faccia”
introdotta da Goffman, risultando ad essa in parte sovrapponibili142, e con essa possono contribuire
a costituire la figura del “soggetto enunciatore” posta oggi da molti studiosi al centro dell’indagine
pragmalinguistica o comunque di quella delle interazioni verbali ed intesa, secondo le suggestive
definizioni di Claudia Caffi, come “costruzione dialogica, in un processo accidentato e zigzagante,
soggetto a continue revisioni”143, “co-identità costruita e negoziata nell’interazione”144,
“soggettività frammentata, intermittente e in continua costruzione”145. Per questa ragione appare del
tutto giustificato servirsi della positioning analysis come di un necessario punto di raccordo tra
l’indagine sul singolo comportamento interazionale e quella sui rapporti costruiti tra i soggetti
enunciatori nell’occasione dello scambio e in conseguenza di essa.
1.2.3 Pragmatica e testo drammatico146
Il fatto che il mondo fizionale rappresentato nel dramma prenda forma non per mezzo del
racconto più o meno distaccato di un narratore ma in massima parte attraverso la comunicazione tra
le dramatis personae conferisce al discorso drammatico una dimensione intrinsecamente e
necessariamente pragmatica, legata alle sue seguenti funzioni:
1) la creazione, attraverso l’impiego della deissi, dello stesso contesto comunicativo in cui il
discorso viene prodotto, rappresentato in primo luogo dalla dialettica che si crea tra un parlante che
141
Cfr. supra, pagina precedente n. 138. Anche Bamberg 1997, 337 nel sottolineare come chi racconta una storia
intenda compiere un’azione nei confronti del destinatario della sua narrazione (ad esempio scusarsi per un’azione,
accusare un altro, ecc.) fa a mio parere implicitamente (o forse inconsapevolmente) riferimento al potere illocutorio e a
quello perlocutorio di un atto linguistico.
142
Per la nozione di faccia secondo Goffman e quella utilizzata da Brown/Levinson 1987 cfr. supra, 26. Poiché la
faccia, nozione sociologica, dipende in parte anche da fattori esterni e pre-determinati rispetto al discorso (come le
condizioni economiche, lo status sociale, la professione ecc.), userò nel corso della ricerca questo termine in riferimento
appunto all’immagine sociale che ognuno rivendica per sé con le esigenze ad essa connesse, mentre farò ricorso al
termine “posizione” soprattutto per indicare il modo in cui ognuno si situa nel discorso, pur riconoscendo la loro
notevole prossimità.
143
Caffi 2001, 5.
144
Caffi 2001, 7.
145
Caffi 2001, 11.
146
Per la composizione di questo paragrafo sono stati per me fondamentali, poiché vi ho attinto abbondantemente, il
capitolo di Elam 1988 dedicato al discorso drammatico (139-189) nonché Pfister 2000, 149-219, Hess-Lüttich 1980a, 522, Hess-Lüttich 2001a, 1619-1632, Hess-Lüttich 2001b, 1640-1655.
44
dice “io” e un ascoltatore cui ci si rivolge con il “tu” all’interno della situazione spazio-temporale in
cui la loro comunicazione si svolge (un ‘qui ed ora’ per chi parla, che definisce tutto nei termini
della propria collocazione nel mondo di cui è parte);
2) l’attribuzione di precise caratteristiche ai componenti dell’intero mondo drammatico:
individui, luoghi, oggetti e avvenimenti che prenderanno corpo in quanto resi oggetti di discorso da
parte dei parlanti, i quali assegnano loro identità stabili e coerenti e forniscono informazioni circa le
proprietà che li caratterizzano147;
3) la costituzione dell’azione direttamente sulla scena attraverso l’interazione verbale tra i
personaggi, la quale, valorizzando il “potere esecutivo, interpersonale e sociale del linguaggio”
diviene “una modalità di praxis che mette in opposizione le diverse forze etiche, personali e sociali
del mondo drammatico”148.
Le funzioni individuate rendono i modelli esplicativi impiegati tradizionalmente dalla critica
letteraria nell’esame dei generi narrativi del tutto inadeguati a dare conto del ruolo cruciale
ricoperto dal dialogo del dramma nella definizione del contesto fizionale al quale si riferisce e
all’interno del quale si svolge, evidenziando al contrario l’utilità delle categorie e metodologie di
indagine delle interazioni verbali elaborate dalla pragmalinguistica per lo studio del dramma149.
In particolare l’identificazione tra linguaggio e azione, sviluppata progressivamente a partire
dagli anni ’40 in seguito alle intuizioni avute in alcuni studi sulla tragedia greca da Jindřich Honzl,
regista e studioso di teatro appartenente al Circolo linguistico di Praga150, ha rivoluzionato la
concezione tradizionale della critica drammatica che poneva l’azione al di fuori del testo
(limitandola ad eventi esterni come spostamenti fisici dei personaggi, battaglie, riconoscimenti,
delitti ecc.) e determinato il sorgere di numerosissimi studi che spiegavano le funzioni ‘azionali’ del
dialogo drammatico sulla base di modelli pragmalinguistici.
Non è possibile in questa sede ripercorrere la storia di quest’importante svolta nello studio
del dramma, concretatasi in ricerche di portata e respiro vari relative in massima parte al teatro
moderno e contemporaneo ma estese presto dal dramma inglese a quello scritto in altre lingue
occidentali e non151, le quali risultano accomunate dai meriti di avere esplorato le numerose
opportunità interpretative dischiuse dall’adozione di questa prospettiva e fornito preziose
147
Per questo aspetto e per la nozione, ad esso connessa, di referenza drammatica cfr. ad esempio Elam 1988, 152-158.
Elam 1988, 163.
149
Elam 1988 si sofferma sull’argomento non soltanto nelle pagine citate nella nota apposta al titolo di questo paragrafo
ma anche nella rassegna degli studi successivi al 1980 presente nell’edizione italiana (soprattutto alle pagine 231 e 234236). Hess-Lüttich 2001b, 1647-1650, svolge un excursus piuttosto ampio sugli studi pragmatici del dialogo del
dramma e della letteratura in genere svolti soprattutto in lingua tedesca fino agli anni ’90.
150
Honzl 1976a, 74-93 e Honzl 1976b, 118-127.
151
Hess-Lüttich 2001b cita diversi studi anche su opere ebraiche e arabe (tra cui l’agile studio di Hafez 1991, 59-81).
148
45
indicazioni metodologiche per l’applicazione alla letteratura di strumenti di indagine destinati in
primo luogo al linguaggio ordinario.
Può essere sufficiente ricordare che ad una prima fase caratterizzata da tentativi generali di
interpretare l’azione drammatica nel suo complesso in primo luogo secondo la teoria degli atti
linguistici152 ne sono seguite altre in cui si è tentato per lo più di impiegare la pragmatica,
unitamente a categorie di ordine diverso (retoriche, psicologiche, letterarie, semiotiche), al fine di
elaborare metodi analitici specifici del dramma153 oppure si è privilegiata la lettura pragmatica di
singole opere teatrali o di parti di esse154. Questa evoluzione è stata favorita soprattutto dalla
constatazione che, una volta riconosciuto il dialogo drammatico come una delle tante specie di
discorso regolate da determinate norme pragmatiche, l’interpretazione pragmatico-illocutoria del
dramma perde la sua utilità se non viene resa pertinente all’interno di un discorso critico inteso a
precisare le caratteristiche e le finalità del testo letterario preso in esame155.
Presto anche altri ambiti di indagine della pragmatica, come il principio di cooperazione di
Grice o l’analisi conversazionale, hanno conosciuto analoghi percorsi di applicazione. Numerosi
studi sul dramma li hanno infatti utilizzati come strumenti di confronto tra il dialogo drammatico e
la conversazione reale, partendo dalla considerazione delle funzioni azionale (o, nella terminologia
della semiotica teatrale, “proairetica”156) ed espositiva del primo per sottolinearne le analogie di
sviluppo con la seconda, viste come caratteristiche di verosimiglianza, o viceversa muovendo
dall’aspetto mimetico del dialogo e ricercandone le eventuali deviazioni rispetto alla fenomenologia
dell’interazione reale: anche in questo caso è emerso come il potenziale esplicativo delle loro
categorie riesca a non esaurirsi soltanto quando queste non siano considerate fattori di interesse in
sé ma valorizzate come strategie testuali funzionali alla costruzione del senso di un’opera, venendo
conseguentemente adattate alle convenzioni di discorso in atto al suo interno e al contesto specifico
di azione in cui occorrono157.
L’ampliamento delle massime di Grice con l’aggiunta di massime di cortesia e il successivo
sviluppo di teorie della politeness hanno a loro volta avuto enorme risonanza negli studi sul
152
I primi tentativi ravvisabili di applicazione della teoria degli speech acts sono quelli effettuati da Richard Ohmann in
una serie di saggi comparsi nei primi anni ’70, in cui veniva sottolineata la marcata intensità illocutoria del dialogo
drammatico rispetto ad altri generi letterari (“In a play, the action rides on a train of illocutions … movement of the
characters and changes in their relations to one another within the social world of the play appear most clearly in their
illocutionary acts”, Ohmann 1973, 83), seguiti, all’inizio degli anni ’80, da una nutrita serie di studi intesi a rifondare un
approccio illocutorio al testo drammatico, tra cui Chambers 1980, 397-412. La storia di questa prima fase di
applicazione viene ripercorsa brevemente e valutata da Elam 1983, 63-66.
153
Uno dei primi tentativi di costituire un metodo di indagine squisitamente ‘drammatologico’ è quello presentato da
Elam 1988 a conclusione della sua indagine semiotica del teatro e del dramma (189-215). Interessanti sono anche le
osservazioni effettuate dallo studioso in Elam 1983, 63-73.
154
Un elenco degli studi riferiti soprattutto al dramma inglese è contenuto in Elam 1988, 235.
155
Cfr. Elam 1983, 66-67.
156
Cfr. Elam 1988, 161.
157
Cfr. Dodd 1983, 43.
46
dramma, originando numerose applicazioni alle situazioni interattive di singole opere e aprendo la
strada a nuove prospettive anche all’interno di campi di indagine tradizionali come quello della
tipologia dei personaggi o quello del rapporto tra un’opera e i codici culturali vigenti nella società di
cui essa è prodotto e a cui si rivolge158.
La riflessione pragmatica sul dialogo drammatico ha permesso di evidenziare o di precisare
alcune fondamentali peculiarità da esso possedute rispetto alla conversazione reale, aventi origine
nel suo carattere fizionale e motivato, nel fatto di essere rivolto al tempo stesso agli ascoltatori
interni alla finzione drammatica e ad un pubblico di spettatori e/o di lettori159 e nella specificità del
codice e dei canali attraverso i quali viene prodotto e trasmesso. La loro considerazione si è nel
tempo a sua volta rivelata essenziale per affinare le metodologie di applicazione di concetti
pragmalinguistici al dramma ed evitare fuorvianti semplificazioni, il che rende a mio parere
necessaria a questo punto una loro sintetica menzione160.
Anzitutto, se è vero che il drammaturgo attinge alla propria competenza comunicativa e
all’esperienza dell’interazione verbale maturata nel corso della vita reale per la costruzione dei
dialoghi, nei quali riproduce le dinamiche del parlato anche al fine di renderli comprensibili al
proprio pubblico come scambi verbali161, va anche detto che egli obbedisce alle proprie finalità
artistiche e alle norme del genere letterario praticato: ciò rende dunque necessario, per una piena
comprensione dei dialoghi, da una parte tener conto delle conoscenze disponibili relativamente alla
pratica conversazionale nella società reale cui l’autore apparteneva, dall’altra approfondire le
convenzioni e le tendenze che influenzano la scrittura drammatica a proposito dei generi in cui le
opere studiate si inscrivono.
Le fondamentali funzioni drammatiche svolte dal dialogo sono inoltre responsabili della sua
particolare densità informativa, che conferisce ad ogni enunciato e ad ogni mossa un certo ruolo per
il procedere dell’azione, la creazione di un effetto e/o la caratterizzazione di personaggi e relazioni.
Questa caratteristica lo distingue enormemente dalla conversazione reale ordinaria, che di norma ha
soprattutto finalità sociali, mirando a stabilire o mantenere un legame interattivo e relazionale tra
persone che si trovano insieme162 (e per questo pullulando di segnali fàtici, tesi ad assicurare il
mantenimento del contatto tra parlante e interlocutore, a fare andare avanti l’interazione, a fornire
158
Di estremo interesse per la precisazione dei termini in cui la teoria della politeness può rivelarsi utile ad interpretare
il rapporto dialettico dell’opera teatrale (o letteraria in generale) e il sistema di valori e di norme sociali e culturali della
società storica dell’autore è l’applicazione effettuata da Roberta Mullini ad una scena di Wilde (Mullini 1983, 223-232).
159
Per questa fondamentale caratteristica e le sue implicazioni relativamente alla struttura del dialogo drammatico cfr.
Pfister 2000, 149-168. Sull’azione di questa “double énonciation” in particolare nel teatro antico ha scritto importanti
pagine Florence Dupont (Dupont 2000a, 146-147).
160
Cfr. principalmente Elam 1988, 183-189.
161
Cfr. Ungeheuer 1980, 46.
162
L’antropologo Malinowski definisce “comunione fàtica” la segnalazione verbale che “serve a stabilire legami di
unioni personali fra persone messe insieme dalla necessità di compagnia e non serve allo scopo di comunicare idee”
(Malinowski 1930, 315).
47
retroazione al parlante ecc.), risultando per converso informativamente povera. In particolare,
all’importanza del dialogo per lo sviluppo dell’azione drammatica si devono la densità e la purezza
illocutorie dei contributi dei singoli parlanti, che in generale sono facilmente riconoscibili nel loro
valore, si sviluppano in maniera coerente e ordinata l’uno dall’altro e risultano significativi per lo
sviluppo dell’interazione (e conseguentemente del plot) in un determinato senso163.
Il dialogo drammatico risponde inoltre a requisiti di comprensibilità e di “seguibilità”164 che
ne vincolano fortemente la struttura: è per questo che si differenzierà dalla conversazione reale in
ragione della struttura sintattica dei turni, nella maggior parte dei casi corretta e completa (o,
qualora incompleta, facilmente ricostruibile da chi ascolta o legge il testo) e dell’ordine di solito
tecnicamente e logicamente non problematico in cui si succedono, riproducente soltanto
blandamente la lotta per il controllo della parola tipica della conversazione reale ordinaria e i
problemi attraverso i quali essa si esprime (tra cui interruzioni, sovrapposizioni, false partenze,
esitazioni, ecc.), che, quando presenti, risultano in genere significativi.
Da sottolineare è infine il superiore grado di coerenza testuale cui il dialogo del dramma è
soggetto rispetto all’interazione reale, che, oltre che sui piani logico, referenziale, semantico, si
esprime anche (il che per noi riveste particolare importanza) ai livelli proairetico, per cui il suo
procedere sarà in generale più rigoroso e ordinato di quello degli scambi verbali reali, e retoricostilistico, per cui il testo del dramma finirà con l’avere uno stile complessivo, fatto di moduli
sintattici e retorici ricorrenti, ripetizioni di parole, modalità illocutorie dominanti, ecc. attraverso le
quali saranno spesso caratterizzati e messi in contrapposizione personaggi, ambienti e momenti
dell’azione raffigurati165. L’importanza e i risultati dell’analisi comparativa dei dialoghi del dramma
moderno e degli scambi verbali sono a mio parere efficacemente sintetizzati dalle seguenti parole
dello studioso di comunicazione Gerold Ungeheuer:
Solche Dialoge sind auch keinesfalls ”künstlich“ in dem Sinne, daß Sie gegen Regeln kommunikativen
Gebarens verstoßen. Sie sind freilich (oder können es sein) unrealistisch in ihrer Konzentration, aber gerade dieses
Merkmal macht sie für eine Analyse zum Zwecke kommunikationswissenschaftlicher Begriffsbildung interessant166.
163
Elam 1988, 185.
Elam 1988, ib.
165
Elam 1988, 187-189.
166
Ungeheuer 1980, 46. Dello stesso parere è Bernd Spillner, secondo cui “Das Drama ist als die genuin dialogische
literarische Gattung besonders geeignet als Gegenstand der linguistischen und linguistisch-pragmatischen
Gesprächsanalyse” anche se nel dramma “immer ist … mit literarischer Stilisierung und Einfluß der poetischen
Tradition zu rechnen”. Da questo fatto tuttavia a suo parere “ergeben sich … auch Vorteile für die Dialoganalyse”, dato
che nel dramma “läßt sich deutlich die Tendenz erkennen, aus der theoretisch unbegrenzten Menge denkbarer
Gesprächssituationen eine begrenzte Anzahl typischer Situationen auszusondern und in immer wieder neuen
Variationen dramatisch zu realisieren”, per cui “Intrigen, dramatische Verwicklungen und die – vor allem in der
Komödie wegen ihres kommunikativen Effektes – herbeigeführten komplizierten Gesprächssituationen sind
vorzügliche Untersuchungsgegenstände einer pragmatisch fundierten Gesprächsanalyse” (Spillner 1980, 279-280).
164
48
Le considerazioni svolte sono, come si è detto, il frutto di una lunga ricerca riguardante
soprattutto, anche se non esclusivamente167, il dramma moderno e contemporaneo. Che esse siano
estensibili alla commedia del IV-III secolo a. C. può costituire senz’altro una comoda ipotesi di
lavoro, la quale richiede tuttavia di essere adeguatamente fondata e impiegata perché i risultati della
ricerca si rivelino attendibili e significativi per l’interpretazione delle singole opere.
1.2.4 Pragmatica e filologia classica
Il vasto utilizzo della pragmatica (e delle discipline ad essa connesse) che caratterizza il
presente lavoro rende a mio parere opportuno effettuare una rassegna degli studi di filologia classica
precedentemente compiuti secondo tale prospettiva, nel cui solco questa ricerca si colloca pur con le
proprie specificità legate all’oggetto e agli scopi che la caratterizzano.
Ancora nel 1988 N. E. Collinge si interrogava sulle possibilità di applicazione delle
categorie della disciplina al greco antico, evidenziando in certi casi – come quelli del valore
illocutorio degli enunciati, delle implicature convenzionali e conversazionali generalizzate di Grice,
ecc. – la loro applicabilità alla lingua greca e il vantaggio di uno sguardo pragmatico su di essa e
dall’altra esponendo le proprie perplessità riguardo alla rintracciabilità di altri fenomeni – ad
esempio l’attivazione di presupposizioni – in una lingua per la quale non sono disponibili dati
attuali e controllabili168. Dopo il suo rapido survey, a partire dagli anni ’90 si è registrato un
crescente interesse per la pragmatica negli studi classici. Esso si è espresso in una serie sempre più
corposa ma anche disordinata di studi diversi riguardo a taglio, dimensioni e finalità, per dar conto
della quale occorrerebbe una ricerca a parte. Per questa ragione, lungi dal pretendere di giungere ad
una rassegna esaustiva dei lavori sinora compiuti sulle lingue e le letterature classiche, in questa
sede mi limiterò a ripercorrere le grandi direttrici lungo le quali queste ricerche si sono mosse,
individuandole a partire dagli ambiti più caratteristici della pragmatica linguistica.
Si può preliminarmente specificare che il sentiero più battuto è quello della lingua e della
grammatica latine, che da circa un ventennio sono oggetto di approfondimento e in parte di
reinterpretazione alla luce della prospettiva pragmatica, mentre gli studi di questo tipo sul greco
antico hanno avuto una più tarda fioritura. Le applicazioni a fini letterari sono, a proposito di
ambedue le lingue, ancora più recenti, e solo negli ultimi tempi stanno sostituendo approcci
167
In Hess-Lüttich 1980, costituente una delle prime raccolte di studi sul rapporto tra letteratura e conversazione,
compare anche un’interessante applicazione del principio di cooperazione griceano ad un testo epico quale il
Nibelungenlied da parte di Harald Weydt (Weydt 1980, 95-114).
168
Collinge 1988, 1-13.
49
complessi, utilizzanti categorie appartenenti a diversi ambiti della disciplina, a brevi riflessioni su
singoli aspetti169.
Il principio di cooperazione conversazionale di Grice e la nozione di implicatura che da esso
deriva hanno spesso costituito il punto di partenza per ricerche linguistiche sul funzionamento di
avverbi, congiunzioni, locuzioni e costrutti soprattutto latini al livello dell’enunciazione piuttosto
che dell’enunciato (tra queste si segnalano quelle di Orlandini sull’attivazione o cancellazione di
implicature da parte di termini o espressioni apparentemente intercambiabili e di Bertocchi, Maraldi
e Orlandini sui possibili usi argomentativi di determinate parole e locuzioni170). Sul versante della
critica letteraria, il principio di Grice è all’origine di studi come quello di Augustin Speyer, dedicato
alla struttura e al procedere dell’argomentazione in dialoghi e monologhi delle tragedie senecane171.
Questo genere di studi apre il campo all’esplorazione delle possibili connessioni tra retorica
e pragmatica linguistica. I rapporti tra le due discipline sono divenuti negli ultimi anni un terreno
fecondo di riflessione soprattutto sul versante della linguistica (ad esempio con le ricerche di Caffi e
di Venier, che mettono in evidenza la comune attività delle due discipline dovuta all’identità del
loro oggetto di indagine ma anche la diversità delle loro prospettive, spesso ma non sempre
integrabili172), lasciando al contrario registrare un vuoto di interesse da parte della filologia classica,
che pure potrebbe fornire contributi interessanti per il confronto e viceversa ricevere altrettanto
interessanti impulsi non soltanto per l’interpretazione di modelli come quello aristotelico,
contenente in sé alcuni germi dello sguardo pragmatico sul linguaggio, ma anche per la
comprensione profonda dei meccanismi alla base delle figure retoriche, spesso identici o vicini a
quelli della “modulazione” degli atti linguistici173. Il solo tentativo, piuttosto lontano nel tempo, di
lavorare questo campo fertile è quello effettuato da Licinia Ricottilli nel suo lavoro sull’aposiopesi,
che viene distinta da altre ‘figure del silenzio’ (come la semplice brachilogia o la preterizione) in
quanto “voluta astensione da un preciso atto linguistico” (33) dotata di un preciso valore
comunicativo a seconda della situazione interazionale in cui parlante e ascoltatore sono immersi174.
A sua volta una conquista degli ultimi anni è lo studio delle interazioni verbali raffigurate in
opere letterarie greche e latine secondo i metodi elaborati dalla moderna analisi conversazionale. A
proposito particolarmente interessante è l’esteso studio di Müller sul linguaggio delle commedie di
Terenzio, mirante ad approfondire, attraverso i procedimenti della linguistica dialogica, quegli
169
Particolarmente significativo a tal proposito è che dal 1996 nelle sezioni dedicate alla linguistica latina e greca
dell’Année Philologique la voce Sémantique sia diventata Sémantique et pragmatique.
170
Si vedano a titolo di esempio Orlandini 1995, 259-269, Orlandini 1997, 251-260 e Bertocchi/Maraldi/Orlandini
1999, 139-213.
171
Speyer 2003.
172
Caffi 2001, soprattutto 141-165, Venier 2008.
173
Su questo cfr. soprattutto Venier 2008, passim.
174
Ricottilli 1984.
50
elementi e quelle strutture che appaiono riprodurre il comportamento verbale nella conversazione
reale ordinaria: in particolare nelle prime due delle tre sezioni del suo studio (intitolate
rispettivamente alla pragmatica e alla sintassi del dialogo), Müller si occupa dello sviluppo
conversazionale dei dialoghi terenziani dalle sezioni di apertura a quelle di chiusura, anche se, in
ragione della finalità prettamente linguistica del suo lavoro, si concentra sulle parole e le espressioni
fungenti da segnali organizzativi dello scambio verbale e sulla forma sintattica dei turni senza
considerare se non brevemente e occasionalmente il valore sociale che i modi della loro successione
(ad esempio nelle Paarsequenzen), la loro struttura e la loro durata assumono per i partecipanti a
un’interazione175.
Diverso orientamento assume invece la serie di studi condotta sotto la guida di Florence
Dupont sul rapporto tra il dialogo teatrale e la conversazione reale antica: esaminando, sulla base
del modello di analisi delle interazioni verbali approntato dalla linguista Catherine KerbratOrecchioni, la resa conversazionale di ‘rituali sociali’ quali il saluto, la supplica, la negoziazione
commerciale e la consolazione in dialoghi del teatro antico (tratti dalle tragedie di Euripide e di
Seneca e dalle commedie di Aristofane e di Plauto), Dupont e i suoi colleghi giungono alla
conclusione che i moduli propri della conversazione reale utilizzati in questi momenti subiscono
modificazioni e adattamenti imposti dal codice teatrale176.
Sull’ambito della deissi si sono concentrati di recente gli studi di Bonifazi relativi agli
epinici pindarici: partendo dalla considerazione di questi ultimi come atti comunicativi, la studiosa
dà alle espressioni deittiche in essi presenti il valore di speech-acts e le descrive in base agli usi
pragmatici che possono avere, giungendo alla conclusione che la deissi costituisce un potente
mezzo di coinvolgimento e orientamento dei destinatari dell’epinicio durante la performance e non
uno strumento di indicazione di referenti geografici o individuali fissi, cioè da essa indipendenti177.
Al pari di altri ambiti della pragmatica, anche la teoria degli atti linguistici sta ispirando
tanto ricerche linguistiche quanto studi di critica letteraria. Tra le prime, interessanti sono ad
esempio quelle condotte da Risselada e Shalev rispettivamente sulla lingua latina e quella greca, le
quali dimostrano che l’esame degli enunciati nella prospettiva dell’atto linguistico nelle lingue
classiche può fornire sul loro funzionamento informazioni difficilmente ottenibili dalla grammatica
tradizionale178. A proposito dei secondi, si può citare il tentativo di Kloss di illustrare la comicità di
Aristofane come nascente dal mancato soddisfacimento, da parte degli speech acts pronunciati dai
personaggi, delle condizioni di felicità di un atto – come individuate in particolare da John L.
175
Müller 1997, soprattutto 15-220.
Rispettivamente Kerbrat-Orecchioni 2000, 63-141, Dupont 2000a, 145-150, Letessier 2000, 151-163, Hammou
2000, 165-174, Legangneux 2000, 175-188, Dupont 2000b, 189-206.
177
Bonifazi 2004, 391-414.
178
Risselada 1993 per il latino e Shalev 2001, 531-561 e Shalev 2003, 351-360 per il greco.
176
51
Austin – tra cui ad esempio la sua mancata comprensione o accettazione (ad opera, ad esempio, di
figure come quella del bomolochos)179. Ancora alla teoria di Austin fa riferimento McNeill quando
si propone di esplorare nei carmi di Catullo il silenzio come atto sociale, costituente un’espressione
‘eloquente’ delle posizioni relative di chi lo performa e di chi lo riceve nella comunicazione nonché
della relazione che esiste tra loro180.
Un crescente interesse, anche se non ancora sfociato in studi sistematici, sta riscuotendo in
filologia classica anche la complessa sfera delle strategie di politeness. Ad una nozione di politeness
derivata da quella di Brown e Levinson fa riferimento Willi nell’occuparsi del linguaggio femminile
in Aristofane per spiegare alcune delle peculiarità da esso rivelate a vari livelli (da quello lessicale a
quello sintattico), tra cui l’elevata frequenza di particelle limitative come γε, l’evitamento di
oscenità e di vocativi offensivi, l’uso di accorgimenti finalizzati a cercare l’accordo
dell’interlocutore, come la perifrasi βούλει/βούλεσθε con congiuntivo in frase interrogativa, le ‘tag
questions’, ecc.181 La teoria della politeness elaborata da Brown e Levinson viene anche utilizzata
da Lloyd in brevi ma interessanti articoli su autori diversi: a proposito di Omero, se ne serve per
interpretare la κερτοµία come compimento di un FTA in modo off record, recando numerosi esempi
in proposito; in Sofocle ed Euripide, analizza exempli gratia alcuni luoghi mettendo in evidenza il
sapiente uso che i drammaturghi fanno delle strategie di politeness per mostrare l’atteggiamento dei
personaggi l’uno rispetto all’altro in diversi momenti di una tragedia182. Ancora al modello di
Brown e Levinson fa ricorso H. P. Brown in uno studio delle forme di address usate da e per gli
eroi dell’Iliade allo scopo di far rilevare il valore relazionale e sociale che possiedono in quanto
modi di identificazione e riconoscimento del destinatario, valore che soprattutto in presenza di
forme metricamente equivalenti è determinante per la scelta dell’una o dell’altra (ad esempio, a
proposito di quelle rivolte ad Agamennone, quando si tratta di mettere in discussione o al contrario
di riaffermare, a seconda del momento, l’autorità del capo degli Achei)183. Prima di lui Dickey
aveva fatto riferimento alla politeness positiva e negativa distinta da Brown e Levinson nel suo libro
sui vocativi nella prosa greca184. Ancora, in un lavoro sulle frasi subordinate in Aristofane Stelter
tenta di costruire ponti tra sintassi e pragmatica indicando alcune possibili valenze pragmatiche
delle proposizioni analizzate a seconda dell’atto illocutorio che contribuiscono a realizzare185.
179
Kloss 2001.
McNeill 2010, 69-81.
181
Willi 2003, soprattutto 157-197.
182
Lloyd 2004, 75-89 (dedicato all’Iliade), Lloyd 2006, 225-239 (su Sofocle), Lloyd 2009, 183-192 (sulle Troiane di
Euripide).
183
Brown 2006, 1-46.
184
Dickey 1996, passim.
185
Stelter 2004, 9-12, 247-266 e 277-280, 324-325, 397-406, 417-420.
180
52
Soltanto a partire dagli ultimi anni si è assistito al tentativo di utilizzare approcci pragmatici
integrati, come quello da me proposto, per l’interpretazione di testi letterari antichi. Uno dei pochi
(e più ampi) è senz’altro quello, recentissimo, compiuto da Minchin attingendo alla teoria degli
speech acts, alle massime di Grice, al modello di politeness di Brown e Levinson e ai risultati
dell’analisi conversazionale ma anche ai contributi della psicologia discorsiva e dell’antropologia
culturale nell’esame di alcune modalità in cui i poemi omerici mostrano i loro personaggi in
interazione (dalla successione di domanda e risposta alle occorrenze di atti linguistici come il
rimprovero, il rifiuto di un invito e l’ordine, all’interruzione) al fine di delineare differenze di
gender nell’uso pragmatico della lingua e dimostrare come il racconto di interazioni, per diversi
aspetti stilizzato, sia condizionato in Omero dalla composizione in performance dei poemi ma al
contempo rifletta patterns del parlare interazionale reale186. Una visione ampia della pragmatica,
comprensiva cioè tanto della pragmalinguistica in senso stretto quanto della pragmatica della
comunicazione e della psicologia discorsiva, viene proposta ancora da Ricottilli in diversi studi sul
teatro e sull’epica latini, il più ampio dei quali dedicato al rapporto tra linguaggio e gesto
nell’Eneide, anche se nell’analisi si dà spazio soprattutto alle categorie della pragmatica della
comunicazione187, di cui si sottolinea la compatibilità con le teorie grammaticali e retoriche degli
antichi.
All’interno della ricerca menandrea, si può affermare che l’esigenza di uno studio
pragmatico dei dialoghi delle commedie si è avvertita ancor prima che la pragmalinguistica – anche
a volerla intendere nel senso più ristretto del termine – desse i risultati più significativi e rivelasse il
suo potenziale euristico nello studio delle interazioni verbali. Nonostante dopo la ‘riscoperta’ di
Menandro del ’900 le ricerche sulla lingua e lo stile menandrei si siano concentrate quasi
esclusivamente su fatti lessicali, sintattici o stilistici188, è a partire dagli anni Cinquanta che si cerca
di indagare il linguaggio delle commedie inserendolo nella prospettiva dell’interazione.
Nella sua dissertazione di dottorato presentata all’Università del Michigan nel 1952,
Osmun189 si occupa della tecnica del dialogo menandreo ovviamente sui testi disponibili prima del
ritrovamento del codice Bodmer, interrogandosi, tra l’altro, su fenomeni quali le contro-domande in
replica a domande poste dall’interlocutore o l’elusione di domande, le interruzioni di battuta, le
ripetizioni, i termini di address, l’uso degli imperativi, ecc. Purtroppo i risultati raggiunti non
rendono giustizia all’audacia del tentativo compiuto dallo studioso americano, dato che i più
186
Minchin 2007.
Soprattutto Ricottilli 2000, Ricottilli 2003, 60-82.
188
Gli studi di impostazione sul linguaggio di Menandro saranno da me citati quando lo riterrò opportuno. Rassegne
degli studi principali sono contenute in Del Corno 1975a, 13-48 e Willi 2002b, 1-32.
189
Osmun 1952b.
187
53
significativi sono limitati all’identificazione delle funzioni ricoperte dall’interruzione (si distingue
ad esempio l’interruzione finalizzata ad aggiungere commenti e domande da quella che intende
bloccare l’interlocutore senza però mostrare come questo abbia influenza sul prosieguo
dell’interazione) e l’elenco delle ripetizioni di singole parole suddiviso in base alle loro funzioni (il
quale tuttavia appare troppo generico quando riunisce tutte le ripetizioni di parole da parte del
secondo parlante in una domanda e le ripetizioni di una parola “to qualify or emphasize it”190).
Più interessante appare l’approccio sviluppato da Nick Bozanic ancora in una tesi di
dottorato rimasta non pubblicata dal titolo “Structure, language and action in the comedies of
Menander”191. Sulla base del fatto che l’azione drammatica viene performata e si esprime attraverso
il parlare monologico e dialogico dei personaggi, l’autore stabilisce l’equazione tra linguaggio e
azione all’interno del dramma, mostrando come siano fatti linguistici a determinarne lo sviluppo,
dalle interruzioni di turno all’uso di parole ed enunciati volti a nascondere piuttosto che a rivelare la
verità e ad atti finalizzati a scoraggiare lo scambio comunicativo.
Alcuni risultati dello studio di Bozanic vengono citati e impiegati da Turner in un breve ma
interessante articolo del 1980, in cui l’insigne studioso menandreo propone di considerare il
linguaggio delle commedie non più “in isolation” bensì “in a context of action and
characterisation”192: a tale scopo prende in esame quella che ritiene una fondamentale unità
comunicativa dell’interazione reale e del dialogo menandreo, la coppia domanda-risposta, mettendo
in rilievo le numerose valenze che i due atti che la costituiscono possono assumere all’interno di
uno scambio verbale, da quella propriamente interrogativa a quelle rispettivamente di ordine e
accettazione o rifiuto, esclamazione e commento, rimprovero e discolpa, ecc. Nonostante il carattere
limitato dell’indagine, ammesso dallo stesso Turner, il fatto che abbia cessato di ritenere le singole
frasi o battute di un’interazione entità statiche soffermandosi sugli effetti che hanno o tentano di
esercitare sul destinatario, la rende un intelligente tentativo di inserire il dialogo del dramma
menandreo in una prospettiva correttamente interattiva.
Probabilmente proprio a causa della mancanza di modelli esplicativi maturi in materia di
interazioni verbali le osservazioni dello studioso inglese non hanno dato luogo a veri
approfondimenti193 venendo seguite appena da qualche contributo su singoli temi. Il già ricordato
studio di Ricottilli sull’aposiopesi è rimasto per lungo tempo il solo a proporre una prospettiva
pragmatica per le scelte linguistiche effettuate in commedia (esamina infatti le occorrenze della
figura retorica studiata in Menandro con particolare attenzione alle valenze comunicative e sociali
190
Osmun 1952b, 51.
Bozanic 1977.
192
Turner 1980, 1-23 (la citazione è tratta dalla pagina 2).
193
Turner stesso ammette di far fatica a trovare una disciplina incentrata su questa prospettiva ed individua nella
retorica quella più utile ai suoi scopi (Turner 1980, 2-3).
191
54
che ognuna di esse assume all’interno del dialogo in cui compare194. Qualche anno fa, infine, il
classicista e storico dell’arte Richard Williams ha dedicato una breve analisi ad alcune
caratteristiche pragmatiche del dialogo menandreo evidenziandone un uso che a suo parere
riproduce efficacemente l’andamento della conversazione reale195.
1.2.5 Comunicazione e relazioni interpersonali nella presente ricerca
Nella sua prima parte, questo lavoro consiste in un’indagine pragmalinguistica sugli scambi
verbali presenti nelle commedie. La mia applicazione della pragmatica linguistica al dialogo
menandreo nasce dall’elaborazione delle svariate indicazioni metodologiche provenienti dai
precedenti studi di questo tipo sul dramma e sulla letteratura classica196 orientata agli scopi della
presente ricerca e si dispiega su più livelli, ciascuno dei quali afferente ad una delle aree della
disciplina la cui considerazione può fornire informazioni circa il funzionamento degli scambi
verbali e gli atteggiamenti interazionali dei personaggi nel mondo drammatico di Menandro.
Ad un primo livello si presenta come esame dei dialoghi delle commedie considerate
secondo i modelli esplicativi elaborati dall’analisi conversazionale (che d’ora in poi indicherò anche
con la sigla AC), ponendo a confronto due oggetti – la conversazione reale odierna di tipo
occidentale e il dialogo menandreo – che si presumono diversi ma commensurabili197, in modo da
delineare quella che, adattando un’espressione di Heritage, può essere definita ‘l’architettura
menandrea dell’intersoggettività’198, ossia la raffigurazione, nelle commedie, delle tecniche di
gestione dello scambio di messaggi utilizzate normalmente nella realtà dai partecipanti ad un evento
comunicativo199. Questo esame cerca infatti di evidenziare in quale misura e secondo quali modalità
il dialogo comico riproduca il lavoro comune compiuto dagli interlocutori per far procedere
un’interazione in ogni suo momento, mostrando come esso presenti i principali sistemi
organizzativi attivi nella conversazione reale odierna (quali quello del turn-taking, quello
dell’introduzione e della gestione di un tema, quello delle preferenze, ecc.) e i problemi ad essi
legati (dalle interruzioni ai silenzi, alle ripetizioni, alle correzioni, e così via). I dati raccolti
194
Ricottilli 1984.
Williams 2001, 125-145.
196
Esse sono state illustrate per grandi linee nel paragrafi precedenti.
197
Per le differenze tra la conversazione reale e il dialogo drammatico in generale cfr. supra, 46-49. Date queste per
assodate, in seguito i termini dialogo, conversazione, interazione, scambio verbale ecc. saranno utilizzati per lo più
come sinonimi, tranne quando se ne vorranno sottolineare le differenze. Per la nozione di conversazione cfr. anche
infra, 65.
198
Heritage 1984, 254 definisce “architecture of intersubjectivity” l’insieme dei meccanismi di funzionamento della
conversazione, che la caratterizzano in ogni caso, ossia indipendentemente dal tipo di scambio che le persone mettono
in atto.
199
Anche se rivolta in primo luogo a Dyscolos e Samia, l’indagine ha tenuto spesso in considerazione i dati provenienti
dalle altre commedie di Menandro a noi note.
195
55
vengono di volta in volta riferiti alle diverse situazioni comunicative (ossia ai tipi di attività
interazionale che i personaggi hanno coscienza di compiere, definiti in primo luogo dagli scopi
comunicativi che essi si prefiggono, dalle aspettative che vi ripongono200, e dalle circostanze esterne
degli scambi201) e alle relazioni sociali esistenti tra i partecipanti, in modo da comprendere se e
come le une e le altre influenzino lo sviluppo delle interazioni menandree.
All’analisi conversazionale dei dialoghi segue, per meglio comprendere come i
comportamenti tenuti dai parlanti nel corso di uno scambio modifichino il contesto interazionale,
l’analisi illocutoria degli enunciati e dei turni pronunciati in essi, mirante a chiarire quali azioni ogni
personaggio compia o tenti di compiere attraverso il linguaggio (e i mezzi di comunicazione non
verbale che ad esso spesso si accompagnano) e secondo quali modalità espressive ciò avvenga202.
Di questo secondo gradino dell’indagine viene dato conto innanzitutto attraverso l’illustrazione
delle occorrenze di alcuni tra i principali atti linguistici rinvenuti all’interno dei dialoghi – in
particolare tra quelli più rilevanti sul piano relazionale in quanto potenzialmente minacciosi per
l’immagine dell’interlocutore e/o per quella del parlante203 – e delle strategie di modulazione (ossia
di rafforzamento o mitigazione) impiegate nel compierli, utilizzando, per l’individuazione e la
classificazione degli uni e delle altre, soprattutto il modello di Brown e Levinson204. Anche in
questo caso i dati raccolti vengono confrontati con situazioni di interazione, status sociale dei
personaggi e relazioni tra questi intercorrenti.
Nel corso dell’analisi non viene inoltre trascurata la considerazione di aree e nozioni della
pragmatica linguistica che sono strettamente connesse a quelle rese oggetto dei due principali livelli
d’indagine, se non addirittura da esse inscindibili: penso ad esempio alla deissi, alla
presupposizione e soprattutto al principio di cooperazione conversazionale di Grice, su cui si fonda
tanta parte della riflessione filosofica e linguistica riguardo all’espressione degli speech acts205. Nel
200
Nel dramma scopi e attese dei partecipanti ad uno scambio sono di solito più facilmente rintracciabili che nella
conversazione reale, dato che in molti casi, almeno nella commedia menandrea, vengono illustrati in maniera esplicita
dai personaggi prima dell’interazione, durante il suo svolgimento (attraverso reazioni e commenti rivolti
all’interlocutore o condotti a parte) e spesso anche dopo, con riflessioni sugli effetti prodotti da uno scambio verbale sul
loro stato d’animo.
201
Per la nozione di tipo di attività (activity type) cfr. Levinson 1992, 66-100 (in particolare 69). La maggior parte delle
interazioni trovate in Menandro è presentata come ordinaria e spontanea in quanto svolta al di fuori di cornici
istituzionali in grado di predeterminarne struttura e stile.
202
Il legame inscindibile tra il tipo di atto linguistico compiuto e le modalità in cui ciò avviene viene sottolineato con
forza da Caffi 2001, 178-179, che critica Drew/Heritage 1992 per la scarsa considerazione riservata dai due studiosi alla
forma in cui un atto linguistico si presenta, da loro relegata tra i “details of a turn’s components” (Drew/Heritage 1992,
35) non riconoscendola come parte integrante del compimento di un atto, che contribuisce a renderlo quello che è.
203
Sono i face threatening acts (o FTA), descritti ad esempio in Brown/Levinson 1987, 65-68.
204
Il modello di politeness elaborato dai due studiosi, già introdotto in estrema sintesi nelle pagine precedenti (supra,
26), verrà illustrato e discusso diffusamente al momento dell’applicazione, senza trascurare di metterne in evidenza i
principali limiti e tentare di superarli attingendo ai più recenti studi sulla politeness e sulla mitigazione degli atti
linguistici. Cfr. infra, 171-207.
205
Dell’importanza del principio di cooperazione conversazionale di Grice per gli atti linguistici indiretti e per i modelli
di politeness elaborati ho parlato supra, soprattutto 17 e 24.
56
presentare i risultati dell’indagine pragmalinguistica viene tuttavia fatto esplicito riferimento a
queste soltanto quando appaiono particolarmente significative o quando risulta opportuno
richiamarle per l’illustrazione e la spiegazione dei fenomeni rinvenuti.
Il metodo di lavoro appena presentato accosta prospettive che, come ho mostrato206, oltre ad
avere avuto origini e sviluppi indipendenti, si sono spesso contrapposte l’una all’altra: un esempio
evidente di questo è rappresentato dall’analisi conversazionale, presentatasi come superamento non
soltanto delle massime griceane ma anche della teoria degli atti linguistici207. Tuttavia, proprio per il
fatto che a nessuna delle aree citate le altre risultano completamente riducibili e che, al contrario,
ognuna di esse consente di risalire a singoli tasselli del mosaico che nel mio lavoro si tenta di
mettere insieme relativamente alle modalità di costruzione da parte dei personaggi delle identità
propria ed altrui e dei loro rapporti attraverso l’interazione, il loro accostamento risulta a mio parere
giustificato purché non vengano sottovalutati i punti che ne rendono impossibile una completa
sovrapposizione. In particolare, la prospettiva illocutoria e quella conversazionale appaiono
entrambe indispensabili alla comprensione di uno scambio comunicativo, il cui sviluppo è dovuto
essenzialmente alle azioni compiute in esso dai partecipanti attraverso il loro comportamento
verbale nella successione dei turni di parola. Del resto, se nell’analisi letteraria la considerazione di
singoli aspetti e settori della pragmalinguistica è senz’altro più frequente dell’adozione di una
metodologia di indagine composita208, in linguistica si assiste invece, come si è visto, sempre più
spesso a tentativi di integrare prospettive e ambiti diversi della pragmatica tanto nella riflessione
teorica quanto nella pratica dell’analisi delle interazioni verbali209.
Per effettuare una valutazione corretta dei risultati scaturiti dall’analisi pragmalinguistica si
è reso ovviamente necessario prendere in considerazione le informazioni disponibili riguardo alle
pratiche comunicative in vigore nella società dell’autore, dalla quale i dialoghi dovevano essere
compresi tanto sul piano linguistico quanto sotto gli aspetti contenutistici, relazionali e sociali: si è
dunque cercato di verificare in quale misura gli scambi verbali di un mondo drammatico che era
strutturato in larga parte secondo le norme sociali, giuridiche, ideali che reggevano quello esterno210
fossero basati sul sistema di regole e di consuetudini interazionali vigente nella società reale come
ricostruibile dalle testimonianze pervenuteci a riguardo, ossia se agli abitanti di quel mondo fosse
206
Cfr. supra, 5-30.
Cfr. ad es. Levinson 1993, 362-364.
208
Vanno tuttavia ricordati almeno l’approccio integrato alla letteratura di Burton 1980 e quello di Hübler 1980, 115141.
209
Cfr. supra, 6-7 e 30-31. Numerose indicazioni per l’impiego della teoria degli atti linguistici nell’analisi delle
interazioni verbali sono contenute in van Rees 1992, 31-47 e in Sbisà 1999, soprattutto 83-86. Dell’accostamento della
prospettiva conversazionale e di quella illocutoria, oltre che dei diversi aspetti della pragmalinguistica (e non solo),
fornisce significativi esempi Caffi 2001 sottoponendo ad indagine soprattutto interazioni svolte in contesti terapeutici,
alle cui applicazioni il mio lavoro deve importanti conferme e preziosi suggerimenti.
210
Cfr. almeno Zagagi 1994.
207
57
assegnata dall’autore grosso modo la stessa competenza comunicativa comune a lui e al pubblico,
intesa nel suo senso più ampio di “consapevolezza metapragmatica”211. Questa verifica non ha
inteso stabilire un’equazione tra i meccanismi di funzionamento delle interazioni svolte nelle
commedie e quelli degli scambi comunicativi praticati nella società storica dell’autore. Il suo scopo
è stato invece quello di utilizzare i dati acquisibili intorno ai secondi per interpretare in modo
quanto più possibile corretto i risultati forniti dall’osservazione delle prime, al fine di non ‘adagiare’
le caratteristiche di forme di scambio verbale estremamente giovani e culturalmente determinate
quali sono quelle oggetto dell’analisi conversazionale e di gran parte degli studi pragmalinguistici
su interazioni raffigurate in drammi del IV-III secolo a. C., mancando di riconoscere differenze
profonde eventualmente sottostanti alle analogie fenomenologiche superficiali rilevabili tra esse212.
In altri termini si può dire che le regole e le tendenze interazionali emergenti dalla moderna analisi
conversazionale e pragmalinguistica, quelle ricavabili da fonti antiche di varia natura a proposito
della società storica dell’autore e quelle che appaiono caratterizzare la comunicazione drammatica
in generale sono state impiegate congiuntamente per ricostruire in profondità le norme che
governano il funzionamento dei dialoghi menandrei senza aprioristiche identificazioni con esse,
guidando in primo luogo la raccolta dei dati e in seguito la loro interpretazione.
Le fonti in nostro possesso sono le più disparate e richiederebbero una o più indagini
specifiche per essere considerate e vagliate tutte213. Alcune di esse, relative ad aspetti specifici delle
interazioni verbali, saranno da me citate al momento dell’analisi. Per ora mi limito ad elencare le
informazioni date da due testi particolarmente interessanti non solo in quanto contenenti parecchi
riferimenti a situazioni ordinarie di scambio verbale e a regole comportamentali da osservare
nell’interazione, esprimendo la mentalità del gruppo dirigente della società dell’epoca, ma anche
perché pressoché contemporanei a Menandro: si tratta infatti dei Caratteri di Teofrasto e del II libro
della Retorica di Aristotele214.
211
Per la nozione cfr. Caffi 2001, soprattutto 64 e Caffi 2002, 19 ma vd. anche supra, 27.
Su questo rischio, presente, anche se forse in misura differente, a proposito di tutte le indagini di questo tipo rivolte a
drammi non contemporanei, si sofferma ad esempio Hess-Lüttich 2001a, che afferma: “Es versteht sich dabei von
selbst, daß die heutige Auffassung von ‘Konversation’ im amerikanisch-konversationsanalytischen Sinne … eine
historisch junge Form des Miteinandersprechens bezeichnet … Die historisch und interkulturell ungeprüfte
Unterstellung universalistischer Geltungsansprüche für Konversationsregeln verliert an Plausibilität, wenn man sich die
Gesprächsregeln anschaut, die zu anderen Zeiten, an anderen Orten wirksam waren und sind” (1620), pur precisando in
seguito a proposito delle regole governanti gli scambi verbali dall’antichità all’epoca moderna, che esse “mögen sich im
Detail gewandelt haben” ma che “die Hauptmerkmale der Konversation (im europäischen Sinne) kennzeichnen diese
Gesprächsform bis heute” (1627).
213
La “consapevolezza metapragmatica” nel V e IV secolo è oggetto di un lavoro che ho in preparazione.
214
Intendo sottolineare che la serie di dati che seguirà riguarda l’organizzazione generale delle interazioni presentate
come spontanee, mentre non si riferisce a tipi specifici di interazione, la cui struttura poteva essere in diversa misura
predeterminata per il fatto di svolgersi in contesti istituzionali o in occasioni fortemente ritualizzate (ad es. quelle svolte
in riunioni politiche, cerimonie religiose, ecc.). Anche in questo caso, comunque, deve essere ammessa la possibilità
che ci sfuggano informazioni o dettagli relativi a rituali sociali presenti anche nelle normali interazioni.
212
58
Ciò che si ricava dall’esame dei due testi in merito all’organizzazione generale delle interazioni verbali
spontanee e alle norme sociali ad esse connesse215 può essere rapidamente sintetizzato come segue:
-
la presa di contatto con un’altra persona doveva essere piuttosto cauta, soprattutto quando ci si rivolgeva
ad estranei, in quanto destinata a sondare la disponibilità altrui ad interagire216;
-
della sezione iniziale di un’interazione, soprattutto tra conoscenti, facevano in generale parte reciproci
saluti e manifestazioni di rispetto, che potevano essere solo verbali o anche accompagnati dal contatto
fisico (ad es. quello delle mani): indizio di villania era considerato non rispondere al saluto altrui217;
-
il passaggio di parola non era in qualche modo predeterminato ma andava conquistato volta per volta218;
-
non era ritenuto rispettoso dell’interlocutore tenere la parola troppo a lungo219;
-
atti come l’interruzione del parlare altrui nel corso del proferimento per sottrarre la parola all’interlocutore
erano considerati violazioni220;
-
la presa di parola avveniva per iniziativa propria oppure per scelta dell’interlocutore mediante atti – come
domande e richieste – dopo i quali quest’ultimo smetteva di parlare attendendo determinati complementi
(rispettivamente risposte e accoglimenti o rifiuti delle richieste)221;
-
era inopportuno e fuori dalla norma compiere un atto attendente un complemento e poi di fatto non
attenderlo non cedendo la parola222;
-
non tutti i possibili complementi ad un atto erano equivalenti sul piano sociale: ad esempio il rifiuto di una
richiesta risultava sempre più problematico del suo accoglimento e, se non si voleva o poteva evitare,
veniva compiuto in forma attenuata o accompagnato da ‘risarcimenti’ verbali223;
-
atti linguistici che rappresentassero imposizioni per l’interlocutore, come le richieste (ad esempio di
prestiti o di favori), venivano in generale compiuti con cautela e necessitavano di essere in qualche modo
mitigati (chi non lo faceva era considerato superbo o spudorato)224;
-
era fuori dalle buone norme di interazione la disattenzione ai turni altrui, ad esempio dovuta a
storditaggine225;
215
È necessario precisare che le caratteristiche organizzative che sto per elencare sono spesso associate a norme morali
e sociali di ‘buona educazione’ e non risultano per questo sovrapponibili, ad esempio, alle massime conversazionali di
Grice (cfr. supra, 18-21), costituenti invece l’affermazione di un principio di razionalità che guida l’interazione tra gli
individui sociali. Tuttavia, non si può negare come le tendenze e le norme generali individuate in buona parte
coincidano con i contenuti delle massime griceane (indicando come probabilmente le norme profonde cui le prime
aderivano fossero le stesse che le seconde intendono evidenziare) e con l’organizzazione della conversazione come
individuata dall’AC.
216
Per nulla attenti a questa disponibilità sono nella descrizione di Teofrasto l’individuo ciarliero (ἀδολέσχης) e il
chiacchierone (λάλος). Cfr. rispettivamente Ch. 3 e 7.
217
Ch. 15. Un comportamento simile è quello del superbo (ὑπερήφανος), che non rivolge a nessuno il saluto per strada
(Ch. 24). Al contrario, estremamente rispettoso è il saluto dell’ ἄρεσκος, il cerimonioso.
218
Ch. 7.
219
Ch. 3 e 7.
220
Ch. 7.
221
Tipico dell’arrogante (αὐθάδης) è ritenuto il rifiuto di rispondere alle domande altrui (Ch. 15).
222
Il darsi risposta dopo aver rivolto una domanda all’interlocutore è un comportamento ricordato a proposito degli
individui sgradevoli (Ch. 20).
223
Il diffidente (ἄπιστος) tempera il suo rifiuto di attendere il pagamento di chi abbia comprato qualcosa da lui
facendolo passare per un atto di premura nei suoi confronti (Ch. 18), il taccagno (ἀνελεύθερος) fugge di fronte a chi
potrebbe rivolgergli una richiesta, evitando così di dover rifiutare (Ch. 22), mentre è da spilorci (µικρολόγοι) non dare
neanche a prestito cose piccole (Ch. 10).
224
Il superbo è colui che non mitiga mai le sue richieste ma anzi le rafforza (Ch. 24); non si vergogna di richiedere
neanche lo spudorato (ἀναίσχυντος Ch. 9). Non mostrare cautela nel richiedere è ritenuto turpe anche in Aristot. Rh. II,
6 1383b 27-28.
59
-
introdurre argomenti di conversazione non pertinenti all’interazione o ad un determinato momento della
stessa era ritenuto fuori dalla norma226;
-
erano valutati negativamente il fingere (ad esempio per ipocrisia o per non rendere noti i fatti propri) e il
mentire (soprattutto per calunnia)227;
-
era segno di rispetto rivolgere lo sguardo alla persona con la quale si era in interazione228;
-
doveva essere cosa gradita far seguire alla fine del turno dell’interlocutore segnali di approvazione (se
l’adulatore può usarne in misura eccessiva anche quando ciò è palesemente fuori luogo)229;
-
la schiettezza di linguaggio era apprezzata quando non diventasse maldicenza230;
-
era apprezzato chi fosse affabile, pronto a tollerare e non a compiere atti come il rimprovero o l’insulto e
disposto a scherzare ma garbatamente231;
-
era segno di rispetto salutare l’interlocutore e chiedere di poterlo rivedere quando ci si separava da lui232;
-
alle donne libere non era consentito interagire con uomini estranei alla cerchia della famiglia (neanche
andando ad aprire la porta di casa)233;
-
gli schiavi potevano costituire “canali” o involontari testimoni di comunicazione, ma solitamente non
prendevano parte ad essa (chi comunicasse loro più che ordini o domande era visto come zotico)234.
Altrettanto fondamentale è stato tenere costantemente presente l’insieme di fattori che
influenzavano la scrittura drammatica degli antichi. Questo compito appare comunque facilitato
dall’enorme mole di osservazioni e ricerche già compiute relativamente a tali importanti aspetti
della comunicazione teatrale antica. Tra questi posso citare ad esempio l’uso dei versi,
condizionante a volte pesantemente la scelta e l’ordine delle parole, la sintassi e forse anche la
frequenza e la posizione dei cambi di battuta; inoltre, i numerosi richiami intertestuali ad opere
precedenti e a contenuti e linguaggio di altri generi letterari (in primo luogo della tragedia)235, i
quali talvolta interessano intere scene e sconvolgono temporaneamente le regole interazionali
normalmente vigenti senza che ciò risulti di per sé significativo per i personaggi nella finzione
drammatica236; ancora, il rapporto esistente tra il testo e la comunicazione non verbale, addirittura
225
Thphr. Ch. 14.
Ch. 3, 12, 28.
227
Ch. 1, 8, 28.
228
Il κόλαξ invece guarda il destinatario della propria adulazione anche mentre parla con altri (Ch. 2).
229
Ch. 2.
230
Ch. 28.
231
In Ch. 6 chi ha l’abitudine di lanciare insulti e di farsi popolo è ritenuto ἀπονενοηµένος. Per la piacevolezza delle
persone affabili, garbate e tolleranti nell’interazione cfr. Aristot. Rh. II, 3 1381a 30-35.
232
Sono comportamenti che l’ ἄρεσκος (Thphr. Ch. 5) adotta in modo esagerato nei confronti di tutti.
233
Ch. 28.
234
Per lo zotico (ἄγροικος) cfr. Ch. 4.
235
Per il rapporto tra Menandro e la tradizione cfr. almeno Zagagi 1994, 15-45 per quello tra le sue commedie e la
tragedia, tra l’altro, Katsouris 1975b.
236
Dodd 1983, 43: “ … l’applicazione del principio di Grice ai testi drammatici deve tener conto non soltanto delle
regole di comportamento interattivo del mondo sociale che costituisce lo sfondo referenziale di un dato episodio ma
anche, e soprattutto, del contesto proairetico specifico. Sarà sempre quest’ultimo a selezionare per l’attualizzazione (o a
narcotizzare … ) implicature potenzialmente disponibili in uno scambio analizzato a distanza ravvicinata”. Elam 1983,
67: “È chiaro che lo spettatore o lettore deve proiettare, come parte del bagaglio di competenze comunicative attribuite
226
60
fondamentale nella normale interazione per segnalare lo stato d’animo dei parlanti, il valore
illocutorio di determinati enunciati, la loro forza e così via: alcune caratteristiche del codice
drammatico-teatrale antico rendevano questa relazione del tutto particolare, come il fatto che il
dramma antico era del tutto privo delle didascalie intese nel senso moderno del termine e le recava
dunque normalmente nel testo (con riferimenti ad entrate e uscite dei personaggi nelle loro stesse
battute, al tono della voce tenuto durante il parlare, a gesti che eventualmente l’accompagnavano,
ad oggetti scenici ecc.) ma nel quale erano difficilmente rappresentabili il silenzio, l’esitazione, gli
atteggiamenti soprasegmentali, ecc., che vanno perciò ricostruiti caso per caso237, oppure quello che
gli attori indossavano le maschere, il che riduceva enormemente il momento mimico (anch’esso di
solito supplito dal testo ad esempio con indicazioni dell’espressione facciale dell’interlocutore)238.
Nelle analisi mi riferisco inoltre costantemente a passi di testi greci non soltanto menandrei
in cui compaiono enunciati, costruzioni sintattiche, locuzioni o vocaboli presenti in quelli presi in
esame oppure riflessioni metalinguistiche sui modi di compimento dei principali speech acts e sul
loro significato sociale, in modo da chiarire il valore comunicativo di determinati comportamenti
verbali approfondendone il senso e l’effetto nei contesti in cui vengono adottati.
Un’indagine di questo genere ha dovuto infine tener conto delle difficoltà dovute alla
trasmissione e allo stato del testo, che a proposito delle commedie menandree risultano
particolarmente rilevanti. Se è vero infatti che la maggior parte dei testi antichi ci è pervenuta priva
di segni di interpunzione239, il che in molti casi rende dubbi la forma, i confini e il valore illocutorio
di un enunciato nonché la composizione di una battuta e le modalità del passaggio di parola, la
situazione delle commedie di Menandro è aggravata dall’elevato numero di problemi testuali in esse
ai personaggi, l’osservanza del principio griceano della cooperazione conversazionale, tranne in casi di manifesta nonapplicabilità”. Cfr. anche Pfister 2000, 166-167.
237
Riguardo a questi aspetti del teatro classico cfr. Arnott 1962 (riferito soprattutto al V secolo), Taplin 1977b 121-132,
Taplin 1977a, Rossi 1989, 63-78, Ercolani 2000, 1-13 (gli ultimi tre relativi alla tragedia del V secolo). Altri studi su
specifiche convenzioni linguistiche del teatro di Menandro saranno richiamati nel corso dell’applicazione.
238
È vero anche che la fattura delle maschere dopo il V secolo divenne sempre più raffinata e precisa, tentando di
catturare non soltanto tratti costanti del carattere ma anche sue momentanee disposizioni, come la preoccupazione
(segnalata ad esempio da sopracciglia aggrottate) o l’ira distribuendo caratteristiche diverse tra la metà sinistra e quella
destra della maschera così che fosse possibile mostrare di volta in volta al pubblico quella più adatta allo stato d’animo
del personaggio (cfr. Bernabò Brea 1981, 133-136, Del Corno 1989, 316). In generale, comunque, appare ancora
fortemente discussa la questione del potere caratterizzante delle maschere nella Commedia Nuova. Le posizioni più
radicali a riguardo sono da una parte quella di Brown 1987, 181-202 secondo cui queste, al pari delle altre
caratteristiche esterne di una figura (costume, nome, ecc.), fornivano informazioni su sesso, età, condizione sociale e
talvolta professione della stessa, ma nulla potevano dire riguardo al ruolo che essa avrebbe svolto nel plot (“Any fuller
characterisation was conveyed by the the words and actions of the play itself, and the mask was doubtless appropriate to
the character thus established” (183)), e dall’altra quella avanzata da MacCary 1970, 277-290, affermante che vedendo i
personaggi il pubblico sapeva che cosa potesse da loro aspettarsi (nomi, inclinazioni, caratteristiche morali, ruolo), e
recentemente ripresa da Wiles 1991 in uno studio interamente dedicato alle maschere nella Nea che le vede come
espressione dell’ethos dei personaggi in contrapposizione alla loro voce che ne rappresenta i pathe e perciò in costante
rapporto dialettico con il testo di una commedia. A mio giudizio la verità è, come al solito, nel mezzo: nel nome, nel
costume e nella maschera i personaggi portavano impresse alcune caratteristiche tradizionali di tipi comici ricorrenti dai
quali comunque la loro personalità spesso profonda e sfaccettata li differenzia.
239
Cfr. Andrieu 1954 (per Menandro soprattutto 258-270).
61
presenti240, i quali rischiano di compromettere la validità dei risultati di un’indagine microscopica.
Per questa ragione ho ritenuto necessario condurre preliminarmente uno studio filologico del testo
menandreo, affrontando le difficoltà create dalle lacune e dagli errori dei testimoni e tentando di
risolverle per quanto possibile senza far ricorso alla pragmatica, ossia con valutazioni ed argomenti
di tipo paleografico, drammaturgico, logico, metrico o linguistico-stilistico in senso stretto241. Le
incertezze rimaste in seguito a questo lavoro sono state isolate all’interno del quadro
successivamente delineato con l’analisi pragmatica, ricevendo una considerazione separata perché
non compromettessero il valore di qualunque computo mirante a effettuare generalizzazioni.
Alla delineazione di un quadro generale di funzionamento della comunicazione verbale nei
drammi menandrei considerati (ovvero di una ‘pragmatica del dialogo menandreo’) segue una
riflessione sul comportamento interattivo dei singoli personaggi, del quale, esaminando le forme di
partecipazione al dialogo che essi esprimono, gli atti linguistici che pronunciano e le modalità in cui
questi ultimi vengono compiuti, si cerca di fare emergere le costanti al di là della varietà degli
atteggiamenti che ogni personaggio adotta in dipendenza del contesto comunicativo ogni volta
differente in cui si trova ad agire.
Questa fase della ricerca costituisce un necessario punto di raccordo tra la prima e la
seconda parte del lavoro: come da me già sottolineato242, l’esame dell’agire comunicativo dei
personaggi di un dramma riveste enorme importanza per la comprensione del loro ruolo, per quella
dei rapporti che li legano e per l’interpretazione dell’intero plot. Questo vale senz’altro per le
modalità di presa e cessione della parola, di gestione degli argomenti, di apertura e chiusura di uno
scambio indagate dall’AC: basti pensare soltanto al fatto che fenomeni come l’interruzione, il
silenzio, la riparazione, ecc., che nella conversazione reale odierna possono occorrere normalmente,
all’interno del dialogo drammatico sono raramente casuali e risultano in generale ascrivibili ad
incompetenza comunicativa di singoli parlanti o a situazioni più o meno palesi di conflittualità,
240
I problemi più rilevanti sono soprattutto: a) errori ortografici, come la confusione, l’inserzione o l’omissione errate
di lettere e segni diacritici, l’aplografia e la dittografia, l’inversione dell’ordine delle parole; b) ambiguità, nascenti,
oltre che dallo scarso uso della punteggiatura, dal sistema di segni utilizzato per segnalare il cambio di locutore,
costituito essenzialmente dalla paragraphos e dal dicolon (il quale può avere tuttavia anche la funzione di indicare il
cambiamento di destinatario nell’ambito di una stessa battuta), che non specificano l’identità di chi parla, mentre la nota
personae compare nel codice irregolarmente, svolgendo una funzione chiarificatrice soprattutto in occasione
dell’ingresso di un personaggio, all’inizio di un atto o nelle scene ‘a tre’; c) lacune materiali che in alcuni casi hanno
determinato la perdita o il grave danneggiamento di alcuni versi. Per l’enumerazione e la descrizione di tutti i testimoni
delle due commedie, costituiti com’è noto per il Dyscolos soprattutto dal codice Bodmer 4 e per la Samia soprattutto dal
codice Cairensis 43227 e ancora dal Bodmer 25 (d’ora in poi indicherò spesso i Bodmer, parte di uno stesso codice,
come B, e il Cairensis come C), cfr. ad esempio G-S, 39-57.
241
Di esso darò conto soltanto a proposito di problemi rimasti insoluti, oppure quando il testo che scelgo si discosta da
quello dell’edizione oxoniense curata da F. H. Sandbach (1990), o l’interpretazione da me data è differente da quella
adottata da A. W. Gomme e dallo stesso Sandbach nel loro commento (G-S).
242
Supra, 55-58.
62
avendo di solito effetti di varia rilevanza sul procedere della vicenda243. A proposito degli atti
linguistici, la loro importanza diviene particolarmente evidente se si considera che l’azione
drammatica è rappresentabile come “reticolo di illocuzioni e perlocuzioni conflittuali”244 attraverso
le quali si esprimono nel testo le diverse forze etiche, personali e sociali che compaiono in un’opera.
Infine, l’insieme delle strategie linguistiche adottate per compiere i diversi atti nei confronti di uno
o più interlocutori è connesso naturalmente alla scelta e alla produzione degli stessi e costituisce di
per sé, tanto nella conversazione reale quanto nel dramma245, un segnale dei modi in cui i
partecipanti ad un’interazione si posizionano l’uno nei riguardi dell’altro.
I dati raccolti riguardo a ciascun personaggio possono così essere comparati non soltanto
con il suo comportamento linguistico non dialogico, il quale spesso lo vede rivelarsi in aspetti che
tenta di modificare o di nascondere quando è a contatto con altri, ma anche con le informazioni e le
attese ad esso associabili grazie a quell’insieme di caratteristiche che lo definiscono come “tipo”246
già prima che si impegni in qualunque scambio verbale, ossia ad esempio lo status sociale, l’età, il
sesso, la maschera e il costume indossati, e così via. Il primo raffronto consente infatti di
comprendere meglio se e come ogni personaggio modifichi l’espressione di esigenze, desideri,
giudizi o intenzioni quando si rivolge ad un interlocutore247, mentre il secondo rende chiare le
modalità in cui il suo comportamento interazionale completi o, come talvolta accade, disattenda il
quadro informativo esteriore fornito su di lui248. Infine, il confronto tra gli scambi verbali di
un’opera aventi gli stessi protagonisti e quello tra scene dialogiche di contenuto e andamento
analoghi appartenenti a diverse commedie gettano luce sul rapporto tra i comportamenti rilevati,
nelle loro regolarità e nei loro cambiamenti, e gli sviluppi delle relazioni interpersonali intorno alle
quali è costruito il plot.
Questi passaggi sono parte della seconda fase della ricerca, che segue lo sviluppo delle
singole relazioni poste al centro del plot di ciascuna delle due commedie servendosi ampiamente
della terminologia e dei modelli esplicativi delle interazioni e dei rapporti interpersonali elaborati
dalla positioning theory e dalla pragmatica della comunicazione.
In essa vengono considerati unitariamente i comportamenti ai quali i protagonisti di queste
relazioni fanno ricorso nelle diverse fasi dell’azione per costruire e presentare le loro identità nel
243
Cfr. Aston 1983, 209-221, che esamina le opportunità interpretative offerte dall’analisi conversazionale nello studio
del dramma, o il più recente studio di Herman 1998, 19-33.
244
Elam 1988, 163.
245
Cfr. per il dramma moderno Mullini 1983, 223-225 e per la conversazione reale Caffi 2001, passim.
246
Sul rapporto tra tipo e personaggio in Menandro si vedano le intelligenti osservazioni di Ferrari 2001, XVII-XLIV.
247
Se è ovvio che il monologo di una dramatis persona non può contenere gli stessi atti linguistici esibiti dai dialoghi
che la vedono confrontarsi con le altre, già soltanto le differenze che nell’espressione di un concetto simile (ad esempio
di un’intenzione o di un desiderio) siano eventualmente ravvisate sul piano del lessico o della sintassi potranno fornire
importanti informazioni sui modi in cui il parlare viene adattato al destinatario e alla situazione.
248
Le modalità in cui Menandro spesso crea delle attese attraverso la presentazione delle caratteristiche esteriori di un
personaggio (come lo status, l’età , ecc.) per poi frustrarle vengono efficacemente illustrate da Zagagi 1994, 29-43.
63
corso di ciascuna vicenda, rivendicando ognuno una propria collocazione all’interno del mondo
fizionale in cui vive, allo scopo non soltanto di cogliere le più sottili ed interessanti sfumature del
carattere e del ruolo loro assegnati249 ma anche di investigare i modi in cui essi pongono a confronto
le loro attese ed esigenze comunicative, identitarie e relazionali nel momento dello scambio
comunicativo (o, nei termini della positioning analysis, i modi in cui si “posizionano” l’uno verso
l’altro) e le ricadute relazionali che il loro agire in interazione ha nel corso di ogni vicenda.
Come già nella prima fase del lavoro, per evitare di incorrere nell’errore metodologico di
sovrapporre in modo acritico categorie elaborate da studiosi moderni per la comunicazione e i
rapporti interpersonali reali a quelli delle commedie, l’applicazione è stata accompagnata da uno
studio di carattere antropologico sui contenuti morali, sociali, culturali di volta in volta invocati nel
discorso, sulle riflessioni relative al carattere e alla dimensione individuale e sociale dell’uomo
sviluppate nel pensiero dell’epoca (di cui peraltro il carattere dei personaggi del dramma costituisce
una versione estremamente semplificata e tipizzata250), sui valori, le convinzioni e le pratiche che
riguardo alle interazioni e ai rapporti umani erano in forza nella società menandrea.
249
È forse superfluo precisare che il ruolo di un personaggio nel dramma non può essere in alcun modo identificato con
il concetto sociologico di “ruolo”, a cui le nozioni di position e positioning sono state dai loro introduttori
esplicitamente contrapposte (cfr. van Langenhove/Harré 1999, 14). Il ruolo drammatico si precisa invece attraverso
numerosi fattori, spesso tra loro eterogenei (la funzione attanziale attribuita al personaggio, gli stereotipi che
eventualmente incarna, le caratteristiche sociali che gli sono proprie, il suo eventuale statuto intertestuale, ecc.).
250
I testi antichi e la bibliografia moderna relativi a questi aspetti saranno citati ogniqualvolta essi vengano trattati.
64
2. PRAGMATICA DEL DIALOGO
2.1 Analisi della conversazione: il Dyscolos
2.1.1 L’apertura di una conversazione
2.1.1.1 L’apertura nella conversazione reale
L’analisi pragmalinguistica rivela come la conversazione sia un’attività cooperativa
governata da regole che operano costantemente, pur divenendo esplicite soltanto quando la loro
violazione rischia di compromettere il proseguimento di un’interazione1. Il carattere di
‘cooperazione regolata’ è proprio della conversazione già nella sua fase iniziale, costituita da atti,
verbali e non, attraverso i quali i parlanti mostrano la loro disponibilità ad intraprendere
un’interazione e raggiungono un accordo sui modi in cui si realizzerà. A molti di questi
comportamenti si attribuisce la denominazione di “rituali di apertura”2, poiché ricorrono con
regolarità, venendo addirittura avvertiti come indispensabili premesse di uno scambio verbale, e
hanno caratteristiche e significati che all’interno di uno stesso gruppo sociale sono in genere fissi, in
quanto convenzionalmente stabiliti, ma possono variare anche in misura notevole da una società ad
un’altra.
Uno dei rituali di apertura più comunemente impiegati è senz’altro lo scambio di saluti, che
può dirsi universale per la sua funzione fàtica (relativa, appunto, alla creazione del contatto tra i
parlanti), mentre è soggetto ad infinite variazioni culturali riguardo ai gesti e alle formule attraverso
i quali viene realizzato ed al significato che questi assumono per le relazioni sociali e personali tra i
parlanti. Oltre ai saluti, le procedure di apertura possono comprendere altri atti di natura assertiva
od interrogativa: si pensi a domande come la generica “Come va?”, che in alcune lingue ha quasi
completamente perso l’originario valore interrogativo e viene appunto utilizzata e percepita come
un modo convenzionale di sondare la disponibilità del destinatario ad interagire prima di proporgli
un qualunque argomento di conversazione3.
1
Cfr. supra, 28.
Cfr. ad es. Kerbrat-Orecchioni 1996, 75 e Mey 2001, 142-143.
3
A proposito di questa ed altre frasi di apertura (tra cui ad es. osservazioni sull’aspetto fisico dell’interlocutore,
commenti sul tempo, ecc.), Kerbrat-Orecchioni 1996, 76-77 si sofferma in particolare sul loro variare da una società
all’altra e sui malintesi che esso può provocare nella comunicazione interculturale.
2
65
In molte situazioni l’apertura può configurarsi come una coppia di adiacenza
appello/risposta4, che consente un’entrata più diretta ed immediata nel vivo della conversazione:
ogniqualvolta, infatti, una persona richiede l’attenzione di un’altra chiamandola – in base al
contesto di proferimento e al rapporto esistente tra loro – col nome proprio, con nomignoli, titoli,
ecc. (ad es. “Mamma”, “Dottor Bianchi”, “Ehi, tu”), oppure utilizzando espressioni indicanti
politeness (“Mi scusi”, ecc.) o gesti fisici o meccanici (bussare ad una porta, alzare il dito indice,
fare squillare il telefono, ecc.), quest’ultima si sente obbligata a rispondere (con frasi come “Sì?”,
“Che c’è?”, “Pronto?”, ecc.), in tal modo vincolando a sua volta la prima a riprendere la parola e a
spiegare la ragione dell’appello, che costituirà verosimilmente anche il tema principale dello
scambio verbale così aperto.
L’efficacia della coppia appello/risposta come tecnica di apertura di una conversazione è
dovuta al fatto che essa appartiene ad un particolare sottoinsieme di coppie di adiacenza, quello
delle pre-sequenze, le quali preludono sempre ad ulteriori mosse interazionali. Un genere di presequenza che, pur non caratterizzando esclusivamente l’inizio della conversazione, ricorre in esso
molto frequentemente è il pre-annuncio. Esso anticipa la narrazione di un fatto o la comunicazione
di una notizia subordinandole alla reazione dell’interlocutore, dalla quale il parlante comprenderà se
è opportuno o no proseguire (ad es. frasi del tipo “Ho una bella notizia”, “Indovina un po’?”,
daranno luogo ai turni che anticipano soltanto se l’interlocutore si mostrerà interessato ad essi e non
dopo reazioni verbali come: “Non ora per favore”, “So già tutto”, ecc.)5.
Da quanto detto si comprende come quella dell’apertura sia una fase comunicativa
estremamente delicata e complessa: influenza infatti il procedere della conversazione ancor prima
che se ne sia delineato il contenuto, rivelando, al pari dei momenti successivi, la natura della
relazione esistente tra i parlanti e contribuendo a confermarla o a metterla in discussione a seconda
delle esigenze e degli scopi manifestati da ciascuno di loro.
2.1.1.2 Le aperture di conversazione nel Dyscolos
2.1.1.2.1 Criteri di individuazione
Fondandomi sulle caratteristiche del momento dell’apertura nella conversazione reale, ho
selezionato per la mia analisi i passi della commedia che comprendono le frasi e i gesti attraverso i
4
Per la coppia di adiacenza appello/risposta come iniziale di conversazione cfr. Schegloff 1972, in particolare 359-380
e Levinson 1993, 312-314, che ne illustra la funzione soprattutto nelle conversazioni telefoniche.
5
Per i pre-annunci cfr. Levinson 1993, 347-354. Degli altri tipi di pre-sequenze parlerò più diffusamente infra, 97.
66
quali due o più personaggi stabiliscono un contatto e si accostano al tema della loro interazione,
fino al momento in cui viene introdotto.
Sono state escluse dall’analisi quelle battute che, anche se rivolte da un personaggio ad un
altro al di fuori di un’interazione, non mirano a darvi luogo: si pensi agli ordini o ai consigli che
attendono una reazione non verbale da parte del destinatario. E’ il caso, ad esempio, dei vv. 453455, che suonano:
ἐπιθέντες αὐτοὶ τἆλλα καταπίνογραῦ,
ἄνοιγε θᾶττον τὴν θύραν. [ποητέ]ον
ἐστὶν γὰρ ἡµῖν τἄνδον ὡς ἐµοὶ δοκεῖ.
A pronunciarli è il protagonista Cnemone, che non ha intenzione di aprire uno scambio
verbale, ma attende dalla schiava Simiche la pronta (e silenziosa) esecuzione dell’incarico
impartitole. Avviene tuttavia più volte nel corso della commedia che, nonostante una battuta non
venga proferita per dare avvio ad una conversazione, finisca comunque per farlo. In questo caso
esse sono state comunque incluse nel novero delle aperture. Il caso inverso di battute intese dai
personaggi che le pronunciano come primi turni di un dialogo ma non divenute tali per l’assenza di
riscontri verbali da parte del destinatario sembra non occorrere mai nella commedia (i vv. 925-926,
in cui Cnemone chiama più volte invano Simiche affinché giunga a liberarlo dai tormenti dei due
importuni Geta e Sicone non possono considerarsi un’‘apertura mancata’, poiché anche in essi il
protagonista intende dare un ordine alla sua schiava e non aprire con lei uno scambio verbale).
Non ho ritenuto appartenenti alla categoria delle aperture quei passi in cui due personaggi si
trovano in scena insieme da diverso tempo e, avendo già dialogato in precedenza, riprendono a farlo
dopo un certo numero di versi in cui, per una qualsiasi ragione, non si sono rivolti la parola. E’ il
caso, ad esempio, dei vv. 138-140 in cui Sostrato si rivolge allo schiavo Pirria con la maledizione
κακὸν δὲ σὲ
κακῶς ἅπ]αντες ἀπολέσειαν οἱ θεοί,
µαστιγία.]
dopo quindici versi in cui non si sono avuti scambi di battute tra i due.
Come per i successivi momenti del dialogo, anche riguardo all’apertura meritano una
speciale considerazione le scene che hanno come protagonisti più di due personaggi (solitamente in
numero non superiore a tre6). In esse l’interazione si sviluppa di norma secondo assi comunicativi
distinti e successivi, tali che un personaggio A, venendo in contatto con due altri personaggi B e C,
conversa dapprima con il primo e quindi con il secondo, pur essendo questi ultimi entrambi presenti
6
Sulla consuetudine menandrea di far parlare insieme in scena non più di tre personaggi e sulla sua probabile
derivazione dalla cosiddetta ‘legge dei tre attori’ cfr. almeno G-S, 16-19 e Frost 1988, 2-3.
67
in scena e a lui visibili sin dall’inizio della conversazione7. In questi casi l’avvio del secondo asse
dialogico va a mio parere preso in considerazione soltanto quando rappresenta l’inizio di un nuovo
scambio verbale e non semplicemente l’inserimento del terzo parlante nel dialogo che si sta
svolgendo.
Infine, se, da una parte, non ogni dialogo presenta un’apertura, data la diffusione nel
dramma dell’espediente di fare entrare in scena personaggi impegnati in uno scambio verbale che si
immagina già cominciato precedente mente al di fuori di essa8, si può viceversa osservare come non
tutte le aperture di conversazione che vi compaiono siano rappresentate sulla scena: in alcuni casi,
infatti, fanno parte del racconto di un personaggio, che vi accenna in maniera generica e indiretta o
le riporta dettagliatamente facendo uso del discorso diretto9. Ho pertanto considerato anche queste
ultime, analizzandole separatamente rispetto a quelle svolte in scena.
2.1.1.2.2 Elenco delle aperture
I seguenti elenchi contengono tutti i passi individuati come aperture, distinguendo quelle
rappresentate in scena da quelle raccontate. Per ogni passo saranno specificati l’atto (At) di
appartenenza (con la sigla Pr si indica il prologo) e i nomi dei personaggi che ne sono protagonisti.
All’interno del gruppo delle aperture raccontate ho distinto quelle narrate nel discorso
indiretto (orobl) da quelle raccontate in oratio recta (orect), precisando altresì se sono reali (r) o
immaginarie (i) e se si tratta di accenni (acc) a comportamenti tenuti abitualmente dai personaggi in
apertura di conversazione i quali possono essere svolti in modo rapido o riportare direttamente parti
di aperture. I passi contrassegnati con asterisco (*) sono quelli i cui problemi testuali – che verranno
sempre discussi in nota quando essi vengano presi in esame – impediscono di essere certi circa il
loro svolgimento. I passi preceduti dal punto interrogativo (?) sono quelli di classificazione incerta,
che verranno sempre discussi.
Aperture rappresentate
a1) Vv. 82-87= At (I), Sostrato, Pirria, Cherea
a2) Vv. 171-172= At (I), Sostrato, Cnemone
a3*) Vv. 199-201= At (I), Sostrato, figlia di Cnemone
7
G-S ad v. 82, che osservano inoltre: “There are of course exceptions (e.g. 364-80, Per. 467-81), and interjections by a
third party into a duologue are common”.
8
Per l’uso di questo espediente drammaturgico in Menandro cfr. Frost 1988, 10-11.
9
Sulle caratteristiche dei dialoghi citati mediante oratio recta nelle commedie di Menandro cfr. Nünlist 2002, 233-247
e 252-253.
68
a4) Vv. 269-270= At (II), Gorgia, Sostrato
a5) Vv. 401-406= At (II), Sicone, Geta
a6) Vv. 434-438= At (III), Geta, madre di Sostrato
a7) Vv. 459-466= At (III), Geta, Cnemone
a8*) Vv. 498-504= At (III), Sicone, Cnemone
a9) Vv. 551-553= At (III), Sostrato, Geta
a10) Vv. 588-591= At (III), Simiche, Cnemone
a11) Vv. 599-600= At (III), Geta, Cnemone
?a12) Vv. 620-624= At (IV), Simiche, Sicone
a13) Vv. 635-637= At (IV), Simiche, Gorgia
a14) Vv. 691-694= At (IV), Gorgia, Cnemone
?a15*) V. 708= At (IV), Cnemone, moglie e figlia di Cnemone, Gorgia
a16) Vv. 779-780= At (IV), Callippide, Sostrato
a17) Vv. 820-822= At (V), Gorgia, Sostrato
a18) Vv. 867-869= At (V), Sostrato, Gorgia
a19) Vv. 882-884= At (V), Simiche, Geta
a20*) Vv. 888-891= At (V), Geta, Sicone
a21) Vv. 911-913= At (V), Sicone, Cnemone
a22) V. 921= At (V), Geta, Cnemone
a23) V. 926= At (V), Geta, Sicone, Cnemone
Aperture raccontate o immaginate e accenni ad aperture
aI) Vv. 10-12= At (I), Pr, acc, r, orobl, Cnemone, estranei
aII) Vv. 107-111= At (I), orect, r, Pirria, Cnemone
aIII) Vv. 352-357= At (II), orobl, i, Gorgia, Cnemone
aIV) Vv. 365-370= At (II), orobl, i, Cnemone, Sostrato
aV) Vv. 493-497= At (III), acc, r, orobl, Sicone, altri
aVI) V. 726= At (IV), acc, r, orobl, Cnemone, Gorgia
aVII) V. 783= At (IV), orobl, i, Sostrato, Gorgia
69
2.1.1.2.3 Caratteristiche delle aperture di conversazione
Sotto l’aspetto formale le aperture del Dyscolos sono accomunate da una relativa
omogeneità, che si osserva in particolare per il primo turno di conversazione. L’elemento che in
esso compare più frequentemente è il vocativo del destinatario10, presente in quindici delle ventitré
aperture rappresentate ed in tutte quelle raccontate in oratio recta. Quest’alta percentuale
corrisponde a quella rilevata nella prosa greca classica e post-classica11. Compito del vocativo è
essenzialmente quello di assicurare il contatto verbale tra parlante ed interlocutore, ma, all’interno
di questo ruolo fondamentale, è possibile cogliere sfumature funzionali diverse, che determinano la
sua posizione nella frase. Nelle situazioni in cui il parlante ha la necessità di attirare l’attenzione di
un personaggio che non si è accorto di lui o è anche fisicamente distante (trovandosi ad esempio
fuori scena), il vocativo si presenta chiaramente come un modo per chiamare l’interlocutore ed
occupa per lo più la prima posizione all’interno della frase.
Così in a5, ai vv. 401-402 Sicone chiama Geta, che si trova ancora fuori scena, con il
vocativo παῖ Γέτα e con una domanda esprimente una critica per la lentezza dello schiavo nonché,
in forma implicita, una sollecitazione ad affrettare il passo (τοσοῦτ’ ἀπολείπηι;).
Quando, al contrario, il parlante ha la sensazione che l’interlocutore tenga in qualche modo
conto della sua presenza, pone di solito il vocativo all’interno o alla fine di una frase, attribuendogli
piuttosto la funzione di mantenere o rafforzare un contatto che ritiene già presente12.
In a2, ad esempio, quando Sostrato si rende conto che Cnemone brontola ad alta voce a
causa della presenza del giovane dinanzi alla sua porta, si giustifica con il vecchio affermando di
trovarsi lì per caso, avendo dato appuntamento ad un tale: pronuncia infatti l’affermazione
περιµένω, πάτερ, τινὰ / ἐνταῦθα· συνεθέµην γάρ (vv. 171-172), in cui il vocativo si trova in
seconda posizione.
La differenza osservata corrisponde a quella ravvisata nella conversazione reale odierna tra
l’appello (o chiamata) e l’allocuzione13. Essa trova inoltre riscontro ancora nella prosa greca, in cui
10
Includo nella categoria di “vocativo” tutti i termini e le espressioni non incorporati nella sintassi della frase in cui
ricorrono con i quali chi parla si riferisce al proprio interlocutore. Essa potrà comprendere dunque non soltanto nomi ma
anche pronomi come οὗτος o altri dimostrativi quando impiegati per rivolgersi ad un interlocutore. Questa definizione
corrisponde a quella data da Dickey 1996, 4-6 e 22-25 per l’inglese address. Per l’autonomia del vocativo dalla sintassi
della frase in cui ricorre cfr. anche KG I, 47.
11
Cfr. Dickey 1996, 190-193. La studiosa sostiene inoltre che “There is no reason to believe that the high percentage of
addresses at the beginning of conversations ... was not a feature of natural language in classical Greek”.
12
Per i passi a8* e a20* non si può affermare quasi nulla circa la posizione del vocativo: nel primo infatti si vedono al
v. 498 i vocativi παιδίον παῖ[ prima dell’interruzione del verso per una lacuna, ma non si sa se essi fossero di appello o
costituissero una citazione polemica degli appelli effettuati da Geta precedentemente (cfr. G-S ad vv. 496-498). Nel
secondo invece è sicura la presenza dei vocativi µάγειρε e Σίκων rispettivamente ai vv. 888 e 889 ma, ancora a causa
della mutilazione del testo, non si sa se fossero iniziali di turno.
70
il vocativo sembra essere prevalentemente posposto rispetto alla frase, mentre si presenta in prima
posizione quando cerca di attirare l’attenzione dell’interlocutore o di isolarlo all’interno di un
gruppo di persone, il che avviene nella maggioranza dei casi nella prima frase di un discorso a sua
volta iniziale di interazione14.
Anche sul piano della scelta dei termini il vocativo, già (o forse maggiormente) nel primo
turno di un’interazione, ha una funzione pragmatica evidente, che condivide tanto con la
conversazione reale odierna quanto con gran parte della prosa greca antica: esso, infatti, oltre a
fornire informazioni sul singolo parlante (indicandone ad esempio lo stato d’animo, la condizione
sociale, ecc.), è sempre fortemente significativo del rapporto che questi ha o vuole creare con
l’interlocutore e della direzione che intende imprimere alla conversazione a cui si appresta a dare
inizio15. Ad esempio, non è casuale che vocativi esprimenti rispetto, deferenza o affetto non si
trovino mai rivolti da liberi a schiavi, potendo invece essere rivolti da schiavi a liberi e occorrere tra
persone di uguale condizione. A volte, tali vocativi svolgono la funzione di saluto nei confronti
dell’interlocutore. Testimonianze di ciò sono fornite dai passi a2 e aII, caratterizzati entrambi dal
vocativo di ossequio πάτερ rivolto a Cnemone (rispettivamente da parte di Sostrato e dello schiavo
Pirria), che nel secondo dei due, contenente un inizio di conversazione raccontata, viene
esplicitamente indicato come saluto (attraverso l’aoristo προσεῖπα del v. 106) insieme alla frase di
pre-annuncio16 in cui compare. Un’ulteriore conferma è contenuta nel passo aV, in cui il cuoco
Sicone, vantando le capacità adulatorie che è in grado di sfoderare quando è costretto a disturbare
degli estranei per ottenerne favori, si sofferma sugli appellativi lusinghieri rivolti, appunto in qualità
di saluti iniziali, a chiunque si presenti ad aprirgli la porta: osserva infatti che, quando si tratta di un
vecchio, lo chiama πάτερ e πάππα, se è un’anziana la chiama µῆτερ, apostrofando invece una donna
di mezza età come ἱερέα ed uno schiavo (sembra sicuro anche se il testo è in questo punto lacunoso)
con il vocativo βέλτιστε17.
13
Cfr. Schegloff 1972, 358-359, Zwicky 1974, 787-788, Levinson 1993, 83.
Dickey 1996, 190-199. Cfr. anche KG II 48 (“Wird der Vokativ der Rede vorangeschickt, so liegt ein grösserer
Nachdruck auf der Anrede, als wenn er in die Rede eingeschaltet wird”).
15
Cfr. ancora Zwicky 1974, 795-796 per la conversazione reale odierna tra parlanti anglofoni e Dickey 1996, 207-246 e
255-256 per la prosa greca.
16
Su questa ritornerò infra, 73.
17
Dickey 1996 attesta che degli appellativi menzionati da Sicone πάτερ e πάππα si trovano usati piuttosto
frequentemente sia in prosa che in poesia come vocativi di rispetto nei riguardi di un uomo più anziano non legato al
parlante da una speciale relazione (79-81), µῆτερ è impiegato come espressione di rispetto o di affetto verso un’estranea
anziana, tre volte in prosa ma in nessun altro passo di Menandro o di Aristofane (79 e 244-245) e βέλτιστε è comune in
commedia ed in prosa ad indicare gentilezza e rispetto nei confronti dell’interlocutore (estraneo o noto), pur essendo
molte volte usato in senso ironico (111-120 e 139). Al contrario, ἱερέα (= ἱέρεια, cfr. G-S ad v. 496) non compare mai
come vocativo generico indicante rispetto verso un’interlocutrice di mezza età (245). Dickey 1995, 257 n. 1, paragona
quest’uso esteso del termine a quello dell’italiano “dottore” come generica allocuzione di ossequio.
14
71
È notevole invece, nelle aperture di conversazione di questa commedia, l’assenza degli
imperativi di verbi come χαίρω o ὑγιαίνω, usati normalmente come formule di saluto in occasione
di un incontro18.
Il vocativo può costituire da solo il primo turno di un’interazione. Ciò accade in una
minoranza di casi (passi a7, a9, a21, a22) in alcuni dei quali è accompagnato dal gesto di bussare
alla porta, che può considerarsi un atto di comunicazione non verbale equivalente all’espressione
della richiesta di farsi aprire.
In tutti gli altri esempi, esso si presenta insieme ad enunciati di tipo interrogativo,
affermativo o imperativo, che indipendentemente dalla loro forma hanno spesso la funzione di
contribuire a realizzare la presa di contatto tra il parlante e l’interlocutore.
In a13, ad esempio, la vecchia Simiche, dopo avere constatato l’indisponibilità del cuoco a
prestare soccorso a Cnemone (vv. 633-634), si rivolge all’assente Gorgia con un appello seguito da
una domanda rivelante concitazione (ὦ Γοργία, ποῦ γῆς ποτ’ εἶ;, v. 635). La presenza
dell’interiezione dinanzi al vocativo del nome proprio ha valore enfatico19 mentre la domanda è una
disperata richiesta della presenza dell’interlocutore, proferita dinanzi alla sua casa. Essa,
evidentemente pronunciata a voce alta come le precedenti richieste di aiuto della vecchia (vv. 620621), chiamerà infatti il giovane contadino fuori dalla grotta di Pan.
Diversamente, nel passo a1, dopo aver visto Pirria correre verso di lui e averlo sentito
pronunciare ai vv. 81-82 nei confronti di chiunque si trovi sul posto la richiesta che gli sia lasciato
libero il passaggio (πάρες, φυλάττου, πᾶς ἄπελθ’ ἐκ τοῦ µέσου20) motivandola con una frase
affermativa che spiega l’urgenza della situazione (µαίνεθ’ ὁ διώκων, µαίνεται), Sostrato, quando lo
schiavo gli si fa più vicino, apre al v. 82 direttamente il dialogo rivolgendogli nel primo turno (T121)
una domanda reale su che cosa stia accadendo (τί τοῦτο, παῖ;): la paura e l’affanno di Pirria faranno
18
Per le forme di χαίρω cfr. ad esempio Luc. 64, 2 DCass. 69, 18, 3, per quelle di ὑγιαίνω come saluto iniziale cfr.
Alexis fr. 299 K-A. Entrambi i verbi possono comunque trovarsi all’imperativo anche nei saluti conclusivi di
interazione. Per queste forme di saluto nel dramma del V e IV secolo cfr. Ercolani 2000, soprattutto 186-190. Vedi
anche infra, 90.
19
G-S ad v. 823 notano come in questa commedia non si riscontri la presenza dell’interiezione accanto al vocativo di un
nome proprio nella normale conversazione e come essa in Menandro rimarchi in particolare gli appelli e le frasi di
rimprovero o di contenuto gnomico e solenne. Dickey 1996, 199-206, non ritiene che essa aggiunga una precisa
sfumatura di significato al vocativo che accompagna o che il suo uso sia governato da regole, anche se ammette che la
sua presenza è sempre più rara dall’età ellenistica in poi.
20
Dei tre imperativi soltanto l’ultimo si riferisce ad un generico πᾶς (la costruzione con la seconda persona singolare
dell’imperativo è una forma colloquiale, per la quale cfr. Handley ad loc., che cita a confronto Aristoph. Ach. 204).
21
Quando citerò una sequela di turni, indicati con la sigla T, il primo di essi sarà indicato come T1, il secondo come T2,
ecc. Se nelle aperture di conversazione il primo turno citato è in genere (salvo diversa indicazione) anche il primo di
conversazione, ciò non avviene invece per le altre sezioni di dialogo (ad es. le chiusure o il corpo di un’interazione, in
cui T1 sarà sempre il primo turno citato ma non ovviamente il primo di interazione).
72
sì tuttavia che lo schiavo, dopo l’apertura di diverse coppie-inserto22, risponda alla domanda dopo
ben undici turni.
Una funzione che tutti i diversi tipi di enunciato possono avere all’inizio di un dialogo, al
pari di quanto osservato nella conversazione reale odierna, è quella del pre-annuncio23. Il preannuncio compare nel primo turno soprattutto nei dialoghi tra sconosciuti cui dà inizio
intenzionalmente uno dei partecipanti, segnalando come la necessità di esporre al più presto alla
persona con cui si prendeva contatto le ragioni per cui ci si avvicinava ad essa fosse particolarmente
avvertita nei confronti degli estranei, concordemente con quanto testimoniato per la conversazione
reale di epoca menandrea24. È ad esempio questo il caso dei passi a4 e aII.
Nel primo turno di a4 (vv. 269-270) Gorgia si rivolge all’ancora sconosciuto Sostrato con il
vocativo generico µειράκιον, avente valore di appello, seguito nello stesso turno dalla domanda
ἐθελήσαις ἂν ὑποµεῖναι λόγον / σπουδαιότερόν µου; la quale costituisce una cortese richiesta di
essere ascoltato (espressa mediante l’ottativo potenziale)25 ma al contempo anticipa quanto si
intende comunicare all’interlocutore attraverso la sua denominazione (λόγον) e la sua valutazione
(σπουδαιότερον), caratteristiche del pre-annuncio anche nella conversazione reale odierna26.
Similmente, in aII il primo turno di saluto che Pirria ha pronunciato all’indirizzo di
Cnemone è riportato dallo schiavo ai vv. 107-108 nel modo seguente:
“ἥκω τι” ... “πρός σε, πάτερ, ἰδεῖν τί σε
σπεύδων ὑπὲρ σοῦ πρᾶγµ’(α)”,
Ad aprire il dialogo tra lui e Cnemone è stata dunque una frase affermativa, che ha fornito la
ragione dell’avvicinamento del parlante pre-annunciando l’argomento che lo schiavo si apprestava a
trattare dopo aver ricevuto dall’interlocutore un’autorizzazione a proseguire (cosa mai avvenuta).
Anche il turno di Pirria ha in comune con i pre-annunci della conversazione reale le caratteristiche
della valutazione dell’annuncio che si sta per fare anticipando informazioni che ci si riserva di
specificare nel seguito del discorso (ὑπὲρ σοῦ πρᾶγµ’(α)).
Le due aperture differiscono comunque per il fatto che, mentre quella di Gorgia appare
molto più cauta per il fatto di chiedere attraverso un’interrogativa la disponibilità del destinatario
all’ascolto e all’interazione, nella seconda lo schiavo attacca discorso con un’affermazione che dà
per scontata questa disponibilità (per giunta, pur senza saperlo, da parte di un interlocutore come il
22
Dopo il primo elemento di una coppia di adiacenza, pronunciato da un parlante A, l’interlocutore B può aprire una
seconda coppia di adiacenza (chiamata coppia sequenza/inserto), attendendone il completamento da parte di A prima di
fornirgli il secondo elemento della prima coppia. Cfr. Levinson 1993, 308-309.
23
Del pre-annuncio come mossa particolarmente frequente all’inizio di una conversazione e delle sue caratteristiche ho
parlato supra, 66.
24
Della cautela da osservare nell’avvicinarsi ad estranei ho già parlato supra, 59-60. Pre-annunci o altri tipi di presequenze sono presenti ad inizio di dialogo nelle stesse condizioni in altri passi menandrei, cfr. ad es. Epit. 223-224.
25
Su questa modalità di espressione dell’FTA di richiesta vedi infra, 212.
26
Le caratteristiche strutturali dei pre-annunci sono illustrate ancora in Levinson 1993, 349-351.
73
δύσκολος!) e propone ad un estraneo un non meglio specificato affare in suo favore in termini
piuttosto maldestri (come mostrano la ripetizione di τι, indicante lo sforzo compiuto dallo schiavo
per trovare le parole giuste ad introdurre l’argomento, quella πρός σε ... σε e la sintassi sconnessa
del periodo27), in modo da risultare del tutto fuori luogo28.
Le aperture prive di vocativo nel primo turno sono costituite da frasi di vario tipo (in primo
luogo affermative, ma anche interrogative ed imperative) le quali nella maggior parte dei casi
introducono direttamente l’argomento di conversazione (sono quelle dei passi a3*, a6, a11, ?a12,
a18, a19). In altre parole, si può constatare come solitamente gli inizi di dialogo che non presentano
vocativo siano anche privi di altri rituali di apertura (saluti, pre-annunci, osservazioni di carattere
generale, ecc.), poiché ricorrono sempre in situazioni in cui la presa di contatto non viene ritenuta
necessaria. I passi a3*29 e a11 sono infatti concrete offerte di aiuto rivolte al parlante ad un
interlocutore che è presente in scena e manifesta, in riflessioni ‘ad alta voce’, un problema o una
difficoltà da risolvere con urgenza. Il passo ?a12 è, come segnalato dal punto interrogativo,
problematico, dato che rivolge ad un destinatario imprecisato (indicato dal τίς soggetto delle due
frasi che lo costituiscono) una richiesta di attenzione e di aiuto. Le aperture a6 e a18 potrebbero
invece ricevere la più appropriata denominazione di ‘riprese’ di conversazione, poiché in esse i
parlanti si ritrovano insieme dopo essersi visti in un’occasione di poco precedente e ricominciano a
dialogare sugli stessi argomenti, il che permette loro non soltanto di evitare ogni preambolo, ma
addirittura talvolta di esprimersi in modo ellittico: così ad esempio in a18, in cui Sostrato,
ricominciando al v. 867 a parlare con Gorgia dopo che questi è ritornato in scena, gli rivolge
direttamente la domanda ὁ Κνήµων δ’ οὐδέπω (sc. ἥκει, ἀφίκετο); essendo sicuro che
l’interlocutore sa di che cosa sta parlando. Se ne può concludere che il riprendere a parlare dopo
essersi già visti in precedenza nel corso della giornata può, anche se non deve, determinare la totale
assenza di elementi propri di un’apertura di conversazione, soprattutto se il lasso di tempo
intercorso tra i due incontri non è lungo.
Passando ai secondi turni, sul piano formale essi si distinguono dai primi principalmente
riguardo al vocativo, che è presente di rado e ha prevalentemente la funzione di rendere chiaro
l’atteggiamento del secondo parlante nei confronti dell’altro partner e dell’interazione da lui
propostagli, al pari di quanto si osserva in generale nella prosa greca antica30. Per il resto, in
27
“I’ve come to you about something, sir – to see you about something, promoting an affair in your interest” (G-S ad
vv. 107-108).
28
Anche G-S ad vv. 107-108 definiscono quella di Pirria “not a tactful opening”, per il fatto che in generale
l’avvicinarsi ad un estraneo dicendo di volergli proporre un affare per il suo interesse “arouses more suspicion than
confidence”.
29
Dell’assenza di vocativo nel primo dei due passi citati non si può comunque essere certi a causa delle lacune che
investono il suo testo (vv. 199-201).
30
Cfr. Dickey 1996, 193.
74
generale si nota che il parlante del secondo turno si mostra disponibile all’interazione completando
nel modo atteso (o “preferenziale” secondo la terminologia dell’AC31) la coppia di adiacenza a cui
l’interlocutore ha dato inizio (quindi, come si è visto, con la risposta ad una domanda, l’accettazione
di una richiesta, l’autorizzazione a proseguire dopo un pre-annuncio, ecc.). Solitamente
l’osservanza di un comportamento collaborativo nel secondo turno determina la sua relativa
semplicità formale, caratteristica appunto dei comportamenti conversazionali preferenziali, alla
quale si accompagna l’immediata cessione della parola al primo parlante, come nei passi a4, a16 e
a2032.
Nel primo di essi, ad esempio, Sostrato accoglie al v. 270 la richiesta di Gorgia di essere
ascoltato, con un’affermativa ellittica esprimente il piacere di ascoltare lo sconosciuto (καὶ µάλ’
ἡδέως) e una successiva imperativa (λέγε) che gli cede immediatamente la parola. Anche quanto
appena detto è in accordo con le informazioni ricavabili sulle interazioni reali dell’epoca.
L’introduzione del tema di conversazione avviene, tranne che nei casi eccezionali già
esaminati, non prima del terzo turno. La sua collocazione dipende essenzialmente dalla situazione e
dalle ragioni dello scambio verbale. In conversazioni relativamente oziose il tema che interessa uno
dei parlanti può essere dapprima accennato indirettamente e soltanto attraverso diversi passaggi
delinearsi come quello centrale dell’interazione. Al contrario, nei dialoghi in cui almeno uno dei
parlanti ha precisi scopi comunicativi si entrerà in argomento non appena il contatto è stato stabilito.
Un esempio del primo caso è offerto dal passo a5. Ai vv. 404-406, dopo il ripristino del
contatto con Geta prima rimasto indietro, Sicone riprende la parola per portare avanti la
conversazione: sulla base di quanto ha appena detto l’interlocutore e osservando la sua attività del
momento (il trasporto di numerose coperte per il banchetto sacrificale), esprime una supposizione
sul numero dei partecipanti alla festa che si prepara (πολύς τις ἔρχεται / ὄχλος ὡς ἔοικε. στρώµατ’
ἀδιήγηθ’ ὅσα / φέρεις), attendendo, senza chiederle direttamente, nuove informazioni sull’evento.
Se questo modo di gestire l’entrata in argomento (domande e commenti relativi al momento
presente e all’interlocutore) è comune anche nella realtà33, in questa occasione il malizioso tentativo
31
Gli studiosi di analisi della conversazione notano come le coppie di adiacenza siano organizzate secondo un “sistema
di preferenze”: a ciascun elemento iniziale di una coppia corrispondono cioè complementi percepiti come normali,
consueti, naturali (detti perciò “preferenziali”) e complementi meno attesi (o “non preferenziali”). Ad esempio, il
complemento preferenziale di una richiesta è il suo soddisfacimento, mentre il rifiuto è quello non preferenziale, per una
domanda è preferenziale la risposta, mentre il silenzio è non preferenziale. I complementi non preferenziali si
riconoscono perché sono prodotti con maggiore difficoltà, ad es. dopo un indugio, dopo delle premesse (anche
monosillabiche, come ad es. “beh”, “mah”) o congiuntamente alla spiegazione delle ragioni per cui si è scelto di
pronunciarli. Per il concetto di preferenza cfr. infra, 95-99.
32
Cfr. supra, 59-60.
33
Cfr. supra, p. 65 n. 3.
75
di carpire così notizie riguardanti gli altri è rivelatore della περιεργία del cuoco34. Esso sembra
cadere nel vuoto, poiché Geta dovrà innanzitutto liberarsi del carico di coperte che lo opprime per
poter continuare a parlare (v. 406), ma basterà una successiva affermazione dello schiavo
sull’argomento (quella ai vv. 407-409) a scatenare domande esplicite sempre più incalzanti da parte
del cuoco, che non sarà più in grado di mascherare la sua irrefrenabile curiosità (a partire dallo
stesso v. 409).
Esempi del secondo caso sono i già citati passi a4 e a13.
In tutta la commedia prevale la sensazione che i momenti iniziali di un dialogo si
dispieghino naturalmente in base all’atteggiamento e agli scopi di ciascun parlante, anche se, a ben
vedere, la loro struttura obbedisce costantemente alle esigenze di far procedere l’intreccio, di
caratterizzare i personaggi o di suscitare il riso. Si può ad esempio notare come il poeta comico
rappresenti in scena alcuni problemi di comune occorrenza nei momenti iniziali della conversazione
quotidiana, come il ritardo da parte di un personaggio nel replicare in maniera pertinente al primo
turno a causa di esigenze che esso ritiene necessario soddisfare per poter intraprendere l’interazione,
allo scopo di accrescere il divertimento e la curiosità degli spettatori o per mettere in rilievo fatti
che poi si riveleranno determinanti per lo scioglimento dell’intreccio. Oltre al già esaminato a1, un
interessante passo di questo tipo è a9, che si sviluppa come segue (vv. 551-553):
T1= Sostrato si rivolge allo schiavo Geta, appena uscito dalla grotta di Pan, con il vocativo
παῖ Γέτα, avente funzione di appello: il parlante sa che l’interlocutore, ancora rivolto verso l’interno
della grotta e investito dal fumo del sacrificio, non si è accorto della sua presenza.
La risposta dello schiavo all’appello è segmentata in diversi passaggi, dovuti al fatto che egli
non riconosce subito il padrone.
T2= La domanda circa l’identità dell’interlocutore (ἐµὲ τίς;) apre una coppia di adiacenza
all’interno di quella già aperta dall’interlocutore, subordinando al completamento della nuova
quello della prima (domanda-inserto).
T3= Sostrato risponde col pronome ἐγώ (risposta-inserto).
La risposta non si rivela sufficiente, dato che Geta non riesce ancora a riconoscere
l’interlocutore.
T4= La nuova domanda di Geta (σὺ δ’ εἶ τίς;) è una richiesta di precisarla (seconda
domanda-inserto).
T5= Sostrato chiede a sua volta allo schiavo se egli non lo veda (οὐχ ὁρᾶις;): la sua è la terza
domanda-inserto ad essere incastonata nella coppia appello/risposta.
34
Com’è noto, si tratta di una caratteristica della maggior parte dei cuochi di commedia. Per limitarci ai frammenti
maggiori di Menandro possiamo citare a confronto il µάγειρος della Samia (cfr. vv. 283-292) ed il cuoco Carione degli
Epitrepontes (cfr. frr. 1, 2). Per la περιεργία dei cuochi e le sue funzioni drammatiche cfr. Krieter-Spiro 1997, 164-165.
76
T6= Geta si accorge finalmente di parlare con il suo padroncino. Risponde perciò
contemporaneamente alla domanda-inserto posta da Sostrato nel turno precedente ed alla propria di
T4 (ὁρῶ· / τρόφιµος), completando così la coppia appello/risposta e cedendo la parola
all’interlocutore, che entrerà in argomento.
Il mancato riconoscimento di Sostrato da parte di Geta è dovuto sicuramente alla presenza
del fumo proveniente dalla grotta da cui lo schiavo è appena uscito35, ma anche al fatto che il
padroncino si è reso ai suoi occhi irriconoscibile essendosi spogliato dell’elegante mantellina che di
solito indossa e abbronzato durante il lavoro dei campi36. La compresenza di questi fattori giustifica
la durata dell’apertura, che risulta pertanto del tutto realistica, ma al contempo prepara il terreno per
i vv. 754-sgg., in cui Cnemone scambierà il giovane per un contadino proprio in ragione della sua
pelle bruciata dal sole.
Le esigenze drammatiche sono, a mio parere, anche alla base dell’uso delle aperture
raccontate in questa commedia: la loro fitta presenza e la minuziosità nella descrizione di alcuni
dettagli, come i vocativi e i tipi di frase utilizzati, il cui impiego è sempre in accordo con quello
delle aperture rappresentate, serve in primo luogo a mio parere a guidare l’attenzione dello
spettatore proprio su questo momento dell’interazione, che sulla scena è sempre quello decisivo
(anche perché a volte è l’unico presente) quando si ha a che fare con il protagonista Cnemone.
Il personaggio viene ampiamente caratterizzato attraverso i comportamenti adottati in
reazione a tentativi di avvicinamento compiuti dagli altri, ossia appunto nei momenti di apertura. In
ogni occasione di incontro con estranei le strategie di politeness utilizzate nei suoi confronti
(presenti ad esempio, oltre che nel già analizzato aII, nei passi a2 e a8) sono destinate a fallire,
poiché egli reagisce con risposte che, pur presentandosi spesso in forma di domande o di inviti,
hanno verso l’interlocutore le costanti funzioni di rimprovero, minaccia e ordine di cancellare
immediatamente l’atto linguistico da questi compiuto. Allo stesso modo, il δύσκολος usa i vocativi
non già per creare un contatto (gli unici appelli da lui pronunciati sono rivolti alla schiava Simiche e
seguiti da un ordine, come quello visto supra, 67), bensì per scoraggiare l’interlocutore con
allocuzioni offensive. Da parte sua, Cnemone non apre mai una conversazione. A questa
consuetudine, descritta da Pan nel prologo (nel passo aI, che occupa i versi 10-12, nel primo dei
quali il dio afferma che egli προσηγόρευκε πρότερος δ’ οὐδένα, per poi aggiungere nel secondo:
πλὴν ἐξ ἀνάγκης γειτνιῶν παριών τ’ ἐµὲ / τὸν Πᾶνα37) si mantiene fedele per tutta la parte della
commedia precedente la caduta nel pozzo. Neanche nei momenti in cui cerca la lite si rivolge
35
Al v. 550 Geta parlando tra sé e sé ha probabilmente (il testo è in parte mutilo) affermato di essere divenuto cieco per
il fumo del sacrificio.
36
Cfr. Zagagi 2004, 111-112.
37
Come osserva Handley ad loc., “a grudging τὸν Πᾶνα χαίρειν or the like when occasion takes him past the shrine” è
“the one concession Knemon makes in his rule of not speaking first”.
77
direttamente ad un personaggio, ma ne provoca la reazione urlando lamentele (passo a2) o minacce
(passo a10) in sua presenza. Soltanto dopo la caduta si ravviseranno dei lievi cambiamenti prodotti
dal parziale ravvedimento cui è andato incontro: nel quarto atto (passo ?a15*), vorrà rivolgersi ai
componenti del suo oikos ricostituito ma per un discorso che, come mostrerò altrove38, non è
principalmente inteso come una conversazione o un’interazione verbale (il che giustifica la
considerazione di quest’apertura come incerta); nei passi a22 e a23 della scena finale, invece,
pronuncerà, in reazione ai falsi appelli di Geta e Sicone ai suoi (inesistenti) schiavi, atti linguistici
che hanno perso ogni aggressività e si configurano come richieste disperate di essere lasciato in
pace, venendo tuttavia per la loro forma interrogativa utilizzati dai due importuni come domande di
apertura di conversazione e favorendo perciò, paradossalmente, il proseguimento della beffa.
38
I comportamenti qui accennati saranno approfonditi infra, 240-sgg.
78
2.1.2 La chiusura di conversazione
2.1.2.1 La chiusura nella conversazione reale
Il sistema del passaggio di parola39 non determina a priori la durata di una conversazione,
consentendo di generare una sequela di turni in teoria indefinitamente estensibile40. Per porre fine
ad una conversazione è perciò necessario che i partecipanti ad essa ritengano concluso il principale
(o ultimo) argomento trattato e non intendano introdurne altri. La necessità della cooperazione dei
parlanti nel portare a termine la conversazione fa sì che il momento di chiusura costituisca una
sezione piuttosto complessa organizzata in coppie di adiacenza41.
Lo scambio di elementi terminali come i saluti è perciò preceduto da almeno una coppia di
adiacenza in cui tutti i parlanti esprimono il loro accordo sull’opportunità di porre fine
all’interazione in corso. In generale uno dei parlanti pronuncia un breve enunciato di contenuto
‘vuoto’ (ad es. “Va bene”, “O.K.”, “Quindi…”, ecc.), in modo da svincolare il discorso dal tema
appena discusso comunicando all’interlocutore (nel caso di conversazioni tra due persone) di non
voler proporre nuovi argomenti di conversazione, ma, al tempo stesso, lasciando all’altro la
possibilità di farlo attraverso l’immediata cessione della parola. Quando questi non ha nulla da
aggiungere esprime il suo consenso alla proposta di concludere lo scambio rispondendo con un
enunciato equivalente al precedente per contenuto e funzione (e spesso uguale ad esso nella forma)
e permettendo in tal modo di giungere alla chiusura42.
Tuttavia, se la forma più semplice che una chiusura di conversazione possa assumere è
costituita dalla successione di due coppie di adiacenza (quella che abbiamo appena illustrato, detta
di “pre-chiusura”, e quella rappresentata dallo scambio di elementi terminali), solitamente gli
scambi verbali presentano sezioni di chiusura molto più articolate, che possono essere addirittura
precedute da tentativi non riusciti di avviare la conclusione43.
La parte più soggetta a variazioni è la pre-chiusura. La discussione di un argomento può
infatti essere conclusa in vario modo: ad esempio dall’espressione di un accordo, dall’enunciazione,
da parte di uno dei parlanti, di una frase sentenziosa o di un proverbio indicati come la morale di
quanto appena detto o raccontato, dall’invio di saluti a persone vicine all’altro parlante, dal
proferimento di frasi che costituiscono un’etichetta per la conversazione svolta (ad esempio
39
Di esso parlerò infra, 104-114.
Cfr. a tal proposito Sacks/Schegloff/Jefferson 1974, 710. Per le caratteristiche generali della chiusura di conversazione faccio riferimento soprattutto a Schegloff/Sacks, 1973, 289-327 e a Levinson 1993, 318-320, 323, 325-326.
41
Per le coppie di adiacenza cfr. Levinson 1993, 307-311 Sacks/Schegloff/Jefferson 1974, 716-718.
42
Schegloff/Sacks 1973, soprattutto 303-309.
43
Cfr. Levinson 1993, 323.
40
79
“Grazie” in conversazioni che hanno avuto come atto principale la richiesta di un favore) o dalla
ripetizione della ragione per la quale si è dato inizio alla conversazione (ad esempio “Volevo solo
sapere come stavi”). Le modalità enumerate non sono necessariamente alternative l’una all’altra: al
contrario, una conversazione può presentarne più di una all’interno della stessa sezione di chiusura.
Molto spesso, per concludere in modo rapido la conversazione evitando di apparire scortesi
si specifica di volerlo fare per rispettare gli interessi dell’interlocutore44: si pensi ad esempio ad
enunciati come “Adesso ti lascio andare”, ecc. che vengono pronunciati più frequentemente da colui
che ha tenuto per ultimo (o più a lungo) la parola. Il mostrare attenzione verso l’interlocutore è
favorito dalle informazioni acquisite su di lui attraverso domande, solitamente poste all’inizio della
conversazione, come “Dove stai andando?”, “Come ti senti?”, le quali consentono di concludere lo
scambio verbale con frasi del tipo “Ti lascio andare dai tuoi amici, allora”, oppure “Perché non ti
stendi un po’ sul letto?”, ecc. Quando, come in quest’ultimo caso, la chiusura viene aperta da
consigli, l’accordo espresso dall’interlocutore dopo il loro proferimento non indica necessariamente
l’accettazione del loro contenuto e il conseguente impegno ad agire secondo quanto in essi
proposto, ma piuttosto la presa d’atto del fatto che la conversazione sta volgendo al termine. Un
altro modo per mostrarsi interessati all’interlocutore è il chiedere quando si potrà rivederlo o il
promettere di rivedersi in un’altra occasione (“Ci vediamo”, “Quando posso trovarti?”).
Ma la dichiarazione di voler concludere l’interazione non è sempre legata alla menzione
degli interessi dell’interlocutore. Si pensi ad esempio a frasi come “Adesso vado”, “Fammi andare”,
ecc., anch’esse frequenti ed avvertite come necessarie quando si decide, ad esempio per motivi
sopraggiunti improvvisamente, di interrompere uno scambio verbale ancora in corso45.
Ulteriori variazioni e complicazioni sorgono quando l’interlocutore non concorda
sull’opportunità di concludere lo scambio in corso. Egli potrà proseguire la trattazione
dell’argomento che si stava affrontando, ad esempio con ulteriori domande od osservazioni. Se a
non accettare la proposta di chiusura formulata dall’altro parlante è l’iniziatore di una
conversazione monoargomentale vuol dire che egli non è soddisfatto del contributo fornito
dell’altro partner alla trattazione del tema discusso. Quando un tentativo di pre-chiusura non va in
porto, il suo valore diviene di solito nullo, poiché per concludere la conversazione dovrà essere
aperta una nuova sezione di chiusura. Tutt’al più, esso potrà determinare nel parlante che prosegue
l’interazione la consapevolezza della fretta dell’altro e fargli cominciare il turno che interrompe ed
44
Come vedremo oltre, il mostrare attenzione per gli interessi dell’interlocutore è un atteggiamento di politeness
positiva.
45
Schegloff/Sacks 1973, 309-322.
80
annulla la pre-chiusura con una frase di giustificazione che ne marca l’inopportuna od inconsueta
collocazione (ad esempio: “Scusa, ancora una cosa...”, “Volevo ancora dirti...”, ecc.)46.
Il momento in cui la sezione di chiusura viene aperta e il modo in cui è condotta sono
dunque spesso significativi del tono e degli esiti della conversazione svolta e del tipo di relazione
esistente tra i parlanti. Perciò, cominciare una pre-chiusura violando le regole del turn-taking (ad
esempio quando si è stati selezionati dall’interlocutore nel turno precedente o mentre questi cerca di
continuare a parlare) può indicare voglia di eludere un argomento, imbarazzo, rabbia e durezza nei
confronti di quanto detto dal partner dello scambio. È chiaro infatti che scambi verbali risoltisi in un
conflitto tra parlante e interlocutore conoscono modalità di chiusura molto diverse da quelle
utilizzate in condizioni di normalità (potendo concludersi con insulti, essere troncati bruscamente da
uno dei parlanti, con silenzi, ecc.). In una relazione asimmetrica, inoltre, la persona che occupa la
posizione dominante potrà con maggiore dimestichezza proporre la chiusura di un argomento e
della conversazione stessa.
Quando la pre-chiusura viene condotta a termine nel modo atteso, si procede alla vera e
propria conclusione, rappresentata nella maggioranza dei casi dallo scambio di saluti od auguri,
dalla conferma di un appuntamento (“Allora a più tardi”) e così via47.
E’ importante sottolineare che le osservazioni fatte valgono per le conversazioni la cui
chiusura coincide con il termine di un’interazione. Esse non riguardano dunque la sospensione di
conversazioni tra persone che rimangono potenzialmente in interazione, come i passeggeri di uno
stesso scompartimento, gli impiegati che condividono l’ufficio, ecc.: questi ultimi possono infatti,
dopo l’esaurimento di un tema, cadere in un silenzio che non è interpretabile né come silenzio
attribuibile48 né come conclusione, e in seguito riprendere a parlare senza dover ricorrere
nuovamente a tecniche di apertura49.
2.1.2.2 Le chiusure di conversazione nel Dyscolos
2.1.2.2.1 Criteri di individuazione
La considerazione dell’articolazione complessa e graduale della sezione di chiusura nella
conversazione reale mi ha indotta a non limitare la mia analisi alle battute conclusive di ciascun
46
Schegloff/Sacks 1973, 319-321. Usando la terminologia griceana, si può dire che queste frasi di giustificazione sono
dovute alla consapevolezza di violare la massima di relazione (cfr. supra, 18).
47
Levinson 1993, 319.
48
Per la nozione di silenzio attribuibile (quello della persona che nel turno precedente è stata selezionata
dall’interlocutore come parlante) cfr. Levinson 1993, 303.
49
Schegloff/Sacks 1973, 324-326.
81
dialogo, ma a comprendere in essa tutti i turni nei quali almeno uno dei parlanti manifesti
direttamente o indirettamente la volontà di porre fine allo scambio verbale che sta svolgendo.
Ai tentativi di pre-chiusura non andati in porto, ovviamente esclusi dall’elenco, farò cenno
nell’analisi soltanto quando lo riterrò opportuno, evidenziandone le caratteristiche ed eventualmente
il modo in cui abbiano influito sulla struttura delle sezioni finali.
Tra i passi incerti (contrassegnati da un punto interrogativo) compaiono quelli in cui due
personaggi concludono soltanto sulla scena la loro interazione, poiché se ne allontanano insieme
diretti, nella finzione, in uno stesso luogo: in questi casi, infatti, non si può parlare propriamente di
una chiusura di conversazione perché i partner dello scambio non perdono, al termine della scena, la
possibilità di continuare ad interagire. Ho ritenuto opportuno effettuare comunque un esame delle
loro caratteristiche allo scopo di appurare se ed in quale misura il commediografo differenzi il finale
di una scena da quello del dialogo in essa svolto. Quanto agli ingressi in scena di un personaggio
rivolto ad uno o più interlocutori che si immaginano all’interno del luogo da cui egli si allontana,
secondo una convenzione molto diffusa nel dramma menandreo50, essi sono stati da me inclusi
nell’analisi soltanto quando la forma ed il contenuto lasciano intendere che tra il parlante e i
destinatari della sua battuta c’è stato un precedente scambio verbale, di cui questa costituisce
l’ultimo turno.
Le chiusure rappresentate in scena sono distinte, nell’analisi, da quelle raccontate o
immaginate da un personaggio.
2.1.2.2.2 Elenco delle chiusure51
Chiusure rappresentate in scena
c1) Vv. 129-134= At (I), Cherea, Sostrato
c2*) Vv. 144-145= At (I), Pirria, Sostrato
c3) V. 177= At (I), Cnemone, Sostrato
c4) Vv. 206-208= At (I), Davo, moglie di Cnemone
c5) V. 213= At (I), Sostrato, figlia di Cnemone
c6) V. 378= At (II), Davo, Gorgia
?c7) Vv. 380-381= At (II), Gorgia, Sostrato
?c8) Vv. 419-426= At (II), Sicone, Geta
?c9) Vv. 439-441= At (III), madre di Sostrato, familiari e schiavi
50
51
A proposito di questa convenzione nel teatro menandreo cfr. ad esempio Zagagi 2004, 103.
Per il significato delle sigle utilizzate cfr. supra, 68.
82
c10) Vv. 456-457= At (III), Geta, schiave dell’oikos
c11) Vv. 476-479= At (III), Geta, Cnemone
c12) Vv. 487-488= At (III), Sicone, Geta
c13) Vv. 512-513= At (III), Sicone, Cnemone
c14*) Vv. 546-550= At (III), Geta, Sicone
c15) Vv. 557-571= At (III), Sostrato, Geta
c16) V. 596= At (III), Cnemone, Simiche
c17) Vv. 600-601= At (III), Cnemone, Geta
?c18) Vv. 616-619= At (III), Sostrato, Gorgia
c19) Vv. 617-619= At (III), Gorgia, Davo
c20) V. 634= At (IV), Sicone, Simiche
?c21) V. 638= At (IV), Gorgia, Simiche
c22*) Vv. 697-699= At (IV), Cnemone, Gorgia
c23*) Vv. 757-759= At (IV), Cnemone, moglie e figlia di Cnemone, Gorgia, Sostrato
c24) V. 780= At (IV), Sostrato, Callippide
c25) Vv. 781-783= At (IV), Gorgia, Sostrato
c26) Vv. 847-855= At (V), Gorgia, Callippide, Sostrato
c27) Vv. 855-860= At (V), Sostrato, Callippide
?c28) Vv. 870-873= At (V), Sostrato, Gorgia
c29) Vv. 874-878= At (V), Simiche, Cnemone
c30*) V. 879= At (V), Geta, padroni(?)
c31) Vv. 884-885= At (V), Geta, Simiche
c32) Vv. 917-918 = At (V), Sicone, Cnemone
c33) Vv. 925-926= At (V), Geta, Cnemone
?c34) Vv. 956-963= At (V), Geta, Sicone, Cnemone
Chiusure raccontate
cI) Vv. 114-116= At (I), orect, r,Cnemone, Pirria
cII) Vv. 883-884= At (V), orobl, i, Simiche, figlia di Cnemone
83
2.1.2.2.3 Caratteristiche delle chiusure di conversazione
Le chiusure di conversazione individuate nel Dyscolos sono relativamente varie per la durata
e il numero di battute che occupano, ma vengono realizzate da una gamma limitata di
comportamenti verbali che ho enumerato tra le modalità di chiusura della conversazione reale
odierna. Gli atti linguistici con cui nella commedia si realizza la chiusura di un’interazione o vi si dà
avvio sono essenzialmente di quattro tipi:
a) affermazioni con cui si annuncia esplicitamente di essere in procinto di andare via (ad es.
ai passi c2*, c6, c15, c27, c32);
b) ordini, richieste, consigli di allontanarsi rivolti da uno dei parlanti all’altro per lo più in
frasi imperative (ad es. ai passi c16, c22*52, c24, c25, c26, c33, in parte c1, in modo indiretto c17,
forse c23*53 e in tutte le chiusure raccontate);
c) saluti (ai passi c5, c11, c13);
d) rimproveri e insulti (ai passi c10, c12).
Un bell’esempio della prima tipologia di atti è rappresentato dal passo c27. In esso
Callippide, dopo avere scherzato sulla proposta di suo figlio Sostrato di fare insieme “una bella
bevuta” (vv. 855-856), conclude la sua battuta dicendo che entrerà nella grotta per occuparsi di
alcuni preparativi in favore dei futuri sposi (παράγων δ’ ὑµῖν ἑτοιµάσω τι νῦν / προὔργου, vv. 859860): l’annuncio viene motivato in modo polite con l’intenzione di fare qualcosa di utile per
l’interlocutore, avvicinandosi così alle chiusure ‘mitigate’ dalla menzione degli interessi
52
Ai vv. 699-700 accolgo la distribuzione delle battute di Handley e Jacques1 (cfr. rispettivamente Handley ad loc.). I
due studiosi, fondandosi sulla presenza in B di una paragraphos sotto il v. 698, attribuiscono a Gorgia anziché a
Cnemone i vv. 699 e 700 fino ad ἔοικε, ritenendo che dopo il verbo sia andato perduto un dicolon. Condivido infatti
l’osservazione di Handley ad vv. 699-700 secondo cui “it seems incredible that Gorgias’ only reaction ... should be
silent compliance, as if the old man had said something trivial”. E se, dal canto loro, G-S ad vv. 698-sgg. affermano che
Gorgia “often fails to respond in words (363, 612ff., 873) and it is not necessary that a person dispatched on an errand
should say that he is going (e.g. Perik. 755, Sik. 395) ”, si può ribattere anzitutto che i passi della commedia in cui
Gorgia non risponde in maniera diretta (ossia gli ultimi due tra quelli citati da G-S: il primo non va a mio parere
considerato innanzitutto perché dopo la richiesta di Sostrato di farsi condurre immediatamente nei campi si ha
l’inaspettato intervento di Davo, ed inoltre per il fatto che in quel caso una risposta di Gorgia non era affatto richiesta,
dato che la proposta di incontrare Cnemone per parlargli del matrimonio era partita da lui) sono quelli in cui compie
un’azione dopo essersi mostrato riluttante a farlo, ed inoltre, come fa Frost 1988, 59, che gli esempi tratti da altre
commedie forniti come prova della possibilità che un personaggio cui è stato richiesto di andare da qualche parte lo
faccia senza proferire parola riguardano sempre ordini che personaggi liberi impartiscono ai loro schiavi.
53
Il passo è incerto a causa della lacuna che interessa i vv. 755-759. Da quel che resta la maggior parte degli studiosi,
tra cui Sandbach, Handley, Jacques, ricostruisce all’inizio del v. 758 la frase εἰσκυ]κλεῖτ’ εἴσω µε, che significherebbe
“ruotatemi dentro, portatemi dentro” e sarebbe pronunciata da Cnemone, alludendo apertamente al fatto che il
personaggio si trova sull’ ἐκκύκληµα (cfr. Handley ad v. 758, il quale paragona la situazione ad Aristoph. Ach. 407sgg., Thesm. 95-sgg., 265). È sicuro dunque che si tratti di una chiusura di conversazione, mentre non lo sono del tutto il
verso d’inizio e le modalità. Se essa veniva realizzata principalmente dalla frase ricostruita, apparteneva alla seconda
tipologia, pur costituendo un ordine del parlante di essere portato via e non un ordine di allontanarsi rivolto
all’interlocutore.
84
dell’interlocutore della conversazione reale odierna54. Il vecchio esce comunque dopo aver ricevuto
l’esplicito consenso di Sostrato per quello che si appresta a fare (πόει τοῦτ’(o), v. 460).
Molto diverso è il tono della chiusura del passo c2*, pur appartenente alla stessa tipologia
del primo: lo schiavo Pirria, accortosi dell’avvicinamento di Cnemone, decide infatti in tutta fretta
di allontanarsi per evitare un nuovo incontro con lui e dichiara esplicitamente al padroncino
Sostrato di voler chiudere lo scambio verbale in corso nella battuta ὑπάγω, βέλτιστε del v. 144.
Come spesso accade anche nella conversazione reale, in questo passo l’annuncio esplicito di
chiusura ha luogo ex abrupto in seguito al sopraggiungere di un evento inaspettato55. Il fatto che
Pirria decida autonomamente la chiusura è dovuto senz’altro alla paura del δύσκολος, ma tradisce
anche il dispetto verso il padroncino per l’ira da questi manifestatagli dopo il fallimento del suo
primo incontro con Cnemone. Lo stato d’animo dello schiavo si esprime pertanto non soltanto con
il vocativo ironico56 presente nell’annuncio, ma anche attraverso il successivo consiglio al
padroncino di provare a parlare lui con il vecchio scorbutico (σὺ δὲ τούτωι λάλει) e l’uscita
immediata che non si cura della reazione verbale di Sostrato. Questi risponde al consiglio
affermando di non poter affrontare il padre della ragazza in quanto inefficace nel parlare (ἀπίθανος
… ἐν τῶι λαλεῖν, vv. 145-146)57, ma non reagisce all’unilateralità della decisione dell’inferiore: in
questo caso la situazione sembra avere preso il sopravvento sulle norme sociali, poiché l’attenzione
del giovane viene immediatamente catturata dall’aspetto minaccioso di Cnemone.
Passando alle chiusure realizzate attraverso imperative, un esempio piuttosto semplice di
esse è rappresentato dal passo c24. La chiusura è dovuta all’iniziativa di Sostrato, il quale, dopo
aver risposto alle domande del padre, lo invita con l’imperativo πάραγε (v. 780) ad entrare nella
54
Cfr. supra, 80.
Cfr. supra, 80.
56
L’interpretazione delle battute da me accolta a proposito di questo verso e dei successivi differisce da quella data da
G-S. Sulla base dei dicola presenti in B alla fine dei vv. 143-144 e nel mezzo di quest’ultimo G-S ritengono che la frase
ὑπάγω, βέλτιστε sia rivolta da Pirria a Cnemone che si avvicina e non a Sostrato: in tal modo, secondo loro, si
spiegherebbe anche meglio il vocativo βέλτιστε, “normally a polite address to a man whose name is not known” (ad vv.
142-146). Il vocativo si trova tuttavia riferito più volte a persone ben note al parlante, come accade non soltanto in Sam.
81, passo citato da G-S ad loc. come un’eccezione, ma anche in Asp. 251. Nella prosa greca esso si riferisce a persone
note o sconosciute e può essere fortemente ironico (cfr. Dickey 1996, soprattutto 139). Esso sarebbe perciò quanto mai
adatto in bocca allo schiavo nei confronti del suo padrone, il quale lo ha appena accusato di essere responsabile del
fallimento della missione presso il padre della fanciulla. Come ha notato Handley ad v. 144, da diversi passi della scena
presente e di quella precedente sembra emergere che Pirria occupa una posizione particolare presso il suo padrone
rispetto agli altri schiavi: in questi versi egli potrebbe pertanto permettersi di rivolgersi a Sostrato in maniera sarcastica.
L’interpretazione da me scelta non risolve i problemi posti dalla presenza dei dicola, che devono pertanto ritenersi
sbagliati. Tuttavia, la testimonianza della Membrana Hermupolitana, per quanto incompleta a causa della perdita delle
parti finali dei versi che tramanda, sembra in contrasto con quella di B, non contenendo in questo punto alcun segno di
cambio di locutore o di destinatario.
57
B e la Membrana Hermupolitana sembrano segnalare cambio di locutore dopo il v. 146: il primo presenta infatti la
paragraphos ed un dicolon a fine verso, la seconda ha soltanto dicolon in fine di verso. Unitamente a Sandbach, ritengo
errati questi segni diacritici (cfr. G-S ad v. 146). Anche Paduano nel commento alla sua edizione (354, n. 17) osserva:
“Se non si è perduto un altro dicolon dopo λαλεῖν (e naturalmente se non si accetta l’idea che 145-6 siano detti da altra
persona che Sostrato), questi segni debbono essere sbagliati: al limite il dicolon potrebbe indicare pausa tra due diversi
momenti della rhesis di Sostrato, e cambio di destinatario (145-6 a Pirria, i vv. seguenti a se stesso)”.
55
85
grotta per pranzare ed ha immediatamente successo poiché Callippide, affamato, accoglie l’invito
del figlio (τοῦτο δὴ ποῶ) ed esce di scena.
Con imperative, ma di ben diverso valore rispetto a quella del passo precedente, hanno
inizio numerose tra le chiusure di dialogo realizzate da Cnemone. Egli infatti è, come già detto,
aduso a ordinare perentoriamente all’interlocutore del momento di andare via troncando la
conversazione iniziata (come nei passi c16 e c33).
Tra le chiusure realizzate da saluti è interessante quella del passo c5. In esso Sostrato, che ha
avuto un breve scambio di battute con la figlia di Cnemone aiutandola in una situazione di
emergenza, cerca di mostrarsi con lei cortese fino alla fine, salutandola al v. 213 con un augurio
(ἔρρωσ’(ο)58, che vale “sta’ bene”, lat. vale) e con un imperativo avente il valore di premuroso
consiglio (ἐπιµελοῦ τε τοῦ πατρός), mentre la fanciulla va via senza rispondere. Le ragioni del suo
comportamento sono a mio parere varie: è chiaro infatti che essa si affretta a rientrare al fine di non
essere sorpresa dal padre fuori di casa. Il suo rapido allontanamento è tuttavia anche da imputare al
fatto che l’incontro tra un giovane ed una ragazza libera non era socialmente ammesso nella società
di epoca menandrea e che continuare a scambiarsi cortesie con lo sconosciuto sarebbe apparso in lei
segno di leziosità e civetteria59.
Quanto a quelle concluse da rimproveri e insulti, esse indicano ovviamente il termine di uno
scambio conflittuale: ciò accade ad esempio al passo c3, il cui ultimo turno, pronunciato da
Cnemone nei confronti di Sostrato, contiene un atto di ordine di andare via ma anche di forte
rimprovero per quanto detto dall’interlocutore nel turno precedente (vv. 172-177), ma anche in
molti scambi tra esponenti del personale di servizio (come c10 e c12).
Le chiusure presenti nella commedia sono in generale contraddistinte da una maggiore
semplicità formale rispetto a quelle della conversazione reale odierna: mentre in questa, come si è
visto, solitamente si giunge al termine dell’interazione attraverso una serie di passaggi in cui gli
interlocutori addivengono ad un accordo su di essa ed è possibile distinguere chiaramente i momenti
preliminari della sezione di chiusura da quelli terminali, nel Dyscolos al contrario molti
comportamenti impiegati nella conversazione reale odierna come pre-chiusure sono anche gli ultimi
di uno scambio, cumulando in sé questa funzione con quella delle vere e proprie chiusure.
Questa semplicità appare talvolta giustificata dal fatto che alcune chiusure sono più
propriamente brevi sospensioni di interazione: ciò avviene ad esempio in c10 e c12, in cui dapprima
lo schiavo Geta (vv. 456-457) e in seguito il cuoco Sicone (vv. 487-488) si allontanano
58
L’imperativo è una forma piuttosto comune di saluto finale di interazione o di lettera (cfr. Handley ad v. 213).
Per l’inammissibilità di un sia pur minimo contatto tra una fanciulla libera e sconosciuti di sesso diverso nell’Atene
menandrea cfr. Zagagi 1994, 22-23. Anche G-S ad v. 212 ascrivono al carattere semplice e genuino della fanciulla il
fatto che “she does not utter a word to call attention to herself or to indicate any interest in him [sc. Sostratos n.d.r.]” e
che “disappears without a word of acknowledgement”.
59
86
momentaneamente dalla grotta continuando a parlare con chi si trova al suo interno e pronunciando
perciò soltanto atti di chiusura di argomento. In generale, tuttavia, sembra che il drammaturgo
raggiunga un compromesso tra le proprie intenzioni di realismo e la necessità di far procedere la
vicenda senza soffermarsi su particolari non essenziali per il suo sviluppo60. In altri casi si assiste
infatti a sezioni di chiusura più elaborate, la cui struttura è sempre motivata da precise esigenze
drammatiche. È il caso ad esempio del passo c25, riguardante il dialogo tra Gorgia e Sostrato dopo
il fidanzamento del giovane innamorato con la sorella dell’amico. La sezione di chiusura si sviluppa
ai v. 781-783 come segue:
T1= Essa viene aperta da Gorgia con una frase imperativa (εἰσιὼν αὐτῶι λάλει <νῦν>, εἴ τι
βούλει τῶι πατρὶ / κατὰ µόνας) attraverso la quale egli consiglia a Sostrato di entrare nella grotta e
di parlare con suo padre da solo.
T2= Prima di accogliere il consiglio dell’amico, Sostrato dà inizio ad una coppia-inserto
chiedendogli se lo aspetterà in casa di Cnemone: lo fa mediante l’affermazione ἔνδον περιµενεῖς
seguita dalla question tag οὐ γάρ;61, dopo la quale gli cede la parola.
T3= Gorgia risponde all’amico assicurandogli che non uscirà di casa. La sua risposta
completa nel modo atteso dall’interlocutore la coppia-inserto consentendo l’accoglimento del
consiglio.
T4= Prima di uscire, Sostrato si impegna a tornare da Gorgia non appena avrà terminato di
discutere con Callippide il tema del matrimonio (µικρὸν διαλιπὼν παρακαλῶ τοίνυν <σ’> ἐγώ).
La serie di passaggi che conducono alla conclusione del dialogo, piuttosto lunga per il
Dyscolos, è dunque realizzata dal consiglio che Gorgia dà a Sostrato di entrare nella grotta al
seguito del padre e dalla fissazione di un appuntamento con lui da parte del secondo prima che si
allontani. Queste modalità, come si è visto estremamente frequenti nella conversazione reale
odierna, sono funzionali ad agevolare il raggiungimento della fine di uno scambio rendendo
manifesta l’intenzione, rispettivamente di uno o di entrambi i partner, di volere ancora incontrare
l’altro. Lo stesso doveva valere per la conversazione dell’epoca, se in Teofrasto l’ἄρεσκος riserva
indistintamente a tutti i conoscenti questo trattamento prima di lasciarli andare via62. In questo caso,
tuttavia, l’iniziativa presa da Sostrato non costituisce soltanto un modo polite per separarsi
dall’amico ma rivela reale attenzione alla sua persona, preludendo agli avvenimenti del V atto, in
cui il primo vorrà chiamare il secondo per proporgli di sposare la sorella in modo da consolidare il
loro rapporto di φιλία.
60
In questo le chiusure del Dyscolos sembrano avvicinarsi a quelle delle commedie di Terenzio, che anch’esse appaiono
fortemente semplificate rispetto a quelle della conversazione reale (cfr. Müller 1997, in particolare 32). Lo stesso si
osserva nella Samia, su cui cfr. infra, 137 n. 180.
61
Sulla question tag cfr. Handley ad loc.
62
Thphr. Ch. 5. Cfr. anche supra, 60 n. 232.
87
Piuttosto elaborata è anche la struttura del passo c1, relativo alla lunga interazione del I atto
tra Cherea e Sostrato. Cherea impiega diverse strategie per andare via evitando di ammettere di
volere abbandonare l’amico intenzionato a concludere il matrimonio con la fanciulla amata.
Anzitutto, dà avvio alla sezione di chiusura nel turno dei vv. 125-sgg. (il penultimo da lui
pronunciato) affermando con forza – e come al solito con tanto di massima ad hoc – la necessità di
rinviare ad un momento più opportuno il colloquio con il padre della fanciulla. In seguito, il breve
intervento di Pirria, che avalla questa soluzione (νοῦν ἔχετε, v. 129)63, gli offre lo spunto per
proseguire nella direzione intrapresa. Per questo riprende la parola e conclude la conversazione nel
turno dei vv. 129-134, in cui utilizza un insieme di strategie conclusive al fine di cavarsi d’impaccio
salvando le apparenze nei confronti di Sostrato. Nella prima unità di turno Cherea attribuisce i
comportamenti di Cnemone allo status sociale del vecchio, concludendo in questo modo le proprie
valutazioni sui fatti riferiti da Pirria. Ad essa fa seguire, introdotto da ἀλλά indicante passaggio di
pensiero64, un impegno volto a tenere momentaneamente a bada l’amico: promette infatti che il
giorno dopo tenterà egli stesso di incontrare il vecchio, lasciando intuire che il suo aiuto al
momento non occorre. Nella frase ancora successiva ritorna esplicitamente sulla situazione presente
(νῦν δ’(έ)) consigliando all’interlocutore di tornare anche lui a casa (καὶ σύ) e di lasciar passare il
tempo. Conclude quindi il suo intervento assicurando all’amico che tutto andrà bene e, dopo un
esplicito consenso di Pirria (πράττωµεν οὕτως, v. 135), se la svigna.
In questo caso la chiusura è stata realizzata esclusivamente da uno dei partecipanti alla
conversazione attraverso atti successivi tutti manifestanti un atteggiamento premuroso nei confronti
dell’altro e, fatto ancor più interessante, non presentando il proprio allontanamento, che sarà
realizzato immediatamente dopo la fine del turno, se non implicitamente all’interno del consiglio di
andare a casa rivolto all’altro (la citata espressione καὶ σύ realizza l’annuncio di chiusura attraverso
quella che nella terminologia griceana si definisce un’implicatura convenzionale65, lasciando
soltanto intendere che quanto viene consigliato all’amico è ciò che pure il parlante si appresta a
fare). Le due battute pronunciate da Pirria nel corso della sezione sono state inoltre utilizzate dal
personaggio per ignorare i silenzi di Sostrato, evidentemente dovuti a disaccordo. Se Cherea è stato
abile nel portare a termine comunque la conversazione, l’ha fatto a scapito dello stato d’animo e
delle esigenze del partner di conversazione, che infatti si lamenterà subito dopo del suo
comportamento (πρόφασιν οὗτος ἄσµενος / εἴληφεν, vv. 135-136).
63
Ciò accade sia che si intenda la forma verbale della frase di Pirria come un indicativo (come Handley ad loc.) sia che
si pensi ad essa come ad un imperativo (come fanno G-S ad v. 129): se nel primo caso la frase esprime un accordo, nel
secondo costituisce un invito ad ancora maggiore cautela.
64
Cfr. KG II 286.
65
Sulla nozione di implicatura convenzionale cfr. supra, 19.
88
L’esame delle chiusure di conversazione riguardanti personaggi liberi rivela come sia
essenziale l’espressione di un consenso finale perché non si desti il sospetto che esse siano rimaste
irrisolte sotto alcuni aspetti. Se il passo appena analizzato può costituirne un’attestazione e
contrario, a testimoniarlo è il numero dei luoghi in cui il consenso sull’opportunità di chiudere,
anche momentaneamente, lo scambio verbale in corso viene esplicitamente formulato da tutti i
partecipanti ad esso: ciò accade in almeno quattro (o sei se si includono i passi con problemi
testuali) delle nove chiusure di conversazione tra liberi presenti con sicurezza nella commedia
(c22*, c23*66, c24, c25, c26, c27), segnalando situazioni di disaccordo o comunque singolari nelle
restanti: queste comprendono oltre che c1 anche c3 e c5, per il cui svolgimento si ha sempre una
ragione, dato che il primo dei due raffigura una ‘chiusura’ effettuata da Cnemone, meno che mai
interessato ad ottenere il consenso dell’interlocutore per realizzare l’atto, mentre il secondo è
quello, già esaminato, relativo all’interazione tra Sostrato e la ragazza, del tutto contraria alle norme
sociali dell’epoca.
Quanto a quelle tra padroni e schiavi, in esse l’accordo non è sempre rilevante perché si
realizzi una chiusura senza problemi e conseguenze relazionali: a testimoniarlo sono soprattutto i
due passi c6 e c19, riguardanti interazioni tra Gorgia e il suo schiavo Davo. In entrambi la chiusura
viene realizzata da uno solo dei parlanti, dato che nel primo caso Gorgia non si sente obbligato a
replicare all’annuncio dello schiavo di stare per avviarsi verso il podere e di aspettare lì il padrone e
il nuovo arrivato (ὑπάγω, τρόφιµ’· ἐκεῖ διώκετε, v. 378), mentre nel secondo è Davo che obbedisce
silenziosamente all’ordine datogli da Gorgia di tornare a casa (vv. 617-619).
I dialoghi che coinvolgono Cnemone si contraddistinguono, com’era da attendersi, anche per
le chiusure, realizzate o provocate dai comportamenti interattivi del vecchio e sempre prive
dell’espressione di consenso di ambedue i partecipanti – tanto quando interagisce con liberi quanto
se lo fa con schiavi. Particolarmente significativi a tal proposito sono i luoghi c11 e c13. Ciascuno
dei due viene realizzato dal malcapitato interlocutore di Cnemone. Nel primo caso si tratta di Geta,
il quale, dopo aver compreso che la conversazione non può procedere oltre, vi pone fine porgendo
al δύσκολος il saluto ironico εὐτύχει, βέλτιστε67 (v. 476) e giustificandosi per averlo importunato
con l’affermare di essersi limitato ad eseguire gli ordini impartitigli dalle donne68, senza ovviamente
ricevere risposta al saluto finale. Nel secondo è invece Sicone che, a distanza di pochi versi, si
decide a chiudere la conversazione con Cnemone quando le repliche del vecchio sembrano farsi
66
Nonostante le lacune, è ritenuto sicuro che l’ordine di Cnemone al v. 758 venisse seguito dalla presa d’atto del
desiderio del vecchio di andare via da parte di Gorgia, che chiedeva anche alla madre e alla sorella di prendersi cura di
lui una volta in casa (ἐπιµ]ελοῦ τούτου è la frase ricostruita in genere dagli editori per l’inizio del v. 759).
67
Per l’uso dell’imperativo del verbo come saluto finale di interazione, lettera o di epitafio, cfr. Montanari s. v. e
Handley ad v. 476. Per l’uso ironico di questo vocativo cfr. supra, 85 n. 56.
68
Questa giustificazione è definita “a half truth” da Handley ad vv. 476-sgg.
89
minacciose e si affretta perciò a rivolgergli un saluto fin troppo gentile (χαῖρε πολλά, v. 512),
anch’esso ovviamente ironico. Stavolta Cnemone non si limita a violare le regole conversazionali
evitando di rispondere al saluto, ma afferma esplicitamente di non volere saluti da nessuno degli
importuni (οὐ βούλοµαι / χαίρειν παρ’ ὑµῶν οὐδενός, vv. 512-513). In tal modo, tuttavia, anziché
ottenere l’effetto desiderato, Cnemone prolunga la conversazione lasciando all’interlocutore
l’ultima parola: il cuoco, giocando sul duplice significato del verbo χαίρω, replica all’affermazione
del vecchio con una negazione dell’augurio appena pronunciato (µὴ χαῖρε δή, v. 513).
I finali di scena che ho inserito tra i passi incerti perché i parlanti escono insieme diretti
nello stesso luogo non presentano le normali caratteristiche delle chiusure, venendo tutt’al più
conclusi da battute che chiudono l’argomento ma non l’interazione vera e propria, la quale resta
potenzialmente aperta (passi ?c7, ?c8, ?c9, ?c18, ?c21, ?c28, ?c34). Secondo quest’ottica vanno a
mio parere interpretati anche i silenzi con cui Gorgia, ai passi ?c18 e ?c28, accompagna, uscendo di
scena, il compimento di atti nei confronti dei quali si era in precedenza mostrato riluttante: se essi,
riguardanti l’accettazione di generosi inviti ricevuti dall’amico Sostrato (rispettivamente quello a
recarsi al banchetto sacrificale e quello a partecipare al simposio), indicano senz’altro l’esistenza di
problemi nella costruzione di una relazione di φιλία tra due persone molto diverse per carattere ed
estrazione sociale, non possiedono però la stessa forza che avrebbero avuto se fossero occorsi in una
chiusura propriamente detta, dato che non interrompono l’interazione tra Gorgia e Sostrato,
lasciando intendere che il suo proseguimento aiuterà a comporre ogni divergenza69. Non è un caso
che invece, nel passo c26, nel quale Gorgia si separa brevemente da Callippide e Sostrato, egli
esprima, anche se parzialmente, il proprio consenso alle loro richieste (vv. 849 e 855).
69
Questo è infatti ciò che accade dopo il passo ?c18, in seguito al quale infatti l’amicizia tra Gorgia e Sostrato apparirà
rafforzata (ai vv. 637-638 il primo chiamerà infatti in aiuto il secondo nel prestare soccorso al patrigno), facendo
pensare che così avverrà anche dopo il passo ?c28, che raffigura la definitiva uscita di scena dei due giovani.
90
2.1.3. Il sistema di avvicendamento dei turni nel Dyscolos
2.1.3.1. La successione dei turni nella conversazione reale
2.1.3.1.1 Regole fondamentali del passaggio di parola
Caratteristica essenziale della conversazione è l’alternanza dei partecipanti nel tenere la
parola70. I contributi forniti da ciascuno di essi nel corso di uno scambio, variabili per durata e
composizione, vengono denominati “turni” e sono le unità minime costitutive della conversazione. I
turni vengono identificati dalla loro struttura sintattica e, soprattutto, dagli atteggiamenti prosodici
assunti dai parlanti: in ognuno di essi ricorrono infatti momenti, denominati “punti di rilevanza
transizionale” ed indicati solitamente con la sigla PRT, che si prestano ad essere quelli terminali del
turno, ossia a precedere il passaggio di parola. Quest’ultimo è soggetto alle seguenti regole di
assegnazione dei turni:
Regola 1 (applicata inizialmente al primo PRT di ogni turno):
a) Se il parlante del momento P seleziona nel corso del suo turno il parlante successivo S,
deve cedere la parola ad S, il quale ha in tal modo acquisito il diritto ma anche l’obbligo di parlare.
Il passaggio di parola avviene al primo PRT dopo la selezione di S;
b) se P non seleziona S, un altro parlante o S stesso può autoselezionarsi prendendo la parola
per primo e conquistando in tal modo il diritto al turno successivo;
c) se P non seleziona S e nessun partecipante si autoseleziona, P può, ma non deve,
continuare a parlare, reclamando il diritto ad un’ulteriore unità di turno.
Regola 2 (applicata a tutti i PRT successivi):
Quando P ha applicato la regola 1c) continuando a parlare dopo il primo PRT si possono
applicare le tre componenti della regola 1 (a-c) ai PRT successivi in modo ricorsivo, finché non si
effettua il passaggio di parola71.
Le regole citate rendono ragione delle più ovvie e caratterizzanti proprietà della
conversazione. L’articolazione di ambedue in diverse opzioni, tutte dipendenti dalla libera scelta dei
partecipanti allo scambio verbale, determina la variabilità dell’ordine e della distribuzione dei turni
70
Sul passaggio di parola nella conversazione reale odierna cfr. soprattutto Sacks/Schegloff/Jefferson 1974, 696-735,
Levinson 1993, 300-362 e Fele 2007, cui mi riferisco per i concetti richiamati in questa presentazione.
71
La formulazione delle regole si deve a Sacks/Schegloff/Jefferson 1974, 704. Esse sono illustrate con un ampio
numero di esempi anche da Levinson 1993, 302-306.
91
nonché quella della struttura e della durata di ciascun turno come dell’intera conversazione. In
particolare le componenti b e c della regola 1 rendono possibile il variare del numero dei
partecipanti non soltanto da conversazione a conversazione, ma anche all’interno di un unico
scambio verbale. Inoltre, il fatto che il passaggio di parola sia organizzato intorno ai PRT fa sì che i
passaggi di parola si svolgano nella maggioranza dei casi senza pause e sovrapposizioni, e consente
di predire che quando tali problemi occorrono, si localizzano – se involontarie – all’ inizio di un
turno (poiché è consueto che più di un partecipante si autoselezioni come parlante al comparire di
un PRT) o prima della fine del turno gestito dall’interlocutore (derivando ad esempio dalla
previsione erronea dei PRT) e sono perciò di breve durata (per loro esistono infatti dei meccanismi
di riparazione, in parte interni al sistema). Le regole non si riferiscono al contenuto di una
conversazione, che, come quello di ciascun turno, non è specificato in anticipo.
Gli aspetti osservati mostrano come il sistema di avvicendamento dei turni nella
conversazione sia in gran parte a gestione locale e interattiva: le caratteristiche degli scambi verbali
che esso regola non sono in genere predeterminate ma si delineano turno dopo turno in base al
contributo di ogni parte, che è al tempo stesso dipendente da quelli degli altri partecipanti e
orientato verso di essi. Ciò distingue la conversazione vera e propria da altri tipi di scambio verbale
(come cerimonie, interviste, conferenze), che definiscono in anticipo alcune delle modalità in cui si
realizzeranno.
Attraverso l’osservazione di alcune delle caratteristiche appena elencate saranno illustrate
nei prossimi paragrafi le tecniche ricorrenti attraverso le quali il sistema opera nel concreto
svilupparsi dei singoli scambi verbali, dei quali esse possono condizionare un numero limitato di
turni o, in alcuni casi, determinare l’intera struttura.
2.1.3.1.2 Modalità di funzionamento del sistema
Una delle configurazioni assunte dal sistema di avvicendamento dei turni deriva
dall’applicazione della regola 1 o 2a72, ossia dalla selezione del parlante successivo ad opera di
quello del momento. La tecnica più frequentemente impiegata consiste nel far terminare il proprio
turno con un enunciato che richiede il proferimento di un determinato complemento da parte del
destinatario73: ne sono esempio le domande, che attendono (e normalmente comportano) un
72
In seguito designerò le regole del passaggio di parola con le sole lettere (a per la selezione del parlante successivo, b
per l’autoselezione, c per la produzione di una nuova unità di turno da parte dello stesso parlante), senza indicare se si
tratta della 1 o della 2, ossia senza riguardo al momento del turno in cui esse vengono applicate, tranne qualora ritenga
necessario farvi riferimento.
73
Per individuare il destinatario il parlante si serve spesso della direzione dello sguardo nelle conversazioni faccia a
faccia oppure di un’allocuzione diretta. L’uso di un’allocuzione non è tuttavia parte essenziale di questa tecnica di
92
enunciato di risposta da parte del destinatario. Enunciati complementari costituiscono inoltre le
successioni invito/accettazione o rifiuto, saluto/saluto, richiesta/accoglimento o rifiuto, ecc. Esse
sono state identificate nell’analisi conversazionale come “coppie di adiacenza”, con una
denominazione che, benché ancora utilizzata74, è ritenuta oggi inadeguata. Nella conversazione
reale l’adiacenza tra i due elementi di una coppia non viene infatti sempre rispettata75. E’ ad
esempio possibile inserire all’interno di una coppia un certo numero di coppie di qualunque tipo
(che prendono il nome di “coppie-inserto”) in cui il destinatario verifica che sussistano le condizioni
per un adeguato completamento della principale. Quest’ultimo avverrà perciò soltanto in seguito a
quello delle coppie-inserto. Si consideri il seguente esempio di conversazione tra due parlanti A e
B76:
A: Può darmi una bottiglia di whisky? (domanda)
B: Hai ventun anni? (domanda-inserto)
A: No. (risposta-inserto)
B: No. (risposta)
La verifica della realizzazione delle condizioni necessarie per il completamento di una
coppia può a volte dispiegarsi attraverso un certo numero di turni o addirittura comportare una
temporanea sospensione (time out) dello scambio verbale. Anziché parlare di rigida adiacenza tra le
due parti si preferisce perciò oggi ipotizzare tra di loro l’esistenza di un rapporto di “rilevanza
condizionale”, in base al quale una volta che la prima sia stata rivolta da uno dei parlanti al suo
interlocutore è legittimo attendersi che quest’ultimo fornisca la seconda: qualora essa non compaia,
la sua assenza sarà considerata significativa (generalmente di disaccordo, imbarazzo, ostilità),
mentre quando al suo posto viene proferita la prima parte di un’altra coppia, quest’ultima sarà
percepita come preliminare alla parte complementare (appunto come un inserto), che continuerà ad
essere attesa fino al suo proferimento o all’esplicito annuncio della sua assenza.
Secondo una prospettiva altrettanto flessibile va considerata la serie dei complementi che è
possibile fornire alla prima parte di ogni coppia. Se è vero, infatti, che è necessario delimitarne il
numero al fine di non sottrarre al concetto di coppia il proprio significato, d’altra parte non vanno
trascurate quelle repliche ritenute equivalenti al complemento di una coppia pur senza esserlo: così,
assegnazione del turno successivo, anche perché in molti casi l’identità del destinatario è inequivocabile (ad esempio
nelle conversazioni ‘a due’, oppure quando essa è resa evidente dal contenuto del primo elemento della coppia).
74
È questa infatti la denominazione che impiegherò con maggiore frequenza.
75
Oltre a questa denominazione si trova in italiano sempre più spesso quella di “sequenze complementari”, la quale
tuttavia, se può dirsi più corretta perché non fa menzione del concetto di adiacenza, d’altro canto rischia di diventare
ambigua perché adopera la nozione di “sequenza” nel senso di “sequenza verbale”, cioè di singolo turno, risultando in
contraddizione con il senso attribuito di solito al termine in pragmalinguistica, che è quello di “successione di
enunciati”. Cfr. la nota alla traduzione in Levinson 1993, 10 e la nota della traduttrice in Levinson 1993, 307.
76
L’esempio è tratto da Levinson 1993, 308.
93
ad esempio, è possibile reagire ad una domanda anche dichiarando di non conoscere la risposta,
rifiutando di rispondere, sfidando le presupposizioni o la sincerità della domanda, riciclandola, ecc.
Una variante della tecnica delle coppie di adiacenza consiste nel rivolgere al parlante
precedente una forma di domanda che gli restituisce la parola immediatamente e senza bisogno di
allocuzioni o di tecniche addizionali, essendo costituita in generale da una sola parola (ad esempio
“Chi?” “Dove?”, ecc.) o dalla ripetizione di parte dell’enunciato pronunciato dall’interlocutore, al
fine di costringerlo ad integrare, chiarire o correggere quanto ha appena detto77: l’esplicito
riferimento a quanto detto nel turno precedente dall’interlocutore fa sì che questi si senta
automaticamente in diritto e in obbligo di occupare il turno successivo.
Inoltre, è possibile assegnare il turno successivo agganciando all’enunciato proferito (che
può essere di diverso tipo) una richiesta esplicita di conferma attraverso una question tag (ossia una
domanda del tipo “Non è vero?”, “Giusto?”, ecc.).
Altre tecniche di selezione del parlante successivo impiegano l’identità sociale dei parlanti
per realizzarsi. Ad esempio, nel caso di una conversazione tra due coppie un invito ad andare
insieme al cinema pronunciato senza specificazioni da uno dei membri di una coppia si riterrà
automaticamente rivolto ad uno dei membri dell’altra coppia e non all’altro membro della stessa. Di
quest’ultima tipologia di tecniche non esiste a quanto pare una classificazione, data la complessità
della questione del valore dell’identità sociale (che varia ovviamente da cultura a cultura) e del suo
cambiamento all’interno delle interazioni verbali78.
Quando la regola a non viene applicata, per prendere la parola il parlante successivo deve
autoselezionarsi (regola b). In generale si nota che le pause intercorrenti tra un turno ed il
successivo sono molto brevi: sembra infatti che chi intende autoselezionarsi si senta indotto a
cominciare subito per evitare di essere preceduto da altri. La presa della parola deve essere attuata
con cura subito dopo la fine di un turno soprattutto per evitare sovrapposizioni, le quali rischiano di
compromettere la comprensione e la stessa produzione della parte iniziale del turno. La
sovrapposizione e l’interruzione sono gli intoppi che il turn-taking può presentare in caso di
applicazione della regola b. Esse sono soggette a sanzioni (come lamentele, richieste di poter
continuare, ecc.) e generalmente vengono risolte subito (una delle due parti cessa infatti quasi
immediatamente di parlare lasciando all’altra la possibilità di continuare).
L’applicazione della regola c comporta il rischio di un parlare discontinuo. Quando il
parlante del momento non ha selezionato un successore e nessuno si è autoselezionato prendendo la
77
Per l’uso di questa tecnica al fine di sollecitare da parte dell’interlocutore la riparazione di un problema di produzione
o ricezione di un turno cfr. infra, 98.
78
Le diverse tecniche di assegnazione del turno successivo sono elencate e discusse in Sacks/Schegloff/Jefferson 1974,
716-718.
94
parola può anche accadere che egli cessi di parlare. Il silenzio nascente da questa situazione si
classifica come “vuoto” quando precede per un brevissimo intervallo di tempo l’applicazione delle
regole b e c e come “indugio” quando, derivando dalla mancata applicazione delle regole del turntaking, ha una durata superiore. È chiaro che quando un vuoto si prolunga si trasforma in un
indugio.
Entrambi i tipi di silenzio illustrati si distinguono da quello che ha luogo nonostante
l’esplicita selezione del parlante nel turno precedente: quando non deriva da ragioni tecniche (come
la mancata ricezione o comprensione dell’enunciato precedente, l’interruzione momentanea della
conversazione dovuta all’intervento di fattori esterni, ecc.), esso è dovuto alla precisa scelta del
partner di conversazione che ne è responsabile di non collaborare con l’interlocutore perché la
conversazione proceda nel modo proposto da quest’ultimo. Si parla pertanto in questo caso di
“silenzio significativo” o “attribuibile”79.
Un valore ancora differente ha il silenzio di uno dei parlanti qualora l’avvicendamento dei
turni sia stato sospeso al fine di consentire ad esempio l’esposizione di un fatto, la narrazione di una
storia, ecc. In questo caso la mancata autoselezione di uno dei parlanti è non soltanto ammessa, ma
addirittura avvertita come necessaria fino a quando l’azione che ha richiesto la sospensione non si
sia conclusa. Tuttavia, anche durante la sospensione, l’ascoltatore potrà di tanto in tanto prendere la
parola per assentire o pronunciare qualche parola di commento su quanto detto dal parlante. Questi
interventi, che si trovano spesso anche al di fuori di cornici come il racconto di storie, hanno di
norma il solo scopo di mostrare l’interesse e la comprensione di chi ascolta verso le parole dette
dall’interlocutore o al più esprimere brevi commenti su di esse e sono caratterizzati da estrema
brevità (ne costituiscono esempi contributi come “certo”, “ah”, “infatti”, “è vero”, “appunto”, ecc.).
Risultano peculiari rispetto ai normali turni poiché costituiscono soltanto dei “segnali di sostegno”
nei confronti di colui che tiene la parola, motivandolo a continuare80.
Il procedere della conversazione risulta dunque non soltanto dagli atti, verbali e non, in essa
compiuti, ma anche dall’analisi e dall’interpretazione che di ciascuno di questi vengono date dal
partner di conversazione che di volta in volta ne è destinatario.
2.1.3.1.3 L’organizzazione delle preferenze
Se in alcune coppie di adiacenza il primo elemento richiede normalmente un unico tipo di
replica, in altre è possibile reagire alla prima parte in modi diversi e alternativi. Il secondo elemento
atteso non è sempre univoco. Così, ad esempio, se una domanda attende da parte dell’interlocutore
79
80
Sui diversi tipi di silenzio cfr. Levinson 1993, 303 e Fele 2007, 41 e n. 6.
Sui segnali di sostegno cfr. ad esempio Brinker/Sager 2006, 62-63.
95
semplicemente un atto di risposta, ad un invito si potrà reagire dichiarando di accettarlo oppure
rifiutandolo. I due diversi complementi di questo secondo tipo di coppie di adiacenza sono
ugualmente validi per completare la coppia, ma all’interno della conversazione vi sono delle
strutture ricorrenti orientate a soddisfare per lo più una sola di queste possibili alternative: in altre
parole, i possibili complementi non vengono realizzati nello stesso modo, ma si avverte una
maggiore facilità nel compierne uno rispetto ad un altro. Per questa ragione gli analisti della
conversazione usano dire che ad uno dei due è in generale accordata “preferenza” rispetto
all’altro81. Il carattere preferenziale di uno dei possibili complementi di una coppia di adiacenza
rispetto ad un altro non dipende da fatti esterni al turn-taking, come la disposizione psicologica o il
sistema di attese individuali di ciascun parlante, ma si palesa attraverso le differenti modalità di
produzione che li caratterizzano: uno dei due viene infatti proferito senza indugi e difficoltà, in
modo diretto, di solito all’inizio del turno di replica e spesso senza grande dispendio di parole,
mentre l’altro viene fornito in maniera attenuata o con esitazione (essendo ad esempio preceduto da
pause e premesse di varia entità, come particelle introduttive, intere frasi di scusa, commenti su
quanto si sta per dire, valutazioni dell’atto verbale pronunciato dall’interlocutore, ecc.), è
accompagnato da spiegazioni o giustificazioni e comporta dunque una maggiore produzione di
materiale verbale.
La caratterizzazione strutturale dei turni preferenziali e non preferenziali ha permesso di
stabilire un rapporto tra il contenuto di determinati complementi e la tendenza a produrli in un modo
anziché in un altro. Si è notato in particolare che, come per l’invito, anche per una richiesta il rifiuto
è non preferenziale rispetto al suo accoglimento, che per il biasimo è ritenuta preferenziale la
negazione anziché l’ammissione, ecc.: in generale, si può dire che si accorda preferenza ai
complementi che evitano il conflitto e, al contrario, promuovono solidarietà tra i parlanti82.
Il parlante che pronuncia il primo elemento di una coppia può, già nel corso della
produzione del suo turno, inferire, attraverso l’osservazione dell’atteggiamento del suo
interlocutore, se questi si prepara a replicare in modo preferenziale o non preferenziale. Ciò gli
consente di strutturare il proprio turno in modo da prevenire un complemento non preferenziale, ad
esempio aggiungendo motivazioni per cui sarebbe opportuno replicare nel modo da lui richiesto,
ecc. Si comprende quindi che, nel condizionare il processo di costruzione di una coppia,
l’organizzazione delle preferenze influenza anche la struttura della prima parte o addirittura i turni
81
Per la nozione di “preferenza” nella conversazione cfr. Pomerantz 1984, 57-101, Levinson 1993, 310-311 e 332-344,
Fele 2007, 55-67.
82
Brown/Levinson 1987, 38-41 ritengono che l’organizzazione delle preferenze in conversazione possa spiegarsi con il
ricorso a considerazioni di “faccia” e di politeness: secondo loro gli FTA divengono in conversazione atti non
preferenziali. Effettivamente, c’è un’interessante sovrapposizione dei fenomeni, che nella mia ricerca si rifletterà nel
fatto che alcuni fenomeni sono illustrabili sia col ricorso all’organizzazione delle preferenze in AC sia con la teoria
della politeness.
96
che precedono una coppia. Al fine di evitare che una coppia di adiacenza si chiuda con un
complemento non preferenziale, si preferisce infatti verificare che sussistano le condizioni per cui
non si inutile od insensato dar luogo a quella coppia (grazie alle quali la coppia possa concludersi
con successo). Alla coppia originata attraverso questa preliminare verifica si dà il nome di “presequenza”, mentre al suo primo elemento quello di “pre-invito”, “pre-richiesta”, “pre-annuncio” a
seconda del tipo di coppia al quale prelude83.
Si considerino i seguenti esempi di pre-sequenze84:
C: Ha la marmellata di more? (pre-richiesta)
S: Sì.
C: Bene. Allora me ne dà mezzo chilo. (richiesta)
S: Certo.
R: Ciao John.
C: Come va?
R: Dimmi, che fate? (pre-invito)
C: Stiamo uscendo, perché?
R: Oh stavo giusto per proporvi di passare da me stasera ma se state uscendo non potete
farlo.
Come si vede, soltanto nel primo dei due frammenti di conversazione citati la pre-sequenza
è effettivamente seguita dalla coppia richiesta/accoglimento della richiesta, perché nel secondo il
parlante che proferisce la domanda di pre-invito si rende conto dalla risposta dell’interlocutore che
non ha senso formulare un invito, dato che esso non può essere accolto.
L’organizzazione delle preferenze non è rilevante soltanto all’interno delle coppie di
adiacenza, ma agisce anche quando il passaggio di parola non è realizzato attraverso l’applicazione
della regola a. Esistono ad esempio degli enunciati dopo i quali un complemento, anche se non
necessario, viene ritenuto tuttavia adatto. E’ il caso delle valutazioni, ossia delle affermazioni
contenenti un giudizio, dopo le quali si tende, da parte dell’interlocutore, ad esprimere condivisione
e lo si fa in maniera diretta e senza esitazione, a volte addirittura sovrapponendosi brevemente al
parlante che sta terminando di pronunciarle. Il disaccordo viene invece manifestato con difficoltà ed
è spesso preceduto dall’espressione di un parziale accordo (in frasi del tipo: “Sì, ma...”, “Da una
parte è vero, però...”, ecc.). Nelle sequenze di enunciati generate dalle valutazioni (e denominate
83
84
Sulle pre-sequenze cfr. ad esempio Levinson 1993, 344-362.
Gli esempi sono citati in Levinson 1993, rispettivamente 346 e 345.
97
“catene d’azioni”85) è interessante esaminare il comportamento del secondo parlante (non quello
cioè che esprime la valutazione) nelle situazioni in cui operano due opposti ordini di attese
conversazionali. Una di queste è rappresentata dalle catene aperte con un atto di auto-denigrazione.
In esse l’espressione di un accordo cessa di essere preferenziale, scontrandosi con la norma, che
risulta essere più forte, secondo la quale occorre evitare la critica alla persona dell’interlocutore.
Ecco perché si preferisce in casi del genere esprimere un disaccordo. Qualora si voglia comunque
segnalare il proprio accordo, lo si fa precedere di solito da un disaccordo, una correzione o
un’attenuazione del giudizio o lo si manifesta con atti di comunicazione non verbale, come il
silenzio o il sorridere.
Fortemente condizionata dall’organizzazione delle preferenze, non soltanto a proposito dei
singoli turni ma anche dei rapporti attraverso i quali essi si legano, è anche l’area delle “riparazioni”
(o “correzioni”)86.
Sotto l’etichetta di riparazione vengono inclusi nell’analisi conversazionale fenomeni spesso
diversi tra di loro, i quali sono però accomunati dal fatto di costituire tentativi di porre rimedio a
problemi (o troubles) sorti durante il funzionamento del sistema. Ne fanno parte perciò non soltanto
gli atti verbali con cui si cerca di cancellare imprecisioni o veri e propri errori, ma anche richieste di
ripetere parti del turno precedente che non si è sentito o capito bene, commenti del parlante sul
proprio enunciato, domande di chiarimento, domande-eco, ecc. Un’importanza fondamentale viene
attribuita alla distinzione tra auto-riparazioni e riparazioni altrui e a quella tra riparazioni spontanee
e riparazioni indotte dall’esterno.
Una riparazione è spontanea quando uno dei partner di conversazione decide
autonomamente di modificare quanto ha detto, mentre viene sollecitata o indotta dall’esterno
qualora a segnalare la presenza di un problema relativo ad un turno sia un parlante diverso da colui
che lo ha proferito, ad esempio con la parziale ripetizione di quanto detto dall’interlocutore, o con
interrogativi del tipo “Cosa?”, “Come?”, ecc. Questi interrogativi, di occorrenza molto frequente
nella conversazione, sono indicati di solito con la sigla ICTS (= “iniziatori di correzione del turno
successivo”) in quanto etero-inizi di riparazione che invitano l’interlocutore a completarla. La
distinzione tra auto-riparazione e riparazione altrui (o etero-riparazione) è riferita invece
all’effettuazione della riparazione (ad esempio la ripetizione di una parola in precedenza non
scandita bene, la sostituzione di un nome o di un termine non appropriati, ecc.).
85
Cfr. Levinson 1993, 336-337.
Sulle riparazioni o correzioni è fondamentale Schegloff/Jefferson/Sacks 1977, 361-382. Cfr. anche Levinson 1993,
338-341 e 358 e Fele 2007, 43-53. Preferisco usare il primo dei due termini per evitare confusioni della nozione
conversazionale di correzione con quella comune di correzione di errori grammaticali e con la correctio retorica (se è
vero che quest’ultima può assumere forme piuttosto simili, non si riferisce mai, come la riparazione o correzione
conversazionale, a reali problemi di produzione o ricezione di un turno, cfr. Lausberg 1990, 386-389).
86
98
Le due coppie di
concetti non sono
sovrapponibili: una riparazione indotta
dall’interlocutore, ad esempio, non deve essere necessariamente da lui compiuta (ad esempio in
enunciati del tipo: “Vuoi dire...”, “No, non X, ma Y”, ecc.), ma può determinare l’auto-riparazione
del parlante che ha creato il problema in uno dei turni precedenti. Similmente, se un parlante si
accorge autonomamente di dover “riparare” quanto ha appena detto, potrà semplicemente limitarsi a
negare la parte del proprio enunciato che gli sembra inappropriata senza essere capace da solo di
effettuare la riparazione per la quale avrà bisogno dell’intervento dell’interlocutore (ad esempio in
frasi come “No, non volevo dire X, ma – come si chiama…?”).
In alcuni casi l’etero-riparazione può essere effettuata anche direttamente senza essere prima
sollecitata: si parla in tal caso di “correzione incassata” (“embedded correction”)87. In tal caso, se è
reso possibile dal contesto, l’altro parlante preferisce produrre il suo turno semplicemente
sostituendo il termine sbagliato con quello corretto anziché rendere la correzione manifesta.
C: Mm, le scanalature sono più larghe di questa
S: Va bene, vediamo se ne trovo uno con una filettatura più larga
((cerca))
S: Va bene questa?
C: No la filettatura deve essere ancora più larga
In esso, il venditore non fa altro che sostituire il termine “filettatura” a quello usato dal
cliente e questi accetta nei turni successivi il termine suggeritogli88.
Dai dati empirici presi in esame nell’analisi conversazionale risulta che i tipi di riparazione
individuati non vengono utilizzati a caso e indifferentemente nella conversazione quotidiana. Al
contrario, essi occupano determinate posizioni rispetto al turno in cui compare il problema o
l’errore. Per le posizioni occupate e le modalità in cui si svolgono possono essere ordinati
all’interno di una scala di preferenze. In generale, si è notata una assoluta preferenza per l’autoriparazione spontanea all’interno del turno in cui compare il problema o nell’intervallo tra questo
turno e quello successivo. Ad un grado inferiore in questa scala di preferenze si colloca invece
l’auto-riparazione indotta, la quale può aver luogo nel secondo o nel terzo turno. Alla base della
scala c’è invece la riparazione altrui sollecitata dall’esterno, che ha luogo nel terzo turno dopo
quello in cui compare l’elemento riparabile.
87
88
Si parla in tal caso di “embedded corrections” (cfr. Levinson 1993, 338-341 e 358).
L’esempio è tratto da Levinson 1993, 358.
99
2.1.3.1.4 Dalla forma al contenuto: l’introduzione e il passaggio di argomento
Le caratteristiche del sistema del turn-taking finora descritte riguardano soprattutto la
struttura formale della conversazione, pur sfiorando spesso gli aspetti contenutistici di uno scambio
verbale. Questi ultimi possono in certa misura direttamente interagire con il passaggio di parola.
L’introduzione di un argomento di conversazione è strettamente legata agli atti di apertura
della stessa. Negli scambi verbali aperti con un appello e nelle conversazioni non casuali ma volute
da almeno uno dei partecipanti essa si ha quasi sempre dopo la risposta dell’interlocutore89, mentre
il suo svolgimento è meno immediato negli scambi verbali che si sviluppano casualmente. In modo
analogo, la sezione di chiusura di una conversazione è connessa alla conclusione della discussione
del principale od ultimo argomento trattato90. Più problematico è il passaggio ad un nuovo
argomento all’interno di una conversazione. Se infatti il primo argomento è quello meno vincolato
ai turni precedenti, tutti i successivi dovranno in qualche modo adattarsi ad esso. L’esperienza
comune dimostra la preferenza per il collegamento di ogni argomento introdotto con quelli trattati
precedentemente nel corso dello stesso scambio. Di norma, infatti, l’introduzione di un argomento
sconnesso con quelli precedenti è accompagnata da uno sforzo superiore sul piano prosodico ed
intonazionale ed avviene in enunciati complessi, nei quali compaiono spesso espressioni
caratteristiche (come “a proposito”, “un’altra cosa”, ecc.) o frasi di scusa, di illustrazione delle
ragioni per cui si passa a parlare del nuovo tema, ecc. Solitamente si preferisce perciò trovare una
categoria di cui facciano parte sia l’argomento che si sta trattando sia quello che si vuole proporre,
in maniera che il passaggio dal primo al secondo appaia del tutto naturale. Ovviamente questa
categoria non è data in precedenza, ma viene costruita turno dopo turno con la collaborazione di
tutti i parlanti. In questo risiede anche la ragione per cui alcuni argomenti vengono trattenuti nella
conversazione fino a quando la loro introduzione non appaia appropriata a quanto si è appena detto.
2.1.3.2 Il sistema di avvicendamento dei turni nel Dyscolos
2.1.3.2.1 Criteri di applicazione
Nell’analisi conversazionale dei dialoghi della commedia i fenomeni indagati possono
essere riuniti sotto tre categorie:
1) modalità del passaggio di parola: frequenza relativa, diverse configurazioni assunte dal
dialogo, frequenza e significato delle violazioni riscontrate;
89
90
Della coppia appello/risposta come iniziale di conversazione ho parlato piuttosto diffusamente supra, 66.
Per l’argomento cfr. supra, 79-81.
100
2) efficacia dell’organizzazione delle preferenze;
3) composizione dei singoli turni (durata, struttura, ripetizioni intraturno, ecc.) e relazioni tra
turni diversi (ascolto, analisi e comprensione di ciascun turno da parte dell’interlocutore,
riparazione di problemi legati alla produzione e alla ricezione di un turno, introduzione e
cambiamento di argomento, ripetizioni interturno ecc.).
L’esame della presenza nei dialoghi del Dyscolos dei patterns conversazionali osservati
nella comunicazione reale quotidiana odierna di tipo occidentale (tenendo conto, come si è detto,
delle informazioni ricavate da altre fonti sullo svolgimento della conversazione reale antica) è stato
seguito dal tentativo di rispondere al delicato interrogativo circa la funzione dei fenomeni riscontrati
(in particolare di eccezioni, violazioni, ecc.) in ciascun dialogo. Si sono a tale scopo considerate di
volta in volta le esigenze sceniche, comiche, drammaturgiche che hanno potuto occasionare il loro
impiego da parte del drammaturgo in un determinato momento di un’interazione. Si è perciò sempre
tenuto conto del momento del plot in cui un’interazione ha luogo, dello stato d’animo e delle
esigenze comunicative di ciascun partecipante, del suo status sociale e della relazione che lo lega
agli altri.
Si è già ricordato come le incertezze presentate dal testo della commedia non soltanto circa
il contenuto e la forma di ogni battuta ma anche i suoi confini, la punteggiatura delle unità che la
compongono ecc. costituiscano un limite difficilmente valicabile per un’indagine di questo tipo,
rivolta alle modalità del passaggio di parola e alla struttura e alla successione dei turni. Tanto per
citare uno dei problemi più spinosi, la ripetuta autoselezione di uno stesso parlante non è facile da
ravvisare in seguito a diverse ragioni. Anzitutto, se un PRT è arduo da individuare anche nella
conversazione reale (il problema della sovrapposizione è spesso dovuto ad errori nel calcolo di
PRT), le difficoltà aumentano per un testo soltanto scritto la cui punteggiatura è frutto della scelta
degli editori e varia spesso da un’edizione all’altra. Ho deciso di adeguarmi anche sotto questo
aspetto al testo di Sandbach e di far cominciare una nuova unità di turno dopo un punto, un punto
interrogativo o un punto in alto che non potrebbero essere facilmente sostituiti da virgole.
Nonostante ciò, non si può sempre dire con certezza che una nuova unità di turno sia prodotta da
una nuova autoselezione dello stesso parlante. In alcuni casi, infatti, si comprende come questi
strutturi il suo turno mostrando sin dall’inizio di voler produrre più di una unità: ciò accade non
soltanto quando si chiede esplicitamente una temporanea sospensione del turn-taking, ma anche
attraverso l’uso di determinate particelle con le quali un’unità di turno pur sintatticamente completa
e conchiusa in se stessa ne preannuncia una successiva (µέν e δέ ne costituiscono gli esempi più
ovvi e frequenti), non determinando dunque dopo di sé una nuova autoselezione dello stesso
101
parlante. Per questa ragione l’occorrenza di ripetute autoselezioni nello stesso turno va valutata caso
per caso e non può dirsi comunque se non sporadicamente del tutto sicura.
La distinzione tra un dialogo e un altro è tutt’altro che oggettiva. Avviene infatti più di una
volta che il numero dei partecipanti cambi per l’ingresso in interazione di un nuovo personaggio.
Casi di tal genere sono difficili da numerare, dato che, se da una parte il primo dialogo non si
interrompe né si chiude ma semplicemente sfocia nel successivo, dall’altra accade spesso che il
secondo dei due, oltre ad avere un’autonoma sezione di apertura, spesso si sviluppa senza tenere
conto di quanto detto dai parlanti di quello precedente. Ho deciso perciò di considerare il secondo
scambio verbale distinto dal precedente quando richieda un’apertura e soprattutto non tenga conto
di quanto detto nel dialogo precedentemente cominciato. Questa distinzione rischia comunque di
apparire forzata e semplificante riguardo all’andamento di un dialogo: a volte, ad esempio,
determina il fatto che un dialogo ha la sezione di chiusura nel successivo (è il caso di quello
indicato come d1).
Ritengo altresì necessario precisare che all’interno dei dialoghi del Dyscolos ho incluso
anche le sezioni di apertura e chiusura, già discusse a parte nei capitoli precedenti. Ciò comporta il
fatto che ad esempio nel dialogo individuato come d2, di cui fanno parte i vv. 82-146, siano
compresi l’apertura a1, che occupa i vv. 82-87 e le chiusure c1 (vv. 129-134) e c2* (vv. 144-146) e
che altre sovrapposizioni di questo genere siano presenti in quasi tutti gli scambi verbali. I rapporti
e le sovrapposizioni tra i passi discussi in più sezioni saranno comunque illustrati in tavole
sinottiche (una per il Dyscolos e l’altra per la Samia) poste in appendice al lavoro.
2.1.3.2.2 Elenco dei dialoghi91
Dialoghi rappresentati
d1) Vv. 50-81= At (I), Cherea, Sostrato
d2) Vv. 82-146= At (I), Pirria, Cherea, Sostrato
d3) Vv. 171-177= At (I), Cnemone, Sostrato
d4) Vv. 199-213= At (I), Sostrato, figlia di Cnemone
d5) Vv. 233-258= At (II), Davo, Gorgia
d6) Vv. 269-381= At (II), Gorgia, Sostrato, Davo
91
Per le sigle usate, cfr. supra 68. Diversamente che per le aperture e le chiusure, non utilizzerò in quest’elenco
l’asterisco per contrassegnare i passi affetti da problemi testuali: è ovvio infatti che la stragrande maggioranza di essi ne
contiene anche più di uno. Preferisco perciò discutere gli eventuali problemi nel momento in cui tratterò i versi da essi
interessati.
102
d7) Vv. 401-426= At (II), Sicone, Geta
d8) Vv. 434-441= At (III), madre di Sostrato, familiari e schiavi
d9) Vv. 459-479= At (III), Geta, Cnemone
d10) Vv. 498-514= At (III), Sicone, Cnemone
d11) Vv. 551-571= At (III), Geta, Sostrato
d12) Vv. 588-596= At (III), Cnemone, Simiche
d13) Vv. 599-601= At (III), Geta, Cnemone
d14) Vv. 611-619= At (III), Sostrato, Gorgia, Davo
d15) Vv. 620-634= At (IV), Simiche, Sicone
d16) Vv. 635-638= At (IV), Simiche, Gorgia
d17) Vv. 691-700= At (IV), Gorgia, Cnemone
?d18) Vv. 701-702= At (IV), Cnemone, Sostrato
d19) Vv. 708-779 e 781-783= At (IV), Cnemone, moglie, figlia, Gorgia, Sostrato
d20) Vv. 779-780= At (IV), Callippide, Sostrato
d21) Vv. 784-860= At (V), Callippide, Sostrato, poi dal v. 821 anche Gorgia
d22) Vv. 867-873= At (V), Sostrato, Gorgia
d23) Vv. 882-885= At (V), Simiche, Geta
d24) Vv. 888-910= At (V), Geta, Sicone
d25) Vv. 911-918= At (V), Sicone, Cnemone
d26) Vv. 921-926= At (V), Geta, Cnemone
d27) Vv. 927-963= At (V), Geta, Sicone, Cnemone
Dialoghi raccontati o immaginati
dI) Vv. 97-101= At (I), orobl, r, Pirria, Simiche
dII) Vv. 104-116= At (I), orect, r, Pirria, Cnemone
dIII) Vv. 352-357= At (II), orobl, i, Gorgia, Cnemone
dIV) Vv. 365-370= At (II), orobl, i, Sostrato, Cnemone
dV) Vv. 538-541= At (III), orect, r, Gorgia, Sostrato
Se nell’elenco delle aperture e delle chiusure di conversazione raccontate o immaginate ho
inserito anche gli accenni a tali momenti, ciò diverrebbe estremamente complicato nel caso delle
conversazioni in generale, dato che possono rinviare ad un’interazione verbale anche verbi di dire o
di parlare o addirittura verbi indicanti l’incontrare e il vedere un’altra persona. Sono stati pertanto
103
esclusi dall’elenco i cenni di questo tipo, ma l’analisi dei passi inclusi sarà seguita da una breve
rassegna dei verbi che più spesso nella commedia si riferiscono all’interagire.
2.1.3.2.3 Caratteristiche del sistema di avvicendamento dei turni all’interno dei dialoghi
2.1.3.2.3.1 Passaggio di parola
La modalità di passaggio di parola che nel Dyscolos si riscontra più frequentemente è
senz’altro la cessione della parola all’interlocutore dopo sua selezione nel turno che si sta
pronunciando (regola 1 o 2a). E’ per questa ragione che il dialogo della commedia si struttura
spesso come una successione di coppie di adiacenza di vario genere. Se sul piano formale la coppia
più diffusa è quella che vede un’interrogativa seguita da una replica dell’interlocutore, non si può
sempre dire che questa successione indichi una coppia domanda/risposta, dato che l’enunciato di
forma interrogativa può in realtà avere valore di rimprovero, invito, richiesta, ecc. ed esigere
pertanto una replica corrispondente e non una risposta. La frequenza delle interrogative può essere
dovuta all’esigenza di facilitare il passaggio di parola nella recitazione, la quale fa sì che esse
svolgano la funzione di didascalie esplicite interne al testo92. La selezione del parlante successivo
trova comunque sempre giustificazione nelle necessità comunicative che nella finzione drammatica
sono attribuite ai partecipanti ad un dialogo, non risultando perciò artificiosa. Quando ad esempio il
dialogo è svolto per la precisa volontà di uno dei parlanti, questi cederà più volte esplicitamente
all’interlocutore la parola perché l’altro soddisfi le sue esigenze (si pensi alle domande presenti in
dialoghi padrone-schiavo quando il primo intende essere informato dal secondo su un fatto, il che
avviene ad esempio tra Sostrato e Pirria in d2).
Oltre alla varietà delle tipologie di coppie di adiacenza, si osserva nel Dyscolos anche una
varietà dei modi di sviluppo di singole coppie. Anzitutto, è interessante notare che, al pari di quanto
avviene nella conversazione reale, esse non sono sempre caratterizzate da adiacenza. Nella
maggioranza dei casi l’adiacenza viene invece compromessa dal parlante che dovrebbe completare
la coppia attraverso l’inserimento, tra il primo ed il secondo elemento, di una o più coppie-inserto il
cui completamento diviene preliminare rispetto a quello della coppia iniziale. Di questo fenomeno
si sono già visti alcuni esempi a proposito delle sezioni di apertura e di chiusura di un dialogo93.
Esso è tuttavia frequente anche nel corpo di un’interazione, spesso segnalando la difficoltà del
personaggio selezionato a fornire il complemento richiesto dal partner di conversazione o, come
92
93
Sulle didascalie esplicite in tragedia cfr. Ercolani 2000, 61-98.
Ad esempio supra, 72-73, 76, 87.
104
metterò in evidenza in seguito, il suo prepararsi a fornire il complemento non preferenziale al primo
elemento della coppia aperta dall’interlocutore.
È quanto avviene ad esempio in un interessante passaggio di d6 tra Sostrato e Gorgia (vv.
338-347):
T194= Dopo avere illustrato al giovane innamorato il carattere del padre della fanciulla da
questi amata, Gorgia conclude il suo ragionamento consigliando al nuovo amico di non crearsi
problemi (µὴ δὴ πράγµατ’, ὦ βέλτιστ’, ἔχε, v. 338) e lasciare che a sopportare la difficile situazione
siano i parenti, cui l’ha assegnata la sorte. Apre dunque una coppia consiglio/accettazione o rifiuto.
T2= Anziché fornire subito il complemento alla coppia aperta da Gorgia, Sostrato apre a sua
volta una coppia-inserto di tipo domanda/risposta, in cui chiede all’amico se sia mai stato
innamorato (πρὸς τῶν θεῶν οὐπώποτ’ ἠράσθης τινός, / µειράκιον;).
T3= Nel turno di replica, Gorgia fornisce anche la ragione della sua risposta: οὐδ’ ἔξεστί
µοι, βέλτιστε è quello che afferma chiudendo la coppia-inserto.
T4= Incuriosito dalla risposta di Gorgia, Sostrato riprende la parola e dà inizio ad una
seconda coppia-inserto dello stesso tipo, tesa ad approfondire le ragioni della risposta contenuta nel
turno precedente. Nel suo turno ad una prima domanda costituita unicamente da un avverbio
interrogativo (πῶς;) ne segue una seconda, più specifica (τίς ἔσθ’ ὁ κωλύων;).
T5= Gorgia risponde direttamente, completando la nuova coppia-inserto: a rendergli
impossibile l’innamoramento – dice – è la considerazione dei mali in cui versa, che non gli dà
alcuna tregua (ὁ τῶν ὄντων κακῶν / λογισµός, ἀνάπαυσιν διδοὺς οὐδ’ ἡντινοῦν).
T6= Sostrato prende spunto dalla risposta e, dopo aver confermato di avere la sensazione
che l’amico non conosca l’amore, giunge finalmente ad esprimere il suo rifiuto al consiglio ricevuto
in T1: lo fa dapprima parafrasando l’atto linguistico da questi prodotto (ἀποστῆναι κελεύεις µ’(ε)) e
quindi affermando che la situazione non è più in suo potere ma in quello del dio95. Il rifiuto viene
espresso in modo indiretto ma risulta immediatamente chiaro.
La coppia consiglio/rifiuto ha accolto in sé ben due successive coppie-inserto, dovute al
fatto che Sostrato, non disposto a seguire il consiglio di Gorgia, intende innanzitutto far capire
all’amico che non si può chiedere ad un innamorato di desistere dal tentativo di sposare la donna
amata, al fine di motivare l’atto non preferenziale prima di pronunciarlo, e in seguito conoscere le
ragioni per cui affermi di non potersi innamorare96.
94
Della numerazione dei turni citati in successione ho trattato supra, 72 n. 21.
Secondo Handley ad vv. 346-sgg. il dio a cui si riferisce Sostrato è Eros, mentre il pubblico sa che invece si tratta di
Pan. Più prudentemente, G-S ad v. 347 affermano: “Sostratos does not put a name to the god who controls him; the
audience knows it to be Pan”.
96
Per l’estrema delicatezza con cui Sostrato mostra la non preferenzialità di atti come il rifiuto mitigando spesso la loro
forza attraverso strategie di politeness cfr. infra, 258.
95
105
Diverse volte, inoltre, i primi elementi di coppie di adiacenza ottengono repliche non
verbali. Ciò accade a proposito di ordini, richieste, indicazioni che necessitano l’uscita di scena del
destinatario, in prevalenza nella comunicazione tra padrone e schiavo97. Quando essi richiedono il
compimento di un gesto o di un movimento in scena, la replica contiene spesso anche una minima
componente verbale (rappresentata ad esempio da avverbi, interiezioni, forme verbali, ecc.), la cui
presenza è funzionale a rendere chiaro al pubblico che un determinato atto viene compiuto
fungendo inoltre ancora da didascalia per l’attore. In d24, ad esempio, le battute che accompagnano
e descrivono lo spostamento del letto di Cnemone sulla scena si susseguono al v. 909 in questo
modo:
(Γε) εἰς δεξιάν.
(Σικ)
<Γε>
ἰδού.
θὲς αὐτοῦ. νῦν ὁ καιρός.
εἶἑν· 98
<Σικ>
Nel primo dei turni riportati Geta individua la destra come direzione opportuna verso la
quale portare Cnemone e Sicone accoglie esplicitamente la sua indicazione nella battuta successiva.
In seguito, ancora Geta dice a Sicone di lasciare il letto nel posto raggiunto e afferma che è arrivato
il momento di dare inizio alla beffa. Sicone si dichiara d’accordo e si prepara ad agire. Quel che
risulta interessante è la replica verbale al primo ordine, la quale sottolinea appunto dove ci si è
diretti per deporre il ‘carico’. Una replica verbale al secondo ordine manca in quanto non più
necessaria e la continuazione del parlare dei due nel finale del verso può bastare a rendere chiaro
che l’azione è stata compiuta così come annunciata.
97
Di queste coppie ho parlato supra, 85-86.
Se sulla suddivisione delle battute in questo verso gli editori sono per lo più concordi, in gran parte di questa scena a
partire dal v. 905 la distribuzione delle battute tra Geta e Sicone risulta molto incerta. Ciò dipende dal fatto che il
cambio di locutore viene indicato quasi esclusivamente da paragraphi e dicola (e non da notae personarum), di cui
questi ultimi non sempre sembrano apposti correttamente (come ad es. al v. 906, dove µικρόν va quasi certamente
legato all’imperativo πρόσµεινον con cui comincia il verso successivo, nonostante in B il pronome neutro sia seguito da
dicolon). Gli studiosi hanno proposto le più diverse soluzioni, di cui nessuna ha riscosso unanime consenso: è per
questo che Sandbach è costretto ad ammettere che “The solutions adopted here must be regarded as tentative” (G-S ad
vv. 900-sgg.). Il problema è reso più spinoso dal fatto che esso influenza l’interpretazione dell’intera scena: a seconda
delle soluzioni adottate, infatti, si riterrà che sia Sicone (Sandbach, Paduano) o Geta (Jacques, Handley) a cominciare la
serie delle beffe che dovranno far infuriare Cnemone. Per quanto mi riguarda, ritengo convincenti molte delle
osservazioni fatte da Sandbach a favore di una priorità di Sicone (è stato lui a comunicare allo schiavo di voler entrare a
chiedere qualcosa in prestito al v. 896; nella prima beffa è avanzata ai vv. 914 e 916 la richiesta di oggetti da cucina, del
tutto adatta ad un cuoco, mentre nella seconda, ai vv. 922-924, quella di tappeti e tende, che ricordano il compito,
affidato a Geta dalle donne, di portare le coperte nella grotta di Pan; infine, è B stesso a ritenere Sicone l’iniziatore della
beffa, assegnandogli la frase ἐγὼ προάξω πρότερος al v. 910), anche se la distribuzione da lui adottata non mi sembra
affatto economica dal punto di vista paleografico, dato che aggiunge addirittura sei cambi di battuta rispetto al papiro
trascurandone uno in esso presente. La soluzione più equilibrata mi sembra pertanto quella di Paduano (ampiamente
motivata dallo studioso nel commento, 377-378 n. 96), che lascia al cuoco la priorità modificando soltanto in minima
parte le indicazioni del papiro (ossia al v. 906, che ho appena citato, e al v. 909, in cui vengono aggiunti due cambi di
battuta, rispettivamente a favore di Geta dopo ἰδού e di Sicone dopo la frase νῦν ὁ καιρός).
98
106
Come nella conversazione reale, anche nei dialoghi della commedia i vocativi possono ma
non devono necessariamente comparire in un turno che seleziona in modo esplicito il parlante
successivo. Generalmente, del vocativo viene fatto un uso particolarmente economico, che ne
restringe l’impiego ai momenti in cui esso appare funzionale alle esigenze comunicative attribuite ai
personaggi della finzione. Ciò è stato da me già messo in evidenza a proposito delle aperture di
conversazione99, ma risulta vero anche per i successivi momenti di uno scambio verbale: ho notato
ad esempio come essi – ed in particolare quello del nome di persona dell’interlocutore quando è
noto – vengano usati con singolare frequenza, come nella conversazione reale odierna e nella prosa
greca, in turni in cui si cerca di realizzare con l’interlocutore una speciale complicità o di
enfatizzare quanto si sta dicendo100. In generale, perciò, i vocativi non si rivelano (neanche nelle
conversazioni ‘a tre’) soltanto funzionali a rendere chiara la selezione dell’interlocutore come
parlante del turno successivo, al pari di altri indicatori come frasi che rendano esplicito il valore e lo
scopo dell’atto compiuto101 (come εἰπέ µοι, che accompagna spesso atti di domanda, la quale nella
maggior parte dei casi compare in frasi inequivocabilmente interrogative, come ad esempio nei
passi d9 al v. 466, d10 al v. 510 e d11 al v. 553).
Interessanti sono i casi in cui uno dei partecipanti all’interazione, dopo essere stato
selezionato dal partner come parlante per completare una coppia di adiacenza, prende la parola non
fornendo il complemento richiesto oppure resta silenzioso. Il primo tipo di violazione si trova ad
esempio in d7 allorché lo schiavo Geta prende la parola dopo una domanda di Sicone soltanto per
rifiutarsi di rispondere intimando all’interlocutore di non essere infastidito (ἄνθρωπε, µή µε κόπτε,
v. 410). Di esso si rende responsabile ripetutamente Cnemone nei dialoghi precedenti all’incidente:
il vecchio infatti non fornisce quasi mai una replica adeguata all’interlocutore. Ciò accade ad
esempio nel dialogo d9, in cui, alla richiesta di Geta di ricevere in prestito un paiolino (vv. 470472), egli non dà una risposta pertinente ma reagisce, come sempre, pronunciando un turno avente
valore di rimprovero e di minaccia (µαστιγία, / θύειν µε βοῦς οἴει ποεῖν τε ταὔθ’ ἅπερ / ὑµεῖς
ποεῖτε;, vv. 473-475). Similmente Cnemone si comporta in d10 con Sicone: dopo avere una prima
volta risposto negativamente ad una sua richiesta (vv. 505-508), ad una nuova coppia aperta dal
99
Cfr. supra, 70-72. Una singolare eccezione a questa tendenza è costituita nella commedia dalla costante presenza dei
vocativi (soprattutto quelli dei nomi proprii) ad inizio di scena o di atto, in particolare per personaggi che compaiono
per la prima volta e non sono stati presentati in precedenza dalle parole di altri (si pensi a d1 e a d5, in cui i vocativi dei
primi turni hanno anche la funzione di far conoscere al pubblico i nomi dei personaggi appena entrati in scena).
100
Per la prosa greca Dickey 1996, 194 osserva che all’interno di un dialogo “as well as being used to mark a change of
interlocutors, addresses are used to set off key points in the dialogue, such as the climax of an argument or a moment of
emotional intensity”. Per quanto riguarda in particolare i vocativi del nome proprio, il commediografo appare tra i poeti
quello più vicino ai prosatori per la frequenza del loro uso, che ammonta nelle sue commedie al 40% del totale dei
vocativi impiegati a fronte di una media del 64% riscontrata presso di loro (i dati sono ancora di Dickey 1996, 46-50).
101
Sono, nella terminologia degli speech acts, rispettivamente le cosiddette “frasi illocutorie” (del tipo ἐρωτῶ, ἱκετεύω,
ecc.) e “perlocutorie” (come appunto εἰπέ µοι, φράσον, ecc.), da alcuni riunite tutte nella categoria di “frase illocutoria”
(cfr. ad esempio Shalev 2001, 535-537).
107
cuoco (stavolta di tipo domanda/risposta) replica con le domande-rimprovero οὐκ ἐγὼ ’λεγον; / ἔτι
µοι λαλήσεις; (vv. 511-512).
Esempi del secondo tipo di violazione si trovano più volte, ancora ad opera di Cnemone, in
d25, d26 e d27, appartenenti alla scena finale102: trovandosi in una condizione di prostrazione fisica
che gli impedisce di reagire come vorrebbe alle burle di Geta e Sicone, il δύσκολος cerca, a volte
riuscendovi e a volte no, di sottrarsi alla comunicazione con loro evitando di prendere la parola nel
dialogo, per cui dapprima (rispettivamente ai vv. 914-915 e 928-929) non risponde all’importuno di
turno ma si chiede disperatamente chi possa aiutarlo a rialzarsi al fine di scacciarlo (τίς ἄν µε /
στήσειεν ὀρθόν;) e in seguito, quando i due lo hanno ridotto in loro potere, resta silenzioso dopo le
diverse domande con funzione fàtica che gli rivolgono (ad es. ai vv. 941, 944, 949).
I due tipi di violazione indicano dunque in generale mancata disponibilità, da parte di chi è
stato selezionato come parlante successivo, a proseguire l’interazione o a farla procedere nella
direzione intrapresa dall’interlocutore, tranne se dopo il primo elemento di una coppia si verificano
eventi inaspettati che cambiano bruscamente il corso della conversazione (è quanto avviene in d2 al
v. 143, quando ad una domanda di Sostrato Pirria non risponde poiché si accorge che si sta
avvicinando Cnemone e, come si è visto, decide di chiudere bruscamente la conversazione103).
Tuttavia, dall’osservazione dei singoli dialoghi ed in particolare del loro sviluppo successivo a tali
violazioni mi è sembrato di poter desumere che il loro valore comunicativo sia condizionato dallo
status relativo dei parlanti e dal rapporto esistente tra loro. Ad esempio, si può notare come i
comportamenti prodotti in reazione ad un atto di rimprovero o di accusa siano in generale
l’ammissione od il rifiuto degli stessi. Come nella conversazione reale odierna, il proferimento di
atti simili dà in genere origine non soltanto a singole coppie di adiacenza, ma a successioni più
complesse nelle quali dopo la reazione ad un atto di tal genere si attende di solito un’ulteriore
reazione di rifiuto o di accettazione da parte di colui che aveva aperto la prima coppia. Ad esempio,
in d2 si assiste alla seguente successione (vv. 138-140):
T1= Dopo l’uscita di Cherea Sostrato investe Pirria con una maledizione implicante un forte
rimprovero nei suoi confronti (κακὸν δὲ σὲ / κακῶς ἅπ]αντες ἀπολέσειαν οἱ θεοί, / µαστιγία]).
T2= Lo schiavo cerca di difendersi chiedendo al padrone che cosa gli abbia fatto di male (τί
δ’] ἠδίκηκα, Σώστρατε;). Apre dunque una coppia-inserto domanda/risposta.
102
In precedenza Cnemone preferisce il primo tipo di violazione, anche se talvolta si rende responsabile del secondo,
come ad esempio ancora nella chiusura di d9, già esaminata supra, 89-90, in cui evita di replicare in qualche modo al
saluto di Geta soltanto perché questi si sta allontanando spontaneamente.
103
Il passo è stato esaminato supra, 85.
108
T3= Sostrato risponde alla domanda con un’affermazione in cui dà per certo (κακῶς ἐπό]εις
τὸ χωρίον τι δηλαδή104) che Pirria abbia combinato qualche pasticcio nel podere di Cnemone (se le
ricostruzioni della prima parte del verso, cancellata da una lacuna, sono varie, il suo contenuto può
dirsi ovvio anche in considerazione della reazione di Pirria nel turno seguente). Egli rende esplicita
dunque l’accusa rivolta allo schiavo.
T4= Nonostante la perdita della prima parte del verso, si può facilmente desumere da quanto
rimane che in questa battuta Pirria replicava negando di avere rubato (οὐ µὰ ∆ί’] ἔκλεπτον), dunque
completando la coppia accusa/negazione aperta dal padroncino.
T5= Sostrato riprende la parola chiedendo a Pirria se qualcuno abbia tentato di picchiarlo
senza che egli gli abbia precedentemente recato torto (ἀλλ’ ἐµαστίγου σέ τις / οὐδὲν ἀδικοῦντα;).
Alla domanda non si avrà, come ho specificato in precedenza a proposito dello stesso passo,
una risposta a causa del subitaneo apparire di Cnemone. Tuttavia si è vista la complessità delle
successioni di turni originate da un atto di rimprovero.
Nel passo d21 (ai vv. 784-790) si osserva un andamento simile:
T1= Proseguendo un confronto verbale cominciato fuori scena, Sostrato pronuncia nei
confronti del padre un’affermazione esprimente critica per un comportamento precedente da lui
tenuto (οὐχ ὡς ἐβουλόµην ἅπαντά µοι, πάτερ, / οὐδ’ ὡς προσεδόκων γίνεται παρὰ σοῦ)105.
T2= Callippide prende la parola esprimendo sorpresa per quanto affermato dal figlio e
precisando subito dopo di avere acconsentito al suo matrimonio dapprima con una domanda
‘retorica’ e in seguito con una frase affermativa di conferma dell’interrogativa, la quale risulta
molto forte non soltanto per l’anafora di καί ma anche per l’uso dei due verbi βούλοµαι e φηµί a
reggere l’infinitiva indicante il consenso espresso nei confronti del figlio (τί δέ; / οὐ συγκεχώρηχ’;
ἧς ἐρᾶις σε λαµβάνειν / καὶ βούλοµαι καί φηµι δεῖν).
T3= Dopo avere ascoltato suo padre Sostrato riprende la parola negando valore a quanto da
lui appena affermato e dunque riaffermando l’accusa (οὔ µοι δοκεῖς).
T4= Callippide afferma nuovamente con forza la sincerità della sua opinione (νὴ τοὺς θεοὺς
ἔγωγε), aggiungendo, nello stesso periodo, di essere convinto poiché riconosce che per un giovane
il matrimonio è sicuro se vi viene indotto dall’amore. Egli rifiuta pertanto nuovamente l’accusa.
Dopo questo turno Sostrato giungerà al nodo della discussione con il padre chiedendogli
perché sia contrario a dare la figlia in sposa a Gorgia. I turni analizzati attestano come anche in un
rapporto molto diverso da quello tra i partner di d2 la reazione ad un rimprovero sia la stessa.
104
Se le ricostruzioni della prima parte del verso, cancellata da una lacuna, sono varie, il suo contenuto può dirsi ovvio
anche in considerazione della reazione di Pirria nel turno seguente (cfr. Handley ad vv. 139-150).
105
Ai versi immediatamente successivi si scoprirà che la questione che divide padre e figlio è quella del matrimonio di
Gorgia con la figlia di Callippide, proposto da Sostrato e rigettato da Callippide.
109
Tuttavia, in due casi questo non avviene: in d8 (ai vv. 436-437) la madre di Sostrato, pur
prendendo la parola dopo che lo schiavo Geta le si è rivolto con un atto di critica per il ritardo con
cui essa e le altre donne di casa sono arrivate alla grotta di Pan, non si cura di chiudere la coppia,
ma ne apre una nuova di tipo domanda/risposta che verrà immediatamente completata dallo
schiavo106. In tal caso il mancato completamento di una coppia da parte della parlante cui spettava
farlo non desta stupore o rincrescimento in colui che ha aperto la coppia, il quale collabora al
proseguimento dell’interazione nel senso da lei indicato senza protestare. Più tardi, nel finale di
d11107, si assiste ad uno sviluppo analogo: lo schiavo Geta reagisce con disappunto all’idea appena
comunicatagli da Sostrato di invitare altre persone al banchetto, che metterà in forse il suo pranzo.
Le prime frasi che pronuncia sono interrogative con valore di rimprovero (τί φήις; ἐπ’ ἄριστόν τινας
παραλαµβάνειν / µέλλεις πορευθείς;, vv. 563-564), mentre poi il turno prosegue con una lunga
lamentela sarcastica conclusa dall’invito iperbolico a radunare tutti e dalla previsione di non
ricevere un bel nulla da mangiare (sino al v. 569). Al turno dello schiavo l’interlocutore non fa altro
che rispondere con una breve e generica frase di rassicurazione che in realtà si riferisce alla propria
situazione e non a quella lamentata dallo schiavo (καλῶς / ἔσται, Γέτα, τὸ τήµερον, vv. 570-571)108
prima di uscire di scena senza badare ad eventuali reazioni dell’interlocutore (che comunque
mancano): non molto diversamente da sua madre, Sostrato non si sente in alcun modo attaccato
dall’atto dello schiavo, cui evidentemente non attribuisce grande importanza. Gli esempi citati mi
inducono a pensare che la rilevanza condizionale che caratterizza normalmente le coppie di
adiacenza non sia sempre presente nel dialogo della commedia: in particolare i liberi si sentono da
essa meno vincolati quando interagiscono con i loro schiavi.
È possibile inoltre notare come nel parlare con i padroni gli schiavi non abbiano piena
libertà di espressione: anzitutto, è degno di nota che nella maggioranza dei casi a questi ultimi
106
Seguendo una proposta di Ritchie (in A.A. V.V. 1959, 6), la maggioranza degli studiosi ritiene che B abbia
erroneamente mancato di segnalare l’ingresso della madre di Sostrato, la quale pronuncerebbe le battute ai vv. 430-431
(assegnati da B a Geta) e ai vv. 432-434, dialogando poi con Geta fino al v. 441, quando entrerebbe con lo schiavo, la
figlia Plangone e la flautista Partenide nella grotta di Pan per celebrare il sacrificio (per la discussione del problema cfr.
G-S ad vv. 430-441, 200-203). La presenza, nella stessa scena, di Cnemone che si accorge del corteo e lo guarda entrare
esprimendo ‘a parte’ la sua rabbia per il suo arrivo complica inoltre la distribuzione degli interventi, susseguentisi in B
senza la specificazione dell’identità dei parlanti. Nessuna soluzione finora proposta a riguardo può dirsi certa, ma la
distribuzione adottata da Sandbach ai vv. 434-436 e 438-441 non mi sembra del tutto convincente. Nei primi non vedo
la necessità di spezzare, contro le indicazioni del papiro, la battuta di Geta che comincia al v. 434 in due parti separate
da un’esclamazione di disgusto che sarebbe pronunciata da Cnemone (v. 435). La frase può appartenere infatti ancora a
Geta, che si lamenta del ritardo delle donne. A proposito del secondo gruppo di versi, invece, ritengo più verosimile
l’attribuzione scelta da Jacques, il quale assegna allo schiavo il v. 438 fino a γάρ e alla padrona la parte finale dello
stesso (l’esclamazione τάλαν, usata soltanto da personaggi femminili) e i versi restanti fino a tutto il 441 (anche la
domanda di uscita della compagnia, ποῖ κέχηνας, ἐµβρόντητε σύ; non è forse del tutto inadatta alla madre di Sostrato, se
la si considera il culmine di una climax di sollecitazioni che rivolge nel corso dell’intera scena alla propria figlia:
espressioni forti in bocca ad una padrona di casa spazientita si trovano ad esempio anche in Peric. 129-133).
107
Esso corrisponde alla chiusura di conversazione indicata come c15.
108
“Sostratos is probably as deaf to Getas’ forebodings as Getas is unconcerned about Sostratos’ love-affair; his
presentiment concerns himself, not Getas’ meal” (G-S ad v. 570).
110
spetta completare coppie di adiacenza aperte dai primi (ciò che fanno sempre in modo pertinente,
salvo che in casi particolari)109; inoltre, le coppie aperte dagli schiavi nei confronti dei padroni sono
soprattutto di offerta, invito, consiglio, ecc., ossia miranti ad assicurare loro un vantaggio. Ciò si
può notare appunto nei passi d2, d5, d8 e d11 (nonostante la relativa libertà di Geta nell’esprimere
lamentele110). I dialoghi tra schiavo e libero che si discostano da questo modo di procedere lo fanno
per ragioni precise e facilmente individuabili: l’impazienza mostrata da Simiche nel rivolgersi a
Gorgia e chiedere il suo aiuto in d16 è dovuta alla situazione di grave urgenza in cui il dialogo ha
luogo, mentre la sfacciataggine di Sicone e di Geta nel rivolgersi a Cnemone durante la beffa (in
d25, d26 e d27) deriva dalla precisa intenzione dei due di violare ogni regola sociale per fare
dispetto al vecchio. Quando hanno a che fare con i loro pari, gli schiavi e gli esponenti del personale
di servizio111 sono invece del tutto diretti e non conoscono restrizioni nel parlare.
L’autoselezione del parlante alla fine di un turno pronunciato da altri (regola 1 o 2b) conosce
un’applicazione piuttosto varia ma meno frequente della selezione altrui.
In diversi casi l’autoselezione dà luogo ai cosiddetti segnali di sostegno. Questi tipi di
battuta riescono all’interno della commedia a segnalare lo stato d’animo dell’ascoltatore ed il suo
grado di attenzione e di interesse per quanto detto dall’interlocutore o per la conversazione in
generale. Nel passo d7 Sicone ne pronuncia in continuazione durante il racconto di Geta relativo al
sogno della madre di Sostrato (vv. 412-417): il suo carattere curioso e ciarliero fa infatti in modo
che egli non riesca ad ascoltare in silenzio la narrazione dello schiavo ma che pronunci nel giro di
pochi versi numerose battute le quali commentano ciò che viene detto (κοµψῶι νεανίσκωι γε riferito
all’appena nominato Sostrato, Ἄπολλον e ἄτοπον a proposito del contenuto del sogno) anticipano
con domande quanto sta per essere detto (τί ποιεῖν; pronunciato nel mezzo di una frase di Geta per
indurlo a completarla), chiedono chiarimenti (τουτονὶ λέγεις; per sapere se il Pan di cui si parla sia
quello del santuario di File). È ovvio che turni del genere costituiscono elementi di disturbo durante
la produzione di un turno, poiché appesantiscono la narrazione. Nondimeno, non deve stupire il
fatto che vengano tollerati senza proteste, in quanto non dovuti a tentativi dell’interlocutore di
sottrarre la parola impedendo di portare a termine il turno o il racconto112, ma al contrario al suo
109
Il caso di d12, in cui la schiava Simiche apre diverse coppie nei confronti di Cnemone (vv. 590, 591 e 594)
rappresenta soltanto in apparenza un’eccezione: si tratta infatti di coppie-inserto finalizzate a differire l’esecuzione
dell’ordine di rientrare in casa che il padrone le ha rivolto, per paura che questi realizzi le minacce rivoltele.
110
In accordo con il suo status di Obersklave (Krieter-Spiro 1997, 14-20 usa questo termine a proposito degli schiavi
che ricevono le mansioni più delicate ma hanno anche maggiore voce in capitolo nei confronti dei padroni), Geta appare
infatti particolarmente incline a lamentarsi dei comportamenti degli altri (lo fa ad esempio anche ai vv. 410 e 412, 434436, 546-551).
111
Per questa categoria, comprendente schiavi, cuochi ed etere, rinvio a Krieter-Spiro 1997, 11, che li definisce come i
personaggi “die unselbständig in einem Haushalt arbeiten und deren Dienst eindeutig in einer bestimmten Form geregelt
ist, sei es durch das Verhältnis zwischen Sklave und Herr, Miete, ein Engagement auf Vertragsbasis oder durch einen
Freilassungsvertrag”.
112
Su questo secondo tipo di interruzione cfr. infra, 116.
111
interesse nei confronti dei fatti narrati. Menandro riesce ad utilizzare a fini drammatici anche i turni
di questo tipo, sfruttandoli per vivacizzare resoconti di una certa lunghezza e sezionarli
facilitandone l’ascolto da parte del pubblico, ma anche per caratterizzare i suoi personaggi (come
appunto il cuoco περίεργος).
Particolarmente interessante risulta l’autoselezione quando serve a completare una catena
d’azioni. Essa viene impiegata da Menandro in modo estremamente sottile per dipingere la
relazione esistente tra i partner di un determinato scambio verbale. In d1, ad esempio, la presenza o
il mancato completamento di catene d’azioni costituisce a mio parere l’espediente principale per
evidenziare i problemi esistenti nella relazione tra Cherea e Sostrato, problemi avvertiti in modo
sempre più chiaro nel corso del dialogo da ciascuno di loro ma mai rivelati e discussi apertamente.
In particolare, si nota che mentre nei primi momenti i due tentano di venirsi incontro
reciprocamente esprimendo accordo e comprensione l’uno per l’altro – Cherea dichiarando di non
mettere in dubbio le sofferenze dell’amico innamorato al v. 55 con l’affermazione ἀλλ’ οὐκ ἀπιστῶ,
Sostrato plaudendo falsamente alle parole dell’altro al v. 68 (καὶ µάλ’ εὖ) ma dichiarando tra sé e sé
che esse non gli piacciono affatto – in seguito affidano invece al silenzio l’espressione di disaccordo
e di delusione per i comportamenti dell’interlocutore, non completando catene d’azioni in momenti
in cui se ne avverte il bisogno e se ne presenta la possibilità – Cherea non convenendo con Sostrato
sulle osservazioni che questi fa per giustificare in qualche modo l’errore di aver mandato Pirria dal
padre della ragazza (dopo il v. 77) e Sostrato, dal canto suo, evitando di continuare a lodare le
opinioni e i giudizi dell’amico e chiudendosi in un ‘eloquente’ mutismo che dura sino alla fine del
loro incontro113.
La frequenza dell’autoselezione nel corso di un dialogo è anche indicativa del rapporto
esistente tra i personaggi e della loro posizione reciproca all’interno dello scambio verbale. Nei
dialoghi tra padrone e schiavo il primo è generalmente il più attivo, autoselezionandosi in quasi tutti
i turni. Nei dialoghi tra liberi ad autoselezionarsi il maggior numero di volte è colui che risulta più
interessato alla conversazione: in d21, ad esempio, dei protagonisti del dialogo Sostrato e
Callippide a prendere la parola più volte autonomamente è soprattutto il primo, interessato a
proseguire lo scambio per convincere il padre ad acconsentire al fidanzamento della figlia con
Gorgia (lo fa infatti ai vv. 784, 787, 791, 797); similmente in d17 si osserva che Gorgia si
autoseleziona per la maggior parte delle volte al fine di convincere Cnemone a rinunciare alla sua
solitudine (prende la parola ai vv. 691, 692, 694).
Nella conversazione reale quotidiana l’autoselezione succede spesso ai momenti di silenzio
più o meno brevi che occorrono a causa della mancata attribuzione della parola nel turno
113
Sui silenzi di Sostrato nel finale del dialogo con Cherea cfr. supra, 89.
112
precedente. Dei silenzi denominati nell’analisi conversazionale “vuoti” e “indugi” non si ravvisano
nel Dyscolos che poche tracce. Se si può notare, in turni lunghi in cui si succedono diverse unità,
l’assenza di un intervento dell’interlocutore che sarebbe stato utile a completare catene di azioni, è
difficile invece ravvisare attraverso il testo un momento di silenzio dovuto alla mancata presa della
parola da parte di tutti i partner di conversazione: come ho già spiegato, il testo drammatico privo di
didascalie nel senso moderno del termine non poteva facilmente raffigurare simili sfumature
conversazionali114. Altro è la temporanea sospensione di un dialogo dovuta all’improvviso
determinarsi di una situazione (ad esempio l’ingresso di un nuovo personaggio) che i parlanti si
fermano ad osservare (ciò che avviene ad esempio ai vv. 259-268 quando Gorgia e Davo si fermano
per un po’ ad osservare Sostrato mentre avanza verso casa di Cnemone).
Dei problemi nella determinazione della ripetuta autoselezione del parlante del momento
dopo un PRT (regola 1c) si è già parlato. Ciò che si può affermare è tutt’al più che la sua totale
assenza può rivelare caratteristiche della natura e degli scopi di un determinato dialogo: non può
dirsi per esempio un caso che essa non compaia mai in dialoghi come d4, che è finalizzato
all’azione e si svolge tra un giovane ed una fanciulla sconosciuti in una situazione di forte
concitazione.
La sua presenza o assenza certa può comunque fornire informazioni circa l’atteggiamento di
un personaggio nel dialogo nei riguardi dell’interlocutore e del tema di conversazione. E’ ovvio ad
esempio che vistose differenze nella sua applicazione tra i partecipanti ad uno stesso dialogo o
anche in diversi dialoghi raffiguranti la stessa situazione indicano diversità di atteggiamenti al suo
interno. Il caso del passo d15 risulta a tal proposito particolarmente significativo. Dopo aver saputo
dalla schiava Simiche che Cnemone è caduto nel pozzo (v. 625), non solo non assume alcuna
iniziativa se non quella di chiedere le modalità in cui l’incidente si è verificato (πῶς;, v. 625), ma
immediatamente dopo prende la parola per commentare la situazione: dapprima riflette sul fatto che
si tratta del vecchio scorbutico con cui ha avuto a che fare115, quindi esprime una cinica
soddisfazione per l’accaduto e in una terza unità di turno si felicita addirittura con la vecchia
consigliandole di completare l’opera. È chiaro che la sua battuta si compone di diverse unità che
sorgono spontaneamente l’una dall’altra evidenziando dunque come il cuoco non risparmi le parole
per indulgere al pettegolezzo e alla chiacchiera maligna anche in situazioni in cui essi risultano
particolarmente inopportuni. Diversamente si comporterà Gorgia posto nella stessa situazione nel
dialogo successivo (d16): dopo essere stato informato dalla schiava dell’incidente, chiama in aiuto
Sostrato e si precipita immediatamente in casa di Cnemone (vv. 637-638).
114
Cfr. supra, 61.
La domanda che pronuncia ai vv. 628-629 (οὐ γὰρ ὁ χαλεπὸς γέρων σφόδρα / οὗτος;) “while admitting of an answer,
does not require one”, come affermano G-S ad vv. 628-629.
115
113
Come nella conversazione reale odierna, un racconto od una spiegazione possono essere
preceduti da frasi che anticipano o richiedono all’interlocutore una sospensione del turn-taking.
Qualcosa di simile avviene ad esempio nel discorso di Gorgia in d6 (vv. 271-287): esso viene infatti
preannunciato nel turno precedente da Gorgia, che chiede appunto a Sostrato di ascoltare un suo
λόγος σπουδαιότερος, che non ammetterà dunque il passaggio di parola per tutto il corso della sua
durata. Un’altra variante del fenomeno è presente in d27 a proposito della narrazione del simposio
effettuata da Sicone ai vv. 935-953: i due momenti in cui viene suddivisa, contenuti in due diversi
turni, sono preceduti da frasi imperative con cui il parlante invita (o meglio obbliga) il destinatario
Cnemone ad ascoltare tutto per filo e per segno (ἄκουε δ’ ἑξῆς πάντα al v. 935 e πρόσ[εχε] καὶ τὰ
λοιπά al v. 942). È chiaro comunque che in questo caso l’introduzione non motivata dall’intenzione
di sospendere la successione dei turni ma dal desiderio di far infuriare Cnemone predicendogli il
tipo di punizione che viene costretto a subire.
2.1.3.2.3.2 Struttura dei turni di conversazione
Al pari della conversazione reale i dialoghi di questa commedia sono caratterizzati da una
composizione varia dei turni, i quali possono essere di durata minima, comprendendo una o poche
parole, oppure estendersi per numerosi versi grazie alla presenza di unità di una certa lunghezza o di
diverse unità. Estremamente numerosi sono i turni contenenti enunciati che un’analisi sintattica
definirebbe ellittici, in quanto mancanti di parti del discorso richieste dalla costruzione
grammaticale: essi riflettono talvolta modi di esprimersi tipici del parlare quotidiano soprattutto in
situazioni di forte emotività oppure devono la loro caratteristica ad uno stretto legame con
l’enunciato precedente, che si limitano a completare sottintendendone le parti già espresse: ad
esempio in d7 alla domanda τίς εἶδεν; di Sicone, Geta risponde semplicemente ἡ κεκτηµένη (v.
411)116. Lo stretto legame anche sintattico tra enunciati di diversi turni contribuisce alla coesione
del testo costituito dal dialogo, conferendo chiarezza al suo sviluppo soprattutto quando questo è
particolarmente rapido. Quanto alla struttura dei singoli turni, essa si presenta piuttosto varia. Di
solito, comunque essi presentano segnali piuttosto chiari della loro articolazione interna e del nesso
che li lega l’uno all’altro, tra i quali si possono citare ad esempio la ripetizione di termini o intere
frasi appena pronunciate dall’interlocutore (soprattutto in domande di forma ICTS o in affermazioni
finalizzate ad assentire), l’uso di congiunzioni, avverbi o particelle che si connettono ai turni
precedenti (si pensi, al γάρ presente all’inizio di turni in cui si intende esprimere assenso o dissenso
rispetto a quanto appena detto dall’interlocutore indicandone soltanto le motivazioni, di cui si ha un
116
Questa così breve e precisa risposta segnala anche la riluttanza di Geta a raccontare oltre, dovuta alla stanchezza del
viaggio affrontato (cfr. vv. 402-404, 410 e 412).
114
esempio al v. 751, oppure ai diversi usi di γε per rafforzare quanto detto nel turno precedente
aggiungendovi nuovi elementi, ecc.117) o legano le diverse unità di uno stesso turno (come µέν e
δέ), frasi che lasciano prevedere la continuazione del turno (si pensi alla domanda-eco di tipo ICTS
τί γάρ;, che di solito apre turni di replica a domande dell’interlocutore occupando l’ultimo mezzo
metron del verso e precedendo la risposta vera e propria, come accade ad es. al v. 636, ma anche
agli inviti ad ascoltare di cui si sono già visti esempi, o ancora ai pronomi neutri prolettici di frasi
successive, ecc.).
2.1.3.2.3.3 Interruzioni, sovrapposizioni, riparazioni, ripetizioni
L’interruzione è la violazione più ricorrente nei dialoghi del Dyscolos. Essa è quasi sempre
determinata dall’intenzione di chi la compie di bloccare il turno in corso di proferimento perché non
si sopporta che l’interlocutore continui a parlare oppure per esprimere con una certa forza il proprio
disaccordo con quanto questi sta dicendo.
Ad esempio, è chiaro che essa costituisce uno dei mezzi, anche se non quello principale118,
utilizzati da Cnemone per bloccare gli interventi altrui e con essi la conversazione. Passi in cui se ne
ravvisa la presenza sono infatti ad esempio d10, in cui al v. 504 il vecchio interrompe con una
domanda avente valore di rimprovero e minaccia (καὶ λαλεῖς ἔτι;) una maledizione che sta
indirizzandogli Sicone dopo essere stato da lui sferzato (ὁ Ποσειδῶν σε—) o ancora d19, in cui al v.
751 il vecchio tenta di interrompere Gorgia mentre insiste per fargli incontrare Sostrato. L’occorrere
di questo comportamento interattivo di Cnemone tanto prima quanto dopo l’incidente costituisce
senz’altro una spia del fatto che questa esperienza non ha prodotto in lui un totale mutamento di
carattere.
Un esempio di interruzione dovuta a disaccordo è raffigurato al v. 872 (passo d22) quando
Sostrato cerca di fare piazza pulita della timidezza che Gorgia gli sta confidando troncando
bruscamente il suo turno con un rimprovero. Anche se dunque un po’ aggressivo, il comportamento
di Sostrato è stato adottato da lui a fin di bene, per fare in modo che l’amico vinca finalmente le
titubanze che lo caratterizzano nell’avere a che fare con quella che sta per diventare la sua stessa
famiglia.
117
Per quest’uso dialogico della particella γάρ cfr. Denniston, 73-75 e Provolo 1960/1961, 217-218. Per gli usi di γε cfr.
Denniston, 130-138 e Provolo 1960/1961, 193-196.
118
Il fatto che l’interruzione, al contrario di quanto ci si sarebbe attesi, sia in fin dei conti poco utilizzata da Cnemone
scaturisce ovviamente dalla necessità del drammaturgo di far comunque svolgere il dialogo attraverso turni
comprensibili di ambedue i parlanti. Di questo aspetto parlerò a proposito dei comportamenti pragmatici di Cnemone
infra, 241-246.
115
L’interruzione involontaria, dovuta a trascuratezza delle regole della conversazione, occorre
invece una sola volta ad opera di uno schiavo: è infatti Davo che in d6 (vv. 300-301) interrompe un
turno di Sostrato con una battuta nella quale si complimenta con il padrone per l’effetto che il suo
discorso ha avuto sull’interlocutore, reso immediatamente docile e rispettoso. Se non sembra
casuale il fatto che sia uno schiavo ad incorrere in questa gaffe, non lo è probabilmente neanche il
fatto che il suo comportamento venga immediatamente sanzionato da Sostrato con un rimprovero ed
un invito ad ascoltare (καὶ σύ γ’ ὁ λαλῶν, πρ[όσεχε δή119, v. 301).
Ho già spiegato che interruzioni funzionanti come segnali di sostegno non sono riconosciute
come tali, poiché dovute alla volontà di chi le effettua di ascoltare quanto l’interlocutore ha da dire
(e non all’atteggiamento contrario) e non vengono pertanto mai sanzionate120.
Quanto alle auto-interruzioni, nel dialogo si hanno ad esempio in d27 ad opera di Sicone,
che per due volte (ai vv. 941 e 944) interrompe la frase che sta pronunciando, ma non il suo turno,
soltanto per sincerarsi che Cnemone stia ascoltando e accrescere il suo fastidio121.
A proposito della sovrapposizione, va detto che risultava pressoché impossibile per un
drammaturgo antico rappresentarla all’interno del testo della commedia.
Il fenomeno delle riparazioni o correzioni risulta nel Dyscolos non facile da analizzare. In
generale, diversamente da quanto avviene nella conversazione reale, la riparazione non viene mai
usata per risolvere problemi dovuti a cause tecniche (ossia per segnalare di non aver sentito, fornire
la parola corretta all’interlocutore cui al momento sfugge, ecc.). Ciò cui si assiste più
frequentemente è la produzione di domande aventi la forma di iniziatori di correzione del turno
successivo o ICTS (ad esempio τί χρήσιµος; al v. 321 di d6, λεβήτιον; al v. 473 di d9, ecc.)
costituenti nella maggior parte dei casi delle espressioni di critica, degli inviti all’interlocutore a
ripetere o a spiegare quanto appena detto, che non viene condiviso o di cui non si è compreso il
significato, o delle manifestazioni di stupore, evidenziando gli atteggiamenti di un parlante nei
119
Per il testo e l’interpretazione del v. 301 mi uniformo alla maggioranza degli editori (Handley, Jacques, Paduano)
che ritengono la frase di Sostrato un rimprovero rivolto a Davo per la sua intromissione: la lacuna nella parte finale del
verso conterrebbe un imperativo (πρ[όσεχε δή, lezione dovuta a Martin) indirizzato appunto allo schiavo, identificato
come colui che ha parlato (a vanvera) senza curarsi di quanto il giovane si preparava a dire. Sandbach integra invece il
verso col nesso πρ[ὶν µαθεῖν, da collegare a σύ ... ὁ λαλῶν: l’espressione, avente il senso di “tu che parli prima di
sapere”, sarebbe nella sua interpretazione riferita a Gorgia, destinatario della battuta. Il giovane innamorato ignorerebbe
perciò l’intervento di Davo, limitandosi a completare la frase cominciata al v. 299 (cfr. G-S ad loc.). Non esistono a mio
parere argomentazioni decisive per l’una o per l’altra interpretazione, ma si può forse osservare che l’inizio di discorso
ipotizzato da Sandbach non tiene conto del fatto che dopo aver parlato Gorgia non gli ha in alcun modo negato
l’ascolto, ma ha acconsentito dopo il discorso a rispondere ad una sua domanda (vv. 289-293) e successivamente ad una
sua esclamazione di sbigottimento per le accuse ricevute ha temperato in parte l’accusa (vv. 293-298), tenendo dunque
conto dei suoi comportamenti.
120
Cfr. supra, 95.
121
Su queste auto-interruzioni cfr. Ricottilli 1984, 44 e 63-64 (che le definisce “aposiopesi a finalità conativo-fàtica” in
quanto finalizzate a mantenere o rafforzare il contatto) e Casanova 2007, 4, il quale concorda con Ricottilli sulla loro
funzione ma nega, a mio parere giustamente, che costituiscano delle aposiopesi, in quanto prive dell’intenzione di
reticenza. Sull’aposiopesi, cfr. infra, 154, l’analisi conversazionale della Samia, che invece ne presenta numerosi casi.
116
confronti di quello che ha detto l’altro. In generale, le forme e gli usi in cui si presentano gli ICTS
nel Dyscolos appaiono meno varii di quelli rinvenuti nella Samia, cui si rinvia per una rassegna
completa delle loro tipologie122. Sono invece reperibili in questa commedia altre forme di
riparazione effettuata dall’altro parlante (o etero-riparazione), tra cui ad esempio, la sostituzione di
un termine o di un’espressione ritenuti più adeguati rispetto a quelli usati dal parlante del turno
precedente o funzionali a spiegarli: si pensi, in d6, ai vv. 336-338, nei quali, dopo che Gorgia ha
citato le parole con cui Cnemone esprime l’impegno a dare sposa sua figlia ad un uomo a lui simile
per carattere (τότε φησὶν ἐκδώσειν ἐκείνην, ἡνίκ’ ἂν / ὁµότροπον αὑτῶι νυµφίον λάβηι), Sostrato
commenta la sua frase precisando che egli vuol dire con ciò che questo non avverrà mai (λέγεις /
οὐδέποτε). Va infine notato come spesso un atto come l’espressione di disaccordo si manifesti nel
dialogo attraverso le procedure tipiche della riparazione. Particolarmente interessante è a tal
proposito d21 ai vv. 833-835, in cui Gorgia nega validità all’accusa di Sostrato di non ritenersi
degno del matrimonio (οὐκ ἄξιον κρίνεις σεαυτὸν τοῦ γάµου, v. 832) precisando: ἐµαυτὸν εἶναι
κέκρικ’ ἐκείνης ἄξιον, / λαβεῖν δὲ πολλὰ µίκρ’ ἔχοντ’ οὐκ ἄξιον, dunque affermando che Sostrato
ha sbagliato nell’indicare ciò di cui egli si ritiene indegno.
I passi appena citati rendono palese che la riparazione comporta spesso il fenomeno della
ripetizione di parole, espressioni o frasi, che è molto comune all’interno del dialogo menandreo così
come nella conversazione reale123. Con la ripetizione osservata nella conversazione reale quella del
dialogo drammatico condivide non soltanto il carattere pervasivo all’interno della conversazione ma
anche la polivalenza, assumendo funzioni interazionali estremamente varie.
Il Dyscolos fornisce esempi di molti tra i tipi di ripetizione descritti a proposito della
conversazione reale.
La ripetizione effettuata da un parlante all’interno dello stesso turno (auto-ripetizione
intraturno) si trova spesso usata nei dialoghi della commedia. E, se quella di singoli elementi non ha
sempre valore conversazionale, anche perché può essere involontaria o dipendere dal tipo di atti che
si compiono con quel turno, quella invece che si estende ad intere locuzioni o frasi ha spesso la
funzione di rafforzare quanto si sta dicendo. Si pensi ad esempio al passo d15, che comincia (ai vv.
620-621) con un atto di appello e di richiesta di aiuto rivolti ad un interlocutore indefinito in cui si
ripete l’interrogativa τίς ἂν βοηθήσειεν;: nel turno della vecchia la ripetizione è sicuramente
finalizzata a potenziare l’atto compiuto per fare in modo che qualcuno lo accolga al più presto.
Insistenza di un parlante in comportamenti già precedentemente assunti nella stessa occasione di
122
Cfr. infra, 154.
Bazzanella 1999, 205: “Nell’interazione verbale ... la ripetizione ... è estremamente diffusa, tanto che alcuni studiosi
l’hanno considerata caratteristica dell’oralità, o del discorso non pianificato in genere”.
123
117
interazione indica l’auto-ripetizione interturno. Lo sviluppo dei vv. 844-846 in d21 è
particolarmente significativo a tal proposito:
T1= Dopo aver conosciuto l’ammontare della dote assegnata alla propria futura moglie,
Gorgia prende la parola e dichiara di possedere un talento come dote per la propria sorella,
manifestando con questa affermazione l’intenzione di ricambiare il dono ricevuto da Callippide
(ἐγὼ δέ γε / ἔχω τάλαντον προῖκα τῆς ἑτέρας).
T2= Callippide rivolge a Gorgia un’interrogativa esprimente sorpresa per quanto da lui
appena detto (evidentemente il vecchio non era al corrente delle sostanze ereditate da Gorgia),
ripetendo alla seconda persona singolare il verbo da lui utilizzato in riferimento a se stesso nel turno
precedente (ἔχεις;). Che la frase sia un ICTS indicante sorpresa e dubbio piuttosto che una domanda
reale è dimostrato dal fatto che il parlante non attende una risposta dall’interlocutore, ma prosegue
la sua battuta invitandolo a non dare troppo (µὴ δῶις σὺ λίαν).
T3= Gorgia insiste, pronunciando ancora una volta il verbo ἔχω alla prima persona singolare
per informare Callippide del fatto che possiede il podere (ἀλλ’ ἔχω τὸ χωρίον).
Attraverso l’uso dello stesso verbo Gorgia intende tanto confermare l’informazione data nel
turno precedente, accolta con stupore da Callippide (che a sua volta ha usato la ripetizione in una
domanda ICTS), quanto al contempo insistere nell’offerta di una dote per la sorella, tradendo altresì
l’intenzione di posizionarsi alla pari rispetto a Callippide proprio per il fatto di avere (ἔχειν)
anch’egli un patrimonio124.
Gli esempi più comuni di etero-ripetizione sono nella commedia senza dubbio gli ICTS, di
cui ho già trattato.
2.1.3.2.3.4 Organizzazione delle preferenze
Nel dialogo del Dyscolos compaiono molteplici indizi dell’azione dell’organizzazione delle
preferenze sulla struttura dei singoli turni e sul loro succedersi. Nelle coppie di tipo
richiesta/accoglimento o rifiuto della richiesta, che sono tra i più interessanti sotto questo aspetto,
l’organizzazione delle preferenze agisce secondo modalità varie, al pari di quanto avviene nella
conversazione reale odierna. Anzitutto, il proferimento di un atto di richiesta viene caratterizzato
come non preferenziale. Gli esempi più interessanti a riguardo sono secondo me presenti nei
dialoghi aventi come protagonista Sostrato. Quando si rivolge a personaggi liberi non legati a lui da
124
Williams 2001, 141 scrive: “Gorgias fights a weighty battle for self-respect”.
118
parentela (ossia a Cherea nel dialogo d1 e a Gorgia in d6), il giovane formula spesso le proprie
richieste temperandole con atti di cortesia125.
Anche nella produzione del secondo elemento della coppia richiesta/accoglimento o rifiuto è
chiaramente attiva l’organizzazione delle preferenze. Come nella conversazione reale, quando esso
è di accoglimento viene fornito senza difficoltà in maniera esplicita ed è caratterizzato, come tutti i
turni sentiti come preferenziali, da brevità e semplicità formale, mentre se è di rifiuto provoca un
maggiore dispendio di materiale verbale, venendo preceduto dalla spiegazione delle ragioni del
rifiuto, scuse, tentativi di minimizzare il rifiuto, ecc. Interessante a tal proposito è un passaggio in
cui Gorgia rifiuta di accogliere una richiesta di aiuto (vv. 322-325 in d6) da parte di Sostrato. L’atto
non preferenziale viene compiuto non direttamente ed è preceduto da una premessa piuttosto lunga
in cui il giovane contadino chiarisce le proprie intenzioni a Sostrato (quelle – dice – di descrivergli
la situazione reale con cui sta per scontrarsi e non di mandarlo via con scuse inconsistenti) e
menziona il fatto a motivo del quale egli non ritiene di poter essere utile all’amico: il padre della
ragazza è un uomo con cui è impossibile avere a che fare.
Anche sotto questo aspetto il personaggio di Cnemone si distingue da tutti gli altri. Nel
fornire il complemento in genere ritenuto non preferenziale al primo elemento di una coppia, il
vecchio non si mostra in difficoltà: sembra anzi che egli si lasci coinvolgere nel dialogo suo
malgrado proprio a causa dell’ansia di replicare in modo negativo a qualunque atto comunicativo
proferito dall’interlocutore, e che rimanga talvolta intrappolato a causa di questa sua stessa mania:
ciò accade in modo evidente nei dialoghi del III atto con Geta (d9) e Sicone (d10)126.
2.1.3.2.3.5 Introduzione e cambiamento di argomento
Molti dei dialoghi del Dyscolos sono caratterizzati dalla presenza o dalla predominanza di
un unico tema. Negli altri la coerenza argomentale viene nella maggior parte dei casi realizzata
secondo la modalità più diffusa nella conversazione reale: l’argomento appena trattato X viene
collegato a quello che si intende proporre Z riunendo i due sotto una comune proprietà y. Poiché
all’interno dei dialoghi della commedia l’introduzione di un nuovo argomento non avviene
casualmente, risultando al contrario strettamente funzionale allo svolgimento dell’azione e/o alla
caratterizzazione dei personaggi, il poeta comico le conferisce rilievo in scambi verbali che uno dei
personaggi intende dirigere in un determinato senso, in particolare quando lo stesso avverte che
l’interlocutore potrebbe essere di diverso avviso.
125
126
Ne parlerò diffusamente a proposito dei comportamenti pragmatici di Sostrato (infra, 258-sgg.).
Di questa caratteristica del comportamento di Cnemone tratterò infra, 245-246.
119
Ho già mostrato nell’esame delle aperture di conversazione come in d7 ai vv. 404-406
Sicone, che intende conoscere ogni dettaglio sul banchetto che sta per svolgersi, cominci a parlarne
riallacciandosi alla battuta precedente, in cui l’interlocutore Geta si lamentava del pesante carico
datogli dalle donne di casa127. Gli argomenti “carico portato da Geta per il banchetto” e “numero di
persone che parteciperanno al banchetto” sono accomunati dal fatto che entrambi riguardano il
banchetto (il carico è costituito da tutto ciò che occorre per celebrarlo e i partecipanti saranno i
beneficiari di quanto viene lì portato o preparato). In tal modo Menandro caratterizza il cuoco come
impiccione e al tempo stesso introduce l’importante nervatura drammatica del sacrificio in onore di
Pan organizzato dalla madre di Sostrato.
2.1.3.2.3.6 Caratteristiche dei dialoghi raccontati o immaginati
L’esposizione di uno scambio verbale nel Dyscolos comprende soprattutto il racconto di uno
scambio che si suppone avvenuto ad esempio durante gli intermezzi corali tra un atto e il successivo
oppure mentre la scena era occupata da altri avvenimenti o ancora, come accade di solito in apertura
di commedia, in un momento anteriore al lasso di tempo occupato dalla vicenda rappresentata.
Meno frequentemente, riguarda uno scambio verbale che viene pianificato o immaginato da chi lo
presenta senza essere avvenuto.
Durante l’esposizione di una conversazione il parlante può riportare in discorso diretto le
battute che in essa si succedono o riferirvisi mediante oratio obliqua.
La presenza del discorso indiretto è più frequente di quella del discorso diretto. Quest’ultimo
si trova utilizzato nel Dyscolos soltanto in narrazioni di dialoghi cui il personaggio narratore ha
partecipato128. In uno dei due casi presenti di discorso diretto, il ricorso ad esso appare motivato da
esigenze interne alla conversazione nella quale la narrazione di svolge: si tratta del passo dII, in cui
Pirria ha interesse ad esporre l’incontro andato male con Cnemone nel modo più accurato possibile,
al fine di fugare ogni sospetto circa la correttezza del comportamento tenuto durante il suo
svolgimento, e lo stesso Sostrato intende conoscere con precisione i fatti data l’importanza attribuita
all’abboccamento. Nel secondo caso (dV), invece, non si intravvedono particolari motivazioni del
personaggio narratore ad usare l’oratio recta, anche perché la narrazione avviene in monologo,
mentre si può chiaramente comprendere che la citazione diretta del breve scambio con Gorgia in cui
127
Cfr. supra, 75-76 (a5).
Nella Samia invece il discorso diretto è usato anche per conversazioni che sono state soltanto udite dal personaggio
narratore. In altre commedie menandree, infine, anche conversazioni immaginate possono presentare brani di discorso
diretto al loro interno (ad esempio quella che Abrotono pianifica di avere con Carisio ai vv. 511-535 degli
Epitrepontes).
128
120
Sostrato accetta di sospendere il faticoso lavoro della terra accrescesse la vivacità della narrazione
favorendo il divertimento.
Nelle esposizioni svolte in discorso indiretto gli atti verbali dei singoli parlanti non vengono
designati esclusivamente attraverso verba dicendi: al contrario di solito ci si concentra sulle azioni
compresenti a ciascuna battuta pronunciata (ad esempio quella di bussare alla porta durante
l’appello di inizio di conversazione) piuttosto che sulle parole di cui questa si compone, pur
lasciando quasi sempre comprendere piuttosto chiaramente quale tipo di mossa interazionale o di
atto linguistico si compia (si pensi ad es. al passo dI, in cui la risposta di Simiche all’appello viene
indicata attraverso l’azione della vecchia di dirigersi verso Pirria e la sua replica alla richiesta di
Pirria mediante quella di indicargli il luogo in cui il padrone si trova). Nei dialoghi raccontati il
narratore riserva maggiore precisione a quanto ritiene più rilevante per i propri scopi, in quelli
immaginati lo fa con le mosse che prevede vengano compiute o con quelle che si prepara a
compiere egli stesso qualora programmi di prendervi parte, lasciando il resto più sfumato (ciò
avviene ad esempio nei passi dIII, dIV). I momenti iniziali e centrali di una conversazione
(apertura, entrata in argomento e sviluppo dello stesso) vengono in tutti gli esempi descritti in modo
più dettagliato di quelli finali (chiusura).
I verba dicendi (di solito λέγω e φηµί) sono invece i soli ad essere presenti accanto alle
battute di una conversazione riportata in oratio recta, accompagnando regolarmente almeno il
primo turno (i successivi possono essere anche preceduti da pronomi o seguire in maniera
immediata quello precedente). Essi si trovano di solito al presente storico129. Non è tuttavia
necessario che introducano le parole citate (anche quando queste fanno parte del primo turno):
possono infatti anche essere inseriti nel mezzo di un turno o trovarsi dopo la sua conclusione.
Nel racconto o nell’esposizione di una conversazione compare spesso l’avverbio di tempo
εὐθύς (ciò avviene infatti in tutti i passi elencati fatta eccezione per dI). A prima vista può sembrare
che la sua presenza sia casuale, indicando al più come i diversi momenti di un’interazione si
succedano rapidamente, senza interruzioni. Ad una più precisa osservazione possiamo tuttavia
notare come la posizione dell’avverbio risulti, al contrario, essere fissa in ogni esposizione o
narrazione di conversazione: anzitutto, esso introduce la reazione di uno dei parlanti ad un
precedente comportamento verbale dell’interlocutore; inoltre, riflettendo con attenzione su ogni
passo, si nota come la reazione introdotta da εὐθύς sia sempre quella che il parlante ritiene
determinante per il seguito e gli esiti della conversazione (non è un caso, a mio parere, che
129
Nünlist 2002, 237 osserva giustamente che “using a historic present means that a speaker mentally goes back in time
and recounts the events as he experienced them. The effect of the historic present is … vividness (cf. [Longinus] 25),
and its purpose is to highlight the passage, e. g. as being the climax of the entire scene. In Menander’s narratives, the
transition from past tense to historic present regularly coincides with the introduction of quoted speeches, so the two
reinforce each other”.
121
l’avverbio compaia una sola volta in ciascuna interazione riportata)130. Nelle conversazioni narrate
la reazione da esso introdotta è spesso inattesa, sorprendente, in quelle programmate è invece quella
ritenuta più prevedibile o naturale.
Ad esempio, in dII, l’avverbio introduce la brusca e del tutto inopinata replica di Cnemone
(vv. 108-110) alla cortese, quantunque un po’ maldestra, apertura di conversazione di Pirria. Il
vecchio infatti interrompe, se non il turno, la sequenza di apertura cui lo schiavo aveva dato inizio
nel primo turno con gli atti di saluto e pre-annuncio e, dopo averlo apostrofato con un vocativo
offensivo (ἀνόσιε / ἄνθρωπε), gli rivolge due enunciati interrogativi che non hanno in realtà valore
interrogativo ma di rimprovero (εἰς τὸ χωρίον δέ µου / ἥκεις <σύ;> τί µαθών;). Il valore dei due
enunciati è testimoniato dal fatto che non attendono risposta, ma sono seguiti da un atto di
comunicazione non verbale che ha la funzione di rafforzarli: il lancio di una zolla di terra in faccia a
Pirria. La replica di Cnemone alla presa di contatto da parte di Pirria modifica violentemente il
procedere della conversazione: l’affare (πρᾶγµα) anticipato da Pirria al v. 108 non verrà mai
presentato.
Al contrario, in dIII, in cui Gorgia prevede lo scambio verbale che intende avere con
Cnemone sul tema del matrimonio della figlia del vecchio, εὐθύς precede la reazione di Cnemone,
descritta nel discorso indiretto come sicura: il vecchio non esiterà a “scendere in battaglia”
(µαχεῖται) con tutti i possibili aspiranti generi biasimando le vite che conducono (v. 355).
Da quanto osservato, è possibile desumere che nell’esposizione di una conversazione
Menandro rende l’avverbio una marca dell’importanza di quanto il parlante sta presentando
(indipendentemente dal fatto che lo riporti direttamente o in oratio obliqua). Se utilizza εὐθύς con
questa funzione è in virtù del significato stesso della parola, che ha, come aggettivo, soprattutto il
senso di “diritto, diretto”: mi sembra che in questi passi, oltre a sottolineare che una reazione
avviene “subito, immediatamente”, la presenza dell’avverbio indichi che essa è la diretta
conseguenza (o, nella terminologia della speech act theory, l’effetto perlocutorio) degli atti
linguistici o in generale comunicativi che la precedono, dando così rilievo a quello che è il
momento cruciale di un’interazione.
Nei brani in discorso indiretto le regole del turn-taking utilizzate sono riconoscibili
soprattutto nelle narrazioni: in dI, ad esempio, si comprende che le coppie di adiacenza succedutesi
nello scambio tra Pirria e la schiava di Cnemone sono di appello/risposta e richiesta/soddisfazione
della richiesta e che sono state caratterizzate da adiacenza131. Diversamente accade nelle esposizioni
130
Altri esempi di quest’uso dell’avverbio si trovano in diverse commedie (ad es. Sam. 255, Epit. 264, Sic. 203).
A non essere del tutto chiaro nel racconto è invece l’ordine in cui le due coppie si sono succedute: dalle parole di
Pirria sembra risultare che egli subito dopo avere bussato alla porta ha chiesto del padrone di casa, e che la vecchia,
venutagli incontro, gli ha indicato il luogo dove avrebbe potuto trovarlo. Va comunque precisato che la seconda coppia
131
122
di conversazioni immaginarie: in dIII, ad esempio, non si sa come Gorgia tirerà fuori dinanzi a
Cnemone il discorso del matrimonio della sorella (λόγον τιν’ ἐµβαλῶ / περὶ τοῦ] γάµου <τοῦ> τῆς
κόρης ai vv. 352-353 si riferisce soprattutto all’introduzione dell’argomento) né se egli prevede che
Sostrato prenda la parola rivolgendosi al vecchio, di cui si sa per certo soltanto il fatto che non
sopporterà neppure di vedere il giovane cittadino (vv. 356-357). Gorgia presume soltanto che
Cnemone analizzerà e comprenderà quello che egli stesso gli dirà nel primo turno e che replicherà
probabilmente in un turno (la cui natura conversazionale resta incerta: forse era il rifiuto di una
proposta del figliastro di presentargli uno spasimante della fanciulla) di una certa lunghezza,
diffondendosi sui corrotti costumi dei giovani. In dIV invece Davo, che si riferisce alla stessa
conversazione pianificata da Gorgia e Sostrato, pur non precisando le modalità di successione dei
turni presenta in modo chiaro, dandola per certa, la reazione di Cnemone a Sostrato se lo vedrà
ozioso ed elegantemente vestito: lo schiavo lascia capire che Cnemone si mostrerà non
collaborativo, specificando alcune componenti della sua reazione, ossia il lancio delle zolle addosso
all’interlocutore e le offese nei suoi confronti (ταῖς βώλοις βαλεῖ / εὐθύς σ’, ἀποκαλεῖ τ’ ὄλεθρον
ἀργόν132, vv. 365-366). Che Cnemone si renderà responsabile di alcune violazioni di regole
conversazionali (come l’interruzione, ecc.) non viene mostrato in modo del tutto esplicito ma si può
facilmente intuire. Delineando in seguito (vv. 367-370) la seconda ipotesi di approccio da parte di
Sostrato (l’avvicinarsi a Cnemone partecipando attivamente al lavoro dei campi, dunque
spacciandosi per un contadino), lo schiavo gli prospetta invece, sapendo di mentire133, una
possibilità di successo, ma lo fa in modo estremamente generico: mentre infatti ha introdotto la
prima ipotesi con l’avverbio εὐθύς, ha utilizzato l’indicativo futuro, giungendo a citare i probabili
appellativi con cui Sostrato sarebbe stato apostrofato da Cnemone, presenta la seconda con ἄν e
l’ottativo, curandosi di esprimere più volte cautela (εἰ τύχοι, ἴσως) e di rimanere vago (τινὰ / λόγον).
Nelle esposizioni condotte mediante l’impiego del discorso diretto la successione dei turni
pronunciati e il valore degli atti linguistici compiuti all’interno dei dialoghi cui esse si riferiscono
risultano del tutto chiari134. A proposito di dII, oltre a quelli iniziali, di cui ho già trattato sopra,
vengono illustrati con chiarezza anche i successivi: dopo la reazione di Cnemone, Pirria reagiva con
può essere ritenuta una copia della prima, trattandosi della richiesta di vedere la persona che si intende avere come
interlocutrice.
132
Non è sicuro se l’espressione ὄλεθρος ἀργός citata dallo schiavo come insulto che Cnemone indirizzerà a Sostrato
possa costituire un’allocuzione offensiva. Né in Menandro né nella prosa greca da Erodoto a Luciano (cfr. Dickey 1996)
vi è testimonianza di un uso del sostantivo al vocativo, benché nel suo significato lessicale esso si trovi spesso riferito
“spregiativamente” (Montanari, s.v.) a persone (cfr. anche Sam. 348). Non si può tuttavia escluderlo, in ragione del fatto
che i vocativi offensivi utilizzati da Cnemone sono sempre molto rari (si pensi alle espressioni ἀνόσιε ai vv. 108, 469,
595 e τρισάθλιε ἄνθρωπε al v. 466).
133
Cfr. i vv. 371-374, ai quali Davo afferma, probabilmente tra sé e sé, di volere in realtà vedere come Sostrato si spezzi
la schiena lavorando e perda la voglia di disturbare lui e il suo padrone.
134
Le diverse letture del passo dV sono dovute esclusivamente all’assenza di punteggiatura e alla scarsa chiarezza dei
segnali di attribuzione delle battute nel testo di B.
123
una maledizione la quale veniva interrotta dal vecchio (ἀλλά σ’ ὁ Ποσειδῶν—, v. 112)135. Le frasi
pronunciate dai due partecipanti al dialogo sono riportate con tale precisione da lasciar riconoscere,
nei turni di Cnemone, la presenza delle caratteristiche lessicali, sintattiche e pragmatiche del suo
linguaggio136. In dV secondo il testo di Sandbach si ha da parte di Gorgia un’affermazione con
valore di pre-invito a smettere di lavorare (o, nella terminologia degli atti linguistici, di invito
indiretto), cui segue, da parte dell’interlocutore, un turno che prende atto del valore
dell’affermazione e avanza al contempo una proposta derivante dall’accettazione dell’atto
dell’interlocutore (τί οὖν ... ποῶµεν; αὔριον τηρήσοµεν / αὐτόν, τὸ δὲ νῦν ἐῶµεν;, vv. 539-541).
Sostrato non riporta la risposta alle due interrogative che costituivano il turno da lui pronunciato,
ma, affermando che Davo era presente per succedergli nella zappatura, lascia intendere che Gorgia
abbia accolto la proposta ingiungendo allo schiavo di prendere il posto del giovane nel lavoro137.
L’esposizione consente al personaggio che la conduce di far cenno anche ai comportamenti
non verbali tenuti dai personaggi coinvolti in una determinata conversazione, sia che essi abbiano
un valore comunicativo sia che ne siano privi.
A proposito dei brevi e generici cenni all’interagire verbale di cui l’intera commedia è punteggiata, si possono
fare le seguenti osservazioni:
1) i verbi più frequentemente utilizzati nel senso di “parlare a, con qualcuno” sono λαλέω ed i suoi composti
(vv. 9, 144, 334, 726, 781, 883) i quali si trovano costruiti con il dativo della persona indicante il secondo parlante
oppure impiegati in senso assoluto138. È tuttavia ovvio che non sempre essi si riferiscono allo svolgimento di una
conversazione: talvolta indicano semplicemente il tentativo di portarla avanti senza presupporre che l’interlocutore del
personaggio impegnato a parlare sia consenziente (come avviene ad es. al v. 162). Nello stesso senso si può avere anche
διαλέγοµαι, il quale risulta estremamente più raro (v. 267);
2) quando ci si riferisce ad un’occasione di incontro che può anche essere di interazione si trovano spesso
l’aoristo ἰδεῖν (vv. 174, 305) oppure il verbo ἐντυγχάνω, indicante in modo specifico lo svolgimento di un
abboccamento (v. 73);
3) alcuni verbi, come πρόσειµι con dativo di persona (v. 132) e καλέω e i suoi composti (vv. 594, 783, 820),
indicano di frequente azioni che mirano a realizzare uno scambio verbale, cioè rispettivamente il presentarsi a qualcuno
e il chiamarlo. Lievemente differente da questi è il verbo ἐνοχλέω, letteralmente “disturbare”, che ai vv. 458 e 491 si
riferisce al recarsi da sconosciuti per rivolgere loro delle richieste;
4) il comunicare scambiandosi opinioni o consultandosi si trova espresso probabilmente anche dal verbo
συγκοινοῦµαι (v. 49)139;
135
Non credo che questa interruzione sia un’aposiopesi eufemistica dello schiavo. Della questione (e di quella analoga
riferita al v. 504) parlerò infra, 243 n. 12.
136
Sulla citazione di discorsi in oratio recta come tecnica di caratterizzazione cfr. ancora Nünlist 2002, 236-237.
137
Secondo l’attribuzione delle battute del dialogo riportato scelta da Handley, Jacques1 e Paduano, alla domanda di
Sostrato τί οὖν ποῶµεν; segue una risposta immediata di Gorgia (che lo stesso narratore evita di separare dalla domanda
con inserzioni diegetiche), che rende esplicito il valore della frase da lui pronunciata nel primo turno.
138
Sull’uso dispregiativo del verbo λαλέω da parte di Cnemone mi soffermo infra, 310.
139
A causa di una lacuna, la presenza del verbo in chiusura di prologo al v. 49 è molto incerta: se è piuttosto sicuro che
la parola conclusiva del periodo (e dell’intero prologo) indica Sostrato e Cherea (le ultime lettere sembrano infatti
rivelare la presenza, nel testo caduto, dell’accusativo plurale maschile di un participio di forma media), i supplementi
124
5) altri verbi indicano i comportamenti di un solo parlante all’interno di un dialogo o presentano il valore dei
più rilevanti atti linguistici di uno scambio: si pensi ad esempio a λοιδοροῦµαι ai vv. 487 e 623 (indicante gli atti di
rimprovero e insulto), ἱκετεύω al v. 868 (indicante ovviamente l’atto del supplicare), αἰτέω/-έοµαι (per indicare atti di
richiesta) ai vv. 472, 896, ecc.;
6) costituiscono menzioni di momenti specifici di una conversazione l’aoristo προσεῖπον/-α (106, 726, 884) e i
verbi προσαγορεύω (v. 10) e ἀσπάζοµαι (v. 884). Gli ultimi due indicano rispettivamente l’effettuazione (solitamente
attraverso il saluto) della presa di contatto necessaria a dar luogo ad uno scambio verbale ed il saluto finale, il primo
talvolta l’una e talvolta l’altro.
proposti sono numerosi e di questi nessuno appare del tutto convincente (cfr. G-S ad vv. 48-49). Il participio
συγκοινουµένους (= “che comunicano”) è quello che Sandbach inserisce nel testo, ma risulta un po’ troppo lungo
rispetto allo spazio occupato dalla lacuna. Se esso fosse nondimeno corretto, Pan anticiperebbe al pubblico che la
conversazione tra i due giovani ha già avuto inizio (come sarà confermato dalle prime battute della scena successiva),
che ad essa prendono parte entrambi (il che viene specificato da αὑτοῖς, avente valore di pronome reciproco) e che
l’argomento trattato è l’innamoramento di Sostrato.
125
2.2 Analisi della conversazione: la Samia
2.2.1 L’apertura di una conversazione140
2.2.1.1 Elenco delle aperture
Le sigle impiegate in quest’elenco sono le stesse utilizzate per l’analisi conversazionale del
Dyscolos, cui si rinvia141.
Aperture rappresentate in scena
A1) v. 69= At (I), Criside, Moschione, Parmenone
A2) vv. 128-129= At (II), Moschione, Demea
A3*) vv. 168-171= At (II), Demea, Nicerato
A4) vv. 189-191= At (II), Demea, Parmenone
A5) vv. 295-297= At (III), Demea, Parmenone
?A6) v. 358= At (III), cuoco, Parmenone
A7) v. 384= At (III), cuoco, Demea
A8) vv. 407-408= At (III), Nicerato, Criside
A9) vv. 430-433= At (IV), Nicerato, Moschione
A10) vv. 452-453= At (IV), Demea, Moschione
A11) vv. 538-540= At (IV), Moschione, Nicerato, Demea, poi Nicerato, Demea
A12) vv. 556-557= At (IV), Nicerato, Demea
A13) v. 569= At (IV), Demea, Criside
A14) v. 571= At (IV), Demea, Nicerato
A15) vv. 657-658= At (V), Moschione, Parmenone
A16) vv. 691-692= At (V), Moschione, Demea
A17) v. 715= At (V), Demea, Nicerato, poi Moschione
140
Per le caratteristiche del momento dell’apertura nella conversazione reale cfr. supra, 65-66.
I criteri di individuazione delle aperture nella Samia sono ovviamente gli stessi già utilizzati per il Dyscolos, per i quali
cfr. supra, 66-68. Eventuali deroghe od aggiunte a quanto stabilito vengono opportunamente segnalate.
141
Supra, 68.
126
Aperture raccontate o immaginate e accenni ad aperture
AI) V. 118= At (I), i, acc, Demea, Nicerato
AII) Vv. 252-254= At (III), r, orect, nutrice di Moschione, schiava
2.2.1.2 Caratteristiche delle aperture di conversazione
Le aperture di conversazione presenti nella Samia si svolgono in gran parte secondo
modalità a noi già note dall’esame di quelle del Dyscolos.
Nella struttura del primo turno, generalmente destinato alla presa di contatto con
l’interlocutore, l’elemento più frequentemente ricorrente è il vocativo, che compare infatti con
certezza in quattordici delle diciassette aperture prese in esame (compresa l’unica ritenuta incerta in
quanto costituente un tentativo di apertura fallito per l’assenza dell’interlocutore142). Generalmente
ad essere usati al vocativo in apertura di conversazione sono gli stessi termini che i parlanti
utilizzano tra di loro in altri momenti dell’interazione (ad esempio il vocativo πάτερ che Moschione
rivolge a Demea, quello del nome proprio utilizzato scambievolmente da Demea e Nicerato nelle
loro interazioni, ecc.). Vocativi di rispetto si trovano usati, come nel Dyscolos, nei riguardi di
sconosciuti di condizione superiore: è ad esempio il caso del passo A7, in cui il cuoco cerca di
entrare in interazione con Demea per convincerlo a calmarsi indirizzandogli il vocativo βέλτιστε (v.
384).
Il vocativo costituisce da solo il primo turno di un’interazione in quattro luoghi (A4, A5,
?A6, A15) nei quali il parlante intende richiamare l’attenzione di un interlocutore ignaro della sua
presenza o da lui fisicamente distante. In tutti i casi il vocativo è riferito allo schiavo Parmenone,
chiamato col nome proprio (cui si aggiunge talvolta il sostantivo παῖ) oppure con il pronome
οὗτος143.
142
Si tratta del passo ?A6. Tra le aperture ho inserito ad esempio le riprese di conversazione tra Nicerato e Demea ai vv.
538, 556-557 e 571 poiché, anche se ripristinanti un contatto interrotto pochi versi prima, costituiscono comunque
segmenti di comunicazione autonomi, slegati dall’ultimo scambio verbale avvenuto tra gli stessi personaggi. Un caso
simile è rappresentato dall’apertura a17 del Dyscolos, svolta tra Gorgia e Sostrato: alla fine del dialogo precedente,
infatti, Sostrato e Callippide non avevano specificato esplicitamente all’interlocutore Gorgia che l’avrebbero atteso
nello stesso posto per continuare lo scambio, tant’è vero che ad aspettare il rientro di Gorgia con le due donne di casa
sua resta il solo Sostrato dopo che Callippide è entrato nella grotta. Diverso è a mio parere il caso dei dialoghi tra
Demea e Parmenone ai vv. 303-324 e tra Parmenone e Moschione ai vv. 670-681 e 687-695: essi infatti costituiscono la
prosecuzione di uno scambio verbale già cominciato (rispettivamente ai vv. 295 e 657) e soltanto sospeso a causa di un
ordine in esso impartito allo schiavo, la cui esecuzione ha richiesto un suo momentaneo allontanamento.
143
Esempi di appelli realizzati esclusivamente mediante il nome proprio (accompagnato al più dal vocativo παῖ) si
trovano anche nel Dyscolos solo quando ne sono destinatari schiavi (ad es. in a9). Müller 1997, 23-24 nota come in
Terenzio l’apertura realizzata mediante il solo vocativo del nome proprio costituisca “die Mehrzahl der
Gesprächseröffnungen zwischen Herrschaft und Dienerschaft” indicando “überwiegend sozialen Abstand zum Partner”
oppure “ein getrübtes persönliches Verhältnis”.
127
Nelle restanti tipologie di apertura con vocativo nel primo turno, questo figura accanto ad
una o più frasi di tipo affermativo, imperativo od interrogativo funzionali anch’esse a realizzare la
presa di contatto con l’interlocutore oppure introducenti l’argomento di conversazione. La posizione
più frequentemente occupata dal vocativo del primo turno è quella iniziale; nei rari casi in cui il
vocativo occupa una posizione diversa, trovandosi nel mezzo o alla fine dell’enunciato che
accompagna (A1, A2, A11), ciò può spiegarsi con il fatto che chi lo pronuncia si sente già in
interazione con la persona cui lo rivolge (è il caso di A11, in cui Nicerato riprende con Demea un
contatto interrotto pochi versi prima, ritrovandolo lì dove lo aveva lasciato entrando in casa), entra
in conversazione repentinamente (come avviene in A1, in cui Criside si intromette nella
conversazione tra Parmenone e Moschione con un atto di rimprovero), oppure utilizza il vocativo
insieme ad un atto di per sé deputato a realizzare la presa di contatto come il saluto (è quanto
avviene in A2).
Il primo turno di conversazione non conosce restrizioni riguardo ai tipi di frase che possono
comparirvi. Le frasi di forma interrogativa sono sempre domande stupite sulla situazione cui il
parlante sta assistendo (si pensi a παῖ, τί τοῦτο;, che occorre in A16 e A17, rispettivamente ai vv.
691 e 715) o domande aventi valore di rimprovero o di critica (A1 e A10), le imperative esprimono
inviti o comandi (come avviene in A13, raffigurante una situazione di emergenza, e probabilmente
in A7, che sembra funzionare come un invito ad ascoltare quanto il parlante sta per dire144), mentre
le affermative, presenti esclusivamente in riprese di conversazione, rafforzano la presa di contatto
(A11145) oppure costituiscono immediati ingressi in argomento (A12, a proposito del quale non si
può non tenere conto dello stato di tensione e di nervosismo in cui si trova il parlante e del fatto che
egli riprenda una conversazione da poco interrotta146).
Un modo cortese di dare inizio ad uno scambio verbale è nei dialoghi della commedia il
proferimento di saluti, che nel primo turno realizzano la presa di contatto, solitamente insieme al
vocativo, attraverso l’espressione di affetto e/o deferenza nei confronti dell’interlocutore. La Samia
presenta un elevato numero di atti di saluto nei suoi dialoghi, differenziandosi in particolar modo
dal Dyscolos, in cui le formule consuete non compaiono mai in apertura di conversazione147.
144
Sembra da intendere in questo modo l’imperativo ὅρα che il cuoco riesce a rivolgere a Demea al v. 384 prima di
essere da lui interrotto (Lamagna traduce ad esempio la battuta: “Gentile amico, vedi…”), secondo un uso che con lo
stesso verbo non è testimoniato in altri passi menandrei ma si trova ad esempio in Soph. El. 945.
145
Il primo turno di questo passo funziona tutto come atto di appello, poiché Nicerato si limita a dire che sta recandosi
da Demea e provoca la sua domanda τί τὸ πάθος δ’ ἐστίν; (v. 540). Simile è l’apertura presente in Asp. 166-167 (πρός
σ’ ἐγὼ / πάρειµι, ∆ᾶε), dopo la quale si ha una domanda del destinatario costituente un atto di risposta all’appello. Frasi
aventi la stessa funzione sono anche in Ter. An. 580 (ad te ibam) e 533 (o te ipsum quaerebam), Heaut. 844 (te ipsum
quaerebam, Chreme), a proposito delle quali Müller 1997, 24 osserva: “Solche Satzformeln können … auch allein die
Kontakt- und Dialogaufnahme bewirken”.
146
L’interruzione, avvenuta al v. 547, era stata provocata dal repentino rientro in casa di Nicerato, sconvolto dall’aver
visto la figlia allattare il bambino.
147
Cfr. supra, 72.
128
I saluti occupano il primo turno di conversazione nei passi A2 e A9, raffiguranti ambedue
l’incontro tra personaggi liberi (rispettivamente Moschione e Demea e Nicerato e Moschione) che si
vedono per la prima volta dopo molto tempo148, e risultano particolarmente calorosi, dato che tutte e
due le volte alla formula di base, rappresentata dall’imperativo del verbo χαίρω, si unisce un
elemento finalizzato ad accrescerne la forza: nel primo dei due luoghi esso è rappresentato dal
dativo etico µοι, che, mentre in Menandro non ricorre in altre formule di saluto ed in Aristofane lo
fa molto raramente149, si trova invece di frequente in tragedia in saluti di omaggio o di addio a
divinità, persone (come i genitori) e luoghi nei confronti dei quali si nutre particolare
attaccamento150; nel secondo è costituito dal neutro avverbiale πολλά, che in Menandro costituisce
il modo più frequente per esprimere un tono particolarmente affettuoso (quando, ovviamente, non
tradisca una certa ironia) nei confronti del destinatario151. I due turni differiscono riguardo alla
posizione del vocativo del destinatario rispetto alla formula di saluto: nel primo caso, infatti questo
la segue, concludendo il turno, mentre nel secondo la precede. In Menandro l’ordo verborum più
consueto nei saluti iniziali appare essere il primo152, come avviene anche nel dialogo
aristofanesco153 ed in quello euripideo154, ma differentemente da quanto riscontrato nelle interazioni
terenziane155. Non mi sembra tuttavia che il secondo dei due passi della Samia contenga, in ragione
di questa disposizione, sfumature di significato o di tono diverse dal primo se non per il fatto di dare
al vocativo in posizione iniziale una funzione di appello.
Turni iniziali privi di vocativo sono presenti soltanto nei passi A8, A14 e AII il che è in tutti
i casi giustificato dalla particolarità della situazione in cui l’apertura avviene156. Nel passo A8 trova
infatti un’immediata spiegazione nello stupore del parlante Nicerato, il quale, sorpreso dalla vista
della compagna del vicino in lacrime fuori di casa nel giorno delle nozze del figlio di questi, si
affretta a chiederle che cosa sia accaduto (τί ποτε τὸ γεγονός; al v. 407, in cui l’enclitico accresce la
forza dell’atto di domanda). In A14, essa è dovuta alla forte concitazione di Demea mentre si
148
Al v. 128 ha infatti inizio il primo incontro tra Moschione e Demea dopo il ritorno del vecchio e al v. 430 quello tra
lo stesso e Nicerato, che in precedenza (in particolare ai vv. 161-162) il giovane ha fatto in modo di non vedere.
149
In Lys. 1074.
150
Si pensi ad esempio a Soph. OC. 1137, Eur. Alc. 436, Bac. 1379, Hip. 64, 70, 1453, IA. 1509, Tr. 45, 458.
151
Cfr. ad esempio il v. 169 di questa commedia e Dysc. 512 (in cui il saluto è ironico), Georg. 41, Mis. 213.
152
Esso occupa primi turni di conversazione in Dis ex. 103, Georg. 41 e Sic. 379.
153
La sequela χαῖρε/χαίρετε + vocativo si trova ad inizio di interazione ad es. in Ach. 176, Eq. 1333, Lys. 6 e 1108, Nub.
356 e 358, Ran. 184 e 272, Th. 1056, quella opposta (in cui il vocativo è seguito dal verbo), ancora ad inizio di
interazione, in Lys. 1074 (in cui però il saluto è separato dall’appello) e Pl. 788. Meno frequente della prima e più della
seconda è la successione ὦ χαῖρε + vocativo, presente in apertura di dialogo in Ach. 872, Av. 1586, Eq. 1254, Lys. 853 e
1097, Pax 523. In Lys. 78 il verbo è interposto tra i vocativi ὦ φιλτάτη Λάκαινα e Λαµπιτοῖ.
154
Ad inizio di dialogo χαῖρε + vocativo è presente in Alc. 509, El. 553 e 779, Ion 561 e 1324, IT. 646 e 922, vocativo
seguito da χαῖρε in Alc. 511, Andr. 1274, Her. 630, Ion 517, Med. 663, Or. 476, ὦ χαῖρε + vocativo in Hel. 616, Her.
660, Med. 665, Or. 427. In IA. 642 l’imperativo χαῖρε compare nel terzo turno di dialogo senza il vocativo
dell’interlocutore (con il quale si apriva però il primo turno).
155
Müller 1997, 22 nota come in Terenzio salve + vocativo, “als einfachste der regulären Gesprächsaufnahmeformeln”,
occorra molto raramente, a differenza dell’opposta successione.
156
Il passo AII si trova analizzato sotto i dialoghi raccontati (infra, 167).
129
interpone tra Criside e Nicerato che cerca di raggiungerla ponendo al vicino due domande piuttosto
aggressive miranti a bloccarne la corsa (τί βούλει; τίνα διώκεις;, al v. 571).
I secondi turni di conversazione possono essere di forma varia. Come nel Dyscolos157, anche
a proposito della Samia si nota come i vocativi compaiano in essi molto meno frequentemente che
nei primi turni (si trovano infatti soltanto nei passi A2, A10, A14, ai quali si può aggiungere A5
anche se presenta il vocativo nel quarto turno: è infatti questo a contenere la vera risposta
all’appello dopo una coppia-inserto di identificazione dell’altro parlante senza la quale essa non
sarebbe stata possibile) tendendo, per la loro funzione di allocuzioni, a non occupare la prima
posizione nella frase. A determinare la loro natura è di solito quella degli enunciati che compaiono
nei primi turni. Quando il primo turno contiene una domanda reale è ovviamente probabile che nel
secondo verrà prodotta una risposta: ciò accade ad esempio in A16 e in A17, anche se a fornire la
risposta non è l’interlocutore selezionato nel turno precedente, che in entrambi i casi è Moschione:
ambedue le situazioni, vicine nel tempo, mostrano infatti il giovane chiuso in un enigmatico
mutismo. In altri casi potranno trovarsi domande-inserto per mezzo delle quali l’interlocutore
chiede di precisare il contenuto e lo scopo dell’enunciato o degli enunciati del primo turno oppure
tenta di differire o evitare la risposta: è quest’ultimo il caso del passo A10, in cui la domanda di
ritorno (ICTS) con cui Demea replica all’interrogativo del figlio (ποῖα, Μοσχίων; del v. 452, che
risponde alla domanda τί ποιεῖς ταῦτα; dello stesso verso) nasce dall’intenzione di eludere
l’argomento di conversazione da questi propostogli.
All’interno della tipologia di apertura individuata dalla coppia domanda/risposta
un’ambiguità pragmaticamente interessante si registra a proposito del passo A1: in esso Criside, che
sta origliando, non vista, un dialogo tra Parmenone e Moschione, interviene a sanzionare con una
domanda-rimprovero (τί βοᾶις, δύσµορε; al v. 69) le urla di biasimo rivolte dallo schiavo al
padroncino. La differenza tra la forma della domanda ed il suo valore di rimprovero influisce sulla
replica dell’interlocutore: questa comincia con un riferimento all’azione compiuta dalla donna,
identificata attraverso il verbo “chiedere” (ἐρωτᾶις δή µε σὺ / τί βοῶ ai vv. 70-71, in cui tuttavia il
δή ironico158 ed il pronome di seconda persona singolare in parte palesano il disaccordo dello
schiavo con quanto implicitamente affermato da Criside), continua con una valutazione negativa
della stessa (γελοῖον al v. 71) e con una risposta ampia in cui il parlante illustra dettagliatamente le
proprie motivazioni (βούλοµαι… ai vv. 71-75), si conclude con una domanda ‘retorica’ che svela la
natura di giustificazione propria della risposta e dell’intero turno (οὐχ ἱκανὰς ἔχειν προφάσεις δοκῶ
σοι; ai vv. 75-76).
157
158
Cfr. supra, 74-75.
Per il quale cfr. Denniston, 229-236.
130
Non sempre il secondo turno contiene una replica pertinente al primo turno. Ad esempio nel
passo A5 si assiste dopo l’appello di Demea a Parmenone allo svolgimento di una coppia-inserto
dovuta al fatto che lo schiavo non si accorge subito che a chiamarlo è il padrone. La presenza
dell’inserto appare giustificata dalla scelta, che è stata compiuta da Demea una volta accortosi del
ritorno di Parmenone dal mercato (vv. 281-282), di farsi da parte per consentire che lo schiavo
conducesse in casa i cucinieri ingaggiati per il banchetto nuziale159. Soltanto dopo la sua chiusura lo
schiavo risponderà in maniera appropriata all’appello salutando il padrone (χαῖρε, δέσποτα, al v.
296). In parte diverso è l’andamento del passo A13, in cui Criside non ritarda nell’accettare l’invito
di Demea ad entrare in casa soltanto in ragione del fatto che non si è subito accorta di lui (domanda
infatti τίς καλεῖ µε; al v. 569), ma anche perché esita nell’accoglierlo costringerà Demea a ripeterlo
più di una volta (al v. 574 con tono spazientito e al v. 575 esprimendo nuova premura) fino alla sua
silenziosa accettazione da parte della donna (da collocarsi con ogni probabilità proprio alla fine del
v. 575).
Il saluto di apertura attende di solito un saluto di risposta nel turno successivo, come
testimoniato anche per la conversazione reale dell’epoca160. Tuttavia, va innanzitutto detto che i
saluti non occupano sempre i primi due turni di conversazione. Se i passi A2 e A9 si aprono col
saluto del primo parlante al suo interlocutore, in A5 e in A15 il saluto compare nella risposta
all’appello (anche se non sempre nel secondo turno), configurandosi come rispettosa replica ad
esso.
Inoltre, non sempre il saluto ottiene risposta, indipendentemente dal turno che occupa. A5 e
A15 conoscono a tal proposito un andamento analogo, sviluppandosi secondo la sequenza appello
(con solo vocativo)/risposta (con saluto), ma sono anche accomunati dal fatto che in ambedue il
saluto viene pronunciato dallo schiavo Parmenone nei confronti di uno dei suoi padroni e non riceve
risposta, dato che, dapprima Demea e poi Moschione, passeranno subito all’argomento di
conversazione impartendogli un ordine. La mancata risposta al saluto è dovuta in entrambe le
situazioni al personaggio che occupa la posizione dominante all’interno del rapporto asimmetrico
padrone-schiavo e non risulta pertanto destabilizzante per il prosieguo dell’interazione né per il
rapporto stesso; tuttavia contribuisce a tradire nel personaggio che ha dato inizio all’interazione (se
159
Al v. 282 seguo, con Sandbach, Jacques, Arnott e Ferrari ma a differenza di Lamagna, il testo tràdito, che costringe a
dare al verbo παράγω valore transitivo, non riscontrato altrove in Menandro ma presente in altri autori del IV secolo
(cfr. G-S ad v. 282 e LSJ s.v. III). Esso mi sembra più coerente con il comportamento successivo di Demea: il vecchio
non vuole che Parmenone entri in casa, ma che vi conduca il cuoco e chi lo assiste.
160
Ho già spiegato supra, 93, come coppie di atti quali saluto/saluto, domanda/risposta, invito/accettazione o rifiuto,
ecc., siano caratterizzate da un rapporto di “rilevanza condizionale” tra i suoi membri: in base ad esso la presenza del
primo produce l’aspettativa del secondo, la cui eventuale mancanza viene percepita come significativa. Ho inoltre
mostrato come ciò trovi riscontro per molte di queste coppie – e in particolare per quella saluto/saluto – nella
conversazione antica di epoca menandrea (cfr. supra, 59).
131
non per l’ignaro Parmenone almeno per gli informati spettatori)161 un certo nervosismo ed ha
soprattutto un valore comico – amplificato nel secondo passo dalla ripetizione della situazione162 –
poiché evidenzia come il povero Parmenone, pur mostrandosi sempre affettuoso e leale nei
confronti dei propri padroni, non riesca ad evitare che essi riversino su di lui la rabbia dovuta ai loro
problemi di relazione.
Maggiori perplessità suscita il comportamento di Moschione nel passo A9, quando al
cordiale saluto rivoltogli da Nicerato non risponde fornendo a sua volta il saluto, ma preferisce
introdurre immediatamente il tema del matrimonio come argomento di conversazione. Un simile
atteggiamento nei confronti di un libero, da parte di un giovane che si mostra altrimenti raffinato ed
elegante, denota sicuramente un’impazienza eccessiva, soprattutto se si considera che Moschione e
Nicerato non si erano visti dopo il ritorno di quest’ultimo dal Ponto. Anche in questo caso esso non
avrà effetto sull’interazione, poiché come si è visto163 Nicerato, avendo capito dalla replica del
giovane che non sa nulla della cacciata di Criside, vorrà informarlo dell’accaduto (vv. 433-sgg.), ma
probabilmente contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, che si mostra attento agli
obblighi di cortesia e di rispetto imposti dalle convenzioni sociali soprattutto nei confronti del padre
e in generale quando ha interesse a presentare la sua immagine migliore164.
Non è un caso che al contrario una perfetta simmetria di comportamenti venga esibita
riguardo ai saluti nel passo A2, in cui lo stesso Moschione accoglie suo padre appena rientrato dal
viaggio con una frase estremamente affettuosa (χαῖρέ µοι, πάτερ, v. 128) e Demea replica altrettanto
calorosamente al verso successivo con l’espressione νὴ καὶ σύ γε, costituita dal nesso reciprocante
καὶ σύ che ne rappresenta il nucleo (e può comparire anche da solo165) ed arricchita non soltanto dal
161
E’ opinione di alcuni studiosi che Parmenone si accorga in ambedue le occasioni della freddezza del tono utilizzato
dai suoi interlocutori. Nel primo caso lo schiavo capirebbe che il padrone non è di buon umore proprio dalla mancata
risposta al saluto e manifesterebbe la sua preoccupazione pronunciando lo scongiuro ἀγαθῆι τύχηι (v. 297) una volta
ricevuto l’ordine di raggiungere il padrone dopo aver posato la sporta delle vivande (cfr. Lamagna ad v. 297, che segue
Sudhaus, Austin, Dedoussi e Blume, da lui citati nella stessa nota). Tuttavia quando lo schiavo ritorna ai vv. 303-304
non dà altri segni di timore, ma appare indaffarato nel dare ordini alle persone di casa e pronto a svolgere nuovi compiti.
Per questa ragione l’augurio del v. 297 mi sembra un segnale di assenso esprimente soprattutto la buona volontà del
parlante nell’obbedire al padrone perché le cose vadano per il meglio: il suo tono sembra, come osservano G-S ad vv.
297-sgg., “full of self-satisfaction”.
Nel dialogo con Moschione invece, secondo Sandbach lo schiavo sanzionerebbe il tono freddo con cui il giovane lo
chiama al v. 657 (οὗτος, ritenuto da G-S ad loc. “A common way of brusquely demanding attention”, in Menandro
compare sempre sulla bocca di un personaggio spazientito, ossia, oltre che in questo passo, in Dysc. 750 e Sam. 312 e
675, cfr. infra, 250 n. 30) rispondendo nello stesso verso χαῖρε σύ che per la presenza del pronome di II persona
singolare “may contain a half-concealed rebuke to Moschion for his failure to observe the civilities” (G-S ib.). Anche
questa mi sembra tuttavia nient’altro che una sensazione, basata, tra l’altro, sull’osservazione inesatta secondo cui χαῖρε
σύ sarebbe “unparalleled” (G-S ib.): l’imperativo di saluto unito al pronome compare invece proprio in questa
commedia al v. 169 e si presenta per giunta rafforzato dal neutro avverbiale πολλά.
162
L’espediente della ripetizione, essenziale nella comicità dell’Archaia, risulta di estrema importanza anche in questa
commedia menandrea, come osserva tra gli altri Lamagna, 43-44.
163
Supra, 129.
164
Per i comportamenti conversazionali di Moschione cfr. infra, 276-sgg.
165
E’ quanto avviene ad esempio in Dis ex. 104, in cui il giovane Sostrato dà una risposta minima al saluto dell’amico
Mosco, dal quale crede di essere stato tradito.
132
γε enfatico che spesso l’accompagna166, ma anche dalla particella νή, asseverativa che in Menandro
e nella letteratura successiva si trova spesso usata ad enfatizzare gli atti dell’accoglimento e della
restituzione del saluto167. Se si riflette sul fatto che a questa perfetta corrispondenza non farà
riscontro già in questo dialogo una ugualmente esemplare disponibilità dei due (in particolare del
figlio) ad aprirsi, è chiaro come anche questo passo possa costituire una spia del perfezionismo
soltanto formale che caratterizza gli atteggiamenti dei due protagonisti nel loro rapporto.
A causa delle lacune del testo ben poco può essere osservato a proposito dello sviluppo del
passo A3*, in cui un vivace saluto (χαῖρε πολλὰ σύ al v. 169) viene indirizzato probabilmente da
Demea a Nicerato: secondo la ricostruzione della scena proposta da Sandbach168 il saluto, pur
pronunciato dal primo parlante, verrebbe separato dal momento dell’appello (posto forse al verso
precedente) e occuperebbe da solo il terzo turno di conversazione, configurandosi come strategia di
politeness impiegata da un parlante che si prepara a chiedere un favore all’interlocutore.
A proposito dell’ingresso in argomento, esso non sempre conosce nella commedia un
andamento lineare. Nel passo A9, ad esempio, accade che Moschione, salutato da Nicerato,
introduca immediatamente come argomento di conversazione la celebrazione delle nozze con la
figlia del vecchio (vv. 431-433) e che questi lo indirizzi immediatamente dopo su un problema a
suo parere più rilevante poiché appena insorto e destinato ad avere conseguenze sul matrimonio,
ossia quello dell’avvenuta cacciata di Criside e del bambino dalla casa di Demea. Il modo in cui il
vecchio gestisce il cambiamento di argomento appare interessante da un punto di vista
conversazionale e relazionale. Nicerato esordisce chiedendo a Moschione se ritorni da fuori senza
sapere quello che è accaduto in casa (τἀνθάδ’ ἀγνοῶν πάρει; al v. 433): la sua domanda costituisce
propriamente un pre-annuncio, in quanto il vecchio ha ovviamente capito che il giovane non è stato
informato degli ultimi avvenimenti169. La replica di Moschione (ποῖα; al v. 434) è anch’essa tipica
delle sequenze originate da un pre-annuncio, poiché costituisce una domanda su quanto appena
detto dall’interlocutore che lo invita a proseguire170. Il nuovo turno di Nicerato, composto da una
domanda-eco di tipo ICTS (ποῖα; al v. 434) e da una frase affermativa costituente un nuovo preannuncio (ἀηδία τις συµβέβηκεν ἔκτοπος ancora al v. 434), sembrerebbe, ad una prima
osservazione, non necessario, ma si spiega molto efficacemente in termini pragmatici come ritardo
166
La particella si aggiunge al nesso nella replica ad un saluto in Cith. 73 ma anche, ad es., in Aristoph. Lys. 6, Eccl.
477, Pax 718, Ran. 164.
167
Cfr. per Menandro anche Georg. 41. Per νή usato in modo assoluto (ossia non reggente, in accusativo, il nome di una
divinità, come avviene invece, ancora in risposta ad un saluto, in Aristoph. Ran. 164-165) cfr. Lamagna ad v. 129 e
Macleod 1970, 289.
168
Cfr. G-S ad vv. 167 e 168.
169
Essa contiene, come elemento proprio dei pre-annunci, la denominazione di quanto si sta per dire in termini non
specifici (τἀνθάδε) allo scopo di suscitare la curiosità dell’interlocutore.
170
Per le caratteristiche che la replica ad un pre-annuncio può avere cfr. ancora Levinson 1993, ib.
133
nel compiere un atto spiacevole nei confronti dell’ignaro interlocutore, di tipo non preferenziale171,
e al tempo stesso come tentativo di sottolineare l’importanza e la gravità di quanto si sta per
rivelare172. Soltanto dopo la seconda domanda di Moschione (v. 435) Nicerato si deciderà a
sintetizzargli l’accaduto (vv. 435-436). Il ritardo con cui il vecchio ha prodotto la risposta e la
preliminare qualificazione dei fatti anticipatigli hanno costituito dunque anche una strategia per far
capire a Moschione che la situazione è tale da richiedere il suo intervento per convincere Demea a
riammettere in casa Criside.
171
Simili ritardi, ampiamente documentati nell’analisi della conversazione, sono ascrivibili al carattere non
preferenziale dell’atto di comunicare cattive notizie all’interlocutore (cfr. Levinson 1993, 354).
172
Sul passo cfr. anche Williams 2001, 136, il quale scrive: “The use of additional pair at Turns 3 and 4 giving a further
pre-announcement both heightens suspense and shows Nikeratos’ tactful reluctance to blurt devastating news out of the
blue – tinged also with the self-importance that befits his status and seniority in this interaction”.
134
2.2.2 La chiusura di conversazione173
2.2.2.1 Elenco delle chiusure dei dialoghi rappresentati
Le sigle impiegate in quest’elenco sono le stesse utilizzate per l’analisi conversazionale del
Dyscolos, cui si rinvia174.
Chiusure rappresentate in scena
C1) vv. 104-105= At (I), Demea, schiavi
C2*) vv. 117-118= At (I), Demea, Nicerato
C3*) vv. 153-162= At (II), Moschione, Demea
C4) vv. 196-198= At (II), Demea, Nicerato
C5) vv. 198-200= At (II), Parmenone, familiari
C6*) v. 202= At (II), Demea, Parmenone
C7) vv. 292-295= At (III), Parmenone, cuoco
C8) vv. 323-324= At (III), Parmenone, Demea
C9) vv. 389-390= At (III), cuoco, Demea
C10) v. 398= At (III), Demea, Criside
?C11) vv. 418-420= At (III), Nicerato, Criside
C12) v. 421= At (IV), Nicerato, moglie di Nicerato
C13) vv. 440-444= At (IV), Demea, schiavi
C14) vv. 519-520= At (IV), Demea, Nicerato
C15) v. 539= At (IV), Moschione, Demea
C16) v. 547= At (IV), Nicerato, Demea
C17) v. 563= At (IV), Nicerato, Demea
C18) v. 575= At (IV), Demea, Criside
C19) vv. 612-614= At (IV), Demea, Nicerato
C20) v. 694= At (V), Parmenone, Demea, Moschione
C21) v. 713-714= At (V), Nicerato, moglie di Nicerato
?C22) v. 733= At (V), Demea, Moschione, Nicerato
173
Per le caratteristiche del momento della chiusura nella conversazione reale odierna, cfr. supra, 79-81. I criteri di
individuazione delle chiusure nella Samia sono gli stessi utilizzati a proposito del Dyscolos, per i quali cfr. supra, 8182. Eventuali deroghe o aggiunte rispetto ad essi saranno opportunamente segnalate.
174
Supra, 68.
135
Chiusure raccontate o immaginate
CI) Vv. 258-259= At (III), r, orect, nutrice di Moschione, schiava
?CII) Vv. 693-694= At (V), i, orobl, Parmenone, membri dello stesso oikos
2.2.2.2. Caratteristiche delle chiusure di conversazione
I dialoghi della Samia sono caratterizzati da una discreta varietà riguardo alla struttura delle
loro sezioni finali, costruite mediante l’impiego di numerose delle tecniche di chiusura riscontrate
nella conversazione reale odierna175. In generale si osserva comunque come il passaggio dalla
chiusura dell’ultimo argomento di discussione a quella dell’intero dialogo sia più rapido e semplice
che nella reale interazione: di solito, infatti, a realizzarlo è sufficiente lo scambio, tra i parlanti, delle
formule che l’analisi conversazionale definisce di “pre-chiusura”176 poiché appunto nella realtà
sono soltanto introduttive dei turni terminali. Le ragioni di questa caratteristica, già rilevata nei
dialoghi del Dyscolos177, possono essere più d’una: è verosimile ad esempio che il drammaturgo
sacrifichi la rappresentazione di una fase conversazionale contenutisticamente vuota, e dunque
spesso povera di elementi drammaturgicamente significativi, all’esigenza di uno sviluppo più agile
dell’azione, oppure che questa semplificazione sia legata al fatto che la maggioranza degli scambi si
svolge nella commedia tra persone legate da parentela ed amicizia le quali, essendo in genere
consapevoli di separarsi per un breve lasso di tempo, eviterebbero di dilungarsi nei convenevoli; va
inoltre notato come possano essere le stesse novità drammatiche che emergono all’interno di un
dialogo ad accelerarne il decorso.
Le tecniche di chiusura presenti nella Samia sono le seguenti: 1) annunci di separazione,
consistenti essenzialmente in frasi affermative in cui almeno uno dei parlanti comunica all’altro
l’intenzione di allontanarsi per compiere una determinata azione (se ne trovano ad esempio nei passi
C3*, C4, C5, C6*, C9, C12, implicitamente C14, C15, C20 in parte C16 e C19); 2) atti di
richiesta, di ordine o di consiglio, espressi in genere da imperative, che comportano la separazione
dei parlanti e dunque la fine della loro interazione (sono presenti in C1, C6*, C7, C10, C18, C19 in
parte C4 e C14, CI); 3) frasi od espressioni con cui si concorda un appuntamento con
l’interlocutore (è quanto avviene ad esempio in C2*, che a causa di una lacuna materiale non ci è
noto se non nella parte iniziale, in cui, dopo che i due partner di dialogo Demea e Nicerato hanno
175
Cfr. supra, 79-81 e Schegloff/Sacks 1973, 289-327.
Cfr. supra, 79-80 e Schegloff/Sacks 1973, soprattutto 303-309.
177
Cfr. supra, 86.
176
136
chiuso l’argomento di discussione con l’espressione di un accordo, è probabilmente il secondo178 a
chiedere al vicino ed amico di essere da lui chiamato quando esca nuovamente di casa (παρακάλει
µ’ ὅταν ἐξίηις al v. 118179)); 4) frasi in cui si precisa la ragione per cui si è dato inizio alla
conversazione (un caso di questo tipo è presente in C17); 5) insulti e rimproveri (presenti in C7 e
C9); 6) espressioni e frasi di lode e/o di augurio (si trovano in C19); 7) semplici chiusure di
argomento funzionanti come chiusure di conversazione (si trovano ad esempio in C13, C21)180.
Dagli esempi citati si vede che le tecniche descritte non sono alternative, ma diverse volte si
combinano. La scelta di una o più tecniche appare fortemente influenzata dalla situazione in cui la
chiusura occorre e dalla relazione intercorrente tra i partner di interazione. Le chiusure di dialogo
tra padrone e schiavo (rappresentate in questa commedia dai luoghi C1, C6*, C8, C13 e C20) sono,
come nel Dyscolos, più brevi e meno differenziate quanto a struttura indipendentemente dalla
situazione in cui avvengono, che può variare anche notevolmente. Nella maggioranza dei casi sono
realizzate per iniziativa del padrone, che può darvi corso anche soltanto impartendo un ordine. E’
quanto avviene ad esempio nel passo C1, in cui Demea, dopo avere interpellato tutti coloro i quali
lo accompagnano a casa dopo il ritorno dal Ponto sulle differenze tra i luoghi da poco visitati e la
propria città (οὔκ]ουν µεταβολῆς αἰσθάνεσθ’ ἤδη τόπου, …; ai vv. 96-97) ed avere sentito il parere
di Nicerato, saluta Atene con un augurio e, con una frase imperativa, ingiunge ai propri schiavi di
entrare in casa facendo seguire al comando una domanda-rimprovero nei confronti di uno di loro
forse attardatosi dinanzi alla porta a guardarlo (εἴσω παράγετε / ὑµεῖς. ἀπόπληχθ’, ἕστηκας
ἐµβλέπων ἐµοί;, vv. 104-105).
Soltanto lievemente più complesso è lo svolgimento del passo C6*. In esso la presenza di
una sezione di chiusura sembra resa inutile dalla natura stessa del dialogo tra Demea e Parmenone,
costituito essenzialmente dall’ordine dato dal primo al secondo di recarsi quanto prima a comprare
l’occorrente per la festa nuziale e da alcune coppie-inserto aperte dallo schiavo per chiedere
delucidazioni sui termini del comando: la conclusione del breve scambio verbale è insita nelle
parole stesse del padrone e viene al più resa esplicita dalla battuta in cui lo schiavo annuncia che
eseguirà il comando dopo essersi munito del denaro necessario (ἀργύριον λαβὼν τρέχω al v. 195);
soltanto in seguito il padrone si sentirà costretto a riprendere la parola avendo la sensazione che lo
schiavo si attardi a parlare con le donne di casa, e pronuncerà un rimprovero (παῖ, διατρίβεις al v.
178
L’attribuzione delle battute è nel passo fastidiosamente incerta: che al v. 118 a parlare sia Nicerato è comunque
opinione condivisa dalla maggioranza dei commentatori con l’eccezione di Ferrari.
179
Lo stesso verbo compare nell’appuntamento fissato da Sostrato con Gorgia in Dysc. 783 prima della chiusura della
conversazione cominciata al v. 760.
180
E’ interessante notare che le tecniche di chiusura presenti in questa commedia sono state rinvenute anche nelle
commedie terenziane da Müller 1997, soprattutto 28-32. I passi della Samia che sfuggono a questa suddivisione sono
stati come nel Dyscolos indicati come incerti in quanto i parlanti si allontanano dalla scena insieme o vi rimangono pur
senza continuare a parlare: si tratta di ?C11 e ?C22.
137
202) accompagnato dalla ripetizione dell’ordine in forma più perentoria e minacciosa (οὐ δραµεῖ;
ancora al v. 202) provocando forse nuove repliche da parte dello schiavo, i cui particolari
rimangono a noi tuttavia sconosciuti a causa della lacuna materiale che investe i versi successivi
fino all’inizio del terzo atto181.
Anche la sospensione di dialogo del passo C13 viene condotta dal solo Demea e contiene
soltanto una serie di minacce, rimproveri ed ordini perentori nei confronti della servitù (in preda
all’agitazione e allo sconforto per l’avvenuto allontanamento di Criside), che costituiscono
soprattutto una chiusura di argomento182.
I passi C8 e C20 sono i soli in cui il termine di una conversazione tra padrone e schiavo sia
dovuto all’iniziativa del secondo: in ambedue i casi è infatti Parmenone a chiudere (o sospendere)
lo scambio verbale con il padrone Demea, anche se in circostanze molto diverse. Nel primo dei due
luoghi lo schiavo, udita la minaccia di marchiatura che il vecchio gli ha rivolto al v. 323, cerca
disperatamente la fuga, venendo inseguito da questi (che al v. 324 gli indirizza la domandarimprovero ποῖ σύ, ποῖ, µαστιγία;, in cui si coglie chiaro il tentativo di indurlo a fermarsi) e poi
forse da uno schiavo da questi incaricato183: la conclusione dell’interazione è particolare in quanto
avvenuta in seguito al fallimento della comunicazione tra i due parlanti184. Nel passo C20
Parmenone, dopo avere informato Demea sulla presunta intenzione di partire del reticente
Moschione (v. 693), afferma che è giunto anche per lui il momento di salutare le persone di casa
(vv. 693-694: τοὺς ἔνδον προσειπεῖν185) e si allontana senza attendere il consenso dell’interlocutore,
o, per meglio dire, senza essere neanche notato da questi, che si prepara a tenere un discorso al
figlio186. Anche questa conclusione (o sospensione) di dialogo avviene dunque in condizioni del
tutto singolari, ossia nell’ambito di un’interazione che in realtà coinvolge altri personaggi e nella
181
Nelle poche tracce pervenuteci dei versi successivi al 201 si legge con sicurezza un ἱκετεύω (v. 204), che sarà stato
verosimilmente pronunciato dallo schiavo dopo un atto di rimprovero o di minaccia del padrone.
182
E’ notevole come gli atti di biasimo per il dolore manifestato dagli schiavi di casa si concentrino progressivamente,
pur senza mai nominarla in modo esplicito, sulla figura dell’etera, divenendo più che altro una riflessione ad alta voce
condotta dal vecchio tra sé e sé sulla delusione subita, che evidentemente non ha ancora superato.
183
Con Lamagna ad v. 321 ritengo probabile che già al v. 321 sia accorso da casa uno schiavo con in mano la frusta
appena richiesta dal padrone e che proprio a questi venga da Demea dato l’ordine di inseguire Parmenone al v. 325.
184
In questa conversazione è singolare che, nonostante la conclusione si realizzi attraverso la fuga di Parmenone al v.
324, la chiusura di argomento è stata in precedenza effettuata bruscamente da Demea, il quale con un’interruzione
seguita da minacce ha impedito allo schiavo di portare a termine quanto stava per dire (vv. 321-322).
185
Il verbo è impiegato spesso ad indicare il saluto che precede un distacco. In Menandro ciò avviene ad esempio anche
in Dysc. 884 (cfr. G-S ad loc.). Per la tragedia sia sufficiente citare Eur. Alc. 195 e 610, Her. 573, Med. 1069.
186
Nell’interpretazione del passo mi discosto da Sandbach, secondo il quale (cfr. G-S ad vv. 693-694) Parmenone
avrebbe capito che la partenza di Moschione è soltanto una finzione, nella quale deciderebbe anch’egli di entrare
facendo mostra di prepararsi ad accompagnare il giovane: nel testo non compaiono a mio parere altri elementi che
rivelino nello schiavo tale consapevolezza (anche l’invito πρόαγε θᾶττον di v. 691 non ha veramente il sapore di una
sfida, ma sembra nascere dalla volontà dello schiavo di ostentare un certo spirito di collaborazione con il padroncino, di
cui ha probabilmente ‘assaggiato’ le percosse qualche verso prima). Ritengo invece più sensata l’opinione di Lamagna
(ad vv. 691 e 694), secondo cui Parmenone, senza aver capito le reali intenzioni di Moschione, si mostra pronto a
seguirlo “anche nella pericolosa condizione di soldato mercenario” ma poi approfitta dell’uscita di Demea (e
dell’indugio del giovane) per prendere tempo con la scusa di salutare le persone di famiglia.
138
quale lo schiavo non ha, a ben vedere, alcun ruolo (se non quello che da solo si ritaglia rispondendo
al posto del padroncino alle domande di Demea187).
I dialoghi tra esponenti del personale di servizio (passi C5, C7) si concludono anch’essi in
modo piuttosto semplice, presentandosi solitamente come mere chiusure di argomento o contenendo
tutt’al più istruzioni all’interlocutore sul da farsi: in C5 ad esempio Parmenone, indaffarato per il
comando ricevuto dal padrone, replica alle domande degli altri membri della famiglia dicendo di
non sapere nulla di quanto stia succedendo ma di affrettarsi verso il mercato per compiere quanto
ordinatogli (οὐκ οἶδ’ οὐδὲ ἕν, / πλὴν προστέτακται ταῦτα συντείνω τ’ ἐκεῖ / ἤδη, vv. 198-200).
Anche nell’unica chiusura di conversazione tra un libero ed un rappresentante del personale
di servizio legato al primo soltanto da una dipendenza momentanea – quella, contenuta nel passo
C9, tra il cuoco e Demea – lascia emergere la posizione dominante del personaggio libero
sull’interlocutore, visto che il primo giunge a minacciare il secondo di fargli del male qualora
continui ad intervenire in un dialogo che non lo riguarda e il secondo, constatata l’indisponibilità
del primo a comunicare (κατάξω τὴν κεφαλὴν ἄνθρωπέ σου / ἄν µοι διαλέγηι, vv. 388-389)
conviene immediatamente con lui che è ora di chiudere lo scambio (νὴ δικαίως γ’· ἀλλ’ ἰδού, /
εἰσέρχοµ’ ἤδη, vv. 389-390).
Nelle conversazioni tra liberi le chiusure presentano di solito una struttura più varia ed
articolata, assommando spesso in sé diverse tecniche e dispiegandosi per un certo numero di turni.
L’elemento che spesso le caratterizza è, allo stesso modo che nel Dyscolos, l’insistenza sul
raggiungimento di un accordo tra i parlanti riguardo all’opportunità di porre fine all’interazione in
corso.
Lo si può osservare ad esempio nel passo C4, in cui Demea sollecita Nicerato ad andare a
comprare l’occorrente per la festa nuziale in maniera estremamente cauta attraverso una frase
interrogativa (σὺ δ’ οὐδέπω, Νικήρατε; al v. 196, con ellissi del verbo di moto188) dopo la quale
cede immediatamente la parola al vicino, il quale accoglie l’invito affermando di prepararsi a farlo
(εἰσιὼν φράσας / πρὸς τὴν γυναῖκα τἄνδον εὐτρεπῆ ποεῖν / διώξοµ’ εὐθὺς τοῦτον, vv. 196-198).
Uno svolgimento analogo, anche se in una situazione estremamente differente, ha il passo
C14, in cui nuovamente in seguito ad una richiesta di Demea, espressa in forma di supplica
(Νικήρατ’ ἔκβαλ’, ἱκετεύω al v. 518), Nicerato entra in casa manifestando il proprio accordo con il
vicino sull’opportunità di compiere l’azione domandatagli (v. 519).
187
Il comportamento di Parmenone in questo passo è per certi versi analogo, a mio parere, a quello tenuto da Pirria in
Dysc. 129-sgg., in cui lo schiavo si trova a tappare le falle apertesi nella comunicazione tra Sostrato e Cherea,
intervenendo in luogo del primo in replica ai consigli e alle osservazioni che il secondo gli rivolge.
188
Varianti di questa frase, anch’esse ellittiche, sono in Dysc. 867 e in Aristoph. Th. 846.
139
Con ancora maggiore enfasi il consenso tra i parlanti viene rappresentato nel passo C19, che
conclude anch’esso uno scambio verbale tra Demea e Nicerato. Dopo essere stati a lungo impegnati
in un animato confronto, verbale e fisico, che ha visto il primo cercare di frenare l’ira del secondo
scatenata dalla strenua difesa del bambino da parte di Criside, i due giungono gradatamente ad un
accordo pieno sulla posizione assunta da Demea, il quale propone la chiusura della conversazione
invitando l’amico a rientrare in casa per completare i preparativi della cerimonia (vv. 609-610).
Nicerato esprime il proprio accordo al v. 611 (ἐξ ἀνάγκης ἐστὶ τ̣αῦ[τ]α), anche se subito dopo riapre
l’argomento dell’abuso commesso da Moschione su Plangone rammaricandosi di non aver potuto
cogliere sul fatto il giovane (εἰ δ’ ἐλήφθη τότε— al v. 612)189 e costringe Demea ad intervenire in
modo forte e diretto (interrompendo cioè il pensiero dell’interlocutore con una frase imperativa)
perché la questione venga definitivamente superata e si concluda lo scambio verbale (πέπαυσο· µὴ
παροξύνου· πόει / τἄνδον εὐτρεπῆ, vv. 612-613). Dopo quest’ultimo intervento Nicerato accetta
finalmente di chiudere l’argomento con una frase di assenso e di impegno a recarsi in casa per i
preparativi (ποήσω al v. 613), frase che genera una nuova battuta di Demea, in cui il vecchio
esprime a sua volta l’impegno a preparare quello che spetta a lui (τὰ παρ’ ἐµοὶ δ’ ἐγώ al v. 613)190.
E’ a questo punto che l’interazione, pur potendo aver termine, prosegue con una nuova espressione
di consenso da parte di Nicerato (πόει ancora nello stesso verso) seguita da una lode di Demea per
l’atteggiamento ragionevole dimostrato dal vicino (κοµψὸς εἶ al v. 614). La parziale
sovrapposizione, all’interno del passo, del consenso tra i parlanti sulla chiusura di conversazione e
di quello relativo all’argomento trattato fa sì che il primo venga rappresentato con una speciale
enfasi, al fine di rendere evidente al pubblico che tutti i motivi di divisione e di contrapposizione
sono stati superati dai due personaggi191, secondo una prassi già osservata in altri passi menandrei
raffiguranti la conclusione di accanite discussioni tra i partner di conversazione192.
189
Per il v. 611 scelgo il testo stampato nella sua edizione da Lamagna, che si basa sulla lettura di Jensen confermata
dalle fotografie a raggi ultravioletti del codice Cairensis documentate da Riad 1973, 211-212 (B, com’è noto, manca dei
vv. 606-611), anche se non sono certa che l’affermazione πολλαχῆι µὲν νοῦν ἔχεις sia pronunciata da Demea: essa
potrebbe essere infatti di Nicerato, il quale pronuncerebbe dunque tutto il v. 611 e l’inizio del successivo, dicendo:
“Tutto questo è necessario. Per molti versi hai ragione, ma se fosse stato colto sul fatto allora…” (in tal caso non si
dovrebbe immaginare che C abbia omesso un dicolon prima di πολλαχῆι). In ogni caso, la diversa distribuzione da me
ipotizzata di questi turni non cambierebbe in modo rilevante i comportamenti dei due vecchi.
190
La distribuzione delle battute seguita per il v. 613 è quella, accolta dalla maggioranza degli editori (bastino per tutti
Jacques, Sandbach, Paduano, Lamagna, Ferrari e Arnott), che B stesso offre, ponendo dicolon prima e dopo ποήσω.
Merita però certo considerazione l’alternativa, suggerita dallo stesso Sandbach (G-S ad v. 613), di trascurare le
indicazioni di B facendo continuare la battuta di Demea fino ad ἐγώ. Questo renderebbe la chiusura un po’ meno
elaborata.
191
Era a mio parere importante che a tutti fosse chiara l’accettazione della situazione da parte di Nicerato, dato che il
crimine di cui si era macchiato Moschione non era in alcun modo tollerato e veniva anzi punito con una certa severità
nell’Atene dell’epoca (cfr. ad esempio Lamagna ad v. 612). In questo passo, inoltre, forse l’espressione di un pieno
accordo doveva essere funzionale ad accrescere la sorpresa per quanto sarebbe avvenuto nel quinto atto, ossia per il
nuovo problema sorto nella relazione tra Moschione e suo padre.
192
Si pensi ad esempio ai passi del Dyscolos discussi supra, 89. Queste osservazioni permettono a mio parere di
confutare l’ipotesi formulata da Blume 1974, 243-244 sulla battuta finale del dialogo (v. 614), che vede nel
140
Delle due chiusure di conversazione tra Nicerato e sua moglie realizzate dal vecchio
uscendo di casa, quella del passo C12, che lo vede rivolgere ancora qualche parola alla donna
sull’uscio, esprime, dopo una frase di lamentela, la sua accettazione delle richieste della donna di
cercare di convincere Demea a riammettere in casa Criside e l’impegno a soddisfarle subito (βαδίζω
νῦν ἐκείνωι προσβαλῶν al v. 421). La seconda chiusura (passo C21) è invece realizzata da Nicerato
in polemica con le direttive dategli dalla moglie per il completamento dei preparativi, ma viene
comunque da lui motivata con un’affermazione che illustra come quanto preteso dalla donna sia
stato da lui già compiuto (µὴ ’νόχλει µοι· πάντα γέγονε·…, vv. 713-714).
Le chiusure di conversazione tra Demea e Moschione contenute nei passi C3* e C15 sono
invece entrambe dovute all’iniziativa del giovane e si realizzano nonostante un precedente
disaccordo espresso da Demea sulla loro opportunità.
Il primo dei due luoghi si apre probabilmente193 con una battuta in cui Moschione annuncia
che si preparerà per andare a prendere la fanciulla (vv. 157-159). Questa decisione non viene in
prima battuta approvata da Demea, il quale consiglia invece al figlio di non andare via e di aspettare
il consenso di Nicerato prima di prendere iniziative (µήπω δὴ βάδιζ’(ε)… ai vv. 159-160), ma
Moschione, che evidentemente cerca per il momento di evitare un confronto con il vicino194,
ribadisce che intende andar via accampando la scusa di non volere intralciare con la sua presenza i
discorsi dei due vecchi ed esce di scena (vv. 161-162).
Il secondo passo è invece successivo al chiarimento dell’equivoco creatosi tra i due e
all’autocritica di Demea, che ha scagionato il figlio da ogni accusa definendo un’ingiustizia l’errato
sospetto nutrito nei suoi confronti (vv. 537-538): in esso la decisione di uscire di scena viene presa
da Moschione dopo l’ingresso di Nicerato, il quale è sconvolto dall’avere sorpreso la figlia ad
allattare il bambino che egli credeva di Criside. Non appena il vecchio si rivolge a Demea,
Moschione manifesta l’intenzione di andare via per paura di ritorsioni da parte del vecchio
complimento di Demea a Nicerato una replica ironica al πόει di quest’ultimo, rivelante a suo parere “einen Mangel an
Urbanität” di fronte alla generosa offerta dell’amico di occuparsi di quasi tutti i preparativi per il matrimonio: la
necessità di accentuare il raggiunto accordo tra i due riesce a spiegare a mio giudizio in modo più efficace due battute
che altrimenti sembrano effettivamente pleonastiche.
193
L’attribuzione delle battute ai vv. 156-158 risulta piuttosto incerta soprattutto in conseguenza delle confuse
indicazioni di B, che presenta due dicola cancellati rispettivamente ai vv. 156 (dopo ποεῖν) e 157 (dopo λέγεις) esibendo
però al tempo stesso la paragraphos sotto i vv. 156 e 158. L’unico punto su cui si accordano tutte le edizioni della
commedia da me utilizzate è il fatto, peraltro ovvio, che l’intenzione di andare a prendere la fanciulla viene espressa da
Moschione ai vv. 158-159. Su quello che la precede immediatamente, ossia una serie di participi maschili indicanti atti
rituali di preparazione al matrimonio, non c’è uniformità di vedute tra gli studiosi: molti di essi (Jacques, Sandbach,
Lamagna) li ritengono parte di una serie di istruzioni sul da farsi rivolte da Demea a suo figlio, che riferiscono alla
persona del giovane. Ferrari è l’unico che, pur attribuendo con gli altri i participi a Demea, li ritiene riferiti dal vecchio
a se stesso. La distribuzione da me seguita è invece quella, suggerita da Sandbach in G-S ad vv. 156-159 ed accolta da
Arnott nel suo testo, secondo cui della battuta di Moschione farebbero parte anche i participi (congiunti al verbo della
principale µέτειµι). In ogni caso, le osservazioni da me fatte nel testo a proposito delle modalità di chiusura di questo
dialogo rimangono a mio parere valide nella sostanza, dato che l’intenzione di uscire di scena è contenuta nella frase dei
vv. 158-159, sicuramente da assegnare al giovane.
194
Teme infatti che egli possa essere venuto a conoscenza del suo misfatto ai danni di Plangone. Cfr. Lamagna ad loc.
141
(ἐκποδὼν ἄπειµι, v. 539). Anche in questo caso Demea lo incoraggia a restare (con la frase θάρρει
allo stesso verso) ma questi giustifica la propria decisione dandone una ragione cogente (τουτονὶ
τέθνηχ’ ὁρῶν ancora allo stesso verso) e si allontana velocemente.
Dopo che il padre ha espresso il proprio disaccordo sull’opportunità di chiudere la
conversazione, in ambedue i passi Moschione motiva ampiamente la sua decisione col riferimento
agli interessi dell’interlocutore nel primo caso e con la menzione di una causa di forza maggiore nel
secondo, dunque con due delle più comuni modalità di chiusura osservate anche nella
conversazione reale odierna. Le sue spiegazioni fanno sì che il padre accetti sia la prima sia la
seconda volta la chiusura senza proteste. Tuttavia, l’ostinazione del giovane ad andare via non è
priva di significato, ma mostra in entrambi i casi il suo rifiuto di confrontarsi veramente con le
proprie responsabilità (ossia, appunto, con il padre della fanciulla disonorata), rifiuto dal quale in
entrambi i casi dipenderanno i successivi sviluppi del plot195.
Non cercano né presentano il consenso dell’interlocutore le due chiusure (o, per meglio dire,
sospensioni) di conversazione che costituiscono i passi C16 e C17: esse avvengono ad opera di
Nicerato quando questi è del tutto fuori di sé e si strutturano infatti rispettivamente come un
annuncio smozzicato e non terminato di rientro in casa (ἀλλὰ πάλιν ἐλθών – al v. 547) ed una
frettolosa chiusura di argomento (σοὶ δ’ ἐβουλόµην προσειπεῖν al v. 563), a cui segue appunto il
ritorno del vecchio dentro casa.
Come la conversazione reale, anche i dialoghi della Samia presentano a volte tentativi o
segnali di chiusura molto prima che questa sia portata a termine – ossia nel mezzo della discussione
o addirittura nella sua parte iniziale – i quali, nonostante il loro fallimento oppure proprio in seguito
ad esso, imprimono al resto dell’interazione un particolare andamento196.
Ciò accade più di una volta nello scambio verbale che porterà al definitivo chiarimento della
verità tra Moschione e Demea, chiudendosi soltanto al v. 539 (C15): già nella sua fase iniziale il
vecchio, dopo essersi rifiutato di rispondere alla domanda del figlio sulle ragioni della cacciata di
Criside, cerca di porre fine alla conversazione chiedendogli di essere lasciato in pace (ἔα µε a v.
460); in seguito (ai vv. 465 e 470-471 con richieste analoghe alla prima) ripete più volte il tentativo
fino a quando, indispettito dalle insistenze del figlio, si decide a rivelare quella che crede sia la
verità (v. 476).
Similmente, quando ai vv. 580-581 Nicerato tenta di chiudere il confronto-scontro con il
vicino affermando che si recherà in casa per uccidere la propria moglie dopo quanto accaduto a sua
195
Delle due chiusure e del loro significato per il carattere di Moschione parlerò infra, 358 e 380.
Per i tentativi falliti di chiusura nella conversazione reale, cfr. supra, 80-81. Nel Dyscolos, come ho messo in
evidenza nel trattare le chiusure della commedia (supra, 86), è soprattutto Cnemone che tenta di porre fine a scambi
verbali senza riuscirvi, anche se i suoi sono più propriamente tentativi di fare in modo che la conversazione non abbia
affatto luogo.
196
142
figlia, Demea dura fatica ad evitare questa chiusura di interazione trattenendolo dapprima con
rimproveri e ordini (ποῖ σύ; µένε δή al v. 582) e, dopo pochi versi, con un invito-proposta a
continuare serenamente lo scambio di idee per giungere ad un accordo (ἐµοῦ πυθοῦ, τῆι γυναικὶ µὴ
’νοχλήσας µηδέν ai vv. 584-585 e περιπάτησον ἐνθαδὶ / µικρὰ µετ’ ἐµοῦ ai vv. 587-588).
Sotto questo aspetto particolarmente interessante appare la scena della cacciata di Criside ai
vv. 369-398, che all’inizio si presenta come la brusca conclusione, da parte di Demea, di
un’interazione cominciata fuori dalla scena ma, a causa delle richieste di chiarimento della donna e
dell’incapacità dello stesso Demea di trattenersi dall’esprimere a colei che ancora ama la propria
delusione, finisce per configurarsi come una serie di tentativi di chiusura non andati in porto che si
trascina fino al v. 398 (passo C10), quando, dopo avere in parte sfogato la propria amarezza, l’uomo
ingiunge in modo perentorio alla donna – che evidentemente accennava a seguirlo in casa197 – di
restare dove si trova (ἕσταθι), per poi rientrare. E’ soprattutto attraverso questo espediente, frutto di
un uso scaltrito della tecnica dialogica da parte di Menandro, che viene rappresentata con estrema
efficacia la forza dei sentimenti di Demea per Criside198.
197
Sul tentativo di Criside di seguire o trattenere il vecchio concorda la maggioranza degli studiosi (cfr. G-S ad v. 398 e
Lamagna ad v. 398).
198
Di questo parlerò più diffusamente infra, 152.
143
2.2.3 Il sistema di avvicendamento dei turni nella Samia199
2.2.3.1 Elenco dei dialoghi della Samia
Le sigle impiegate in quest’elenco sono le stesse utilizzate per l’analisi conversazionale del
Dyscolos, cui si rinvia200.
Dialoghi rappresentati
D1) Vv. 61-85= Atto (I), Moschione, Parmenone, Criside
D2) Vv. 96-118= Atto (I), Demea, Nicerato
D3) Vv. 128-162= Atto (II), Moschione, Demea
D4) Vv. 168?-189 e 196-198= Atto (II), Demea, Nicerato
D5) Vv. 189-195 e 202?-?= Atto (II), Demea, Parmenone
D6) Vv. 283-295= Atto (III), Parmenone, cuoco
D7) Vv. 295-297 e 303-324= Atto (III), Demea, Parmenone
D8) Vv. 369-398= Atto (III), Demea, Criside, cuoco
D9) Vv. 407-420= Atto (III), Nicerato, Criside
D10) Vv. 430-439= Atto (IV), Nicerato, Moschione
D11) Vv. 452-539= Atto (IV), Moschione, Demea, Nicerato
D12) Vv. 538-547= Atto (IV), Nicerato, Demea
D13) Vv. 556-563= Atto (IV), Nicerato, Demea
D14) Vv. 569-614= Atto (IV), Demea, Criside, Nicerato
D15) Vv. 657-664, 670-682, 687-691= Atto (V), Moschione, Parmenone
D16) Vv. 691-712= Atto (V), Demea, Parmenone, Moschione
D17) Vv. 715-733= Atto (V), Nicerato, Demea, Moschione
Dialoghi raccontati o immaginati
DI) Vv. 155-163= At (II), i, orobl, Demea, Nicerato
?DII) Vv. 226-227= At (III), r, orect, schiave della casa
199
Per le caratteristiche del sistema di avvicendamento dei turni nella conversazione reale odierna, cfr. supra, 91-100. I
criteri di applicazione della Samia saranno gli stessi utilizzati a proposito del Dyscolos, per i quali cfr. supra, 100-102.
Eventuali deroghe o aggiunte rispetto ad essi saranno opportunamente segnalate.
200
Supra, 68.
144
DIII) Vv. 251-259= At (III), r, orect, nutrice di Moschione, schiava
DIV) Vv. 664-669= At (V), i, orobl, Moschione, Demea
DV) Vv. 682-686= At (V), i, orobl, Moschione, Demea
2.2.3.2. Caratteristiche del sistema di avvicendamento dei turni all’interno dei dialoghi
2.2.3.2.1 Passaggio di parola
La frequenza, nei dialoghi della commedia, della selezione del parlante successivo da parte
di quello del momento (regola a del turn-taking) fa sì che essi si strutturino spesso per larga parte
come successioni di coppie di adiacenza di diverso tipo (domanda/risposta, consiglio/accettazione o
rifiuto, rimprovero/giustificazione o rifiuto, ordine/accoglimento o rifiuto, ecc.).
Come per il Dyscolos, non si può tuttavia affermare l’esistenza di una corrispondenza uno-auno tra i turni e gli atti linguistici in essi compiuti. Come nella conversazione reale odierna, infatti,
accade piuttosto spesso che un unico turno contenga diversi atti, cominciando ad esempio con il
completamento di una coppia aperta dall’interlocutore e concludendosi con l’apertura di una nuova
coppia.
Viceversa, il compimento di un atto di qualunque tipo (ad es. richiesta, domanda, risposta,
ecc.) può richiedere diversi turni di conversazione. Ciò accade ad esempio quando questo è
successivo a mosse preliminari e viene prodotto con la collaborazione dell’interlocutore attraverso
pre-sequenze, come la comunicazione di una notizia preceduta da uno o più pre-annunci (di cui la
Samia offre un esempio nel passo D10 ai vv. 433-435201), ma può derivare dalla scelta di un singolo
parlante che intende rendere il suo atto più efficace e condividerne la responsabilità con colui che ne
è il destinatario. Particolarmente interessanti a tal proposito, anche in quanto dense di implicazioni
relazionali e drammatiche, risultano a mio parere, nel dialogo D14, le repliche di Demea alla
domanda che il partner di conversazione Nicerato gli pone ai vv. 585-586 (ἆρ’ ὁ σός µε παῖς /
ἐντεθρίωκεν;): lungi dal fornire una risposta precisa, che rischierebbe per il suo contenuto di
compromettere il seguito dell’interazione, il vecchio sceglie di comunicare la verità dilazionandola
in diversi turni (occupanti i vv. 586-610) separati da domande e risposte rivolte all’interlocutore,
facendo sì che questo ‘collabori’ alla sua scoperta e che, accettando di proseguire con l’amico i
pettegolezzi e i ragionamenti scherzosi da questi propostigli (vv. 599-604 e 605-610), si disponga
201
Lo svolgimento della sequenza originata dal pre-annuncio è stato da me ampiamente trattato supra, 133-134 in cui
apparteneva al passo A9.
145
gradualmente ad un suo pacifico accoglimento (vv. 604-605, 611, 613), spianando così la strada al
lieto fine.
All’interno del primo elemento di una coppia di adiacenza l’eventuale presenza di frasi che
rendono esplicito il suo valore non sembra avere principalmente la funzione di favorire il cambio di
locutore. Ciò può apparire chiaro dopo una breve indagine su εἰπέ µοι: essa è estremamente
frequente nella Samia (nei passi D4 al v. 170, D11 ai vv. 453 e 483, D14 al v. 589, D15 ai vv. 677 e
690, D16 al v. 692) in unione a frasi interrogative le quali, pur realizzando sempre domande o
rimproveri, cedono immediatamente la parola all’interlocutore soltanto in cinque casi dei quali
almeno uno rivela il suo valore di domanda già per mezzo della locuzione interrogativa διὰ τί da cui
viene introdotto. L’espressione potrebbe fungere pertanto da didascalia implicita in poco più che
nella metà dei casi in cui occorre; al contrario, non manca mai di indicare un particolare
coinvolgimento emotivo del parlante nell’atto che sta compiendo o la sua richiesta di attenzione e
collaborazione al partner di conversazione.
E’ inoltre importante ridimensionare la portata della funzione disambiguante dei vocativi nel
dialogo (ad esempio per rendere chiaro nelle conversazioni ‘a tre’ chi si stia selezionando con il
primo elemento di una coppia adiacente). Questa funzione, pur presente, viene accuratamente
combinata con quelle che i vocativi svolgono all’interno della conversazione reale202: la loro
presenza nel corpo di un’interazione sembra nella stragrande maggioranza dei casi motivata dalle
esigenze comunicative manifestate da un parlante piuttosto che dalla necessità del drammaturgo di
evitare ambiguità circa la distribuzione dei turni.
Come nella conversazione reale, i membri delle coppie di adiacenza sono uniti dal rapporto
di rilevanza condizionale. Di ciò la Samia offre numerosi esempi: uno dei più evidenti è ovviamente
rappresentato dai vv. 313-314 di D7, in cui l’esitazione mostrata da Parmenone nel rispondere alla
domanda di Demea su chi siano i genitori del bambino (lo schiavo non fornisce subito il
complemento alla domanda τὸ παιδίον τίνος ἐστίν;, ma esclama tra sé ἤν, traducibile con “Ecco”,
“Ci siamo”) provoca la ripetizione dell’atto in forma rafforzata da parte dell’interlocutore (τὸ
παιδίον / τίνος ἐστ’ ἐρωτῶ).
Il mancato completamento di una coppia è dunque spesso spia di un atteggiamento non
collaborativo nel parlante che dovrebbe fornirlo: ciò emerge con particolare evidenza dal
comportamento tenuto da Demea in momenti cruciali del plot, che lo vedono deciso a non rivelare
le reali ragioni della rottura della relazione con Criside e dunque restio alla comunicazione con chi
prova a chiedergliele (nella scena della cacciata, costituente il passo D8, zittirà la donna con
l’ordine µή µοι λάλει al v. 380, mentre nel dialogo D11 replicherà al figlio con µή µοι διαλέγου al
202
Va inoltre ricordato che anche nella conversazione reale, quando i parlanti sono più di due, il vocativo serve a
rendere esplicita l’identità dell’interlocutore cui si sta rivolgendo un determinato turno.
146
v. 466), o da quello di Nicerato nel breve scambio di battute che ho indicato come D13, in cui questi
rivela l’intenzione di appropriarsi del bambino anche a costo di ammazzare Criside (vv. 556-563) e
non risponde in modo adeguato al consiglio di Demea di desistere dal proposito.
Anche quando l’assenza del complemento di una coppia non ha immediate ed evidenti
ricadute sul seguito di un’interazione costituisce per il drammaturgo un efficace strumento di
caratterizzazione dei personaggi, non soltanto riguardo alla loro psicologia e ai momentanei stati
d’animo in cui sono raffigurati, ma anche negli equilibri relazionali che instaurano attraverso la
comunicazione. Financo nei rari casi in cui essa può in primo luogo essere ascritta a problemi
tecnici o indipendenti dai partecipanti alla comunicazione (quali la mancata comprensione acustica,
la distrazione, l’interruzione temporanea o definitiva del dialogo a causa dell’intervento di fattori
esterni come l’inatteso ingresso in scena di un personaggio) risulta, almeno nelle relazioni poste al
centro della vicenda, significativa di nodi non risolti nell’interazione tra i partner di conversazione.
A questo proposito è possibile citare il finale del passo D11, in cui Demea scagiona definitivamente
suo figlio dall’accusa mossagli in precedenza e si accusa di ἀδίκηµα nei suoi confronti per avere
nutrito certi sospetti (vv. 537-538): la coppia scuse/accettazione da lui aperta non viene completata
poiché Moschione, vedendo avvicinarsi Nicerato, decide di evitare un confronto con il vecchio ed
esce frettolosamente di scena (v. 539). Questo sviluppo fa sì che la questione dei rapporti tra padre e
figlio dopo l’accaduto non venga sul momento affrontata e che le responsabilità reciproche non si
chiariscano nel dialogo: se dunque non segnala propriamente una rinuncia volontaria di Moschione
all’accettazione delle scuse o alla minimizzazione di quanto ammesso dal padre, ossia un suo
silenzio significativo203, costituisce comunque un sottile indicatore del mancato superamento
dell’inconveniente nell’attuale momento della relazione tra padre e figlio, da cui deriverà il conflitto
del quinto atto tra i due204.
Come nel Dyscolos anche nella Samia tra il primo ed il secondo elemento di una coppia
possono essere introdotti degli inserti, consistenti di solito in una o più nuove coppie interne a
quella iniziale che acquisiscono priorità di completamento rispetto ad essa, anche perché spesso
verificanti la sussistenza delle condizioni per la sua chiusura. Si pensi ad esempio alle coppieinserto aperte rispettivamente da Nicerato in D2 (ai vv. 112-115) e da Demea in D11 (al v. 452), in
cui prima di rispondere ad una domanda dell’interlocutore il parlante che dovrebbe fornirla chiede
che questi gli chiarisca a che cosa il suo atto faccia riferimento.
203
Del silenzio significativo o attribuibile, derivante appunto dalla mancata presa della parola da parte di un parlante
appena selezionato dall’interlocutore attraverso l’apertura di una coppia di adiacenza ho parlato supra, 95.
204
Che la genesi del conflitto segua queste modalità sarà confermato dallo stesso Moschione all’inizio del monologo
che apre il V atto della commedia (vv. 616-sgg.).
147
Una violazione delle regole del turn-taking che in questa commedia si può frequentemente
osservare è il completamento di coppie di adiacenza da parte di parlanti diversi da quelli selezionati
nel turno precedente. Ciò avviene ad esempio all’interno di D1 (vv. 69-85). Al v. 79 Criside,
inseritasi dieci versi prima in una conversazione già cominciata tra gli altri due personaggi, prende
la parola per rispondere alla domanda, rivolta da Parmenone a Moschione205, se continuare a far
credere a tutti che il bambino nato dalla relazione tra il giovane e Plangone sia invece figlio di
Criside: rispondendo con sicurezza in luogo dell’irresoluto Moschione (con l’interrogativa τί δὴ γὰρ
οὔ;206) mostra così la propria determinazione nell’aiutare il giovane e nel proteggere il bambino
nato a lui dalla figlia di Nicerato. Comportamenti simili si osservano in D16 ai vv. 693-sgg., in cui
Parmenone risponde al posto di Moschione alle domande a questi rivolte dal padre circa
l’intenzione di partire mercenario, riempiendo il vuoto comunicativo creatosi tra i due protagonisti a
causa del silenzio del primo, e in D17 al v. 715, in cui alla sconcertata domanda di Nicerato a
Moschione su che cosa indichi il suo abbigliamento militare risponde Demea con una dichiarazione
di non conoscenza, ancora una volta coprendo la reticenza del giovane. Il fatto che le violazioni
descritte siano accompagnate dalla riluttanza del parlante selezionato a completare una coppia di
adiacenza spiega a mio parere perché esse non vengono sanzionate né da colui il quale ha aperto la
coppia né tantomeno dal personaggio che avrebbe dovuto chiuderla.
L’intromissione, all’interno di una coppia, di un parlante non selezionato nel turno
precedente e dunque non autorizzato a parlare può avvenire per completare la coppia ma anche per
svariati altri scopi, come quello di annullare il primo elemento oppure, al contrario, confermarlo e
rafforzarlo ripetendolo: esempi di ciò si hanno rispettivamente in D11 al v. 465, in cui Demea
interviene per cancellare la richiesta appena rivolta dal figlio a Nicerato, e in D17 ai vv. 720-721, in
cui ancora Demea ripete con tono supplichevole l’ordine impartito in modo perentorio da Nicerato a
Moschione al fine di convincere il figlio ad eseguirlo.
Come nel Dyscolos, significativi dell’atteggiamento assunto da un parlante nei confronti del
partner e dell’interazione sono anche i comportamenti relativi all’iniziativa dell’apertura di una
coppia, la quale quando intrapresa indica una partecipazione attiva o addirittura, attraverso il
ripetuto proferimento di determinati atti linguistici (ordini, domande, appelli, ecc.), una
predominanza sugli interlocutori. Non è pertanto casuale che nelle interazioni tra persone di
205
A chi vada assegnata la domanda pronunciata ai vv. 77-79 è oggetto di discussione tra gli studiosi: nell’attribuirla a
Parmenone seguo Austin e Lamagna discostandomi da Sandbach, il quale, sia pure con esitazione, ritiene che l’atto
venga compiuto da Moschione. A me pare che una domanda così attentamente strutturata poco si addica al giovane in
questo frangente, che lo vede confuso ed incapace di discutere la strategia da seguire per sottoporre al padre le questioni
del matrimonio e del bambino (ai vv. 76-77 ha concluso la battuta nella quale si impegnava ad occuparsi di ogni cosa
con la domanda infastidita τί δεῖ λέγειν;). L’una o l’altra attribuzione non modificano comunque il fatto che dopo la
battuta si abbia un’autoselezione impropria da parte di Criside, non interpellata.
206
Essa, che si potrebbe tradurre con la domanda “Perché no?”, si trova anche in Dysc. 365, Plat. Parm. 138b e 140e ed
Eur. Or. 1602 (cfr. Denniston, 211).
148
condizione sociale molto diversa come i liberi e gli appartenenti al personale di servizio (schiavi,
cuochi, etere) siano quelli di status superiore a pronunciare i primi elementi di una coppia e che ai
secondi sia in generale riservato il compito di fornirne i complementi, tutt’al più dopo avere aperto
degli inserti.
Una parziale eccezione a questa consuetudine si osserva ad esempio in D1, all’interno del
quale Parmenone soprattutto nella prima parte, precedente all’intervento di Criside (vv. 61-69)
pronuncia più volte primi elementi di coppie di adiacenza all’indirizzo di Moschione (uno o più atti
di consiglio, una richiesta di chiarimento, un rimprovero) mostrando un atteggiamento tutt’altro che
sottomesso nei suoi confronti: lo schiavo assume infatti la veste di consigliere del giovane, che tenta
di spronare ad avere coraggio. Questo rapporto andrà tuttavia soggetto a modificazioni nel corso
della commedia. In D15, infatti, quando il padroncino gli avrà ingiunto di prendere il mantello e la
spada facendogli capire di voler lasciare la casa per divenire mercenario, lo schiavo tenterà di porsi
nei suoi confronti allo stesso modo in cui sembra abituato, ad esempio rivolgendogli domande (tra
cui τί δὲ τὸ πρᾶγµα; al v. 662) o inviti a farsi coraggio (come θάρρει· τί βούλει; al v. 677), ma si
scontrerà con una durezza mai prima sperimentata da parte sua.
Per la creazione, la modifica o la negoziazione del proprio ruolo interazionale da parte dei
partecipanti ad un dialogo, i comportamenti relativi alle coppie di adiacenza vanno considerati
soltanto un caso particolare di quelli assunti a proposito delle diverse modalità di presa della parola
da un parlante. Ad esempio l’autoselezione (regola b del turn-taking) indica una certa autonomia
all’interno di un’interazione mostrando spesso l’interesse di un parlante allo sviluppo della stessa in
un determinato senso. Oltre che aprire coppie di adiacenza, l’autoselezione può generare turni di
valutazione, di presa d’atto di un determinato complemento di una coppia, di espressione di accordo
o disaccordo rispetto ad affermazioni e giudizi dell’interlocutore (con cui si completa una catena
d’azioni), di proferimento di segnali di sostegno207. Come si è detto, l’autoselezione può inoltre
aversi più volte all’interno di uno stesso turno. Questo avviene nella Samia soprattutto al fine di
passare da una mossa interazionale ad un’altra, ossia per guidare il procedere del dialogo nella
direzione voluta oppure per favorire il suo sviluppo nel modo indicato dall’interlocutore nei turni
precedenti. La ripetuta autoselezione dà vita a turni di una certa estensione in un limitato numero di
casi, che costituiscono per la maggior parte repliche ad obiezioni, rimproveri, accuse o complementi
non preferenziali di coppie di adiacenza. Soltanto in pochi di questi casi ci si trova di fronte ad atti
di altro tipo, come descrizioni di luoghi, esposizioni del proprio parere in merito ad un argomento,
ecc. In generale sembra dunque che le situazioni di incomprensione e di conflitto provochino, da
parte di almeno uno dei parlanti, un maggiore dispendio di materiale verbale nell’ambito di una
207
Per le catene d’azioni e i segnali di sostegno cfr. supra, rispettivamente 98 e 95.
149
stessa battuta. Uno degli esempi più significativi di ciò è senz’altro costituito dal lungo discorso di
Demea al figlio ai vv. 694-712 (D16), al quale il vecchio si sente costretto per riportare l’armonia
tra lui e suo figlio dopo aver constatato che le accuse precedentemente rivoltegli lo hanno
profondamente ferito.
Una speciale menzione merita il funzionamento del passaggio di parola nelle conversazioni
‘a tre’, che Menandro sa gestire con maestria riuscendo quasi per ogni turno ad evitare oscurità
riguardo all’identità del parlante del momento attraverso l’impiego di pochi ma efficaci espedienti.
Uno di questi, che si trova utilizzato in D5 ai vv. 189-195, è l’inserimento del dialogo tra due
personaggi all’interno di un altro scambio verbale, il quale viene temporaneamente interrotto per
riprendere soltanto a conclusione dell’inserto. Un altro, analogo al primo, consiste nel non dare mai
la parola ad un personaggio pur coinvolto nella conversazione motivando il suo silenzio con ragioni
psicologiche, relazionali oppure di organizzazione della conversazione. Si pensi a tal proposito alla
scena della cacciata di Criside da parte di Demea (D8), all’interno della quale viene coinvolto un
terzo personaggio. Si tratta del cuoco, che all’inizio si limita ad origliare i loro discorsi prendendo la
parola soltanto dopo che il vecchio ha ridotto al silenzio la donna con l’ordine di non parlargli (v.
380). Dai suoi due interventi, preceduti entrambi da osservazioni ‘a parte’ sull’opportunità di farsi
avanti, hanno origine brevi scambi di battute di struttura simmetrica tra lui e Demea (posti ai vv.
383-384 e 387-390). Non tutti i dialoghi di questo tipo si svolgono nella Samia secondo assi
comunicativi ben distinti tra due dei tre personaggi coinvolti. Alcuni lo fanno soltanto in parte,
come il lungo scambio verbale del quarto atto tra Demea, Moschione e Nicerato costituente il passo
D11, all’interno del quale si distinguono una prima sezione svolta prevalentemente tra Moschione e
Demea (vv. 452- 491)208 ed una seconda parte, accuratamente preparata da riferimenti dei due
parlanti alla persona del vicino, che sarà dominata da quest’ultimo e coinvolgerà molto meno
entrambi gli altri personaggi (vv. 492-520).
2.2.3.2.2 Struttura dei turni di conversazione
Come già osservato a proposito del Dyscolos, la struttura, la durata e la composizione dei
turni sono caratterizzate in tutta la commedia da un’estrema varietà, venendo in gran parte
208
In questa parte Nicerato interviene soltanto in un caso (v. 463), rendendo il proprio intervento ben riconoscibile
attraverso il vocativo usato (∆ηµέα, difficilmente attribuibile a Moschione) ed il riferimento all’azione appena compiuta
da Moschione (καλῶς λέγει). Il suo turno darà origine ad una richiesta di Moschione a lui rivolta (v. 464) che tuttavia
Demea bloccherà prontamente rivolgendosi al figlio ed escludendo perciò nuovamente il terzo personaggio dalla
conversazione (vv. 465-466).
150
influenzate da quanto precede ma ovviamente anche da quanto il parlante prevede o vuole che
segua nell’interazione209.
2.2.3.2.3 Silenzi, sovrapposizioni, interruzioni, riparazioni, ripetizioni
I turni derivanti da autoselezione possono nella conversazione reale essere preceduti da
silenzi e sovrapposizioni, difficilmente raffigurabili nel testo teatrale antico, privo di didascalie e
costretto pertanto a presentare tutte le battute, comprese quelle pronunciate ‘a parte’, l’una di
seguito all’altra. Nei dialoghi della Samia Menandro tuttavia non rinuncia del tutto al silenzio
dovuto a mancata autoselezione210, costituente uno strumento sottile ed efficace per rappresentare,
tra l’altro, difficoltà interazionali, ma trova il modo di portarlo sulla scena in più di una occasione.
In un passo della commedia questo tipo di silenzio effonde in modo particolarmente intenso
le proprie valenze emotive e comunicative: si tratta della scena della cacciata di Criside (D8).
Cominciata con l’ordine dato da Demea alla donna di lasciare per sempre la casa che la ospitava
(ἄπιθι al v. 369), la scena prosegue per un po’ soprattutto grazie ai tentativi di Criside di
comprendere le motivazioni del gesto improvviso del suo uomo attraverso domande e richieste di
chiarimento (vv. 369, 372 e 374). Demea resiste alla tentazione di rivelare le reali ragioni del suo
gesto, dato che si è imposto di non dire nulla per il bene di Moschione, ma a poco a poco viene
catturato da un’ansia di comunicare alla donna tutta la sua delusione per i suoi comportamenti
dicendole in faccia che, prima che fosse ammessa in casa sua, ella era soltanto un’etera di infima
condizione. Quest’ansia, appunto perché frenata, non dà luogo ad un discorso organico, ma si
manifesta attraverso battute separate da intervalli di silenzio, che riescono ad essere raffigurati
grazie alla discontinuità prodotta da nuove domande della donna (ai vv. 379 e 380) e soprattutto
dalle riflessioni ‘a parte’ e dai tentativi di intervento del cuoco, causa delle reazioni stizzite di
Demea (vv. 375, 383-384, 386, 387-390). Si potrebbe obiettare che le interruzioni del parlare di
Demea siano dovute soltanto ai fattori esterni e all’impossibilità di rappresentare in sovrapposizione
le sue parole e gli ‘a parte’ del cuoco e sostenere l’assenza di indugi da parte del vecchio. Se si
osservano lo sviluppo interno delle battute pronunciate dal vecchio e i rapporti dai quali sono legate,
è possibile tuttavia notare come molte si compongano in gran parte di unità che costituiscono la
semplice ripetizione di quelle dei turni precedenti, intese dal parlante come conclusive: in
particolare, ai vv. 372-373 questi, dopo aver ricordato alla donna che ella ha con sé ciò a cui tiene,
le intima nuovamente, ma con tono ancora più adirato e spazientito, di sparire (ἀποφθείρου ποτέ);
209
Cfr. l’analisi dei dialoghi del Dyscolos per la citazione di esempi (supra, 114-115).
Questo tipo di silenzio viene denominato nell’analisi conversazionale “vuoto” quando è contraddistinto da
un’estensione temporale minima ed “indugio” se di durata prolungata. Cfr. supra, 95 e Levinson 1993, 303.
210
151
subito dopo risponde nuovamente ad una sua domanda (vv. 374 e 375) e, in seguito, continua a
parlare ricordando l’arrivo della donna in casa sua (vv. 377-379), e i sentimenti da lei manifestatigli
all’inizio (379-380); in una successiva battuta (vv. 380-383) riprende e sintetizza quanto già detto
(ἔχεις τὰ σαυτῆς πάντα al v. 381) rivolgendole un nuovo ordine di andare via (ἐκ τῆς οἰκίας / ἄπιθι).
L’interazione sembrerebbe ormai terminata, e tuttavia non è così: dopo un intervento del cuoco ed
un breve scambio di battute con lui, Demea non soltanto non esce di scena, ma nuovamente
riprende la parola, agganciandosi all’ultimo turno pronunciato con il tenue connettivo γάρ, per
prefigurare il proprio futuro accanto ad un’altra donna e, dopo un’ulteriore breve interruzione,
ripetere ancora una volta che Criside ha tutto e può andare via (vv. 386-387); ma nemmeno stavolta
la scena si conclude, poiché ad un nuovo silenzio, rotto soltanto dal secondo maldestro tentativo di
intervento del cuoco, segue lo sfogo finale del vecchio, che comincia con un’esclamazione
sarcastica riferita alla donna (τὸ µέγα πρᾶγµα al v. 390) e prosegue, stavolta ininterrottamente,
preannunciandole una vita difficile come quella delle donne della sua condizione, fino a concludere
definitivamente l’incontro con l’ennesimo imperativo (ἕσταθι al v. 398, riferito ad un tentativo della
donna di trattenerlo). Questa successione lascia emergere a mio parere con estrema chiarezza come
le battute pronunciate da Demea non possano essere viste come segmenti di un unico turno
spezzettato per ragioni di rappresentazione, ma costituiscano al contrario l’espressione verbale dei
sentimenti che si affollano nella mente del vecchio, espressione condizionata pesantemente dalla
linea di condotta che questi si è imposto e per questo manifestantesi ogni volta attraverso un fiotto
di parole a cui spesso viene posto a sigillo un atto di chiusura di interazione e segue un silenzio che
non riesce a segnare la fine della comunicazione, in quanto, fino all’ultimo, carico dei sentimenti di
rabbia e di delusione che il parlante sente il bisogno di sfogare.
Similmente, nella prima parte del passo D11 (vv. 452-476), Menandro rappresenta la
riluttanza di Demea a proseguire la conversazione per mezzo di silenzi attribuibili e indugi211 che
divengono ‘visibili’ nel testo della commedia grazie alle battute che il vecchio pronuncia ‘a parte’
(vv. 456, 457-458, 461-462, 473), provocando domande e richieste di chiarimento con cui
Moschione tenta di sollecitare il padre ad esprimere quello che pensa nel dialogo (forse al v. 456,
lacunoso, e con certezza al v. 476).
Dalle caratteristiche appena illustrate si evincono a mio parere non soltanto la straordinaria
abilità menandrea nel rinvenire, all’interno delle maglie troppo rigide del testo, espedienti atti a
rappresentare alcuni tra i più comuni problemi di cessione e presa della parola occorrenti nella
conversazione, ma anche il carattere significativo della manifestazione di tali problemi nel dialogo,
mai casuale ma al contrario motivata da precise esigenze drammatiche.
211
Del silenzio definito in AC “indugio” ho parlato supra, 95.
152
Il fenomeno della sovrapposizione sembra non trovare posto nel dialogo della Samia così
come in quello del Dyscolos, a differenza di quello dell’interruzione di enunciato e di turno, di cui
invece si fa un utilizzo ampio e variegato avente, in questa più che nell’altra commedia, importanti
conseguenze sul procedere dell’intreccio oltre che una fondamentale funzione di caratterizzazione
dei personaggi.
Le interruzioni di turno e/o di enunciato possono avvenire ad opera dell’interlocutore
(interruzioni dell’altro parlante) oppure essere dovute alla scelta dello stesso parlante del momento
(auto-interruzioni). Dato lo stato di conservazione del testo della commedia, della loro presenza nei
dialoghi non si ha sempre assoluta certezza, ma secondo il testo da me accolto interruzioni dell’altro
parlante si hanno ai vv. 292 (D6), 311, 312, 320 (D7), 384, 388 (D8), 612 (D14) e forse al v. 598
(ancora di D14)212. Quelle sicure indicano sempre l’intenzione di chi le opera di porre fine
bruscamente al turno dell’interlocutore (e dunque all’atto linguistico che questi sta compiendo), allo
scopo di guidare con forza la conversazione in un altro senso, di portarla a conclusione o di
escluderne l’interlocutore (lo mostra il fatto che esse sono costantemente seguite da un atto di
rimprovero all’interlocutore per l’atto che sta compiendo o di ordine di desistere dal portarlo a
termine). Dal loro esame si comprende come siano fortemente significative non soltanto dello stato
d’animo di chi le compie, indicando costantemente impazienza, rabbia oppure tenace ostinazione,
ma anche dello status relativo dei personaggi e del loro rapporto. Non è casuale, infatti, che
avvengano nella maggior parte dei casi all’interno di rapporti asimmetrici, ossia tra liberi e loro
subalterni ad opera dei primi, e molto più raramente (è soltanto il caso di quelle ai vv. 292 e 612) in
interazioni tra persone di condizione simile.
Non sono equiparabili alle interruzioni appena descritte le brevi reazioni verbali di un
personaggio alle parole di un altro che non impediscono a quest’ultimo di portare a termine il turno
ma si incastonano nella sua battuta, da classificare ovviamente tra i segnali di sostegno: un esempio
si trova in D11 al v. 497, in cui alla lunga serie di improperi scagliata da Nicerato all’indirizzo di
Moschione il giovane interpone una brevissima domanda (ἐγώ;) dopo la quale il discorso del vicino
continua.
Alcuni passi sono incerti in quanto si prestano ad essere interpretati anche come autointerruzioni: sono quelli contenuti ai vv. 598 e 612, ritenuti interruzioni dell’altro parlante da alcuni
212
Ho escluso dall’elenco delle interruzioni quella che alcuni studiosi (tra cui Lamagna) ipotizzano abbia avuto luogo al
v. 193 ad opera di Demea nei confronti di Parmenone, che non può ritenersi certa dato lo stato lacunoso del testo, e
quella che Sandbach segna al v. 543 in seguito ad una sua integrazione della parte finale del verso (γάρ – ), non
necessaria ed infatti non condivisa dalla maggioranza degli editori (che preferiscono il supplemento σοι proposto da
Austin).
153
commentatori213, e da altri interruzioni dello stesso parlante214. Oltre ai casi incerti, autointerruzioni sono presenti nel dialogo ai vv. 69 (D1), 372, 374 (D8), 439 (D10), 532 (D11), 547 due
volte (D12), 663 (D15)215. Di queste soltanto alcune sono dovute alla scelta del parlante di
interrompere un flusso di parole ritenuto sconveniente, risultando classificabili secondo la
terminologia retorica tradizionale come aposiopesi216.
Le aposiopesi più interessanti sul piano interazionale sono a mio parere quelle operate da
Demea ancora una volta nel dialogo in cui espelle Criside dalla propria casa rispettivamente ai vv.
372 e 374. In ambedue i casi il vecchio si blocca di fronte alla tentazione di rivelare quanto crede di
avere scoperto sulla relazione tra Criside e Moschione, per non tradire l’impegno a tacere. Criside,
la quale non si spiega questo comportamento, tutte e due le volte chiede chiarimenti cercando di
indurlo a terminare la frase, ma questi replica sempre cancellando l’atto che stava pronunciando217.
Differente valore hanno le auto-interruzioni dovute all’intervento di fattori esterni come
l’ingresso o l’uscita inattesi di un personaggio, ecc. Due casi di questo genere sono contenuti al v.
547, in cui Nicerato, dopo aver protestato con Demea per il suo modo di argomentare, decide
improvvisamente di rientrare in casa e non finisce neanche di annunciarlo (pronunciando soltanto la
mezza frase ἀλλὰ πάλιν ἐλθών - ), preso com’è dall’ansia di apprendere la verità dalle donne di casa
su quanto accaduto alla figlia, e Demea, tentando di trattenerlo, comincia, non senza difficoltà, ad
articolare un turno pregando l’amico di ascoltarlo brevemente (τὸ δεῖναν µικρόν, ὦ τᾶν - ), ma non
riesce a terminare la sua richiesta, dato che questi è nel frattempo sparito all’interno della casa.
Se da una parte è vero che entrambi i tipi di auto-interruzione producono uno stacco, una
pausa più o meno duratura all’interno dello scambio in corso, l’aposiopesi risulta in generale più
interessante per le sue valenze comunicative e relazionali proprio perché deriva da un forte
controllo del parlante su quanto dice218, mentre la semplice auto-interruzione indica il cedimento
213
Uno di questi è Arnott, che nella sua traduzione della commedia designa come “interrupting” i turni successivi a
quelli non terminati.
214
Casanova 2007 ritiene quella del primo dei due passi un’aposiopesi eufemistica (16) e quella del secondo
un’aposiopesi di minaccia svolta con la collaborazione dell’interlocutore, che “interviene e collabora concretamente alla
sospensione della frase (stemperando volutamente la tensione)” (11). Ricottilli 1984, 77 ritiene invece incerto il tipo di
interruzione al v. 598 e considera un’aposiopesi la seconda.
215
Ho escluso dall’elenco in quanto mutili i vv. 459-460 di D11, in cui Sandbach ipotizza la presenza di un’autointerruzione di Demea proponendo l’integrazione προσδοκ. ῶ <’γώ> che tuttavia rinuncia ad inserire nel testo forse
perché piuttosto audace.
216
L’illustrazione della figura retorica dell’aposiopesi è contenuta ad esempio in Lausberg, 1990, 438-440, Casanova
2007, 1-2 e Ricottilli 1984, (soprattutto) 11-45, la quale conduce un approfondito studio su di essa, evidenziandone le
motivazioni psicologiche ed antropologiche secondo una prospettiva pragmatica senza fermarsi al suo valore retorico.
E’ appunto secondo tale prospettiva, accolta anche da Casanova 2007, 2 e condivisa da Müller 1997, 167 e 171-176 (il
quale sembra non conoscere lo studio di Ricottilli), che valuterò questo tipo di auto-interruzione. Sia Ricottilli 1984,
(soprattutto) 49-77 sia Casanova 2007, 2-16 indagano inoltre l’aposiopesi nelle commedie di Menandro. Per la
discussione dei singoli passi in cui essa è presente rinvio pertanto in questa sede ai loro studi, limitandomi a citare
qualche esempio.
217
Lo ha ben visto Ricottilli 1984, 68-69 (per il v. 374) e 75-76 (per il v. 372). Cfr. anche Casanova 2007, 13-15.
218
Cfr. soprattutto Ricottilli 1984, 11-45.
154
della volontà di comunicare nel parlante del momento di fronte all’irrompere di situazioni esterne
che ne catturano l’attenzione modificando di solito bruscamente il contesto d’enunciazione219
oppure al prevalere in lui di stati emotivi che lo inducono ad agire in modo diverso da come si
preparava a fare.
Passando al fenomeno della riparazione, ossia dell’intervento dei parlanti teso a porre
rimedio ai problemi di produzione, ricezione e comprensione che possono sorgere nello scambio
verbale220, nei dialoghi della Samia esso è presente meno frequentemente che nella conversazione
reale ordinaria, dato che la commedia non rappresenta, se non occasionalmente e, al pari di altri
fenomeni normalmente osservabili nella conversazione, per precise ragioni drammatiche, i piccoli
intoppi che il produrre o il ricevere un turno presentano costantemente nel parlare quotidiano.
A proposito di questo fenomeno, una significativa novità rispetto a quanto rilevato nel
Dyscolos è rappresentata dall’occorrenza di correzioni dovute alla mancata comprensione acustica
di quanto detto dall’interlocutore, registrata ad esempio ai vv. 476 (D11) e 544-545 (D12). In
entrambi i casi accade che Demea, impegnato la prima volta in un confronto verbale con Moschione
e la seconda in un dialogo con Nicerato, pronunci delle parole tra sé, dando voce a pensieri che non
intende rivolgere all’interlocutore del momento, e che quest’ultimo, sentendolo parlare in modo
incomprensibile221, gli chieda che cosa abbia appena detto e gli ceda la parola perché possa porre
fine al problema. Il fatto che nei passi citati il problema per il quale si rende necessaria la
riparazione nasca da ragioni tecniche, ossia dalla mancata comprensione acustica delle parole
dell’interlocutore, non rende né il primo né conseguentemente la seconda casuali: in entrambi i casi
infatti il trouble si riferisce a parole pronunciate ‘a parte’ da un personaggio e tuttavia colte dal suo
partner di conversazione, che sollecita con una domanda (τί δὲ λέγεις; nel primo caso, τί φήις; nel
secondo) una ripetizione; ci si trova pertanto di fronte ad un fallimento non già della
comunicazione, ma della rinuncia a comunicare che il personaggio nell’una e nell’altra occasione si
è imposto222.
La procedura seguita nei due passi esaminati è quella, estremamente diffusa nella
conversazione reale odierna, di una riparazione etero-iniziata, ma che si richiede all’interlocutore di
completare, attraverso la domanda di forma ICTS. Essa è tuttavia polivalente sul piano pragmatico,
potendo costituire, a seconda delle situazioni, non soltanto un inizio di riparazione, ma anche
219
A proposito di questo tipo di interruzioni, Casanova 2007, 16 osserva correttamente che si tratta di “variazioni
nell’impiego della sospensione”, modi cioè attraverso i quali “il commediografo detta i tempi dell’azione”.
220
Il concetto di riparazione (o correzione) viene da me illustrato supra, 98-99.
221
Probabilmente in simili casi l’attore volgeva il capo in direzione opposta a quella nella quale si trovava
l’interlocutore e il pubblico assumeva per convenzione che il personaggio parlasse a voce bassa.
222
Bain 1977, 126 e 157 sostiene invece che non si dia nella Commedia Nuova greca il caso di parole udite ma non
capite dall’interlocutore: egli cita come caso possibile ma non probabile di questo fenomeno soltanto il v. 456 di questa
commedia, ma tralascia a mio parere l’esempio più chiaro di esso, occorrente al v. 545 (in cui la maggioranza degli
interpreti ritiene appunto che Nicerato senta ma non capisca le auto-accuse che Demea ha appena rivolto a se stesso).
155
un’espressione di incredulità, di disaccordo o di rabbia, una richiesta di conferma o chiarimento,
ecc.
Le domande di forma ICTS sono talmente frequenti nei dialoghi menandrei da rappresentare
uno dei tratti più caratteristici del loro sviluppo. Nella Samia sono rappresentate tutte le tipologie
formali di ICTS rinvenute nell’analisi conversazionale come etero-inizi di riparazione, ossia:
1) domande di una sola parola come “Cosa?”, “Come”, “Chi?”, che chiedono di chiarire
quanto l’interlocutore ha già detto. Se ne trova un esempio nel passo D9 al v. 409, in cui Nicerato,
dopo aver saputo della cacciata di Criside da parte di Demea, rende manifesto il proprio stupore
attraverso le interrogative τίς; ∆ηµέας; che sono richieste di conferma di quanto fa fatica a credere;
2) domande contenenti la parziale ripetizione del turno in cui è presente il problema o
trouble accanto ad un segno interrogativo. Gli esempi di questa tipologia sono numerosissimi: uno
di questi è la domanda di Demea al v. 522 (πῶς µηδὲ ἕν;) in D11 con cui chiede al figlio di
precisare il valore del pronome neutro µηδέν utilizzato nel turno precedente;
3) domande composte dalla parziale ripetizione del turno in cui è presente il trouble, che
talvolta è lievemente variata o accompagnata da aggiunte. Anch’esse sono abbondantemente
rappresentate nei dialoghi della commedia: due esempi lievemente diversi tra loro sul piano formale
sono costituiti dalla domanda di Parmenone al v. 307 (D7), in cui lo schiavo ripete il verbo appena
pronunciato dal padrone che lo ha lasciato piuttosto sconcertato in quanto avente la sua persona
come oggetto (µαστιγοῦν), domandando subito dopo quali siano le ragioni non soltanto del suo uso,
ma anche dell’atto linguistico di minaccia in cui esso è contenuto (τί δὲ πεπόηκα; ai vv. 307-308), e
da quella di poco successiva (στίξεις ἐµέ; al v. 323) in cui ancora Parmenone, ripetendo con minime
variazioni negli indicatori deittici quali la persona del verbo e il pronome personale la frase di
minaccia appena pronunciata dal padrone (στίξω σε nello stesso verso), gliene chiede conferma con
preoccupazione;
4) domande con verba dicendi come λέγεις / φήις reggenti in accusativo od in frase
infinitiva il senso che si propone di dare al turno dell’interlocutore. Un esempio è quello dei vv.
114-115 (D2), nei quali il parlante, con la domanda τὰ περὶ τὸν γάµον λέγεις …; intende sincerarsi
presso l’interlocutore di aver capito correttamente il riferimento del generico pronome neutro (ὧν al
v. 113) da questi pronunciato nel turno precedente;
5) domande con λέγεις / φήις preceduti da un avverbio interrogativo o reggenti un
accusativo neutro. Si pensi al comune τί φήις;, trovato ad esempio ai vv. 480, 524 (D11) e 545
(D12), o a τί (…) λέγεις; presente ai vv. 476 (D11), 689 (D15) e (in forma lievemente variata) 377
(D8) o a πῶς λέγεις;, che si trova al v. 66 (D1);
156
6) domande che ripetono la parte del turno precedente contenente il trouble retto in
accusativo dal verbo che indica il valore o il contenuto dell’atto compiuto dall’interlocutore. Un
esempio è quello presente in D11 al v. 485 (“διὰ τί”, φήις;), costituendo soprattutto un atto di
rimprovero di Demea per la domanda (διὰ τί; nello stesso verso) che Moschione ha osato porgli;
7) ripetizioni di domande dell’interlocutore in forma di interrogative indirette rette in una
interrogativa diretta da un verbo espresso oppure sottinteso. Si pensi ad esempio alla successione,
presente ancora in D11 al v. 481, (Μο.) τί βοᾶις; (∆η.) ὅ τι βοῶ, κάθαρµα σύ;, in cui la seconda
domanda sottintende chiaramente una forma verbale come ἐρωτᾶις risultando traducibile con
l’interrogativa “Mi chiedi perché urlo, essere immondo?”.
Talvolta le forme si presentano combinate in uno stesso etero-inizio di riparazione. E’
quanto accade in D3 al v. 131, in cui Moschione rende chiaro al padre di non aver compreso il
senso dell’espressione da lui appena usata (γαµετὴν ἑταίραν al v. 130) con due successivi ICTS
(γαµετήν; πῶς;) che preludono all’affermazione esplicita ἀγνοῶ <γὰρ> τὸν λόγον allo stesso
verso223.
E’ difficile dal confronto tra i dati posseduti sulla Samia ravvisare differenze funzionali tra
tutti i tipi di ICTS impiegati: se alcuni hanno chiaramente il valore di richieste di chiarimento o di
conferma per quanto detto dall’interlocutore, altre possono essere anche rimproveri per l’atto da
questi svolto nel turno precedente o manifestazioni di stupore. Sotto l’aspetto formale si può
osservare che le domande costituite da πῶς e parte del turno precedente differiscono da quelle con τί
e parte del turno precedente e da quelle con parte del turno precedente e forme di λέγω o di φηµί
poiché mentre queste ultime contengono la citazione letterale delle parole dell’interlocutore le
prime di solito le adattano al punto di vista del parlante modificandole spesso in conseguenza dello
spostamento del centro deittico, in modo da renderle parti integranti del nuovo enunciato.
Prendendo in considerazione soltanto le domande di questo tipo introdotte da τί e quelle con il
verbum dicendi λέγω, Lamagna (ad v. 321) osserva come le prime compaiano sempre a completare
un piede giambico, ossia prima di parole costituenti un cretico o di monosillabi lunghi, e come ad
un bisillabo il commediografo preferisca posporre forme del verbo λέγω. L’esame appena svolto ci
consente tuttavia di osservare come il linguaggio menandreo si serva di una gamma molto più
ampia di possibilità, contemplanti ad esempio domande con la seconda persona del presente di φηµί
223
Probabilmente non è casuale la sovrabbondanza di mezzi con cui Moschione in questo passo manifesta la mancata
comprensione del turno del padre. Ritengo infatti verosimile che il giovane menta, comprendendo in realtà che
l’espressione ossimorica usata dal padre giudichi con sarcasmo la decisione di Criside di allevare il bambino. La
versione dei fatti appresa da Demea non può infatti che essere quella concordata dal giovane stesso con la donna e
Parmenone ai vv. 77-sgg., a proposito della quale Moschione aveva immediatamente previsto una reazione irata di
Demea (v. 80). Se è vero che alla vista del padre il giovane ha sospettato che questi avesse sentito le parole da lui
appena pronunciate in monologo riguardo al suo progetto di matrimonio (v. 128), la prima risposta fornita dal padre alla
domanda sul perché sia così scuro in volto (vv. 129-130) deve aver dissipato quest’iniziale paura.
157
posposta all’elemento ripetuto della battuta dell’interlocutore (v. 485) o con πῶς preposto alla parte
del turno precedente ripetuta (vv. 522, ma anche 715 in D17, che suona: πῶς οὐκ οἶσθα σύ;), le
quali non hanno sempre una collocazione così rigida all’interno del verso (negli ultimi due passi
citati, ad esempio, l’interrogativo precede rispettivamente l’ultimo metron di un tetrametro trocaico
e l’elemento finale del penultimo; in Dysc. 829 la domanda occupa invece gli ultimi tre elementi del
secondo metron di un trimetro).
Poiché gli ICTS riprendono almeno alcune delle componenti del turno precedente,
costituiscono la più ricorrente forma di ripetizione all’interno del dialogo. La ripetizione dello
stesso parlante (o auto-ripetizione) all’interno di uno stesso turno ha soprattutto la funzione di
rafforzare quello che si dice, evidenziando talvolta un particolare coinvolgimento emotivo del
parlante negli argomenti trattati. Si pensi ad esempio a quelle contenute ai vv. 465 (Μοσχίων, ἔα µ’,
ἔα µε, Μοσχίων, il cui effetto è enfatizzato dal chiasmo) e 470-471 (τοὺς γάµους ἔα ποεῖν, τοὺς
γάµους ἔα µε ποιεῖν), ambedue pronunciate da Demea che tenta di sottrarsi alle insistenze del figlio
nella richiesta di riammettere in casa Criside in D11 ma diviene sempre più nervoso.
Soprattutto nei turni di una certa estensione la ripetizione di singoli elementi non ha sempre
valore conversazionale, anche perché talora può essere involontaria o dovuta alla natura degli atti
che si compiono. Si consideri a tal proposito l’esempio costituito dal discorso di Demea a
Moschione che occupa i vv. 694-712 (D16), all’interno del quale si registrano numerose ripetizioni:
di queste alcune hanno un chiaro valore retorico, come mostra ad esempio la collocazione degli
elementi ripetuti (si pensi alla ripetizione imperfetta καλῶς … καλόν ai vv. 711-712, la cui forza è
accresciuta dal fatto che i due termini, opposti all’interno di una stessa unità di turno, sono disposti
chiasticamente e si trovano entrambi in posizione rilevante all’inizio e alla fine di un enunciato),
mentre altre sembrano piuttosto rispondere all’esigenza della costituzione dell’argomentazione o
semplicemente essere dovute al ritorno su uno stesso tema, risultando probabilmente non volute.
Naturalmente, anche le ripetizioni non volontarie acquisiscono un significato sul piano della
caratterizzazione del parlante del momento e della descrizione dello stato d’animo in cui si trova.
Le funzioni conversazionali della ripetizione relative al passaggio di parola svolgono un
ruolo piuttosto limitato nel dialogo della Samia. Data l’assenza di sovrapposizioni, è impossibile ad
esempio provare che alcune ripetizioni presenti ad inizio di turno siano dovute all’intenzione di
proseguire il turno in caso di autoselezione contemporanea di più parlanti. Più facile è invece
riconoscere l’auto-ripetizione finalizzata al mantenimento della parola attraverso l’ampliamento del
proprio turno, ravvisabile ad esempio nella lunga battuta che il cuoco rivolge a Parmenone in D6 ai
vv. 287-292, in cui la ripetizione di pronomi ed avverbi interrogativi e della congiunzione εἰ è
funzionale ad espandere il turno internamente attraverso una successione di interrogative indirette e
158
al contempo ad enfatizzare quanto si sta dicendo (non è un caso che per far cessare il turno
Parmenone sarà costretto ad interromperlo lamentando di venire dalle sue parole “ridotto in
poltiglia”).
L’auto-ripetizione differita, ossia interturno, indica spesso la ripetizione, da parte di un
parlante in un comportamento già avuto. Così ad esempio in D14 ai vv. 599-600, con la frase
λήψεται µέν seguita dopo poco da un’avversativa, Demea riprende quanto già detto a Nicerato ai
vv. 586-587 (λήψεται µὲν τὴν κόρην, ἔστι δ’ οὐ τοιοῦτον) per rassicurarlo nuovamente sul fatto che
il matrimonio tra Moschione e Plangone avrà luogo. Similmente, in D15 al v. 675 Moschione
rivolge a Parmenone la stessa domanda del turno precedente (οὗτος, οὐ φέρεις;, che riprende l’ οὐ
φέρεις; del v. 673) mentre Parmenone al v. 681 (ποῦσι … τοὺς γάµους) riprende, anche se
cambiandone il verbo, un’affermazione già pronunciata al v. 673 (ἄγουσι τοὺς γάµους ὄντως). I tre
esempi citati sono tutti interazionalmente rilevanti in quanto ricorrono in situazioni di conflitto o di
malinteso. Sul primo dei passi appena citati avrò occasione di diffondermi più a lungo altrove, dato
che risulta interessante anche per gli atteggiamenti di Demea riguardo a suo figlio224. Gli altri due,
sebbene di rilievo relazionale minore in quanto relativi entrambi al problema comunicativo che
sorge tra Moschione ed il suo schiavo Parmenone dopo l’ordine dato dal primo al secondo di
prendere in casa l’equipaggiamento adatto a partire (lo schiavo pensa infatti che il padroncino stia
per lasciare la casa per non aver ricevuto il permesso di sposare Plangone, mentre Moschione non
vuole fargli conoscere le sue vere intenzioni), ossia all’interno di un rapporto ovviamente non
problematico, appaiono in questa sede degni di un’analisi puntuale. La prima ripetizione è effettuata
da Moschione, che, riprendendo l’atto linguistico di domanda appena compiuto con l’aggiunta di
una sfumatura di impazienza (comunicata dal pronome οὗτος225), rende chiare all’interlocutore
l’assenza di interesse per le novità che questi crede di avergli comunicato nella sua battuta dei vv.
673-674 e l’intenzione di voler rimanere all’argomento su cui è incentrata la domanda. L’autoripetizione dello schiavo è caratterizzata invece da una notevole distanza tra i turni interessati,
mostrando come il parlante sia rimasto insoddisfatto delle reazioni avute dall’interlocutore dopo il
primo proferimento dell’enunciato nonché del successivo svolgimento della conversazione e tenti di
ottenere maggiore successo la seconda volta, sottolineando la veridicità di quanto ha detto (ὄντως).
A proposito dell’etero-ripetizione, non mi soffermerò sulle sue occorrenze automatiche,
ossia non intenzionali, né su quelle obbligatorie, come ad esempio quelle compiute nell’atto di
rispondere ad una domanda226 senza altri intenti. Le occorrenze volute e non obbligatorie hanno al
contrario notevole importanza interazionale, soprattutto per le funzioni svolte nell’espressione di
224
Cfr. infra, 380-381.
Per il valore del pronome come termine di address cfr. supra, 70 n. 10.
226
Per la ripetizione di un termine in risposta ad una Satzfrage cfr. KG II, 539 e Shalev 2003, soprattutto 351-353.
225
159
accordo o disaccordo rispetto a quanto detto dall’interlocutore. Si è già parlato di uno degli
impieghi più consueti del fenomeno, ossia la domanda di forma ICTS, che ricorre di norma
all’inizio di un turno seguendo immediatamente le parole dell’interlocutore cui si riferisce. Le
principali funzioni della domanda ICTS sono dunque già state enucleate. Un’etero-ripetizione
piuttosto interessante da questo punto di vista si trova in D9 al v. 370. Dopo che Criside ha appreso
di essere stata espulsa dalla casa di Demea pronuncia un’esclamazione di autocommiserazione
costituita dal solo aggettivo δύσµορος227. Dopo di essa, Demea, che l’ha sentita, ripete
sarcasticamente l’aggettivo per negare quanto la donna ha appena detto nella frase ναί, δύσµορος (è
infatti a lei che attribuisce la colpa di avere sedotto Moschione). In questo caso la ripetizione,
rafforzata dall’avverbio che la precede, è finalizzata all’espressione di disaccordo nei riguardi di
quanto appena detto dall’interlocutrice.
2.2.3.2.4. Organizzazione delle preferenze
Anche nella Samia il sistema delle preferenze appare funzionare secondo le modalità viste
nel Dyscolos: riguardo alle coppie di adiacenza si distinguono, come preferenziali e non
preferenziali, sia primi elementi sia complementi, dei quali quelli preferenziali vengono pronunciati
senza difficoltà e gli altri invece in seguito a premesse, con accompagnamento di scuse e
giustificazioni e spesso in modo non diretto. Come nel Dyscolos, il sistema delle preferenze è valido
soltanto in parte nella comunicazione tra i liberi e gli appartenenti al personale di servizio
(soprattutto se schiavi del loro oikos), dato che i primi esprimono in genere con disinvoltura e senza
alcuna mitigazione atti non preferenziali come l’ordine, la richiesta, il rifiuto228, i quali nella
comunicazione tra gli stessi e personaggi di uguale status sociale sono normalmente prodotti con
difficoltà.
Il legame tra il funzionamento del sistema e le relazioni può spiegare in parte l’andamento
della scena dell’espulsione di Criside dalla casa di Demea da parte del vecchio (D8). Questi,
ritenendo ormai finita la loro relazione, dà in un primo momento alla donna l’ordine di andarsene
senza fornire spiegazioni. Stimolato tuttavia da questa a parlare e mosso da forti sentimenti229,
rivela non soltanto le (finte) ragioni della sua decisione, ma le motiva, come si è visto, in diverse
riprese, mediante accuse, insistenze nell’ordine, previsioni per il futuro proprio e dell’interlocutrice,
227
È questa (unitamente alla successiva) l’unica volta che l’aggettivo, tipico del linguaggio femminile, compare in
Menandro al nominativo (cfr. Bain 1984, 36).
228
Una eccezione soltanto parziale a questa tendenza si ravvisa in D7 ai vv. 305-307, quando Demea esprime in modo
indiretto una minaccia all’indirizzo di Parmenone: la sua modalità di espressione non è dovuta al fatto di essere un atto
non preferenziale ma soltanto all’intenzione di Demea di estorcere allo schiavo la verità sul bambino (cfr. infra, 288).
229
Cfr. supra, 151-152.
160
con un dispendio di parole da cui emerge come l’atto compiuto si svolga ancora all’interno di un
rapporto che prevedeva per la donna un ruolo di una certa importanza per la vita del vecchio.
La non preferenzialità di un atto si riconosce, come si è detto, dal ritardo e dalla difficoltà
con i quali viene prodotto. Un’espressione deputata a segnalare che un atto ha questa caratteristica è
rappresentata dal pronome τὸ δεῖνα, che viene spesso premesso al compimento di atti linguistici
spiacevoli. Se ne ha un bell’esempio in D12 al v. 547, in cui Demea si serve appunto di esso per
cominciare a spiegare a Nicerato ciò che è accaduto tra Moschione e la figlia, che ovviamente non
farà piacere al vicino230.
La non preferenzialità di alcuni atti genera in molti casi la produzione di pre-sequenze. Un
esempio particolarmente significativo del fenomeno è rappresentato dal doppio pre-annuncio che in
ai vv. 433-sgg. Nicerato fa precedere alla comunicazione della notizia della cacciata di Criside
all’ignaro Moschione231.
Anche in questa commedia menandrea si assiste più di una volta al confliggere di preferenze
diverse nel dialogo, le quali spiegano talora il proferimento di atti non preferenziali secondo le
modalità di produzione proprie di quelli preferenziali. Talvolta si assiste anche a momenti in cui il
sistema delle preferenze agisce in modo differente per i diversi parlanti. Questo è ciò che avviene in
D11 tra Demea e suo figlio in ragione dell’equivoco di cui i due sono vittime, condizionando
pesantemente l’andamento del dialogo. Della struttura metrica del v. 476, che ne fa un unicum nella
produzione menandrea a noi nota per la presenza di ben quattro ἀντιλαβαί232, rende ragione ad
esempio l’opposto atteggiamento mostrato da Demea e Moschione nei confronti della rivelazione,
da parte del primo, dei fatti che egli crede siano accaduti tra il giovane e Criside: questi la ritiene un
atto non preferenziale in quanto deleterio per l’immagine propria e quella del figlio, mentre
Moschione, che non immagina nulla di quanto il padre sospetta a suo carico, si comporta come se si
trattasse di un atto di natura preferenziale. E’ per questa ragione che alla domanda del giovane τί δὲ
λέγεις; segue l’apertura, da parte del vecchio, di ben due inserti prima del compimento dell’atto di
risposta (βούλει φράσω σοι; e δεῦρο δή), che pure ormai questi fa fatica a trattenere; entrambi gli
inserti sono chiusi rapidamente e con sicurezza da Moschione (rispettivamente con le frasi πάνυ γε
e λέγε), la cui disponibilità a sentire quanto il padre ha da dirgli viene scambiata da questi per
sfrontatezza.
Qualche verso più tardi (vv. 492-sgg.) sarà nuovamente l’atteggiamento del giovane, anche
se in modo differente, a rafforzare la convinzione della sua colpevolezza nei due interlocutori:
230
Cfr. Lamagna ad loc.
Il passo è stato da me già trattato dettagliatamente supra, 133-134.
232
Cfr. Lamagna ad loc., il quale nota che questa suddivisione “può contribuire ad accrescere un’impressione di
vivacità già fornita dall’uso stesso del ritmo trocaico e dalla rilevanza drammatica dell’azione”.
231
161
caduto nello stesso equivoco di Demea, Nicerato infatti commenta quello che crede essere accaduto
con una lunga tirata in stile tragico dispiegantesi in diverse battute (poste rispettivamente ai vv. 492493, 495-497, 498-500, 501-505, 506-513) che lasciano emergere a poco a poco l’accusa con una
certa chiarezza. La possibilità per Nicerato di andare avanti per numerosi versi nella sua ramanzina,
provocando nel giovane nient’altro che espressioni di spavento (v. 494), domande incredule (l’ICTS
di v. 497 e forse quello di v. 513) e silenzi, e non una reazione di rigetto della stessa – che nella
conversazione è quella preferenziale nel caso di coppie accusa/replica all’accusa233 – dipende
innanzitutto dal fatto che all’inizio il giovane crede che le offese siano dovute alla colpa della
seduzione di Plangone, da lui realmente commessa, e per questo tace sentendosi colpevole, mentre
in seguito (dai vv. 507-sgg.), già in parte fiaccato dalla violenza verbale del vicino, resta sbigottito
nello scoprire la gravità dell’accusa che gli viene rivolta e si mostra incapace di reagire forse anche
perché per rifiutare l’accusa più grave dovrebbe assumersi la colpa reale, meno terribile ma più
minacciosa della faccia di Nicerato.
L’attenzione alla preferenzialità e alla non preferenzialità degli atti linguistici e comunicativi
compiuti non è confinata all’apertura e alla chiusura di coppie di adiacenza, estendendosi anche ad
altri tipi di turno, come le prese d’atto di complementi di coppie, le espressioni di accordo o
disaccordo nei confronti di precedenti valutazioni, ecc. Ai vv. 605, 611 e 614 di D14 ad esempio
Demea non tarda ad esprimere la propria approvazione nei confronti di Nicerato che ha appena
deciso di accettare i suoi ragionamenti e di procedere alla preparazione delle nozze. Lo stesso
Demea non si era invece preoccupato di manifestare in modo piuttosto vivace (mediante
l’espressione οὔκ, ἀλλά234) un’opinione diversa dal vicino ed amico in D2 al v. 110, quando i due,
di ritorno dal Ponto, stavano ragionando dei motivi dell’assenza di luce in quel luogo: la facilità
della produzione dell’atto trova spiegazione infatti nell’oziosità dell’argomento di discussione e nel
fatto che il disaccordo è soltanto scherzoso.
Scarsa attenzione al sistema delle preferenze viene mostrata da parlanti che si dispongono
volontariamente ed apertamente al litigio, come fanno in D14 ai vv. 571-sgg. Demea e Nicerato,
che presto giungono infatti allo scontro fisico.
233
Cfr. Fele 2007, 61-64.
Lamagna ad v. 110 osserva che “per rifiutare in modo vivace un’opinione, lo stilema è usuale in commedia”
citandone diverse occorrenze aristofanesche (Eq. 888, Pax 850, Av. 105).
234
162
2.2.3.2.5. Il malinteso conversazionale
L’analisi conversazionale dei dialoghi riesce, almeno parzialmente, a dare conto dei disturbi
dell’interazione verbale all’origine degli equivoci su cui si regge il plot. Se è infatti vero che questi
nascono da problemi relazionali in gran parte pregressi tra Demea e suo figlio235 e dal casuale
occorrere di una serie di circostanze concomitanti (prima tra tutte l’ascolto, da parte di Demea, delle
parole della vecchia nutrice di Moschione raccontato nel terzo atto236), devono il loro protrarsi nel
tempo anche ai malintesi conversazionali237 che si sviluppano tra Demea e Parmenone nel dialogo
D7 (vv. 303-324) e il vecchio e Moschione in D11 (vv. 452-520).
In questi scambi verbali i malintesi da cui dipende il consolidamento dell’equivoco non sono
mai provocati dal mancato ascolto delle parole dell’interlocutore ma da una loro cattiva
interpretazione. Di essi prenderò ora in esame soprattutto la meccanica conversazionale.
Nel primo dialogo, l’equivoco si compone di una serie di successivi malintesi tra il padrone
e lo schiavo, favoriti dalle errate convinzioni che ciascuno dei due ha riguardo all’altro e alla sua
conoscenza dei fatti all’inizio dello scambio verbale. Uno dei malintesi cruciali per la prosecuzione
dell’equivoco deriva da una errata interpretazione che Parmenone dà delle parole con cui il padrone
cita i fatti a lui noti ai vv. 316-317238. Delle tre frasi da questi prodotte, in cui il vecchio evita di fare
esplicito riferimento al presunto rapporto tra Moschione e la Samia, lo schiavo comprende
correttamente soltanto le prime due, descriventi la verità (ὅτι Μοσχίωνος ἔστιν [sc. τὸ παιδίον], ὅτι
σύνοισθα σύ), mentre non riflette probabilmente abbastanza sul senso della frase finale ὅτι δι’
ἐκεῖνον αὐτὸ νῦν αὕτη τρέφει: l’errore dello schiavo si riferisce in particolare al verbo τρέφω
riferito a Criside, che egli intende nell’accezione generica di “allevare” mentre Demea in quello
specifico di “allattare”239, e si esprime in interazione al v. 320 quando questi conferma l’esattezza
della ricostruzione del padrone. Nello stesso verso si presenta tuttavia immediatamente una nuova
occasione per far emergere il malinteso. Parmenone infatti si affretta a completare la ricostruzione,
(crucialmente) incompleta data la mancata menzione del ruolo di Plangone nella vicenda, e
comincia a produrre una frase avversativa che, se giunta a conclusione, avrebbe probabilmente
sciolto l’equivoco: la sua parte iniziale suona ἀλλὰ λανθάνειν, con il verbo che doveva introdurre
appunto la menzione dello scopo delle bugie, quello di far sì che la relazione tra Moschione e
235
Cfr. infra, 336-sgg.
Il racconto di Demea occupa i vv. 231-sgg.
237
Per il malinteso conversazionale mi rifaccio a Galatolo 1999, 227-265.
238
Il malinteso sul senso di un termine è uno dei tipi di malinteso conversazionale (Galatolo 1999, 244).
239
Cfr. Lamagna ad v. 318.
236
163
Plangone rimanesse nascosta soprattutto al padre della ragazza240. Ma per Demea quanto detto da
Parmenone è già abbastanza per convincersi della veridicità dei suoi sospetti intorno all’identità dei
genitori del bambino. Perciò lo ferma, non tollerando che gli spiattelli in faccia quello che crede
ormai di sapere, ossia che lo scopo dell’inganno era quello di nascondere la tresca tra Moschione e
Criside. Il vecchio perciò interrompe violentemente il turno di Parmenone con una domanda di
forma ICTS costituente in realtà un atto di rimprovero (τί λανθάνειν; al v. 321) e impedisce che il
malinteso affiori e venga riparato nei turni immediatamente successivi.
Il dialogo del quarto atto in cui avverrà il definitivo chiarimento tra Moschione e Demea
riguardo a quanto è accaduto (vv. 452-539) comincia già su un equivoco, quello in cui è caduto
Demea ritenendo che il bambino sia figlio di Moschione e Criside. Su di esso si innesta il malinteso
conversazionale vero e proprio, dovuto al fatto che Moschione lascia in secondo piano
l’ammissione della propria paternità (vv. 479 e 480) preferendo concentrarsi su Criside, della quale
afferma l’innocenza confermando inconsapevolmente i sospetti del padre di una tresca tra lui e
l’etera: alla domanda di questi su chi sia colpevole nei suoi confronti se non lo è Criside (ἀλλὰ τίς;
σύ; al v. 480241), Moschione non risponde in modo pertinente, ma continua il proprio ragionamento
sull’innocenza di Criside: dice infatti τί γὰρ ἐκείνη γέγονεν αἰτία;, che Demea interpreta
probabilmente come una risposta positiva espressa in forma ellittica con γάρ242, ossia come
assunzione di responsabilità, mentre non è altro che una domanda ‘retorica’ che si riallaccia all’atto
precedentemente compiuto dallo stesso parlante ed equivale all’affermazione che Criside non ha
colpa. Il malinteso riguarda dunque il senso della particella γάρ, ma anche il tipo di azione compiuta
dall’interlocutore, generando la violenta reazione di Demea che suscita più volte in Moschione
richieste di chiarimento (al v. 481 e ai vv. 484-485)243. Esse, pur potendo dare adito
all’individuazione del malinteso, non lo fanno visto che da una parte lo stesso Moschione è vittima
di un equivoco, credendo che il padre stia reagendo alla scoperta della relazione avuta con
Plangone, e dall’altra Demea non risponde mai letteralmente alle stupite domande del figlio.
Allorché il giovane ha comunicato al padre di non ritenere terribile quanto è accaduto (vv.
485-487), questi gli chiede espressamente di rivelare da chi abbia avuto il bambino (vv. 487-490).
Si apre così una nuova possibilità di chiarimento che tuttavia sfuma per la presenza di Nicerato:
anzitutto, infatti, Moschione si rifiuta di rispondere poiché teme la rabbia del vicino, quindi questi
240
Che Parmenone si preparasse a rivelare quanto era accaduto tra Moschione e Plangone è opinione della maggioranza
degli studiosi (cfr. G-S ad v. 320).
241
Accolgo per questo verso il testo di Lamagna (per il quale cfr. Lamagna ad loc.) pur ammettendo la possibilità di
soluzioni alternative come quella dell’interruzione successiva a σύ ipotizzata da Austin, la quale invaliderebbe quanto
osservo in questo testo circa le modalità di produzione dell’equivoco.
242
Secondo un uso della particella frequente nel greco post-omerico (cfr. Denniston, 73-74).
243
Il malinteso sul tipo di azione compiuta dall’interlocutore è uno dei più comuni nella conversazione reale odierna
(cfr. Galatolo 1999, 244, n. 18).
164
ha una reazione aggressiva che prolunga gli equivoci. Come spesso avviene nella conversazione
reale quotidiana244, la presenza di più di due partecipanti favorisce il protrarsi del malinteso. Esso
emerge per Moschione con definitiva chiarezza soltanto ai vv. 507-513, quando Nicerato menziona
esplicitamente la colpa ascritta appunto al ragazzo e all’ex-concubina di Demea. Il turno prodotto
dal vecchio è lungo e continuo, configurandosi come un fiume di parole che, sia per il contenuto sia
per il fatto di costituire una catena sintattica pressoché ininterrotta, investe il giovane, il quale
rivelerà al padre la verità soltanto dopo l’uscita del vicino (vv. 520-539).
2.2.3.2.6. Introduzione e cambiamento di argomento
I dialoghi della Samia sono caratterizzati in generale dal rispetto della coerenza argomentale,
favorito dal carattere monotematico e mirato di molte conversazioni, nelle quali di solito i parlanti
rendono evidenti le loro finalità comunicative immediatamente dopo i turni di apertura come le
coppie saluto/saluto o appello/risposta. Quando è presente, il cambiamento di argomento si presenta
spesso marcato dal punto di vista formale da particelle o congiunzioni introduttive come ἀλλά,
indicante passaggio di pensiero e spesso premesso a consigli, richieste, ordini, ecc. (si pensi ad
esempio al v. 63 in D1, in cui introduce un consiglio di Parmenone a Moschione) o da intere frasi in
cui si invita ad abbandonare un tema prima di introdurne un altro (caso esemplare di questo tipo di
cambiamento di argomento è costituito dai vv. 112-sgg. in D2: in essi probabilmente Demea chiude
l’argomento di discussione con la frase καὶ ταῦτα µὲν ἑτέροις µέλειν ἐῶµεν, che crea uno stacco
rispetto a quanto segue per mezzo della congiunzione245 ed anticipa attraverso il µέν l’introduzione
di un nuovo tema di conversazione nell’unità successiva dello stesso turno, contrapposta mediante
un δέ alla frase precedente). Talvolta l’introduzione di un nuovo argomento o il ritorno ad un
argomento già accantonato dal partner di conversazione sono enfatizzati da pronomi neutri che li
anticipano (come avviene, nello stesso passo, al v. 106, pronunciato da Nicerato, in cui al
dimostrativo ἐκεῖνο, posto in apertura di turno, si aggiungono come elementi di enfasi il vocativo
del nome dell’interlocutore e forse anche il superlativo dell’avverbio che rafforza il predicato),
esplicite richieste di ascolto (si pensi ad esempio al v. 305 del dialogo D7, occupato dalla frase
imperativa ἄκουε δή νυν, Παρµένων, all’interno della quale la locuzione δή νυν esprime una certa
urgenza nel comando246) o pre-annunci (come al già più volte citato v. 433 in D10).
244
Cfr. Galatolo 1999, 252 n. 24.
Su quest’uso di καί si è soffermato Ercolani 2000, 187-190, che, in particolare a proposito della formula conclusiva
di rhesis καὶ χαῖρε / χαίρετε, osserva come la congiunzione possa creare “una Nicht-Relation con quanto precede,
sottolineando una cesura logica più che non coordinando” (190).
246
Cfr. a tal proposito G-S ad loc. e Denniston, 218, cui il commento rinvia.
245
165
Si ravvisano inoltre anche momenti in cui uno dei parlanti sembra infrangere la coerenza
tematica della conversazione. Ciò avviene ad esempio in D14, quando Demea, che si è in
precedenza impegnato a dire a Nicerato la verità sul bambino, dapprima lo invita a passeggiare con
lui e in seguito, come cambiando argomento, gli chiede se per caso conosca il mito di Zeus che si
trasformò in pioggia d’oro per sedurre Danae (vv. 589-591) e gli domanda se in casa sua a volte
entri la pioggia dal tetto (vv. 591-592). Questi riferimenti al mito servono a stemperare la tensione a
fine d’atto rivelando inoltre sempre più fortemente a mano a mano che la scena procede il suo
carattere farsesco, che si nutre di elementi di comicità tradizionale247. Tuttavia, è interessante che lo
scherzo di Demea non si spinga mai ad infrangere le norme conversazionali da cui il dialogo
fizionale è comunque caratterizzato: di fronte agli inattesi temi introdotti dall’amico, Nicerato
infatti non manca di protestare, chiedendo in continuazione con un certo nervosismo che cosa
c’entri quanto dice Demea con quello che egli intende sapere (εἶτα δὴ τί τοῦτο; al v. 592 e ἀλλὰ τί /
τοῦτο πρὸς ἐκεῖν’ ἐστί;, vv. 593-594).
2.2.3.2.7. Caratteristiche dei dialoghi raccontati o immaginati
L’esposizione e la narrazione di interazioni verbali nella Samia si svolgono per lo più
secondo le stesse modalità osservate a proposito del Dyscolos. Ad essere riportate in oratio recta
sono soltanto quelle presentate come realmente avvenute (?DII e DIII), mentre le restanti,
semplicemente immaginate dai personaggi in scena, vengono esposte mediante oratio obliqua.
Le prime due appartengono entrambe al lungo monologo di Demea che apre il terzo atto
della commedia (vv. 206-282) in cui il vecchio riferisce al pubblico del modo in cui ha scoperto che
il bambino è figlio di Moschione. Una differenza rispetto alle conversazioni raccontate del Dyscolos
è rappresentata dal fatto che ad esse non ha partecipato colui che le racconta, al quale è invece
capitato di ascoltarle. Il fatto che esse siano riportate e che in particolare la seconda venga narrata
seguendo tutti i passaggi del suo svolgimento è facilmente spiegabile con l’esigenza del
personaggio-narratore di far conoscere agli spettatori, ai quali entrando in scena alcuni versi prima
ha comunicato che un evento terribile, simile ad una inattesa burrasca (χειµὼν ἀπροσδόκητος, v.
207), si è abbattuto di su lui, che cos’è che ha cambiato la sua vita in modo così repentino. Sul
superiore livello della comunicazione tra autore e pubblico, è chiaro che questa precisione è dovuta
soprattutto alla necessità del drammaturgo di rendere chiaro al pubblico come il suo personaggio sia
247
Cfr. Blume 1974, 236-244 e Lamagna ad vv. 568-615.
166
potuto cadere in un simile equivoco, che muoverà l’azione drammatica per gran parte della
vicenda248.
Il primo dei due passi costituisce semplicemente la descrizione delle attività delle schiave
volte a preparare la festa per il matrimonio di Moschione (vv. 226-227). Le parole che si succedono
indicano gli oggetti e le sostanze che esse chiedono di volta in volta di procurare (farina, acqua,
olio, carboni). Non so se chi le riporta faccia dipendere tutti i sostantivi dal verbo ἀποδίδωµι,
sottintendendo che esso compare in ogni richiesta pronunciata o se il solo sostantivo e quello retto
in accusativo dal verbo costituissero invece due modi alternativi di porre le richieste citate. Nel
primo caso Demea non riprodurrebbe in modo letterale le richieste udite, pur citandole in oratio
recta. In ogni caso si può dire che gli atti sono contraddistinti da estrema brevità e dall’assenza dei
segnali di incertezza o di esitazione che, nella conversazione, contraddistinguono atti non
preferenziali come le richieste. Appare comunque del tutto verosimile che, data la frenesia del
momento, le richieste avvenissero per lo più attraverso la menzione del solo nome di quanto veniva
chiesto, come accade anche nell’interazione reale quotidiana a proposito di interazioni compiute in
fretta e dal carattere del tutto task-oriented 249.
Quanto al secondo, esso raffigura, probabilmente a partire dal v. 251250, un intero, seppur
breve, scambio verbale tra due donne dell’oikos di Demea. Il primo turno, riportato in discorso
diretto, è pronunciato dalla nutrice di Moschione, e contiene un’imperativa costituente un atto
linguistico di ordine (λούσατ’, ὦ τάλαν, / τὸ παιδίον, vv. 252-253). Esso viene espresso in modo
diretto e accompagnato dal vocativo ὦ τάλαν, il quale può essere tuttavia inteso, oltre che come
vera e propria allocuzione rivolta all’interlocutrice, anche come una semplice esclamazione
indicante commiserazione nei confronti del bambino, costituente l’oggetto del discorso251. La
vecchia continua la sua battuta, verosimilmente senza interruzioni, con due enunciati dei quali il
primo si presenta come domanda ed esprime stupore (è il comune τί τοῦτο; per il quale cfr. Dysc.
779) e il secondo rappresenta un atto di rimprovero pur avendo la forma di una domanda (introdotta
dalla negazione οὐ e avente il verbo all’indicativo presente). Nel primo turno si nota l’assenza di
248
Ritenendo la narrazione di questi avvenimenti, in particolare del dialogo tra le due donne che sarà responsabile del
sorgere dell’equivoco, adeguatamente motivata su entrambi i livelli di enunciazione del discorso (quello interno alla
finzione drammatica e quello ad essa esterno) mi discosto da Nünlist 2002, il quale, in uno studio sullo “speech in
speech” nei drammi di Menandro, ritiene che il monologo sia “from a dramaturgical point of view … to a large extent
superfluous”, attribuendone la lunghezza al fatto che il discorso diretto “has become a part of his play in which
Menander indulged himself” (245).
249
Cfr. infra, 206 e 210, dove spiego come in questo tipo di interazioni si sia soliti anche evitare qualunque strategia di
politeness.
250
Nonostante la lacuna che interessa i versi precedenti al 251, sembra certo che prima di esso il racconto del dialogo
non fosse cominciato.
251
Per la prima interpretazione cfr. le traduzioni di Jacques e di Lamagna, per la seconda G-S ad v. 568 (rinviante a sua
volta al commento a Epit. 434) e la traduzione di Ferrari. Bain 1984, 33 sostiene che il vocativo può essere inteso in
entrambi i modi e che la scelta di interpretazione deve tenere conto del contesto. Sui vocativi τάλας e τάλαινα (o, in
poesia, τάλαν valido per destinatari di tutti i generi) cfr. anche le riflessioni di Dickey 1996, 161-163 e 246.
167
vere e proprie tecniche di apertura dovuta al carattere informale di uno scambio tra due persone che
si trovavano già prima nello stesso ambiente e probabilmente erano già entrate più volte in
interazione.
Al turno della vecchia segue prontamente la replica della seconda parlante, la servetta cui
ella aveva manifestato il proprio disappunto. Come nella maggior parte delle conversazioni
raccontate menandree, nella seconda battuta, decisiva per lo sviluppo del dialogo narrato o per la
sua comprensione, compare l’avverbio di tempo εὐθύς: la replica deve la sua importanza al fatto
che questa reazione della servetta è ciò che renderà definitivamente chiaro a Demea che le parole
udite circa la paternità di Moschione non sono soltanto frutto di un lapsus della vecchia252 ma
rappresentano la verità dei fatti. La giovane pronuncia una frase esclamativa avente valore di
rimprovero: essa è preceduta dal vocativo δύσµορε, che ha valore di allocuzione offensiva.
Nell’apostrofe c’è dunque lo sdegno per l’atteggiamento poco accorto della vecchia, che rischia di
far sapere a Demea ciò che deve restare segreto253. Anche dal punto di vista formale l’esigenza di
realismo viene rispettata, poiché un vocativo all’inizio di una replica è usato soprattutto quando si
intende dare un giudizio (di solito negativo) sulla persona e sul comportamento dell’interlocutore254.
La frase contenente il rimprovero è un’esclamativa (ἡλίκον λαλεῖς, v. 255) con l’indicativo, il cui
verbo possiede una sfumatura negativa255. In seguito compare una frase con l’indicativo che motiva
il rimprovero, la quale conferma che quanto detto dalla vecchia costituisce un fatto che si vuole
tenere nascosto proprio a Demea: la servetta afferma infatti che la vecchia non deve alzare la voce
poiché egli si trova nei dintorni (l’uso di αὐτός per designare il padrone di casa, come quello, nella
frase seguente, di αὐτή in riferimento a Criside, vuole probabilmente riprodurre la libertà che gli
schiavi si prendevano quando parlavano tra di loro dei padroni).
La vecchia ribatte negando la circostanza fatta presente dalla giovane: lo fa con una negativa
ellittica del verbo e costituita dalla negazione οὐ, dall’avverbio δήπου e dalla particella γε con
valore rafforzativo (che essa spesso ha quando è posposta ad altre particelle256). In seguito però
pone la domanda ποῦ; con cui passa la parola all’altra chiedendo di specificare quanto appena
affermato257.
252
Che, tra l’altro, sarebbe in questo caso ripetuto se si ammette che nei versi precedenti, parlando tra sé, essa ha già
parlato del fatto che il bambino è figlio di Moschione.
253
La scelta di questo vocativo è tipica delle donne, rappresentando forse la loro maggiore attenzione alla faccia del
destinatario (cfr. ad es. G-S ad v. 255 e Bain 1984, 36).
254
Ciò si nota anche nei dialoghi rappresentati sia del Dyscolos sia della Samia. Cfr. supra, 122.
255
Per l’uso negativo di λαλεῖν in Menandro cfr. infra, 310.
256
Cfr. Montanari s.v.
257
Lamagna ad loc. osserva: “La replica della vecchia è fulminea e tende a scongiurare quella che per lei sarebbe una
circostanza terribile: indicativo della velocità della reazione è il successivo ποῦ, che comporta invece l’adesione
all’informazione fornita dalla giovane serva e la richiesta di ulteriori informazioni”.
168
La risposta della servetta è immediata e breve, in quanto finalizzata a completare
l’informazione e a chiudere il prima possibile l’argomento e la conversazione. La chiusura viene
realizzata attraverso una finzione: modificando un po’ il tono di voce (il verbo usato ad indicare
quest’azione è παραλλάττω, che vale: “cambiare, mutare, alterare”), la parlante finge di comunicare
alla vecchia che Criside la sta chiamando; subito dopo, verosimilmente di nuovo parlando piano, la
stessa le ingiunge di andar via di fretta e la rassicura con una affermazione e con una successiva
esclamazione: l’ordine è dunque diretto e anzi rafforzato dall’invito ad affrettarsi (βάδιζε καὶ /
σπεῦδε, vv. 258-259), ma viene in qualche modo ‘risarcito’ dalla successiva affermazione di
rassicurazione (οὐκ ἀκήκο’ οὐδέν, v. 259) e dall’esclamazione finale εὐτυχέστατα, esprimente un
atteggiamento quantomeno affettuoso della giovane schiava, che si mostra coinvolta
nell’interazione sul piano emotivo.
A proposito dei dialoghi esposti in modo indiretto le mosse conversazionali dei diversi
partecipanti sono ovviamente descritte in modo molto meno preciso, anche perché si tratta in tutti i
casi di scambi immaginati o programmati. Nel primo, cui fanno cenno prima Demea e poi
Moschione nel dialogo D3, si riescono a cogliere piuttosto chiaramente l’atto principale che Demea
intende compiere nei confronti di Nicerato, ossia quello di proposta o richiesta di celebrare le nozze
il giorno stesso (τοὺς γάµους αὐτῶι φράσω / ποεῖν, vv. 155-156) e l’atto di replica di Nicerato, che
Moschione prevede sia un atto di accettazione (οὐκ ἀντερεῖ σοι, v. 161). Gli altri due passi (DIV e
DV) contengono i pensieri di Moschione su una stessa interazione, quella che egli prevede avrà
luogo dopo poco tra lui e suo padre: di essa il giovane raffigura come atti fondamentali quello del
padre nel vederlo equipaggiato per partire come mercenario e il suo. Il giovane non ha tuttavia
chiarezza su di essi: se nel primo dei due passi si dice infatti sicuro che il padre pronuncerà nei suoi
confronti atti di supplica perché rimanga (δεήσεται / οὗτος καταµένειν δηλαδή, vv. 664-665) e che
egli lo lascerà penare per un po’ (δεήσεται / ἄλλως µέχρι τινός, vv. 665-666), per poi cedere alle sue
preghiere (πεισθήσοµ’ αὐτῶι, v. 667), nel secondo teme che il padre non lo pregherà ma lo lascerà
andare (ἀποργισθεὶς ἐᾶι / ἀπιέναι, vv. 683-684) e non sa quale reazione avere in tal caso258.
258
Ho evitato per questa commedia di effettuare una rassegna dei cenni all’interagire verbale poiché essi, per quanto
numerosi, non presentano significative novità a quelli presenti nel Dyscolos.
169
2.3 FTA e politeness
2.3.1 Politeness e interazione verbale
2.3.1.1 Una teoria della politeness
I modi in cui all’interno di uno scambio verbale le intenzioni comunicative di ciascun
parlante trovano espressione sono in gran parte influenzati dalla presenza e dagli atteggiamenti
degli altri partecipanti. La varietà di forme in cui possono presentarsi le coppie di adiacenza, il
carattere preferenziale degli atti che rispecchiano le attese del destinatario rispetto a quelli che se ne
discostano, l’importanza del consenso dei partecipanti per il raggiungimento delle tappe
fondamentali della conversazione (apertura, passaggio di parola, introduzione o cambio di
argomento, chiusura) mostrano come ogni mossa interazionale derivi dall’adeguamento delle
esigenze del singolo parlante alla persona dell’interlocutore.
L’osservazione del procedere di un’interazione attraverso la joint action dei partecipanti ad
essa non è tuttavia sufficiente a rendere conto della sua complessità se non considera l’insieme delle
regole che la governano in quanto attività sociale e delle esigenze e delle attese che ogni
partecipante connette ad essa in quanto membro competente di una determinata comunità. Di questi
aspetti dell’interagire, come ho già ricordato, la ricerca linguistica e sociologica si è occupata
soprattutto a partire dagli anni ’70 del secolo scorso quando ha riflettuto sulla politeness, la cortesia,
che è stata intesa appunto come insieme di tecniche per adeguare il proprio dire alla persona
dell’interlocutore e ai bisogni che questa esprime nell’evento comunicativo e nella quale si è visto
uno dei principali fattori regolanti la comunicazione259.
Tra i tentativi di spiegare i comportamenti linguistici alla luce della politeness quello
compiuto da Penelope Brown e Stephen C. Levinson alla fine degli anni Settanta ha fornito la
sistemazione teorica più ampia e coerente ai dati empirici offerti da diverse lingue260. Con il loro
modello i due studiosi hanno inserito gli usi del linguaggio nel più generale ambito dei
comportamenti sociali e li hanno interpretati secondo il funzionamento di questi ultimi, come
illustrato da studi sociologici di poco anteriori. In particolare, nella teoria di Brown e Levinson una
259
Cfr. supra, 16-17, le osservazioni di Searle sugli atti linguistici indiretti, e 24, le prime elaborazioni di “regole della
cortesia”.
260
Citando l’opera di Brown e Levinson mi riferirò costantemente alla versione pubblicata nel 1987, che riprende,
ampliandola, quella che comparve in forma di articolo in E. Goody (a cura di), Questions and Politeness, Cambridge
1978, 56-289.
170
posizione centrale è occupata dalla nozione di “faccia”, introdotta dal sociologo Erving Goffman261,
che viene da loro intesa come l’immagine pubblica rivendicata da ogni individuo per se stesso262.
Secondo i due studiosi la faccia consta di due aspetti diversi ma tra loro correlati e si distingue
perciò in faccia positiva, rappresentata dall’immagine positiva coerente che ciascun individuo ha di
sé e di cui desidera l’apprezzamento da parte degli altri, e faccia negativa, intesa come
fondamentale rivendicazione di spazi personali e dei diritti alla libertà di azione e all’assenza di
imposizioni. Da quanto detto si comprende come ogni aspetto della faccia si esprima in una serie di
esigenze che possono essere soddisfatte soltanto col concorso degli individui con i quali si
interagisce. E’ questo a rendere estremamente vulnerabile la faccia e conseguentemente a generare
in ognuno l’interesse a mantenere integra la faccia altrui per ottenere il rispetto della propria. In tale
quadro la politeness si configura dunque come un sistema di mezzi di preservazione reciproca della
faccia. Il duplice aspetto di quest’ultima fa sì che si distinguano, in modo corrispondente, una
politeness positiva ed una politeness negativa, con le quali si tenta di far fronte ai rischi per la faccia
che ogni occasione di interazione può comportare. Secondo i due studiosi esistono infatti attività
comunicative (denominate face threatening acts ed indicate con la sigla FTA263) che, rivolgendosi
per loro stessa natura contro le esigenze connesse a ciascun aspetto della faccia, necessitano di
azioni riparatrici capaci di neutralizzarne o di attenuarne il carattere minaccioso.
Le tabelle 1 e 2 illustrano rispettivamente i tipi di FTA individuati da Brown e Levinson e le
possibili strategie di politeness intese a minimizzare la forza dei primi264. Dalla prima si evince che
atti esercitanti pressione sulla libertà dell’interlocutore minacciano la sua faccia negativa, mentre
atti rivelanti scarsa considerazione del parlante per la personalità del destinatario minacciano la sua
faccia positiva, sebbene non sia sempre possibile effettuare una distinzione netta, dato che diversi
atti risultano minacciosi per ambedue gli aspetti della faccia, e che altri atti verbali possono invece
risultare minacciosi per la faccia del parlante. Dato che ogni parlante, rispettando la faccia
dell’interlocutore, ha come scopo finale la tutela della propria, il suo uso della politeness tenderà in
generale a creare un equilibrio tra le esigenze di faccia dell’interlocutore e le proprie265.
Nella seconda tabella compaiono le diverse tipologie di strategie riparatrici, che sono poste
dalla numerazione in ordine crescente di politeness266.
Alla base della scala della politeness sta il compiere un FTA in modo diretto e senza
attenuazioni (bald on record), al fine di rendere immediatamente ed inequivocabilmente chiaro il
261
Goffman 1955, 213-231 e 1967.
Brown/Levinson 1987, 61.
263
Brown/Levinson 1987, 60.
264
Ho ricavato questa tabella dall’elenco di FTA presente in Brown/Levinson 1987, 65-68.
265
Cfr. Lloyd 2006, 235.
266
La tabella riproduce in traduzione italiana quella presente in Brown/Levinson 1987, 69.
262
171
valore dell’atto compiuto (ad es. per le promesse “Prometto di venire da te domani”, per gli ordini
“Prendimi quel libro” oppure “Ti ordino di prendermi quel libro”). L’impiego di questa strategia
offre diversi vantaggi, che spiegano le ragioni per cui venga scelta nonostante il suo scarso livello di
politeness: anzitutto evita ogni ambiguità, in modo da garantire una comunicazione efficace; inoltre,
può giovare alla faccia del parlante, mostrando la sua franchezza nell’esprimersi.
Una maggiore attenzione per la faccia dell’interlocutore viene manifestata compiendo l’FTA
in modo non ambiguo ma insieme ad azioni riparatrici della faccia. Questo comportamento può dare
luogo a due diverse strategie, a seconda che si tenti di offrire risarcimento alla faccia positiva o a
quella negativa dell’interlocutore. Nel primo caso, si tenderà a mostrare al destinatario dell’FTA
che si conosce la sua faccia positiva e vi si presta attenzione, dandogli una sensazione di prossimità,
affinità, condivisione di punti di vista, desideri, obblighi e attese reciproci e minimizzando perciò la
minaccia connessa all’atto attraverso l’implicazione che esso non intacca il rapporto tra i due
parlanti. Nel secondo caso, si vorrà invece comunicare all’interlocutore che non si intende, se non
minimamente o per cause indipendenti dalla propria volontà, limitare la libertà di azione
dell’interlocutore e che gli si lascia perciò la possibilità di sottrarsi all’imposizione causata
dall’FTA.
Il parlante potrà scegliere inoltre di esprimersi in modo indiretto (off record), ossia non
esplicito, lasciando all’interlocutore il compito di interpretare quanto detto (e dunque la libertà di
non coglierne il senso proprio, per lui minaccioso) e a se stesso la possibilità di sottrarsi alla
responsabilità dell’atto, negando di averlo compiuto.
In cima alla scala della politeness c’è la scelta di non compiere affatto l’FTA, al fine di
evitare che la sua minaccia per la faccia dell’interlocutore (evidentemente ritenuta eccessiva)
sconvolga il prosieguo dell’interazione mettendo addirittura a repentaglio l’equilibrio relazionale
esistente tra i parlanti.
Ognuna delle strategie appena elencate costituisce di fatto una super-strategia la quale – sul
piano linguistico come su quello non verbale – trova diverse realizzazioni: di queste, che presenterò
dettagliatamente in seguito267, i due studiosi trovano esempi in tre lingue tra loro pressoché irrelate
quali l’inglese britannico ed americano, il tamil dell’India meridionale e lo tzeltal, lingua maya della
regione messicana del Chiapas.
In ogni singola interazione (o addirittura nei diversi momenti di uno stesso scambio
comunicativo) saranno il contesto, il rapporto tra i partecipanti, le intenzioni del singolo parlante, il
grado di pericolosità dell’FTA compiuto a determinare le scelte di politeness. In generale, FTA cui
267
Cfr. infra, 177-sgg.
172
è connesso un forte rischio per la faccia del destinatario comportano secondo i due autori l’impiego
di una strategia di grado maggiore.
L’entità del rischio di un FTA viene fatta dipendere dalla somma di tre variabili: la distanza
sociale tra i parlanti (indicata dalla lettera D); il potere del destinatario dell’FTA sul parlante (P); il
ranking delle imposizioni provocate dall’atto che viene compiuto (Rx, dove x è l’FTA compiuto).
Le dimensioni individuate (rispettivamente distanza, potere e ranking delle imposizioni) vengono
definite dall’unione di fatti esterni spesso già dati prima di un’interazione (per D essi sono costituiti
di solito dalla frequenza di interazione e dal tipo di beni scambiati tra i parlanti, per P dal controllo,
materiale e non, che l’interlocutore può avere sul parlante, per R dal dispendio di beni o di servizi
procurato all’interlocutore o dalla ‘sofferenza’ procuratagli dal fatto di non considerarlo uguale
all’immagine che egli ha di sé) e fattori contingenti dipendenti dal contesto comunicativo. Per
questa ragione ognuna di esse non può essere intesa come un indice sociologico oggettivo ma come
la percezione che i parlanti ne hanno in un’interazione o in un particolare momento della stessa268.
2.3.1.2 Problemi e sviluppi della teoria – Osservazioni metodologiche sulla sua
applicazione in questo studio
La teoria elaborata da Brown e Levinson ha riscosso immediata risonanza all’interno del
mondo scientifico, offrendo lo spunto per numerosi studi sulla politeness non limitati alla ricerca
linguistica. Richard J. Watts269 ne propone una sintetica rassegna270, riunendoli nelle seguenti
tipologie: 1) critiche a singoli aspetti dei diversi modelli di politeness giungenti a proporne revisioni
più o meno ampie; 2) studi empirici, condotti in gran parte secondo la prospettiva di Brown e
Levinson, riguardo all’esplicazione di determinate attività comunicative (ad es. atti linguistici di
richiesta, richiesta di scuse, complimenti e ringraziamenti) in varii contesti culturali e linguistici; 3)
ricerca empirica interculturale sulle diverse realizzazioni della politeness, basata in massima parte
sul modello di Brown e Levinson; 4) applicazioni di modelli di politeness (ancora una volta
soprattutto di quello di Brown e Levinson) a dati provenienti da altre discipline (come le scienze
cognitive, la psicoterapia, i gender studies, ecc.); 5) elaborazioni di linee di ricerca radicalmente
nuove sull’argomento.
268
Brown/Levinson 1987, 79 specificano che “stable social valuations, whether of individuals or of roles, are only one
element that enters into the assessment” delle tre variabili, e che “situational factors enter into the values for P, D, and
R, so that the values assessed hold only for S [il parlante, n.d.r.] and H [l’ascoltatore, n.d.r.] in a particular context, and
for a particular FTA”.
269
Watts 2003, 98-99.
270
Sugli studi di filologia classica che utilizzano la nozione di politeness cfr. supra, 52.
173
Questo vasto e articolato lavoro di ricerca ha evidenziato la presenza, nella teoria della
politeness, di alcuni importanti problemi che è indispensabile considerare quando ci si appresta ad
utilizzarla nella versione di Brown e Levinson (che, come si è visto, ha avuto tra tutte la fortuna
maggiore)271. Le critiche più significative si sono concentrate sui punti seguenti:
1) la nozione di faccia proposta da Brown e Levinson non trova riscontro nelle società che
attribuiscono all’individuo in quanto tale un’importanza di gran lunga inferiore di quella riferita al
suo gruppo sociale di appartenenza, come alcune società dell’Estremo Oriente (giapponese, cinese,
coreana, ecc.), nelle quali la sua componente negativa non sembra avere molto senso;
2) la stessa nozione sembra frutto di una interpretazione in certa misura forzata di quella
elaborata da Erving Goffman, cui pure i due linguisti si richiamano esplicitamente: nella loro
visione, infatti, la faccia sembra essere un’immagine fissa preesistente ad ogni scambio
comunicativo, mentre secondo Goffman essa viene costruita nel corso stesso di un’interazione in
base ai comportamenti di ogni singolo partecipante, rivelandosi pertanto un’entità estremamente
instabile che viene attribuita socialmente e può essere continuamente rinegoziata272;
3) dalla formulazione di Brown e Levinson sembra emergere che la politeness negativa sia
intesa a mitigare esclusivamente gli FTA rivolti contro la faccia negativa dell’interlocutore e quella
positiva gli FTA che ne minacciano la faccia positiva mentre è chiaro che non è così;
4) la somma delle tre variabili di distanza sociale, potere e ranking di imposizioni di un FTA
è ritenuta da molti inadeguata a quantificare il grado di serietà dell’FTA in questione per la faccia
altrui, dato che Rx non sembra sempre indipendente dalle altre due dimensioni, che D non descrive
in modo completo la relazione esistente tra i soggetti di un’interazione (non contemplando ad
esempio le componenti del gradimento e dell’affetto) e che tutte le variabili appaiono come entità
statiche, secondo un approccio che sembra ignorare gli aspetti dinamici dell’uso del linguaggio;
5) la gerarchia delle strategie stabilita da Brown e Levinson non sembra la stessa in tutte le
culture prese in esame. In particolare, in alcuni studi è stato contestato che la politeness negativa sia
di grado superiore a quella positiva e che l’off recordness sia al di sopra delle prime due. Le
strategie di distanziamento e di minore chiarezza non vengono percepite in ogni contesto come più
polite e di conseguenza non vengono sempre preferite per accompagnare FTA più seri;
271
Gli aspetti che metterò in luce sono stati desunti dalle osservazioni contenute nei seguenti testi: Brown/Levinson
1987, Brown/Gilman 1989, Sifianou 1999, Bargiela-Chiappini 2003, Terkourafi 2006, ma soprattutto Watts 2003 e
Caffi 2001 e 2002.
272
Goffman definisce la faccia come “the positive social value a person effectively claims for himself by the line others
assume he has taken during a particular contact”, dove la “linea” è intesa come “a pattern of verbal and nonverbal acts
by which he [la singola persona, n.d.r.] expresses his view of the situation and through this evaluation of the
participants, especially himself” oppure anche come “an image of self delineated in terms of approved social attributes”
(Goffman 1967, 5). Cfr. anche Watts 2003, 124.
174
6) la ricerca empirica ha mostrato che spesso strategie di segno opposto si mescolano nel
temperare la forza di uno stesso FTA, mettendo in forse la chiara distinzione tra i diversi tipi di
politeness;
7) l’utilizzo della teoria degli atti linguistici per la descrizione dei comportamenti polite
induce Brown e Levinson a soffermarsi troppo sui singoli enunciati, generando la sensazione che
certe forme di espressione siano intrinsecamente polite ed attribuendo un’importanza eccessiva al
rapporto tra parlante ed interlocutore, a danno di altri aspetti interazionali che meritano almeno lo
stesso rilievo (ad esempio l’ambiente di svolgimento di un’interazione, la presenza di terzi non
direttamente coinvolti, le organizzazioni operanti sulla conversazione, spesso estese al di là dei
singoli turni, ecc.);
8) tutti i primi modelli di politeness si fondano sulla teoria comunicativa di Grice, oggi
ritenuta da alcuni inadeguata a spiegare i meccanismi di funzionamento delle interazioni verbali;
9) le strategie utilizzate per mitigare comportamenti e atti comunicativi non sono ristrette al
compimento di FTA e non sono soltanto funzionali al rispetto della faccia altrui e propria, dato che
non è soltanto la dimensione sociale dell’individuo ad essere messa in campo nell’interazione, ma
anche, ad esempio, quella psicologica.
Le questioni poste sono di enorme complessità, anche per il fatto che spesso oltrepassano i
confini della linguistica: molte di esse non appaiono a tutt’oggi completamente risolte e necessitano
perciò di ulteriore riflessione273.
Mi sembra tuttavia opportuno osservare che alcune tra le più importanti sono state prese in
considerazione già da Brown e Levinson nella seconda versione della loro opera274. Nella maggior
parte dei casi i due linguisti, pur difendendo anche in modo efficace le posizioni assunte nel loro
lavoro riguardo sia alle sue basi teoriche che alle conclusioni suggerite dalla ricerca empirica,
ammettono la possibilità che alcuni aspetti della costruzione proposta vengano precisati e raffinati,
ritenendola un primo modello entro il quale o in contrasto col quale è possibile illustrare certi
comportamenti275. Diverse tra le più recenti ricerche sulle strategie di politeness o in genere di
273
A tal proposito mi sembrano significative le osservazioni della linguista Marina Terkourafi in margine alla sua
recensione a Watts 2003: dopo avere criticato fondamentali aspetti del nuovo modello di politeness proposto nel libro
dallo studioso inglese, sottolinea la necessità di proseguire il dibattito teorico sull’argomento (Terkourafi 2006, 427).
274
Brown/Levinson 1987, soprattutto 1-54. Per le singole questioni cfr. la nota seguente.
275
A proposito dell’enorme diversità di significato che il concetto di faccia assume in alcune culture i due linguisti
insistono nel sostenere l’universalità dei bisogni primari in cui esso si esprime ma convengono sull’esistenza di forti
differenze di matrice culturale nella sua elaborazione all’interno di diverse civiltà (Brown/Levinson 1987, 13-15);
riguardo alle tre dimensioni di potere, distanza sociale e ranking di imposizioni come elementi da cui dipende il peso di
un FTA essi, pur non escludendo che a determinarlo siano anche altri fattori come il gradimento (15-17), le ritengono
una base adeguata “in predicting politeness assessments” (17), sottolineandone il carattere composito e almeno
parzialmente dipendente dal contesto di interazione (cfr. anche supra, 172); quanto al problema della gerarchia delle
strategie, ammettono la possibilità che sia stato un errore stabilirla ma non giudicano le testimonianze a loro note
sufficienti a determinare l’abbandono dello schema originario (17-21). Riguardo alle questioni più generali, difendono
la base griceana della loro teoria (3-10), mentre riconoscono che la teoria degli atti linguistici ha imposto al loro
175
mitigazione degli atti prodotti nella comunicazione, infatti, non rinunciano ad utilizzare termini,
concetti-chiave e risultati del lavoro di Brown e Levinson ormai divenuti parte integrante della
ricerca su tali argomenti.
E’ dunque adottando una prospettiva non dogmatica e aperta a proposte di modifica che
risulta possibile fare riferimento al modello di Brown e Levinson in uno studio come il mio, mirante
a rintracciare nei comportamenti dialogici dei personaggi menandrei segnali del funzionamento, dei
cambiamenti e delle difficoltà delle relazioni umane rappresentate. A tale scopo si potrà accogliere
come ipotesi di lavoro le definizioni di faccia e di politeness contenute nel modello, intendendone
operativamente la vasta esemplificazione linguistica – la cui validità, pur relativizzata, non è mai
stata veramente negata a l m e n o per le lingue da cui è tratta – come un set di strumenti e
procedimenti (soprattutto) linguistici attraverso i quali in diverse lingue del mondo si mira in primo
luogo ma non esclusivamente276 a preservare l’immagine sociale propria ed altrui nel corso di
un’interazione. In seguito, come giustamente suggerito da Brown e Levinson in risposta alle
critiche, si ‘proverà’ il loro modello sulle interazioni raffigurate nei testi presi in esame non soltanto
considerando e citando all’occorrenza i risultati della ricerca successiva alla loro277, ma soprattutto
continuando a tenere presenti, come già fatto durante l’analisi conversazionale dei dialoghi delle
commedie, le conoscenze finora acquisite sui comportamenti interazionali reali dell’epoca e le
preziose anche se sparse testimonianze fornite dai testi di diversi autori greci sulle esigenze
fondamentali che configurano la faccia di un individuo nonché sui meccanismi linguistici utilizzati
per compiere nel discorso determinati atti in modo da rafforzarne o attenuarne il carattere di FTA.
modello delle limitazioni per il fatto di essere basata sui singoli enunciati e sugli atteggiamenti del parlante del
momento, affermando che alcuni progressi rispetto ad essa sono stati fatti grazie all’analisi della conversazione (10-11);
infine, non misconoscono l’importanza della dimensione emotiva per la comunicazione, tanto quella che emerge
all’interno dell’interazione attraverso le scelte linguistiche dei parlanti quanto quella relativa ai loro stati d’animo
indipendenti da essa (231-232), anche se non la focalizzano nella loro riflessione.
276
Brown e Levinson sottolineano che le strategie individuate non sono necessariamente legate ad un’intenzione di
politeness: esse possono funzionare “as a kind of social accelerator and social brake for decreasing or increasing social
distance in relationships, regardless of FTAs” (Brown/Levinson 1987, 93), oppure addirittura essere impiegate
ironicamente per insultare (229-230).
277
In particolare, si terrà conto delle acquisizioni ottenute mediante l’applicazione del modello ad altre culture (si pensi
agli studi di Blum-Kulka 1989, 37-70, Weizman 1989, 71-85, Sifianou 1999) ma anche dei progressi teorici compiuti
sul tema. Ad esempio, fondamentali sono quelli presenti nel lavoro di Caffi 2001, che riprende ed estende la tradizione
di studi sulla cortesia compiuti in pragmatica per occuparsi in particolare del funzionamento della mitigazione. Questa
viene definita come un insieme di strategie volte a deresponsabilizzare il parlante nei confronti del proprio dire in vista
di certi scopi interazionali (come quello di proteggere la faccia propria ed altrui ma anche quello di presentarsi sotto
l’aspetto emotivo e calibrare le distanze tra sé e gli altri) ma non viene legata necessariamente al compimento di FTA e
a ragioni di politeness. Caffi individua nella vaghezza, nella indirettezza e nella de-attualizzazione dell’istanza
enunciativa i principali mezzi della mitigazione e li connette a nozioni analoghe elaborate in campo psicologico per
spiegare la deresponsabilizzazione rispetto ai proprii comportamenti, compiendo dunque significativi passi avanti per la
comprensione del funzionamento dei processi comunicativi. Essa riconosce che già Brown e Levinson avevano
individuato tali mezzi pur senza svilupparli con chiarezza sul piano teorico. La studiosa non si limita inoltre alla teoria,
ma mette a punto e applica un metodo di analisi delle interazioni verbali reali per individuare il funzionamento della
mitigazione nell’interazione e indagarne gli esiti interazionali e relazionali. È per questo che, dopo quello di Brown e
Levinson, il suo studio sarà un fondamentale punto di riferimento per la mia applicazione.
176
Il fatto, inoltre, che questa applicazione costituisca soltanto un aspetto della ricerca, accanto
al quale ne vengono presi in esame altri ugualmente importanti (dalla già presentata dinamica
conversazionale ai riferimenti dei parlanti della finzione alle proprie dimensioni sociale,
psicologica, emotiva e agli esiti relazionali dei loro comportamenti interazionali, di cui si terrà
conto nella seconda parte del lavoro) agevola ulteriormente il superamento di certi limiti intrinseci
al modello.
2.3.2. Strategie di politeness
Lo studio della politeness nelle commedie menandree richiede una descrizione dettagliata
delle strategie attraverso le quali si realizza e delle esigenze di faccia che queste sono chiamate ad
assolvere. Per farlo mi riferirò costantemente all’ampia sezione del testo di Brown e Levinson
dedicata all’illustrazione del loro funzionamento278, dalla quale è tratta anche la maggior parte degli
esempi che citerò di solito in traduzione italiana e talvolta con lievi modifiche. La mia illustrazione
procederà dalla politeness positiva e negativa all’off recordness fino agli estremi della scala.
Al fine di mostrare come le esigenze (wants) che secondo Brown e Levinson configurano la
faccia di un individuo siano testimoniate anche per l’antichità, aggiungerò talora alla loro
illustrazione il riferimento a passi aristotelici che possono attestarne l’esistenza. Se infatti il discorso
su questa nozione nell’antichità è piuttosto complesso e richiede una ricerca a sé279, mi preme far
notare come in quel piccolo ‘trattato di psicologia sociale’ costituito dal II libro della Retorica di
Aristotele vengano configurati, nel discorso sulle emozioni degli uomini, i fondamentali wants di
faccia positiva e negativa individuati dagli studiosi moderni e i comportamenti che li soddisfano o
al contrario li frustrano e come il filosofo ritenga possibile per l’oratore attingere a luoghi e strategie
discorsivi per raggiungere questi scopi. Inoltre, per rendere chiara la presenza di molte delle
strategie di politeness anche nel linguaggio menandreo, nell’illustrarle menzionerò passi del
Dyscolos e della Samia che mi sembrano esemplificare una strategia o provarne l’esistenza e
contrario.
2.3.2.1 Politeness positiva
Brown e Levinson individuano tre direttrici comportamentali attraverso le quali si realizza
quell’avvicinamento all’interlocutore che caratterizza la politeness positiva, illustrando i diversi
modi in cui esse si esplicano e quindi le strategie linguistiche cui danno luogo.
278
279
Brown/Levinson 1987, 91-227.
Si tratta di una ricerca che ho in preparazione.
177
I) Una di queste consiste nell’affermare l’esistenza di un terreno comune tra il parlante e
l’interlocutore. Per attenuare la forza di un FTA attraverso la politeness positiva si cercherà di
comunicare al destinatario dell’atto che se ne apprezzano e condividono la personalità, i punti di
vista e gli interessi, ossia che ci si sente a lui legati da una particolare affinità. L’esigenza di trovare
negli altri apprezzamento e condivisione, che costituisce gran parte della faccia positiva, attestata
numerosissime volte nella letteratura greca, viene esplicitamente affermata da Aristotele in
particolare quando osserva che in genere gli uomini amano i loro amici e coloro che li ammirano, li
ritengono persone serie e godono della loro compagnia280.
Tornando a Brown e Levinson, le realizzazioni di questa strategia sono secondo loro i
seguenti:
1) Fare attenzione all’interlocutore, badarvi:
E’ il prendere in considerazione aspetti della condizione dell’interlocutore che a lui potrebbe
far piacere vedere notati e condivisi (ad esempio interessi, esigenze, beni, qualità, beni, ecc.).
Sam. 473= Dopo avere più volte espresso la richiesta al padre di far ritornare in casa Criside
(vv. 468 e 471), il giovane Moschione la motiva con la frase ἕνεκα σοῦ σπεύδω µάλιστα τοῦτο,
mostrando in tal modo di conoscere i sentimenti che il padre prova per l’etera e di volere che egli
non soffra costringendosi a rimanere lontano da lei. Il fatto che Moschione sta mentendo, dato che
invece vuole che Criside torni soprattutto per il proprio interesse a riavere il bambino che ha portato
con sé dopo l’espulsione, conferma che questo enunciato costituisce una strategia di politeness281.
2) Esagerare l’interesse, l’approvazione, la simpatia nei confronti dell’interlocutore:
Questa strategia si realizza di solito con frasi, sguardi o gesti indicanti accordo, affetto,
simpatia per il loro destinatario, il cui valore viene spesso amplificato mediante l’uso di termini
enfatizzanti o atteggiamenti sovrasegmentali come l’intonazione o l’accento.
Dysc. 489-497= Il cuoco Sicone descrive in questi versi le strategie da lui escogitate per
avere successo nelle richieste in prestito di oggetti da parte di estranei. Dopo aver premesso che chi
280
In Rh. II, 4 1381b, 10-14.
In particolare, una strategia esterna all’atto linguistico pronunciato, in quanto realizzata da un enunciato successivo
ad esso (cfr. Caffi 2001, 42).
281
178
compie un atto di richiesta deve essere κολακικός, il personaggio osserva che per ben disporre
l’interlocutore si serve di vocativi di rispetto e di affetto che cambiano a seconda dell’identità di
questi: ad esempio, se ad aprirgli la porta è un vecchio, non esita a chiamarlo πάτερ (come si vede
fare anche ad altri personaggi nel corso delle commedie menandree in segno appunto di rispetto
verso una persona più anziana) oppure addirittura πάππα (“papino, paparino”)282.
3) Intensificare l’interesse per l’interlocutore quando si tiene la parola:
Il parlante spesso cerca di rendere il proprio turno più attraente per l’interlocutore con
espedienti finalizzati a coinvolgerlo in ciò che sta dicendo. Tra i più frequenti Brown e Levinson
citano l’uso del presente storico e del discorso diretto nel corso di una narrazione, quello di tag
questions o di espressioni e frasi fàtiche, oppure la tendenza all’esagerazione e all’overstatement.
Dysc. 935-950= La descrizione di alcuni momenti del simposio che si sta svolgendo nella
grotta di Pan viene svolta con notevole ricchezza di particolari a partire dal principio,
inframmezzandovi spiegazioni (come quella del v. 944) e frasi fàtiche volte ad assicurarsi che
l’interlocutore segua e capisca tutto quanto si sta dicendo (ἀκούεις; dei vv. 941 e 944, ταῦτα
µανθάνεις σύ; del v. 949)283, per giunta nello stile elevato dei poeti284: gli espedienti usati sarebbero
perfetti per accattivare l’attenzione di un interlocutore… se non fosse che si tratta di Cnemone!
Come altre strategie di politeness utilizzate in questa scena in modo ironico per fare arrabbiare
Cnemone (come i vocativi παππία e πατρίδιον al v. 930), anche il dilungarsi del narratore Sicone
nei particolari sondando continuamente la comprensione e l’attenzione dell’ascoltatore ha lo scopo
di fare arrabbiare chi non sopporta di sentir parlare gli altri, funzionando in modo contrario al solito.
4) Usare marcatori di appartenenza ad uno stesso gruppo:
Per comunicare all’interlocutore che ci si ritiene componenti di una stessa categoria di
persone (e dunque che si ritiene di condividere con lui punti di vista, interessi, esigenze ecc.)
esistono svariate tecniche, che comprendono ad esempio, a seconda delle lingue, l’uso di forme di
allocuzione comunicanti l’impressione di familiarità e affabilità (quali ad esempio diminutivi e
282
Un’analisi completa del passo viene da me effettuata supra, 71-72 e n. 18.
Per la loro frequenza esse determinano talvolta auto-interruzioni del parlante nel racconto (vv. 941 e 944).
284
L’uso dello stile elevato in questo punto della commedia costituisce ovviamente innanzitutto un debito menandreo
verso la tradizione, che voleva appunto feste ed occasioni simposiali descritte in questa maniera (cfr. Handley ad vv.
880-958). Persino il verso tradizionale utilizzato diviene in questi versi particolarmente sostenuto, essendo quasi del
tutto privo di soluzioni e osservante sempre la dieresi mediana (cfr. Perusino 1968, 157-sgg.).
283
179
vezzeggiativi), di codici linguistici propri di determinati gruppi di persone (dialetto, gergo, slang),
di frasi ellittiche.
I già citati vv. 489-497 del Dyscolos sono a mio parere anche un esempio di questa strategia.
5) Cercare accordo:
La strategia soddisfa l’esigenza dell’ascoltatore di vedere approvati i proprii comportamenti
e le proprie opinioni. Realizzazioni di questa strategia sono ad esempio la ricerca di safe topics,
quali possono ad esempio essere le condizioni meteorologiche, ecc. Nella conversazione,
l’impressione di accordo è spesso suscitata da una ripetizione indicante approvazione delle parole
dell’interlocutore.
6) Evitare il disaccordo:
Tra i diversi modi di evitare o ridimensionare il carattere minaccioso di un’espressione di
disaccordo alcuni si sono rivelati frequentissime tendenze presenti in più di una lingua. Ne fanno
parte ad esempio le cosiddette regole “dell’accordo” e “della contiguità”, osservate e così
denominate da Harvey Sacks285 soprattutto sulla base di dati dell’inglese americano. La prima
consiste nel camuffare il proprio disaccordo in modo da farlo sembrare il contrario almeno nella
parte iniziale dell’enunciato (si pensi alle risposte che cominciano con “Sì, ma…”, o che affermano
un accordo con l’interlocutore di cui limitano immediatamente dopo la portata), mentre la seconda
si riferisce al fatto che generalmente si sceglie di posporre la frase esprimente il disaccordo ad altre
frasi (talvolta occupanti intere unità di turno) di colore più neutro.
L’esasperazione di tendenze simili produce il ricorso, nella conversazione, alle cosiddette
white lies sociali, che perseguono lo scopo di preservare la faccia dell’interlocutore e dunque il
rapporto tra questi e il parlante. Seguendo quest’ottica possiamo ritenere che talvolta anche l’ironia
sia un modo per mostrarsi d’accordo soltanto superficialmente con l’interlocutore. Anche il limitare
le proprie opinioni può costituire una realizzazione di questa strategia: normalmente i limiti fanno
parte della politeness negativa, ma quando presuppongono un terreno d’intesa tra parlante ed
interlocutore possono ritenersi diretti alla faccia positiva di quest’ultimo.
285
Citato in Brown/Levinson 1987, 114.
180
Dysc. 68= Dopo che Cherea ha descritto i comportamenti che è solito tenere per aiutare gli
amici innamorati (vv. 57-68), Sostrato prorompe in un’affermazione indicante approvazione che è
soltanto finalizzata a blandire l’interlocutore per ottenere da lui il soddisfacimento della richiesta di
aiuto appena rivoltagli (καὶ µάλ’ εὖ): lo dimostra il fatto che al verso successivo il giovane osserva
tra sé e sé in un ‘a parte’ che quello che l’interlocutore dice non gli piace affatto (οὐ πάνυ δ’
ἀρεσκόντως ἐµοί).
7) Presupporre, affermare “terreno comune”:
Anche questa strategia è intesa a comunicare all’interlocutore una sensazione di
condivisione di atteggiamenti, punti di vista, opinioni, ecc. con il parlante. Oltre all’introduzione di
temi generali o cari all’interlocutore, comprende pertanto diversi espedienti che si possono così
raggruppare: a) operazioni di manipolazione della deissi per cui si dà per scontato che
l’interlocutore abbia la stessa conoscenza del parlante in merito a fatti e persone da questi nominati
(ad esempio frasi come “you know” in inglese) o attraverso cui ci si avvicina al punto di vista
dell’interlocutore mostrando di condividerlo (si pensi all’uso di dimostrativi prossimali anziché
distali); b) operazioni di manipolazione delle presupposizioni, per cui si parla mostrando di dare per
scontato di conoscere e condividere esigenze, desideri e abitudini dell’interlocutore (ad esempio con
domande negative come: “Non ti va di bere qualcosa?”, “Non vuoi mangiare qualcosa adesso?”,
con la pronuncia di giudizi di valore piuttosto netti), di essere con lui in rapporto di familiarità (ad
esempio mediante vocativi familiari o esplicite dichiarazioni metacomunicative del tipo: “Tu sei il
mio migliore amico e perciò ti chiedo…”, “Ti voglio bene e perciò ti dico in tutta sincerità…”) o di
pensare che l’interlocutore conosca e condivida le proprie abitudini, conoscenze, gusti, ecc. (ad
esempio designando con il nome proprio persone, fatti o cose che l’interlocutore può anche non
conoscere).
L’esistenza di questo fondamentale want di faccia positiva è provato da Aristotele quando
osserva come la disattenzione verso gli altri, la dimenticanza delle loro esigenze o addirittura dei
loro nomi, designi una mancanza di considerazione per loro286.
Dysc. 55-57= Nel chiedere a Cherea che lo aiuti ad escogitare un piano per il matrimonio,
Sostrato non manca di sottolineare, tra l’altro, lo stretto legame affettivo che lo unisce
all’interlocutore (osserva infatti di ritenerlo καὶ φίλον καὶ πρακτικὸν / … µάλιστα). È chiaro che la
286
Aristot. Rh. II, 2 1379b, 34-37.
181
dichiarazione di amicizia è finalizzata ad addolcire l’FTA di richiesta e a disporre meglio Cherea
alla sua accettazione.
Dysc. 615-616= Nel cercare di convincere Gorgia ad accettare l’invito al banchetto
sacrificale, Sostrato utilizza diverse strategie, a coronamento delle quali pone, nella parte finale del
turno, una dichiarazione di amicizia (εἰµὶ γάρ, ἀκριβῶς ἴσθι, σοὶ πάλαι φίλος / πρὶν ἰδεῖν). Che la
frase costituisca in primo luogo un espediente di politeness è ben messo in evidenza da Paduano, il
quale osserva: “Più che una bugia, quella di Sostrato è un’iperbole, di cui si vede fin troppo bene la
funzione”287. In effetti, precedentemente il giovane ha dichiarato che intende invitare Gorgia e il suo
schiavo Davo al banchetto affinché siano per lui alleati più solidi nella faccenda del matrimonio (εἰς
τὰ λοιπὰ χρησιµώτεροι / ἡµῖν ἔσονται σύµµαχοι πρὸς τὸν γάµον, vv. 561-562)288.
8) Scherzare:
E’ una fondamentale tecnica di politeness positiva, dato che tenta di far sentire
l’interlocutore a proprio agio. Che questa venisse praticata e apprezzata anche nella società
dell’epoca viene messo in evidenza, come si è già visto, da Aristotele289.
Dysc. 53= Cherea critica il repentino innamoramento di Sostrato in modo scherzoso
domandandogli se avesse già deciso di innamorarsi prima di uscire di casa (ἦ τοῦτ’ ἐβεβούλευσ’
ἐξιών, ἐρᾶν τινος;, v. 53). L’intenzione di critica risulta chiara poiché la frase segue
un’esclamazione (ὡς ταχύ) esprimente sorpresa riguardo alla rapidità di quanto avvenuto,
costituente il modo in cui Cherea in diversi momenti formula delle critiche290; il tono scherzoso,
invece, è reso evidente non solo dal carattere paradossale della domanda ma anche dalla presenza in
essa della particella ἦ, la quale viene spesso impiegata in maniera ironica o sarcastica (KG II, 526).
Anche la reazione dell’interlocutore, il quale si lamenta subito del fatto che l’amico lo prenda in
giro (σκώπτεις, v. 54), può costituire una testimonianza del valore illocutorio dell’atto. Cherea si
prende la libertà di scherzare presupponendo l’esistenza di un rapporto estremamente confidenziale
con l’interlocutore.
287
Paduano 367 n. 62.
I versi iniziali del V atto dimostreranno comunque che i sentimenti di amicizia nutriti da Sostrato verso Gorgia non
sono falsi, dato che il giovane vuole che l’amico sposi sua sorella (vv. 784-sgg.).
289
Cfr. supra, 60 n. 231.
290
Cfr. infra, 200.
288
182
II) Presentare se stessi e l’interlocutore come collaboratori riguardo ad un’attività specifica oppure
in generale costituisce una seconda via della politeness positiva. A proposito del want che questa
strategia va a soddisfare, esso è sottolineato da Aristotele numerose volte, quando asserisce
l’importanza del favore nei confronti di chi ha un bisogno291. Essa può conoscere diverse
realizzazioni linguistiche, come le seguenti:
9) Asserire o presupporre la propria conoscenza delle esigenze e dei desideri
dell’interlocutore ed il proprio interesse per la loro soddisfazione:
Possono farne parte ad esempio le domande negative presentate come realizzazioni della
strategia 7 vista sopra, ma anche domande come le seguenti: “So che ti serve la macchina per le
cinque, perciò non dovrei prenderla già ora per andare in paese?”, mitigante un atto di richiesta,
oppure “So che non ti piacciono le feste, ma questa sarà davvero speciale – vieni!”, mitigante un
atto di invito-offerta. Aristotele ancora una volta prova l’esistenza di questa esigenza facendone
menzione nella definizione che dà dell’amicizia (“definiamo l’essere amici il desiderare per
qualcuno ciò che si ritiene un bene, per lui e non per se stessi, ed essere pronti a realizzarlo, per
quanto è possibile”)292.
10) Offrire, promettere:
Consiste nel sottolineare all’interlocutore la propria volontà di cooperare con lui entro una
certa sfera di rilevanza, al fine di alleggerire il peso di un FTA (ad es. nell’enunciato: “Passerò
sicuramente a trovarti la prossima settimana, ma adesso devo proprio andare” la promessa iniziale
mitiga l’FTA di concludere l’incontro con l’interlocutore).
Dysc. 827-828= Deciso a rifiutare l’offerta di matrimonio da parte della famiglia di Sostrato,
Gorgia sente il bisogno di rassicurare preliminarmente l’amico sul fatto che rispetterà l’impegno
preso di dargli in sposa la propria sorella, per dimostrargli che coopererà con lui relativamente a
quanto lo riguarda in modo diretto.
291
292
Aristot. Rh. II, 7 1385a 16-1385b 10.
Rh. II, 4 1380b 35-37 e 1381a 1.
183
11) Essere ottimisti:
Costituisce una forma di politeness positiva anche il presumere che l’interlocutore conosca
le esigenze e i desideri del parlante ed abbia interesse a soddisfarli, mostrandosi fiduciosi che la
reazione di questi all’FTA sia quella voluta ed attesa da colui che lo compie.
Dysc. 320= Dopo avere ricevuto da Gorgia una dichiarazione di amicizia ed avere appreso
che è fratello della ragazza amata, Sostrato si dice convinto della sua utilità per la realizzazione del
progetto di matrimonio (καὶ χρήσιµός γ’ εἶ, νὴ ∆ί’, εἰς τὰ λοιπά µοι), chiedendo in tal modo l’aiuto
del giovane contadino. La scelta di una frase affermativa, la cui forza espressiva è accresciuta dalla
particella γε riferita all’aggettivo e dall’invocazione, comunica la fiducia del parlante riguardo alla
disponibilità dell’interlocutore a soddisfare la richiesta. Nonostante la richiesta non sia espressa in
modo diretto, costituendo anche un esempio di off recordness, rivela comunque un orientamento di
politeness positiva. La predilezione per questo atteggiamento, costituente secondo Brown e
Levinson “the most dramatic difference between positive-politeness and negative-politeness ways
of doing FTAs”293, rivela a mio parere non soltanto che Sostrato cerca di farsi aiutare ad ottenere la
mano dell’amata facendo leva soprattutto sul rapporto che ha (o stabilisce nel corso della vicenda)
con i due giovani amici, ma anche che con estrema facilità entra in confidenza con gli altri.
12) Includere parlante ed interlocutore nell’attività oggetto dell’FTA (di critica, richiesta,
ordine, offerta, ecc.):
Se nell’azione menzionata all’interno dell’FTA il parlante include se stesso e l’interlocutore
quando in realtà ad essere coinvolto è soltanto uno dei due può suscitare l’impressione di
collaborazione e prossimità, alleggerendo in tal modo l’atto di minaccia per la faccia altrui.
Costituiscono esempi di questa strategia frasi comuni del tipo: “Vogliamo preparare la cena?” come
invito-richiesta rivolto al proprio familiare che è addetto a farlo, oppure: “Adesso chiudiamo la
porta, mamma. Il vento sta entrando” per mitigare l’offerta di un atto che va anche a vantaggio
dell’interlocutore.
Dysc. 902-905= Geta cerca di convincere il riluttante Sicone a condurre di nascosto
Cnemone fuori di casa. Tra le strategie da lui impiegate c’è la menzione della necessità di
293
Brown/Levinson 1987, 126.
184
ammansire il vecchio, motivata con il fatto che egli si è appena imparentato con la famiglia di
Sostrato. Nelle diverse frasi utilizzate per illustrare questa ragione, lo schiavo di Sostrato utilizza il
pronome ἡµεῖς od il verbo alla prima persona plurale (κηδεύοµεν). Sembra dunque che egli non si
limiti ad identificare se stesso con la casa presso la quale serve, ma includa il cuoco stesso nel
gruppo familiare, al fine di far ricadere anche su di lui l’obbligo di rimettere in riga il vecchio
scorbutico (cfr. anche Handley ad vv. 902-sgg.: “Getas as an old servant, speaks as one of the
family, and ingratiatingly includes the cook in the circle”).
13) Dare o chiedere ragioni:
Illustrando all’interlocutore le motivazioni per cui si compie l’FTA, ossia facendo capire la
ragionevolezza dell’atto, il parlante gli mostra anche di presupporre in lui una sensibilità affine alla
propria e di dare per scontata la sua disponibilità a cooperare. Lo stesso effetto ha il chiedere le
ragioni per le quali si ritiene che un’azione vada svolta o evitata, così largamente usato in alcune
lingue per compiere atti di richiesta o di critica da essersi talora convenzionalizzato perdendo le
originarie sfumature di politeness (esempi: “Perché non mi presti la tua casa di campagna per
questo fine settimana?”, “Perché non hai lavato i piatti?”).
Dysc. 852-854= L’invito a condurre nella grotta anche Cnemone, espresso on record da
Sostrato (καὶ τὸν γέροντα, Γοργία, / κοµίσατε δεῦρ’(ο)), viene seguito nella stessa battuta
dall’indicazione delle motivazioni per cui è stato pronunciato (“Qui da noi troverà meglio ciò che
gli occorre”, vv. 853-854), la quale lo rende ragionevole agli occhi dell’interlocutore (anche perché
rivela l’attenzione del parlante per un membro del suo gruppo familiare).
Dysc. 466-467= Cnemone domanda a Geta per quale ragione tocchi la porta di casa sua per
rimproverarlo e minacciarlo. Che tuttavia in questo caso la scelta della forma interrogativa non sia
dovuta a ragioni di politeness è dimostrato in modo inequivocabile dall’appellativo fortemente
offensivo τρισάθλι’(ε) … ἄνθρωπε, presente nell’enunciato. L’atto di critica-rimprovero si trova
spesso espresso, non soltanto in Menandro, come domanda sulle ragioni del comportamento
stigmatizzato, risultando del tutto chiaro nel suo valore illocutorio: evidentemente anche in greco
antico l’indirectness della domanda si era presto convenzionalizzata non risultando più
particolarmente polite.
185
14) Presupporre o asserire reciprocità:
L’idea che esista cooperazione tra parlante e interlocutore viene spesso comunicata anche
con il riferimento alla reciprocità di attese e di obblighi all’interno del loro rapporto, ossia ad
esempio facendo capire al destinatario di un FTA che si farà qualcosa per lui se egli è disposto a
fare lo stesso per il parlante, o che è tenuto ad agire in un certo modo verso il parlante in virtù dei
comportamenti da questi tenuti nei suoi confronti in precedenza, ecc. L’importanza della reciprocità
è attestata nell’intera cultura greca da numerosissime fonti. In questa sede si può citare ancora la
Retorica di Aristotele in cui si sottolinea come il mancato rispetto di essa sia causa di ira294.
Sam. 694-712= Il discorso di Demea a Moschione nell’ultimo atto della commedia è
impostato dal vecchio pressoché interamente sulla reciprocità di comportamenti nel rapporto tra lui
e suo figlio295. Dopo avere ricordato la serie di benefici che, in quanto padre, ha assicurato a
Moschione nel corso di tutta la vita passata insieme (successiva, ovviamente, all’adozione), il
vecchio afferma che Moschione come figlio avrebbe dovuto sopportare anche qualche sofferenza da
lui proveniente (ἀνασχέσθαι σ’ ἔδει / καὶ τὰ λυπήσαντα [παρ’ ἐ]µοῦ καὶ φέρειν τι τῶν ἐµῶν / ὡς ἂν
ὑόν, vv. 700-702) e avviandosi alla conclusione formula la sua richiesta di ottenere perdono dal
figlio esortandolo a non ricordare il solo giorno della vita in cui ha sbagliato dimenticando quelli
precedenti (µὴ µνηµονεύσηις ἡµέραν µου τοῦ βίου / µίαν ἐν ἧι διεσφάλην τι, τῶν δὲ πρόσθεν
ἐπιλάθηι, vv. 709-712).
III) L’ultimo dei grandi meccanismi attraverso i quali opera la politeness positiva è rappresentato
dalla soddisfazione diretta di uno o più desideri od esigenze dell’interlocutore, la quale dà luogo alla
strategia seguente.
294
Aristot. Rh. II, 2 1379a 8-9.
Sulle strategie linguistiche che realizzano questa impostazione mi soffermerò più diffusamente infra, 285-sgg.. Della
sua inadeguatezza all’interno della comunicazione tra un padre e suo figlio scriverò prendendo in esame il loro rapporto
(infra, 396-400.
295
186
15) Fare doni all’interlocutore (beni, simpatia, comprensione, cooperazione):
Si può onorare la faccia positiva dell’altro facendo realmente qualcosa che soddisfi i suoi
desideri, mostrando così di desiderare quello che egli vuole e di farlo per lui stesso. A questo
espediente appartiene senz’altro l’atto di offrirgli un dono, sia di tipo materiale (i quali sono prova
tangibile che si conoscono alcuni dei desideri e delle esigenze dell’interlocutore e si vuole
soddisfarli) che di tipo morale e sociale (ad es. comprensione, ammirazione, collaborazione, ecc.).
Dysc. 558-562= Ho già citato il brano (supra, 182) in cui Sostrato osserva che l’invito di
Gorgia e Davo al banchetto sacrificale servirà “to form a closer alliance … with a view to the
intended repetition of the day’s attempt to win over Knemon” (G-S ad v. 557).
2.3.2.2 Politeness negativa
Ciò che distingue queste strategie da quelle di politeness positiva è il fatto che a differenza
di queste ultime le prime si focalizzano sul particolare FTA che vanno ad attenuare, minimizzando
specificamente l’imposizione che questo comporta sulla libertà dell’interlocutore. Spesso la
politeness negativa offre il più elaborato sistema di strategie linguistiche tese a temperare l’aspetto
minaccioso di un FTA, ma anche quello maggiormente convenzionalizzato. Questo fa sì che l’uso
degli accorgimenti di politeness negativa possa essere dovuto non ad intenzioni di cortesia ma ad
altre ragioni, come ad esempio la volontà del parlante di porre un freno sociale sull’interazione con
l’ascoltatore (ossia di ‘prendere le distanze’ da lui). Anche la politeness negativa si esprime
attraverso super-strategie che trovano diverse realizzazioni sul piano linguistico, anche se esse si
intrecciano tra loro più che nella politeness positiva per sfociare nelle singole strategie.
A proposito della fondamentale esigenza di faccia negativa che è la libertà di azione e la
dall’imposizione, si può affermare che essa viene attestata ancora una volta da Aristotele quando
definisce “mancanza di rispetto” (ὀλιγωρία) l’ostacolare i disegni degli altri per disprezzo o
dispetto296 e quando afferma che gli uomini provano ira verso chi impedisce loro qualcosa297.
I) Un fondamentale meccanismo di politeness negativa è l’essere diretto nel compimento di FTA,
evitando di causare al destinatario sforzi eccessivi per la comprensione di quanto detto. Poiché esso
rischia tuttavia di risultare in contrasto con l’esigenza di non coartare l’interlocutore, si esprime
spesso nella seguente strategia:
296
297
Aristot. Rh. II, 2 1378b 11-20.
Rh. II, 1379a 12-15.
187
1) Essere convenzionalmente indiretti:
Si può ritenere che questa strategia riunisca due opposti modi di venire incontro a quella
fondamentale esigenza della faccia negativa che è la libertà dall’imposizione. Da una parte, si cerca
di minimizzare il dispendio di tempo e di energie provocato all’interlocutore dal proferimento di un
FTA esprimendosi in termini diretti e dunque immediatamente chiari. Dall’altra, la necessità di non
mostrarsi opprimenti può indurre all’espressione indiretta dell’atto minaccioso per la faccia altrui.
E’ per questo che si sceglie frequentemente di comunicare mediante “phrases or sentences that have
contextually unambiguous meanings (by virtue of conventionalization) which are different from
their literal meanings. In this way the utterance goes on record, and the speaker indicates his desire
to have gone off record (to have conveyed the same thing indirectly)”298.
Dysc. 700-701= Il parziale (e momentaneo) mutamento di atteggiamenti di Cnemone nei
confronti degli altri viene sottolineato da Menandro anche attraverso quest’atto di richiesta, con la
quale il vecchio chiede alla figlia il favore di essere aiutato ad alzarsi. Per la prima volta nella
commedia il personaggio, abituato a dare ordini ai membri della propria famiglia in modo esplicito
e privo di attenuazioni (attraverso frasi imperative prive di elementi mitiganti)299, tempera la forza
dell’FTA di comando pronunciando un atto linguistico indiretto, ossia mettendo in forse la volontà
della destinataria di compiere l’azione richiesta. La costruzione βούλει con infinito come atto di
comando-richiesta realmente od ironicamente polite compare più volte in altri autori (ad es.
298
Brown/Levinson 1987, 132. La nozione di “conventional indirectness”, illustrata dalle parole citate, viene discussa
ampiamente da Brown e Levinson a proposito di questa prima strategia di politeness negativa (ib., 132-142). I due
studiosi affermano che la principale motivazione dell’esistenza e dell’uso di atti linguistici indiretti (per i quali cfr.
Levinson 1993, 268-281) risiede nell’intenzione del parlante di mostrare di voler essere indiretto pur risultando di fatto
esplicito per rispetto della faccia dell’interlocutore (si pensi alla banale domanda “Puoi passare il sale?”, che risulta
immediatamente riconoscibile come richiesta o comando nonostante la forma interrogativa): questi vengono infatti
spesso realizzati ponendo in dubbio la sussistenza delle loro condizioni di felicità relative al destinatario. Naturalmente,
per individuare le varie tipologie di atti linguistici indiretti non basta sovrapporre le analogie superficiali tra diverse
lingue, dietro le quali possono celarsi differenze profonde. Va infatti precisato che gli atti linguistici indiretti possono
essere formati in molteplici modi, risultando perciò teoricamente infiniti quanto al numero, che non tutti gli atti
linguistici indiretti sono divenuti convenzionali o idiomatici e che le classi di atti linguistici idiomatici sono diverse da
cultura a cultura. I principi generali alla base dei processi di convenzionalizzazione nelle diverse culture vengono
individuati nell’evitare tabù culturali con ambiguità, presupposizioni, scelte lessicali che potrebbero infrangerli,
nell’adeguarsi ai rapporti sociali vigenti in una determinata società, che spesso ostacolano la convenzionalizzazione di
forme di espressione altrimenti valide, e nel rendere idiomatici gli atti linguistici indiretti ritenuti più polite.
E’ chiaro che nella mia applicazione del modello il grado di convenzionalità di determinati atti linguistici indiretti verrà
valutato caso per caso in base all’uso che di essi viene compiuto nel linguaggio menandreo ed in quello di altri autori.
299
Cfr. i vv. 427-429, 453-455, 502, 589-590, 595, 732-739 e 740. Di questo parlerò infra, 205-206.
188
Aristoph. Ach. 1108 e 1113, Ran. 172, Plat. Lys. 204a, Gorg. 462d), mentre in Menandro non è mai
attestata oltre che in questo passo300.
II) La super-strategia di non presumere di conoscere ciò che il destinatario dell’FTA vuole, ciò di
cui ha bisogno, ciò che per lui è rilevante, ecc. si traduce nella seguente strategia:
2) Domandare, limitare:
Esprimere un FTA in forma interrogativa costituisce il modo più semplice e dunque più
frequente per evitare di presumere la disponibilità del destinatario ad accettarlo. Accanto a questo
espediente, largamente convenzionalizzato ad esempio nell’atto di richiesta301, esiste l’impiego dei
“limiti”302, definibili come elementi che modificano il grado di appartenenza di una frase o di
un’espressione ad una classe di elementi, ad esempio specificando che questa è soltanto parziale o,
al contrario, che è invece più completa di quanto si attenda. I limiti sono raggruppabili nelle
seguenti categorie: 1) limiti sulla forza illocutoria di un determinato atto, i quali modificano il
valore del verbo performativo espresso o sottinteso nell’atto: sono rappresentati da particelle,
espressioni o frasi enfatizzanti o attenuanti (si pensi alle locuzioni “in un certo modo”, “con ogni
probabilità”, “mi sembra”, ecc.), dalle frasi ipotetiche o if-clauses (ess.: “se puoi”, “se vuoi”, se non
ti dispiace” tra le più frequenti, ma anche frasi che mettono in forse alcune condizioni di felicità
dell’atto linguistico compiuto, come: “Se la porta non è chiusa puoi chiuderla”); 2) limiti sulle
massime di Grice, distinti a loro volta in limiti di qualità, sottolineanti che il parlante non prende la
responsabilità del proprio enunciato (esempi ne sono “penso”, “credo”, “suppongo”, “per quanto ne
so”, uso di tempi e modi verbali indicanti dubbio), di quantità, precisanti che il parlante non dà
un’informazione
così
completa
e
precisa
come
si
attende
(ess.:
“più
o
meno”,
“approssimativamente”, “in una certa misura”, “per così dire” ecc.), di rilevanza, con i quali si
ammette o si giustifica un cambiamento di argomento (ad es. “a proposito”, “in ogni caso”, “E’
arrivato il momento di dire…”, “Questo può non essere rilevante, ma…”, “Per rispondere alla tua
domanda…”, e simili), di modo, riferiti alla chiarezza di quanto si sta dicendo (esempi ne sono
“Quello che intendevo dire è…”, “Per dirla in breve…” “in altre parole…”, ecc.); 3) limiti sulle
politeness strategies stesse (come in italiano “francamente”, “ad essere sinceri”, “Odio dirlo ma…”,
esitazioni, cambiamenti di tono, ecc.).
300
Diverso è l’uso di βούλει con infinito in atti di proposta (presente ad esempio in Dysc. 891 o Epit. 222-223) in cui si
chiede effettivamente all’interlocutore se abbia voglia di compiere una determinata azione.
301
Cfr. le osservazioni relative alla strategia precedentemente discussa (supra, 188) alla quale questa in parte si
sovrappone.
302
Per il concetto di limite (in inglese hedge) cfr. Brown/Levinson 1987, 145. Cfr. anche Caffi 2001, soprattutto 43-61.
189
Dysc. 269-270= Il turno di presa di contatto di Gorgia con l’ancora sconosciuto Sostrato
contiene numerose strategie di politeness negativa303. Alla presente appartiene la forma della
domanda, attraverso la quale il parlante evita di presumere che l’interlocutore sia disposto a
compiere l’azione che gli viene richiesta.
Dysc. 931-954= A provare e contrario l’importanza di tale strategia nell’interazione verbale
tra i personaggi menandrei sono a mio parere diversi passi della scena della beffa, in cui Sicone e
Geta utilizzano frasi affermative all’indicativo futuro (v. 933) o frasi imperative (v. 942) per riferirsi
ai comportamenti che Cnemone, ormai in totale balia dei due, dovrà adottare. Essi risultano così
volutamente impolite.
Dysc. 199-200= L’offerta di aiuto pronunciata da Sostrato nei confronti della figlia di
Cnemone viene preceduta da una frase ipotetica che funge da limite di politeness negativa (ἂν ἐµοὶ
δ[ῶις, αὐτίκα / βάψας ἐγώ σοι τ[ὴν ὑδρίαν ἥ]ξω φέρων). In essa il parlante chiede in forma indiretta
all’interlocutrice di compiere l’azione che renderà possibile l’aiuto, subordinando dunque il
compimento dell’atto alla volontà di lei: se è vero che l’offerta di una prestazione costituisce un
FTA per il parlante piuttosto che per l’interlocutore, in questo caso, data la distanza che dovrebbe
esserci tra una fanciulla libera ed un estraneo, esso costituisce anche una violazione di faccia
negativa per l’interlocutrice.
3) Essere pessimisti:
Si è già visto come dubitare che sussistano le condizioni di felicità di un FTA costituisca un
meccanismo di politeness negativa. La sua estremizzazione dà origine a questa strategia, consistente
nel presumere che il destinatario dell’FTA non possa o non voglia accoglierlo. In alcune lingue
questa strategia modifica spesso atti di richiesta o di consiglio (si pensi in inglese a frasi come: “I
don’t imagine there’d be any chance of you…”). In altre è tuttavia meno presente, poiché sembra
sottintendere nel destinatario una abituale mancanza di volontà di accogliere l’FTA.
303
Ho già analizzato il passo nello studio delle aperture di conversazione del Dyscolos (supra, 73).
190
4) Minimizzare l’imposizione:
Accade spesso che la forza minacciosa di un FTA venga mitigata comunicando
all’interlocutore che l’imposizione richiestagli è minima. Questo effetto viene ottenuto per il tramite
di avverbi od espressioni costituenti limiti (ad es. “soltanto”, “appena” ecc.) oppure mediante
eufemismi (si pensi in italiano ad espressioni temporali come “un momento” per “qualche minuto”,
“domani” per “tra qualche giorno”, ecc.), avverbi o locuzioni diminutivi (come “un po’”, “un
pochino”, “poco poco”, “un sorso”, o “un attimino”, originaria indicazione temporale che
nell’italiano settentrionale parlato ha esteso il proprio significato divenendo un’espressione
quantitativa usata per temperare qualunque tipo di FTA).
Dysc. 299= Dopo aver ricevuto pesanti accuse da parte di Gorgia, Sostrato gli chiede
espressamente di essere ascoltato ma fa precedere l’imperativo dal aggettivo neutro βραχύ,
probabilmente accompagnato dal pronome τι (“just a word or two” secondo la traduzione di
Handley ad loc.).
5) Dare deferenza:
Se la strategia precedente agiva sul valore di Rx, diminuendolo, questa appare orientata su
quello di P, tendendo ad accrescerlo. Se il parlante umilia se stesso oppure innalza la persona
dell’interlocutore tributa deferenza a quest’ultimo, mostrando di riconoscere i suoi diritti ad una
relativa libertà dall’imposizione. La più evidente codificazione dei fenomeni di deferenza è presente
negli onorifici, quali ad esempio l’uso di pronomi plurali per destinatari singolari in alcune lingue
(le cosiddette lingue T/V304) e quello di forme di vocativo generalizzate per persone estranee forse
in tutte le lingue del mondo, compreso il greco antico. La ricerca ha mostrato che spesso l’impiego
degli onorifici è legato al proferimento di FTA: in diverse lingue si registra come fenomeno comune
il passaggio da una forma normale (o non proprio rispettosa) di vocativo ad una onorifica, a volte
persino iperbolica, al fine di attutire la forza dell’atto compiuto.
Oltre che attraverso le codificazioni linguistiche di fattori sociali appena viste, questa
strategia si realizza anche attraverso frasi o locuzioni esprimenti esplicitamente deferenza
all’interlocutore: si pensi ad esempio a quelle con cui il parlante umilia se stesso (“E’ soltanto un
piccolo pensierino, ma spero che ti piacerà” al momento della consegna di un regalo, “Forse sono
diventato stupido, ma non riesco a capire questa cartina” per chiedere aiuto, ecc.), o a quelle in cui
304
Su questo cfr. Brown/Levinson 1987, 198-199 e Levinson 1993, 102-103.
191
fa capire che i propri wants sono subordinati a quelli dell’interlocutore. Una loro estremizzazione è
rappresentata dal comportarsi in modo goffo, timido o addirittura buffonesco per marcare la propria
inferiorità rispetto all’interlocutore.
Aristotele testimonia come un uomo si senta appagato quando ottiene deferenza osservando
che diviene mite quando chi, pur avendo commesso azioni capaci di suscitare la sua ira, si umilia di
fronte a lui e non lo contraddice, in modo da presentarsi come inferiore305.
Dysc. 362= La parentetica ἀντιβολῶ costituisce un modo per esprimere deferenza nei
confronti dell’interlocutore a cui si indirizza un FTA di richiesta di aiuto. Con il verbo, sinonimo di
ἱκετεύω anche se più raro e solenne306, il parlante mostra infatti sottomissione nei confronti
dell’interlocutore307.
III) Dei meccanismi generali della politeness negativa fa parte anche comunicare di non volere fare
pressioni sull’interlocutore in modo da limitarne la libertà di azione.
L’assenza di volontà nel compiere un’azione irrispettosa nei confronti di una persona
costituisce un’attenuante anche secondo Aristotele308.
6) Scusarsi:
Costituisce forse la più immediata realizzazione del meccanismo appena illustrato e, oltre
che manifestazioni non verbali come l’esitazione, può esprimersi nei seguenti modi: 1) ammettendo
l’affronto compiuto contro la faccia del destinatario (in frasi del tipo: “Spero di non disturbarti
troppo, ma…”, “So che è noioso, ma…”, “Devo chiederti una grossa cortesia”); 2) indicando
riluttanza a limitare la libertà di H (ad esempio in: “Sono terribilmente imbarazzato nel dovere
ammettere che…”, “In condizioni normali non te lo chiederei, ma…”); 3) adducendo ragioni
pressanti (“Credo che nessun altro oltre a te mi possa aiutare”, “Sono del tutto perso”); 4)
scusandosi per il fastidio arrecato (“Scusami se…”, “Mi dispiace disturbarti”, “Mi perdonerai se ti
chiedo…”).
305
Aristot. Rh. II, 3 1380a 22-24.
G-S ad loc.: “Parenthetic ἀντιβολῶ (σε), familiar in Aristophanes, is not yet known from New Comedy elsewhere.
Perhaps it had become less common in ordinary talk, and therefore stronger in effect”.
307
Lloyd 2006, 234 include le frasi illocutorie citate in quello che definisce “supplicatory language”, che menziona
come espressione di deferenza.
308
Aristot. Rh. II, 3, 1380a 10-13.
306
192
7) Rendere impersonali parlante ed interlocutore evitando i pronomi di prima e seconda
persona singolare:
L’aspetto minaccioso di un FTA viene spesso attenuato facendo capire all’interlocutore che
esso non viene compiuto (soltanto) da S o che la spinta a compierlo non nasce da lui e che il
destinatario non è (unicamente) l’interlocutore. Anche questa strategia si espleta linguisticamente in
diversi modi: 1) spesso si evita di pronunciare soggetto e oggetto del verbo performativo indicante
l’atto che si sta compiendo. Perciò, a meno che non si voglia ottenere un particolare effetto retorico
sull’interlocutore, si preferisce dire “Fa’ questo per me” anziché “Ti chiedo di fare questo per me”.
Non è un caso che in molte lingue le frasi imperative omettano il pronome personale del
destinatario, il quale, se usato, risulta estremamente rude (si pensi all’inglese “You take that out!”
rispetto al normale “Take that out!”); 2) si tende ad usare verbi e costruzioni che consentono di
omettere il riferimento a colui che compie l’atto e al suo destinatario. Non è un caso ad esempio che
le idee di dovere e di necessità siano espresse da verbi impersonali (“E’ necessario (per te)…”,
“Bisogna…”. Diffuso è anche l’impiego, con i verbi che lo consentono, dello “stative phrasing”309,
ossia dell’espressione di un’idea con un verbo alla terza persona singolare (neutra) che non viene
riferito ad un soggetto personale (ess.: “Si è rotto” anziché “L’ho rotto”); 3) si preferisce spesso
usare il passivo, che consente di eliminare il riferimento al parlante, all’interlocutore o ad entrambi
(come in “Sarebbe apprezzato che…” al posto di “Apprezzerei che…”, “Se mi è permesso…”
anziché “Se mi permetti…”, ecc.) e, nelle lingue che lo consentono, voci circostanziali che agiscono
promuovendo a soggetto dell’azione descritta un complemento della stessa ed allontanando
l’attenzione dalla persona che l’ha compiuta; 4) si usano pronomi indefiniti o i pronomi personali di
terza persona al posto dei pronomi personali di prima e seconda persona e con questi si concorda il
verbo (si pensi all’inglese one, all’italiano qualcuno, uno, ecc.) o i pronomi di prima e seconda
persona plurale in luogo dei loro corrispondenti singolari (ciò che accade ad esempio in tamil e che
forse in molte altre lingue ha costituito la base della distinzione T/V); 5) si evita di rivolgersi
all’interlocutore con il nome proprio oltre che, come già detto, con il pronome di seconda persona;
6) si può evitare di designare se stessi attraverso il pronome di prima persona singolare, come ad
esempio può scegliere di fare chi occupa una particolare carica in modo da scindere se stesso (i
propri desideri e le proprie esigenze) dall’ufficio svolto; 7) si operano manipolazioni del punto di
vista, in modo da distanziare il parlante dall’interlocutore oppure entrambi dall’FTA che si sta
compiendo. E’ possibile ad esempio distanziare nel tempo l’FTA riferendolo al passato (si pensi ad
esempio a frasi come: “Mi stavo chiedendo se potessi…” anziché “Mi chiedo se tu possa…”,
309
Brown/Levinson 1987, 193 riferiscono che l’espressione è stata coniata dal linguista Annamalai.
193
“Volevo sapere…” anziché “Voglio sapere…”), oppure distanziarlo nello spazio utilizzando deittici
distali anziché prossimali (ad esempio quello anziché questo), raccontando con l’ausilio del
discorso indiretto anziché di quello diretto.
Dysc. 696-697= L’FTA di consiglio rivolto da Gorgia a Cnemone relativamente
all’importanza per lui di vivere con qualcuno che se ne prenda cura (τηρούµενον … τηλικοῦτον τῶι
βίωι / ἤδη καταζῆν δεῖ) è caratterizzato dall’assenza del soggetto di seconda persona singolare della
frase infinitiva (a cui il parlante si riferisce unicamente attraverso il pronome τηλικοῦτον), per
evitare di pressare troppo il vecchio (δεῖ senza il soggetto espresso si trova soprattutto in frasi di
carattere generale, come ad es. 61, 434310), e dall’uso del verbo che indica il “prendersi cura di” in
forma passiva, dunque evitando di riferirsi alla persona del parlante e alla sua volontà di collaborare
al compimento delle azioni consigliate al destinatario.
Dysc. 784-785= L’FTA di critica pronunciato da Sostrato nei confronti di Callippide risulta
dalle sue parole estremamente chiaro, ma nell’esprimerlo il giovane utilizza degli accorgimenti di
politeness negativa. Si cura infatti di distanziare sia se stesso che il padre dall’FTA con la frase
ἅπαντά µοι … γίνεται παρὰ σοῦ, di cui parlante ed interlocutore sono soltanto complementi. In
particolare, l’uso del verbo γίγνοµαι sembra mitigare l’aspetto della responsabilità dell’interlocutore
riguardo ai fatti di cui il parlante si lamenta, nonostante sia chiaro ad entrambi i partner di
conversazione che essi dipendono chiaramente dalle sue decisioni, come la reazione di Callippide
rende evidente. La frase τι γίγνεται παρά (ἔκ, ὑπό, διά) τινος ha frequentemente nel linguaggio
menandreo e di altri autori greci la funzione di focalizzare l’attenzione su un’azione (o sul suo
risultato) a scapito della persona che la compie311. L’effetto comunicativo creato da questa strategia
nel presente passo non è forse solo quello di politeness: essa sembra infatti segnalare un
allontanamento della persona del parlante da quella dell’interlocutore, dando la sensazione di una
certa freddezza del primo nei confronti del secondo. Come si è già detto, infatti, alla politeness
negativa è spesso affidato il compito di porre freni o barriere all’interno di una relazione
interpersonale312. Quando Callippide accetta di discutere con lui le ragioni per cui non ha
310
Soltanto al v. 873 l’assenza del soggetto di seconda persona nella frase infinitiva sembra mitigare un atto di richiesta
di Sostrato a Gorgia, precedentemente espresso con forza.
311
In Menandro si trova forse in Sam. 701 (τὰ λυπήσαντα [παρ’ἐ]µοῦ detto da Demea a Moschione) e sembra motivata
dall’intenzione del parlante di separare la propria persona dagli errori commessi per farli apparire perdonabili anche
all’interlocutore, oppure in Peric. 747 (διὰ σοῦ γενέσθω τοῦτό µοι) per temperare una richiesta esplicita. Anche in
Thuc. 6,88,7 ed in Xen. An. 7,1,30 la frase sembra dovuta all’intenzione di chi la pronuncia in discorso diretto od
indiretto di allontanare un’azione da chi la compie, nel secondo dei due passi al fine di mitigare la portata di un FTA.
312
Cfr. supra, 187.
194
acconsentito alla sua richiesta, Sostrato passerà all’attacco divenendo del tutto diretto nei confronti
del padre (cfr. il passo successivo).
Dysc. 805-806= Il passo dimostra l’efficacia della strategia in quanto ne costituisce una
palese violazione. Sostrato tenta di convincere Callippide a dare la propria figlia in sposa a Gorgia,
sostenendo, in un discorso lungo e contorto, che la ricchezza è un bene fugace e deve pertanto
essere utilizzata per procurarsi veri amici. Sin dall’inizio il giovane non si fa scrupolo di ripetere
pronomi di seconda persona singolare più volte (vv. 798, 800 forse per due volte, 801, 804)
formulando poi, nel mezzo del proprio turno, il consiglio fondamentale nel modo seguente: διόπερ
ἐγώ σε φηµὶ δεῖν, ὅσον χρόνον / εἶ κύριος, χρῆσθαι σε γενναίως, πάτερ, / αὐτόν, ἐπικουρεῖν πᾶσιν,
εὐπόρους ποεῖν / ὡς ἂν δύνηι πλείστους διὰ σαυτοῦ. Nel periodo possiamo notare come il giovane
voglia in qualche modo ergersi a consigliere del padre, conferendo importanza alla propria persona
attraverso l’uso del verbo performativo φηµί (che in ossequio alla strategia in esame sarebbe stato
preferibile sottintendere) con il soggetto espresso (ἐγώ), quindi rivolgendosi direttamente
all’interlocutore con il vocativo πάτερ ed utilizzando nei suoi confronti l’accusativo σε per ben due
volte nella stessa frase, con una ripetizione che, come in altri passi in cui compare (ad esempio
Aristoph. Av. 544), sembra avere la funzione di enfatizzare la destinazione dell’FTA. Si può
affermare dunque che il ragazzo approfitti della tolleranza mostrata da Callippide nel corso della
discussione e, nella foga di dimostrare la validità della sua posizione, trascuri l’impiego di
determinati accorgimenti di politeness nei confronti del padre, il quale forse anche per questa
ragione si lamenterà di questo atteggiamento nel turno immediatamente successivo (con la
domanda-rimprovero τί µοι λέγεις γνώµας;). Forse l’unico accorgimento di politeness presente in
questo lungo turno è costituito dal fatto che Sostrato trasforma la sua richiesta in atto di consiglio,
intendendo così palesare interesse per il bene di suo padre.
8) Stabilire l’FTA come regola generale:
E’ possibile dissociare emittente e destinatario di un FTA dall’atto presentandolo come
esempio di una regola o consuetudine di carattere generale: in tal modo si trasmetterà la sensazione
che l’FTA non viene compiuto per la precisa volontà del parlante del momento e contro quello
specifico interlocutore, ma che esso dipende dalle circostanze in cui ci si trova, dalle azioni che si
sta compiendo e dai ruoli sociali che ci si trova a svolgere. E’ per questa ragione, ad esempio, che
una frase come “I passeggeri sono pregati di non utilizzare la toilette durante le soste del treno”
risulta più polite rispetto a “Siete pregati…”, o “Mi dispiace, chi arriva in ritardo non può entrare in
195
sala prima dell’intervallo” rispetto a “Mi dispiace, Lei non può entrare in sala prima
dell’intervallo”.
Dysc. 612-614= Si può inserire la frase interrogativa pronunciata da Sostrato tra gli esempi
di questa strategia, dato che esprime un rimprovero nei confronti di Gorgia riferendosi al
comportamento che generalmente si tiene quando si viene invitati a banchetto da un conoscente
(opposto a quello adottato dal giovane contadino). Il giovane innamorato si chiede infatti: ὦ
Ἡράκλεις, / τουτὶ δ’ ἀπαρνεῖταί τις ἀνθρώπων ὅλως, / ἐλθεῖν ἐπ’ ἄριστον συνήθους τεθυκότος;, (in
cui la presenza dell’iota deittico τουτὶ non costituisce un rafforzamento dell’atto, controbilanciando
la politeness, ma conferisce rilevanza all’atto espresso dall’infinitiva, che è quello che il parlante
invita l’interlocutore a compiere). Tuttavia, poiché la critica viene espressa in forma interrogativa e
non compare un esplicito giudizio di valore sull’agire dell’interlocutore, la strategia si mescola in
questo caso con quelle dell’off recordness.
9) Rendere nominali:
L’uso di nomi in sostituzione di verbi aventi come soggetto l’autore o il destinatario di un
FTA costituisce un ulteriore espediente per attenuare la forza dell’atto. Non è un caso che le
costruzioni nominali siano tipiche del linguaggio formale (si pensi ad es. alle seguenti coppie di
frasi, il cui primo elemento è più formale del secondo: “Lei ha fatto un buon esame e questo ci ha
favorevolmente impressionati” / “Il suo buon esame ha suscitato un’impressione favorevole su di
noi”, “Mi stupisce che tu ti sia comportato in quel modo” / “Mi stupisce il tuo comportamento”,
“Sono contento di presentare…” / “E’ per me un piacere presentare…”). Molte altre lingue
conoscono anche nel registro colloquiale la preferenza per l’uso di forme nominali a scopi di
politeness.
Dysc. 293-295= L’esclamazione di sbigottimento di Sostrato dopo le accuse gravissime
rivoltegli da Gorgia (Ἄπολλον, v. 293) fa sì che Gorgia provi a correggere il tiro, osservando che
non è comunque giusto che egli che sta in ozio rechi danno a chi, come lui ed il suo schiavo, deve
lavorare. Diversamente che nella precedente battuta dello stesso parlante, in cui l’accusa era
chiaramente riferita alla persona del giovane sconosciuto (ἔργον δοκεῖς µοι φαῦλον ἐζηλωκέναι, …,
vv. 289-293), in questo caso il soggetto grammaticale della frase di rimprovero è la vita oziosa
dell’interlocutore (τὴν σὴν σχολήν), di cui si valutano gli effetti su chi lavora (τοῖς ἀσχολουµένοις
… ἡµῖν).
196
IV) Un’altra delle super-strategie di politeness negativa consiste nel parziale ‘risarcimento’ della
faccia dell’interlocutore attraverso la soddisfazione di altre sue esigenze. Come si è visto, questo
meccanismo può costituire anche un risarcimento di faccia positiva per l’interlocutore, dando luogo
alla strategia 15 della politeness positiva (cfr. supra, 187), ma all’interno della politeness negativa
agisce in modo estremamente più ristretto. Una maniera di realizzare tale meccanismo è quella di
esprimere deferenza nei confronti del proprio interlocutore, indicata come strategia 5 (supra, 191).
Altri modi possono essere riuniti nella strategia seguente.
10) Mostrare di indebitarsi o di non indebitare H:
Consiste nell’affermare esplicitamente il debito contratto con l’interlocutore in alcuni atti
(come quello di richiesta: si pensi a frasi come “Ti sarò eternamente grato se…”) o nel negare ogni
indebitamento dell’interlocutore in altri (come quello di offerta; cfr. ad esempio: “Posso fare questo
(per te) senza problemi”, “Nessun disturbo…”, ecc.).
Dysc. 378= Un esempio di questa strategia può forse essere visto nella frase ἀπέσωσας che
Sostrato, prendendo la zappa da Davo, rivolge a Gorgia, mostrandosi così debitore di un grande
favore nei confronti del giovane. Frasi simili di ringraziamento, pronunciate da un amante in
difficoltà nei confronti di chi lo ha aiutato, sono in Luciano 80, 2 (analoga funzione può assumere in
latino il verbo servare, presente in un atto di ringraziamento in Plaut. Men. 1084, nella frase me
servavisti).
2.3.2.3 Off recordness
Sul piano linguistico questa super-strategia si realizza dicendo qualcosa di più generale o di
diverso rispetto a quanto si intende comunicare all’interlocutore. Brown e Levinson ne illustrano le
diverse realizzazioni facendo riferimento alla teoria linguistica griceana: esse nascerebbero infatti
dalla violazione delle quattro massime conversazionali (di rilevanza, quantità, qualità e modo) da
questa individuate313. Per stabilire se un enunciato viene pronunciato in maniera off record oppure
no è pressoché indispensabile considerare il contesto di proferimento (nella sua accezione più
ampia), il quale spesso consente un’unica interpretazione di quanto viene detto; non va inoltre
dimenticato che spesso in una lingua (a volte anche soltanto per determinate cerchie di parlanti) il
313
Sulle massime di Grice cfr. supra, 18.
197
valore FTA di certe espressioni o frasi si afferma come primario al di là del loro significato
letterale, divenendo convenzionale e risultando perciò del tutto on record per i partecipanti ad uno
scambio verbale. Non è pertanto sempre facile tracciare un chiaro confine tra l’off recordness e la
scelta, propria della politeness negativa, di esprimersi in modo convenzionalmente indiretto.
Quando, come in questo caso, si ha a che fare con una lingua che non offre la possibilità di
verificare dalla bocca dei parlanti le sfumature pragmatiche di un’espressione o di una frase, si potrà
forse giungere soltanto a risultati incompleti.
Ad ogni massima griceana della comunicazione efficiente viene fatto corrispondere un certo
numero di strategie dell’off recordness, le quali derivano, come si è detto, dalla sua violazione.
I) A quella di rilevanza corrispondono le seguenti:
1) Fornire ragioni o condizioni per compiere una determinata azione:
Spesso si può compiere un FTA semplicemente introducendo nell’interazione le ragioni
della sua necessità. Per rivolgere una richiesta si sceglie spesso di limitarsi ad accennare ai motivi
che rendono necessaria una certa azione oppure a parlare della sussistenza delle condizioni per il
compimento di quell’azione. Si pensi a frasi come: “E’ freddo qui dentro” oppure “La finestra è
ancora aperta” per invitare il destinatario a chiudere la finestra, o “Che noia questo film” per
chiedere all’altro di andare via.
Dysc. 625 e 636-637= Quando Simiche esce di casa chiedendo aiuto si trova in scena da
sola, ma attira presto fuori Sicone, il quale esprime riprovazione per i comportamenti dei membri
della casa di Cnemone, senza badare al contenuto delle frasi urlate dalla vecchia. Questa gli si
rivolge allora indicando le ragioni del suo disperarsi: ὁ δεσπότης ἐν τῶι φρέατι. La frase affermativa
con cui la vecchia entra in argomento ha la funzione di completare la richiesta di aiuto
indirizzandola al cuoco: secondo la parlante, infatti, l’apprendimento, da parte dell’interlocutore,
della notizia dell’incidente dovrebbe provocare un suo immediato intervento in soccorso di
Cnemone. Poiché non sarà così, la vecchia sarà costretta, al nono turno di conversazione, a rendere
esplicita la sua richiesta (vv. 632-633).
La stessa strategia verrà usata dalla vecchia quando Gorgia le chiederà che cosa la spinga a
cercarlo. In questo caso ella, non senza avere mostrato una certa impazienza dovuta all’urgenza
della situazione, utilizza la stessa frase affermativa (ὁ δεσπότης ἐν τῶι φρέατι) come richiesta, la
198
quale finalmente ottiene l’effetto perlocutorio sperato, determinando l’immediata attivazione
dell’interlocutore in favore del vecchio.
La schiava opta dunque per un’espressione off record della richiesta sperando che sia la
gravità della situazione a determinare una spontanea offerta di aiuto da parte dell’interlocutore del
momento.
2) Fornire indicazioni associative:
Strettamente legata a quella precedente, questa strategia consiste nel far capire il valore
illocutorio di quanto si sta dicendo riferendosi a qualcosa che l’interlocutore, in base a una
conoscenza o ad esperienze condivise col parlante nella loro precedente storia interazionale, può
associare all’atto che si richiede di lui. Ad esempio la frase: “Ho mal di testa” può valere come
indiretta richiesta di ottenere qualcosa dall’interlocutore, se entrambi sanno che di solito ciò avviene
ogniqualvolta il parlante ha mal di testa. Per una comprensione corretta dell’atto compiuto si
richiede all’interlocutore una conoscenza di fatti specifici estranei all’atto stesso.
3) Presupporre:
Talvolta anche se un enunciato appare nel contesto comunicativo del tutto rilevante viola la
massima di rilevanza per le presupposizioni su cui si mostra fondato. Se un parlante dice: “Ho
lavato di nuovo la macchina oggi”, la locuzione “di nuovo” presuppone che l’atto è stato ripetuto e
può implicare una critica (se ad esempio parlante e interlocutore hanno stabilito di alternarsi nel
lavare la macchina). Spesso la presupposizione su cui si basa il valore illocutorio dell’enunciato è
ottenuta semplicemente mediante atteggiamenti sovrasegmentali come l’accentuazione della parola
fondamentale (ad es.: “Ío non vado in giro a parlare dei miei successi” in un atto di critica).
II) Violando la massima di quantità si realizzano le seguenti strategie:
4) Esprimersi attraverso understatement:
L’understatement genera implicature dicendo meno di quanto è richiesto. Spesso lo si
utilizza nelle valutazioni scegliendo un punto in “a scalar predicate” che è “well below the point
that actually describes the state of affairs” (217) oppure limitando un punto più alto “which will
implicate the (lower) state of affairs” (218). Non è sempre immediatamente comprensibile in quale
199
direzione debba andare l’implicatura, per cui a volte occorre una conoscenza condivisa da parlante
ed interlocutore per individuare il tipo di FTA che è stato compiuto mediante questa strategia (ess.:
“Non ho nulla contro quella persona” può costituire l’attenuazione di un’attestazione di stima
oppure di un giudizio negativo). Un modo per realizzare l’understatement è anche il limitare o il
negare un valore molto positivo, realizzando retoricamente una litote (ad esempio dicendo “Mario
non è proprio un genio”, “Quel quadro non è un Rembrandt”, ecc.).
Dysc. 74-75= Cherea esprime la propria disapprovazione per l’iniziativa presa da Sostrato
non formulando chiari giudizi di valore su di essa, ma con un’esclamazione di sorpresa che suona:
“Quale cosa mi dici!”. Nonostante l’uso dell’understatement, il valore illocutorio dell’enunciato
risulterà immediatamente chiaro a Sostrato (che infatti ammetterà di avere commesso un errore): le
ragioni di ciò sono rintracciabili nel fatto che la frase è di consueto utilizzata ad indicare sconcerto
(cfr. ad es. οἷον εἴρηκας in Sam. 437) e nell’invocazione che introduce l’esclamazione (Ἡράκλεις),
indicante spesso sconcerto o paura riguardo ad una situazione che si ritiene ingiusta, inappropriata,
o pericolosa314.
5) Esprimersi attraverso overstatement:
Questa strategia consiste nel suscitare implicature in maniera opposta rispetto alla
precedente, ossia dicendo più di quanto è richiesto (ad esempio esagerando o scegliendo un punto
all’interno di una scala che è più alto di quello descrivente il reale stato di cose). Ad esempio le
frasi: “Ma fumi sempre?”, oppure “Non fai mai il bucato” sono modi di esprimere critica, la frase:
“C’era un migliaio di gente alla cassa” può contenere una richiesta di scuse315.
Dysc. 402-404= Replicando a Sicone, che lo ha appena rimproverato di rimanere indietro nel
cammino, Geta lo raggiunge e ammette di essere rimasto indietro attribuendone però la
responsabilità alle donne, che, a suo dire, gli hanno dato da portare un carico equivalente a quello
portato normalmente da quattro asini (τεττάρων γὰρ φορτίον / ὄνων συνέδησαν αἱ κάκιστ’
ἀπολούµεναι / φέρειν γυναῖκές µοι). La similitudine iperbolica utilizzata serve allo schiavo a
motivare il proprio ritardo nel procedere verso la grotta di Pan.
314
Cfr. ad es. Sam. 360, 435 e 552, Peric. 353, Epit. 1082, in cui, come nel passo considerato, l’invocazione compare
senza essere preceduta dall’interiezione ὦ. In Epit. 532 essa indica l’ammirata sorpresa del parlante nei confronti delle
parole dell’interlocutrice.
315
A mio parere sia l’esprimersi attraverso understatement sia quello attraverso overstatement costituiscono anche
violazioni della massima di qualità.
200
6) Usare tautologie:
L’uso di tautologie o in genere di ovvietà suscita implicature per l’apparente banalità e
mancanza di informazione che conferisce ad un enunciato. Si pensi a frasi come: “La guerra è la
guerra”, oppure “Lui è sempre lui”, ma anche, ad esempio: “Voi siete uomini, perché non fate
qualcosa in questa situazione?” a proposito della quale si nota il carattere “blatantly obvious and
non-informative”316 del suo contenuto.
III) La violazione della massima di qualità dà luogo alle seguenti strategie:
7) Usare contraddizioni:
Pronunciare affermazioni palesemente contraddittorie tra di loro induce l’ascoltatore a
cercare un senso diverso per quello che si è detto, in modo da appianare l’apparente insensatezza di
un enunciato. Ad esempio: “Sì e no” in una risposta.
Sam. 130-131= Il turno di Demea non contiene un FTA nei confronti dell’interlocutore ma
un atto di accusa nei confronti della persona di cui si parla, ossia l’etera Criside. Demea valuta
negativamente la decisione della donna di allevare un bambino nato dalla loro relazione in modo
indiretto, definendo la donna con l’ossimoro γαµετὴν ἑταίραν per indicare il suo accampare con
questa decisione pretese da moglie. Per l’assenza della destinataria dell’accusa l’off recordness non
è in questo caso motivata da ragioni di politeness, ma probabilmente dall’intenzione di Demea di far
capire al figlio qual è il problema che lo affligge senza divenire del tutto esplicito.
8) Esprimersi con ironia o per metafore:
L’ironia e la metafora sono tra le più comuni violazioni della massima di qualità, dato che la
prima consiste nell’affermare l’opposto di quanto si intende comunicare e la seconda risulta
letteralmente falsa. Molte metafore sono entrate nel linguaggio comune e pertanto di fatto possono
non essere off record. Spesso sono all’origine di eufemismi di uso comune.
Dysc. 476= Geta si cura di chiudere la conversazione con Cnemone con estrema cortesia,
indirizzandogli il vocativo βέλτιστε inteso in senso ironico e celante una critica al vecchio per i
316
Brown/Levinson 1987, 221.
201
modi che ha mostrato sin dall’inizio del loro scambio verbale, tentando di aggredire lo schiavo più
di una volta.
9) Formulare domande ‘retoriche’:
In molte lingue del mondo le domande ‘retoriche’ possono avere diversi valori. Il loro largo
impiego per temperare FTA le ha spesso private della loro funzione di strategie di politeness.
Dysc. 469-470= L’aggressione di Cnemone a Geta, dovuta al fatto che lo schiavo ha osato
bussare alla porta di casa del primo, si svolge sul piano verbale attraverso più di una domanda
avente in realtà il valore di FTA di rimprovero, minaccia ed ordine di andare via. In questa in
particolare Cnemone chiede a Geta se tra loro ci sia un contratto (σύµβολαιον). Che la domanda non
sia reale risulta immediatamente chiaro, dato che Cnemone deve sapere se è legato all’interlocutore
da un affare economico di un qualche tipo. Il fatto che spesso anche i rimproveri più forti siano
espressi attraverso la forma interrogativa rende chiaro che essa non costituiva più di per sé una
forma di mitigazione dell’FTA.
Dysc. 868-869= La maggioranza degli editori dà alla frase di Gorgia forma interrogativa,
ritenendo che essa non abbia valore di domanda ma venga usata “to confirm … the implication of a
preceding question or statement” (G-S ad v. 868). Il senso della frase risulterà immediatamente
chiaro all’interlocutore, ma forse la scelta di Gorgia di esprimersi in questo modo è dovuta
all’intenzione di mitigare l’FTA da lui compiuto (“dare cattive notizie all’interlocutore”) non in
modo diretto e sganciando se stesso dalla situazione di cui si parla. Probabilmente il senso della
risposta di Gorgia viene comunicato non soltanto mediante il ricorso a questa strategia, ma anche
con il riferimento alle condizioni da cui l’atto compiuto dal parlante è determinato, che costituisce
una violazione della massima di rilevanza.
IV) Le violazioni della massima di modo danno luogo all’ultimo gruppo di strategie dell’off
recordness:
202
11) Essere ambigui:
E’ una strategia che, se intesa in senso ampio, riassume tutte quelle dell’off recordness.
Nella conversazione reale esistono comunque numerosi casi di deliberata ambiguità del parlante (ad
esempio nell’espressione di giudizi) dovuta alla volontà di comunicare qualcosa conservando la
possibilità di sottrarsi alla responsabilità di averlo fatto.
Sam. 316-318= Nell’illustrare quella che crede essere la verità dei fatti all’interlocutore
Parmenone, Demea ritiene di poter essere da lui compreso pur evitando di precisare che la madre
del bambino è Criside o che tra la donna e Moschione c’è stata una tresca, ma affermando
semplicemente che il bambino è figlio di Moschione e che la donna lo alleva per lui (ὅτι
Μοσχίωνός ἐστιν, …, ὅτι δι’ ἐκεῖνον αὐτὸ νῦν αὕτη τρέφει). Viola perciò non soltanto la massima
di quantità ma anche quella di modo alludendo semplicemente a quanto accaduto tra i due317.
12) Essere vaghi:
Come la precedente, anche questa strategia racchiude probabilmente più di un espediente
dell’off recordness. In senso più specifico consiste nel rimanere vaghi riguardo a chi è oggetto di un
FTA o a quale sia l’FTA compiuto.
Dysc. 271-287= La gran parte del lungo e contorto discorso di Gorgia a Sostrato nel corso
del loro primo incontro è caratterizzata da riflessioni di carattere generale sul rapporto esistente tra
le scelte morali e la fortuna sociale dell’individuo (sino al v. 283): essa non rende perciò subito
chiaro a Sostrato che cosa il parlante gli intenda comunicare, mescolando in parte questa strategia
con quella consistente nel parlare in generale (vedi punto successivo). In seguito, anche quando il
giovane contadino fa capire al destinatario di volergli muovere una critica, resta vago intorno al suo
contenuto, tanto da provocare la sua domanda: ἄτοπον δέ σοι τι φαίνοµαι νυνὶ ποεῖν; (v. 288).
13) Generalizzare:
L’enunciazione di regole può lasciare off record la persona oggetto di un FTA. Se un
parlante dice: “Il prato deve essere falciato” oppure “Le persone mature aiutano in casa” il suo
interlocutore può decidere se queste frasi sono rivolte a lui oppure no. In questa strategia rientra
317
Su quest’ambiguità di Demea e le conseguenze che avrà sul seguito del dialogo con Parmenone mi soffermerò infra,
288.
203
anche la citazione di proverbi e sentenze, i quali tuttavia possono risultare on record per la
convenzionalizzazione delle loro implicature.
L’esempio citato a proposito della strategia precedente è valido, come già detto, anche per
questa. Gorgia comincia a parlare in modo molto generale, esponendo una propria convinzione
riferita, come da lui precisato al v. 271, πᾶσιν ἀνθρώποις.
14) Sostituire l’interlocutore:
Per allontanare da un FTA chi ne è il bersaglio il parlante può scegliere di indirizzare l’atto
ad un’altra persona sperando che il reale destinatario capisca che questo è rivolto a lui ed agisca di
conseguenza. Il compiere richieste indirette nei confronti di un proprio interlocutore rivolgendosi in
apparenza ad un altro partecipante all’interazione è costume diffuso nella comunicazione quotidiana
di diverse società del mondo (in quelle occidentali si trova spesso ad esempio in ambienti di lavoro
in cui per chiedere un favore al proprio superiore si finge di rivolgersi ad un collega).
Dysc. 617-619= Gorgia mostra di non essere d’accordo con Sostrato sull’incarico assegnato
nei due versi immediatamente precedenti da quest’ultimo a Davo (λαβὼν ταῦτ’ εἰσένεγκε ∆ᾶε σύ, /
εἶθ’ ἧκε, vv. 616-617), ma lo fa rivolgendosi direttamente allo schiavo e dandogli un ordine
contrario a quello che egli ha precedentemente ricevuto. Se non per la sua natura, resa chiara dalla
forte negazione che apre la battuta (µηδαµῶς) e dal successivo participio che si collega direttamente
alla battuta di Sostrato (καταλείπων), l’espressione di disaccordo resta off record per il fatto che non
viene rivolta a colui che ne è propriamente il destinatario. Lo stesso vale per l’accettazione
dell’invito, contenuta anch’essa nella battuta rivolta a Davo e contenente la precisazione che la
partecipazione al banchetto non si protrarrà a lungo.
15) Essere incompleti, utilizzare ellissi:
Il proferimento di enunciati ellittici o incompleti (attraverso un’auto-interruzione voluta,
detta in termini retorici aposiopesi) costituisce al tempo stesso una violazione delle massime di
quantità e di modo. Si pensi a frasi come: “Se uno lascia il tè su un tavolo barcollante…”, con cui si
può compiere un atto di critica.
204
Sam. 371-372= Mentre sta proferendo una minaccia nei confronti di Criside rischiando di
rivelare alla donna ciò di cui la accusa (παύσω σ’ ἐγώ, / ὡς οἴοµαι—), Demea si ferma in tempo con
un’aposiopesi, tanto da provocare nella donna una domanda che è anche una richiesta di terminare
l’enunciato cominciato (τί ποοῦσαν;, v. 372).
2.3.2.4 Agli estremi della politeness
Restano da prendere in esame i meccanismi situati ai due estremi del sistema scalare della
politeness individuato da Brown e Levinson.
Da una parte si ha, come già detto, il compimento esplicito di un FTA non accompagnato da
strategie di riparazione della faccia dell’interlocutore (denominato da Brown e Levinson “bald on
record”). Secondo i due studiosi le modalità di azione appartenenti a questo meccanismo si
dividono in due categorie: nella prima rientrano quelle dovute ad una particolare urgenza di
comunicare in modo efficace, al pericolo che ciò sia impedito da disturbi nel canale, al fatto che la
minaccia per la faccia è irrilevante poiché la comunicazione è orientata esclusivamente all’azione
(ad es. nel corso di un’attività di collaborazione svolta da due o più persone), ad uno scarso
interesse del parlante ad apparire cortese o alla sua precisa volontà di essere rude; della seconda
fanno parte le mancate minimizzazioni di FTA che proprio in quanto tali attenuano la minaccia per
la faccia dell’altro, il che avviene ad esempio quando il parlante invita esplicitamente l’interlocutore
ad esercitare pressione sulla sua faccia con offerte, saluti, inviti a compiere FTA, ecc.
Dysc. 637-638= Dopo avere appreso dell’incidente occorso a Cnemone, Gorgia chiama in
aiuto Sostrato che si trova ancora nella grotta. Gli si indirizza con il vocativo del nome, posto ad
inizio di enunciato come accade di solito negli appelli, e con una frase imperativa priva di
riparazioni (ἔξελθε δεῦρ’(ο)), il cui impiego appare giustificato dalla situazione di emergenza. Lo
stesso vale per le frasi che immediatamente dopo Gorgia rivolge a Simiche, due imperative esplicite
di cui l’ultima si presenta rafforzata dalla presenza di un avverbio di tempo (ἡγοῦ, βάδιζ’ εἴσω
ταχύ). In quest’ultimo caso si può aggiungere che la minaccia per la faccia dell’interlocutrice è
minima, dato che ella è una subalterna (il valore di P è quasi nullo) e che l’urgenza comunicata da
Gorgia è a vantaggio di questa e del suo padrone (anche il valore di R è trascurabile).
Dysc. 589-590 e 596= Le frasi imperative rivolte da Cnemone a Simiche nell’unico dialogo
svolto in scena tra i due risultano formalmente molto simili a quelle pronunciate da Gorgia nei
confronti della vecchia al v. 638, dato che contengono anch’esse ordini di entrare in casa (suonando
205
rispettivamente βάδιζε δὴ εἴσω e θᾶττον βάδιζ’ εἴσω). Il loro valore comunicativo ed interazionale
risulta tuttavia differente: nell’ingiungere alla vecchia di tornare in casa Cnemone si comporta da
padrone arrabbiato (come sottolineato anche dalle particelle e dagli avverbi che rafforzano le
imperative, nonché dal rimprovero che precede la seconda delle due), anche perché negli stessi versi
le pre-annuncia che la legherà alla fune e la calerà nel pozzo.
Dysc. 780= L’imperativo πάραγε rivolto da Sostrato a suo padre non viene mitigato poiché è
pronunciato nell’interesse di questi e descrive propriamente un invito.318
Dysc. 909= Nel verso Geta dà istruzioni a Sicone su dove deporre Cnemone addormentato
con l’imperativa θὲς αὐτοῦ. Poiché ciò avviene nell’ambito di un’attività collaborativa tra i due
personaggi, non è necessario che siano usate strategie di politeness a temperare la forza degli atti
direttivi. Diverso è il caso delle richieste rivolte ai vv. 906-908 da Sicone a Geta prima dell’inizio
dell’attività: esse sono temperate da diverse strategie di politeness negativa (come µικρὸν, ἱκετεύω
σε, µή … ἀπέλθηις) dovute probabilmente alla paura del parlante riguardo all’attività da svolgere.
Dysc. 213= Sostrato saluta la figlia di Cnemone mentre questa rientra in casa rivolgendole
gentili parole di commiato. Esse, come la gran parte delle formule di saluto319, sono rappresentate
da imperativi (ἔρρωσ’(ο), ἐπιµελοῦ τε τοῦ πατρός) cristallizzatisi in formule che non risultano poco
cortesi poiché realizzano il parlare diretto socialmente ammesso, quello riferito ad atti verbali
vantaggiosi per l’interlocutore. Il passo è a mio parere interessante nell’interazione tra i due
personaggi dato che mostra il progressivo avvicinamento di Sostrato alla fanciulla: se l’offerta di
aiuto era stata estremamente cauta, venendo preceduta da un forte limite di politeness negativa, il
giovane si sforza adesso di dare a quanto avvenuto il valore sociale di un’interazione, proprio
mentre vede che la figlia di Cnemone si cura soltanto di ritornare immediatamente in casa dopo
avere ricevuto la brocca piena. E’ per questo che, quando la collaborazione si è già chiusa, egli
prolunga il dialogo con un saluto finale (di “polite, conventional leave-taking” parla Handley ad
loc.) esprimente una premura che risulta forse un po’ eccessiva da parte di un estraneo.
Dysc. 847-849= Esistono a mio parere diverse motivazioni per le quali questo invitorichiesta di Callippide a Gorgia non viene temperato da alcuna strategia di politeness ma appare
anzi rafforzato dall’avverbio di tempo ἤδη e dalla presenza del pronome personale di seconda
318
Cfr. anche le osservazioni di Frost 1988, 13, che nota come questo non sia classificabile come ordine ma piuttosto
come “polite encouragement or suggestion”
319
Cfr. supra, 86.
206
persona (τὴν µητέρα / ἤδη σὺ δεῦρο τήν τ’ ἀδελφὴν µετάγαγε / πρὸς τὰς γυναῖκας τὰς παρ’ ἡµῖν).
Anzitutto, il fatto che si tratti di un FTA compiuto a vantaggio di Gorgia e della sua famiglia rende
quasi del tutto irrilevante la minaccia per la faccia dell’interlocutore (questo vale anche per l’atto di
rifiuto di un’offerta compiuto da Callippide nelle due battute precedenti e probabilmente anche per
quanto il vecchio ha detto a Gorgia per convincerlo ad accettare la proposta di matrimonio). In
secondo luogo, viene compiuto da un capofamiglia che ha già mostrato la sua preferenza per il
parlare diretto e chiaro. Infine, poiché l’invito esorta l’interlocutore a non preoccuparsi di fare
pressione sulla libertà del parlante, per risultare convincente ed avere successo deve essere espresso
con decisione.
All’estremità opposta della scala della politeness si colloca la rinuncia al compimento di un
FTA da parte di uno dei parlanti. Brown e Levinson non se ne occupano, sostenendo a ragione che
questa scelta, la quale comporta spesso il silenzio, ha necessariamente poco spazio in uno studio
linguistico. Essa diviene invece interessante in uno studio che come il mio riguarda le relazioni
umane e tutti i comportamenti che si sviluppano al loro interno.
Dysc. 171-172= Dopo avere constatato che lo stato d’animo e la personalità di Cnemone non
sono affatto favorevoli ad un abboccamento, Sostrato decide di rinunciarvi per rispettare le esigenze
di faccia negativa da questi espresse (o meglio per paura di una sua reazione violenta in caso di
mancato rispetto delle stesse). Incautamente, tuttavia, il giovane si lascia trascinare dalle
osservazioni del vecchio che lo riguardano a rivolgerglisi e a fornire come falsa giustificazione della
sua presenza un appuntamento con qualcuno: Cnemone protesterà immediatamente, ritenendo un
FTA il fatto che degli estranei scelgano come luogo di incontro lo spazio antistante la sua porta.
207
2.3.3 FTA e politeness nel Dyscolos
L’esame delle occorrenze di alcuni tra i principali FTA presenti nei dialoghi delle due
commedie considerate (a cominciare dal Dyscolos) e di come essi possano venire modificati in
senso attenuativo o rafforzativo e a quali scopi costituisce a mio parere un tassello importante per
comprendere a fondo il funzionamento delle interazioni verbali in Menandro e il rapporto esistente
tra queste e le relazioni che legano i personaggi. Le forme in cui più frequentemente si presentano,
il significato della scelta dell’una o dell’altra in varie situazioni di interazione e a proposito di
personaggi diversi, l’influenza che il loro compimento ha sul seguito di un dialogo, oltre a costituire
informazioni di carattere generale interessanti di per sé a proposito del rapporto tra la
comunicazione e le relazioni interpersonali, prepareranno il terreno per il seguito dell’indagine, in
cui questi ed altri atti linguistici saranno esaminati nelle interazioni svolte tra i personaggi principali
nell’ambito dei loro rapporti.
Gli atti sono stati scelti a partire dall’elenco degli FTA contenuto in Brown/Levinson
1987320, basato in gran parte sulla speech act theory di Austin e Searle, della quale esso riprende
spesso la terminologia e le classificazioni a scopo illustrativo pur discutendone in gran parte le
posizioni teoriche321. Di essi sono state tuttavia da me date definizioni operative intese ad agevolare
la loro individuazione322. Poiché i limiti di un modello basato sull’atto linguistico nell’esaminare gli
atti effettivamente compiuti in interazione sono stati riconosciuti dagli stessi autori, in questo studio
si terrà conto al tempo stesso dei risultati relativi all’analisi conversazionale svolta sui dialoghi delle
commedie, dato che, come ho più volte messo in evidenza, un atto linguistico non coincide
necessariamente con un enunciato o con un turno, ma può occupare più unità di uno stesso turno o
addirittura dispiegarsi nel corso di un certo numero di battute, richiedendo, per giungere a
compimento, la collaborazione di altri parlanti, e che – fatto non meno importante – si configura
non soltanto per il suo contenuto ma anche per la posizione in cui occorre all’interno di uno
320
La classificazione è stata da me riportata nella Tabella 1 (431).
Brown/Levinson 1987, 38-39 e 132-170.
322
Esse, quantunque abbiano tenuto conto delle classificazioni dei linguisti (in primo luogo Brown e Levinson) e delle
scelte compiute in studi simili (come ad esempio Risselada 1993, soprattutto 1-96, dedicato ai direttivi) sono specifiche
di questo studio e non pretendono di avere validità oggettiva. In ciascuna tipologia di atti presa in esame (richieste,
ordini, consigli, ecc.) ho inserito gli speech acts che il testo della commedia (dunque le intenzioni del locutore quando
specificate, la forma in cui si presentano, la situazione, le reazioni attese o avvenute, i commenti metalinguistici
sull’atto, ecc.) renda riconoscibili come appartenenti a quel determinato tipo. Questa scelta mi ha permesso in gran parte
di scavalcare – almeno per gli intenti e il taglio non linguistici del mio studio – anche la discussa questione delle
condizioni di felicità di un atto linguistico (cfr. supra, 13): essa mi ha consentito infatti di considerare anche atti che a
rigore non dovrebbero essere ritenuti “felici” (in quanto ad esempio non sinceri, ecc.) tenendo comunque sempre
presenti le ragioni per cui non rispettano certe condizioni di felicità e facendovi riferimento al momento della loro
interpretazione (in questa stessa sezione dello studio o anche in seguito, ad esempio in occasione dell’esame delle
relazioni tra i personaggi principali).
321
208
scambio verbale, dunque rispetto a quello che precede e a quello che segue in esso323. Il
collegamento degli speech acts con l’organizzazione della conversazione riduce il rischio di
concepirli come entità statiche prodotte da un unico parlante attraverso una singola mossa
interazionale incorrendo in una semplificazione piuttosto insidiosa per la loro comprensione e per
questo più volte contestata a Brown e Levinson324. La scelta illustrata non ha ovviamente eliminato
i problemi di individuazione dei singoli atti, dovuti talvolta al frequente sovrapporsi in uno stesso
enunciato o turno di diverse sfumature illocutorie (tra le quali ho considerato quella prevalente per
poter pervenire ad una classificazione piuttosto chiara).
Se a quanto osservato si aggiunge la considerazione della difficoltà di decidere in quale
misura l’espressione di un atto nel greco menandreo dipenda da intenzioni di politeness e dei
problemi interpretativi posti frequentemente dal testo, si comprende che il rigore utilizzato nella
selezione e nel computo dei diversi atti non è riuscito ad evitare la presenza, in queste operazioni, di
un certo grado di soggettività e di arbitrio.
2.3.3.1 Atti di richiesta, ordine, supplica
Li intendo come atti costituenti tentativi del parlante di far compiere all’interlocutore una
determinata azione in favore del parlante stesso. Sono dunque visibili come un sottoinsieme dei
direttivi di Searle. Esaminerò questi atti congiuntamente come occupanti diversi gradini di un’unica
scala di costrittività, che ha al suo apice l’ordine e alla base la supplica325. Nonostante ciò, non è
affatto immediato né sicuro distinguere un atto dall’altro. Il suo valore illocutorio specifico infatti
non dipende soltanto dalla forma dell’atto ma anche da condizioni del contesto in cui esso viene
compiuto: ad esempio, un ordine mitigato può essere molto vicino ad una richiesta risultando con
essa confondibile, una richiesta compiuta in condizioni di urgenza può avere la forma in genere
assunta dagli ordini o anche configurarsi come una supplica, ecc. Per la ragione indicata li definirò
in modo specifico soltanto trattandoli isolatamente ogniqualvolta l’esame di fattori diversi (tra cui la
forma, il contesto di proferimento, lo status relativo dei parlanti, ecc.) lo renda possibile.
Questi atti direttivi raggiungono insieme nella commedia un numero superiore a novanta. La
loro espressione varia per essi dalle forme dirette e prive di attenuazione a quelle temperate da
strategie di politeness positiva o negativa sino a quelle indirette.
323
Cfr. Caffi 2002, 53-54. Interessanti anche le pagine di Levinson 1993 sulla nozione di posizione funzionale di un
turno (soprattutto 361-362).
324
Cfr. supra, 175.
325
Una scala di “bindingness/optionality”, simile ma non identica alla mia, è usata per distinguere i direttivi da
Risselada 1993, 47-48.
209
Nella maggioranza dei casi presi in considerazione, le richieste e gli ordini vengono
compiuti in modo esplicito attraverso l’imperativo presente, perfetto o aoristo o, se negativi, con µή
e l’imperativo presente o il congiuntivo aoristo326. Meno frequenti ma altrettanto dirette sono le
affermative con verbi performativi espliciti (ad esempio nel caso della richiesta αἰτέω / -έοµαι, cui è
forse assimilabile la costruzione con verbo di moto e participio di αἰτέω). Pur non essendo
letteralmente diretta, anche la costruzione di βούλοµαι con accusativo e infinito risulta piuttosto
forte quando impiegata per esprimere atti di questo tipo (ad es. al v. 928).
Rispetto alle forme basilari appena descritte si osservano spesso per questi atti modificazioni
rafforzative – come il neutro ταχύ ed il suo comparativo θᾶττον, l’avverbio di tempo ἤδη o la
particella enfatica δή – che ne accrescono il potenziale minaccioso per la faccia dell’interlocutore
sottolineando l’urgenza con cui un’azione va compiuta (ταχύ, θᾶττον, ἤδη) o rafforzando il verbo
che li esprime (δή). Forme direttive esplicite e non mitigate sono anche le frasi interrogative in cui
compare la successione οὐ e indicativo futuro del verbo indicante l’azione ordinata, che aggiungono
al comando una sfumatura di rimprovero327.
Gli atti non mitigati o rafforzati si trovano spesso all’interno di relazioni asimmetriche, quali
sono ad esempio quelle tra un libero ed uno schiavo proprio od altrui, tra un libero ed esponenti del
proprio gruppo familiare a lui in qualche modo sottomessi, tra un rappresentante del personale di
servizio e i suoi sottoposti, tra la divinità prologante e gli spettatori, da parte del personaggio di
condizione superiore nei confronti dell’interlocutore.
Particolarità di questo caso sono costituite dagli atti di richiesta pronunciati da Geta e Sicone
nella scena della beffa, comprendente i passi d25, d26, d27 (ai vv. 914, 922-923, 923-924, 931-941,
942-944, 954, 957): pur essendo infatti rivolti da uno schiavo ed un cuoco ad un libero, rispondono
al chiaro intento di assumere una posizione dominante su un destinatario impossibilitato a reagire e
di procurargli fastidio328. Per alcuni passi la mancanza di strategie di politeness si giustifica invece
col fatto che l’ordine-richiesta è inserito all’interno di un’attività collaborativa tra parlante e
interlocutore i cui diversi momenti sono task-oriented e dunque, come in genere nella
conversazione reale, diretti e senza mitigazioni (ciò avviene ancora tra Sicone e Geta in d24 vv. 906
e 909-910, quando i due collaborano a preparare lo scherzo). Altri passi devono la forma non
mitigata dell’atto direttivo che contengono al fatto di rappresentare una situazione di particolare
326
Benché non meno diretto, il congiuntivo aoristo è meno forte dell’imperativo presente negli atti negativi (KG I 238).
Cfr. KG I 176. La costruzione interrogativa di οὐ e indicativo futuro è spiegabile come rafforzamento di un FTA
direttivo poiché mette in discussione l’indisponibilità del destinatario a compiere l’atto ingiuntogli, collocandosi
all’opposto delle strategie di politeness che agiscono evitando di presupporre la sua capacità o disponibilità a farlo in
ossequio alle sue esigenze di faccia negativa (cfr. supra, 189). La costruzione è presente anche in atti di insulto che
sembrano ‘ordinare’ o augurare all’interlocutore di vivere brutte situazioni (v. 892). Lo stesso, in senso opposto, vale
per gli ordini negativi dati attraverso interrogativa non negativa con verbo al futuro (ἔτι µοι λαλήσεις; al v. 512).
328
L’intento perturbatore è infatti espresso dai due personaggi prima dell’interazione con Cnemone ai vv. 897 e 899.
327
210
urgenza: ad esempio in d16 ai vv. 637-638, Gorgia chiede l’aiuto di Sostrato per estrarre Cnemone
dal pozzo mediante la frase ἔξελθε δεῦρ’(ο) mentre si rivolge in forma rafforzata alla schiava
Simiche perché li conduca dentro (ἡγοῦ, βάδιζ’ εἴσω ταχύ). Alcuni tra i restanti esempi sono
motivabili con una rudezza dovuta a rabbia o ad indifferenza verso le norme della politeness (il che
accade in genere da parte di Cnemone) o al fatto che non si tratta veramente di ordini poiché il loro
contenuto è favorevole all’interlocutore (così in d22 al v. 872 Sostrato si rivolge a Gorgia con il
rafforzato οὐ πρόει; soltanto perché l’amico esita ad accettare l’invito ad entrare nella grotta per
festeggiare).
Le richieste esplicite mitigate da strategie di politeness possono presentarsi modificate da
queste nella loro struttura interna oppure venire precedute o seguite da enunciati che costituiscono
la realizzazione di tali strategie329.
In particolare, le tecniche di politeness positiva che si trovano utilizzate nel Dyscolos con
l’on recordness sono: l’impiego di vocativi affettivi, l’espressione di auguri all’interlocutore per il
soddisfacimento dei suoi wants, l’inclusione di parlante ed interlocutore nell’attività menzionata.
Così, nel passo d15, Simiche, poiché il cuoco Sicone dopo aver saputo della caduta di
Cnemone non si decide a prestarle aiuto per recuperarlo, ne chiede espressamente l’aiuto servendosi
di un vocativo affettivo (φίλτατε κατάβα, vv. 632-633) finalizzato ad attenuare il carattere
minaccioso dell’atto. Il vocativo è infatti un address testimoniante in generale un profondo e
sincero affetto per l’interlocutore e qui, tra sconosciuti, non può che funzionare come strategia di
politeness330.
Inoltre, nel dialogo d5 ai vv. 242-243 Gorgia ordina a Davo di stare più attento alla figlia di
Cnemone anche se il padre si comporta nei loro confronti come un estraneo. Nel farlo, il giovane si
esprime con un congiuntivo esortativo alla prima persona plurale (µὴ τὸ τούτου δύσκολον /
µιµώµεθ’ ἡµεῖς), dunque includendo anche se stesso come destinatario dell’atto. La forma dell’atto
realizza l’identificazione del parlante con chi ne è destinatario in quanto appartenenti alla stessa
famiglia; il fatto che questa avvenga per iniziativa di Gorgia nei confronti del proprio schiavo
contribuisce a delineare l’immagine del giovane contadino come di un personaggio che, entro certi
limiti, riduce le distanze con la servitù all’insegna di un atteggiamento solidale.
Quanto alla politeness negativa, essa viene realizzata in diversi casi sottolineando la
differenza di potere esistente tra parlante ed interlocutore a vantaggio del primo, dunque con
espressioni di supplica, come ἱκετεύω (σε), pronunciato ad esempio più volte in d2 (vv. 86 e 123)
329
Sono rispettivamente la modificazione interna all’atto linguistico e quella esterna ad esso (cfr. Caffi 2001, 42-43).
Nella prosa greca esso “almost always expresses genuine, often deep, affection” (Dickey 1996, 138). In Aristofane il
vocativo si trova molto spesso anche se non sempre sulla bocca di personaggi femminili. In Menandro il vocativo indica
in generale affetto sincero verso familiari, amici e persone note, venendo spesso usato da giovani donne (tra cui Glicera
della Periciromene ai vv. 708, 746, 770), mentre soltanto una volta è impiegato in senso ironico (in Sam. 293).
330
211
da parte di Pirria nei confronti del padroncino Sostrato, ἀντιβολῶ trovato in d6331, πρὸς (τῶν) θεῶν,
con cui il parlante si appella all’autorità divina come all’unica in grado di far sì che l’interlocutore
compia l’atto richiestogli, come accade in d19 a Cnemone che, prostrato dalla disavventura
capitatagli, implora Gorgia di non fargli incontrare nessuno pronunciando in ben due turni (vv. 750
e 751) quest’invocazione.
Strategie di politeness negativa comprendono inoltre il mettere in dubbio la disponibilità o la
capacità dell’interlocutore di compiere l’azione richiesta, come l’uso della forma interrogativa con
il potenziale e/o verbi modali quali βούλοµαι e (ἐ)θέλω (ἐθελήσαις ἂν ὑποµεῖναι λόγον /
σπουδαιότερόν µου; suona in d6 la richiesta di essere ascoltato rivolta da Gorgia a Sostrato332) e la
minimizzazione dell’imposizione (attraverso l’uso di neutri avverbiali come µικρόν, βραχύ, ecc., di
cui il secondo è presente ad esempio in d6 al v. 299 in una richiesta di Sostrato a Gorgia).
Il ricorso alla politeness negativa risulta più frequente dell’uso di tecniche di politeness
positiva, ma a volte le tecniche di realizzazione della politeness si trovano cumulate in uno stesso
atto. Nel già citato passo d6, per esempio, Sostrato condisce la sua richiesta di essere ascoltato da
Gorgia, il quale lo ha appena accusato di voler approfittare della sorellastra, con l’atto οὕτως
εὐτυχοίης, βραχ[ύ τι µου / ἄκουσον— (vv. 299-300), in cui compaiono sia l’augurio sia la
minimizzazione dell’imposizione.333
L’impiego di strategie di off recordness è nettamente minoritario rispetto a quello dell’on
recordness temperata o no. A volte accade che l’off recordness riveli un orientamento di politeness
positiva o negativa. La sua espressione, infatti, seppure indiretta, può realizzare meccanismi che
soddisfano esigenze di faccia positiva o negativa dell’interlocutore: possiamo citare ad esempio il
caso di Sostrato in d6, che, dopo aver saputo del legame di parentela tra Gorgia e la fanciulla amata,
domanda aiuto al giovane contadino (v. 320) affermando in modo enfatico (ossia rafforzando la
propria dichiarazione con l’espressione νὴ ∆ί’(α) e con la particella γε riferita all’aggettivo) che
questi gli sarà utile per le sue prossime mosse, ossia mostrando quella fiducia nella disponibilità
dell’interlocutore a condividere i propri wants che è propria della politeness positiva334.
Mentre nella comunicazione tra i liberi e gli schiavi gli atti di questo tipo sono compiuti
soprattutto dai primi verso i secondi e non presentano normalmente alcun risarcimento di politeness,
nella comunicazione tra liberi ricorrono diverse modalità di espressione degli stessi.
331
Ho discusso il passo presentando le strategie di politeness supra, 192.
Cfr. supra, 73 e 114.
333
Sulla formula di augurio Handley ad v. 299 scrive: “lit. ‘so may you prosper’ (if you do as I ask). This and similar
forms of wish commonly strengthen emphatic requests, as here: ‘I do beg you to listen’ ”; l’espressione βραχύ τι viene
da lui intesa nel senso di “ ‘just a word or two’ ” (ib.).
334
Ho trattato il passo appunto come esempio di quella strategia di politeness positiva che è l’essere ottimisti, cfr supra,
184.
332
212
In questo vasto ambito una prima distinzione va effettuata tra le richieste e gli ordini rivolti
ai familiari e quelli rivolte agli estranei. Dei primi, infatti, la maggioranza è diretta e non temperata,
rivelando una certa libertà di espressione all’interno della famiglia, almeno quando chi parla occupa
una posizione non inferiore al destinatario della richiesta. Si esprimono ad esempio in tal modo la
madre di Sostrato verso la figlia e gli schiavi in d8, Gorgia verso la madre e la sorella al v. 866,
Sostrato verso la madre al v. 867.
Il variare delle modalità di espressione di questi atti all’interno non solo di un rapporto ma
anche di una stessa interazione può in alcuni casi essere determinante per il seguito dell’uno o
dell’altra. A proposito di Gorgia e Cnemone, ad esempio, i differenti modi in cui le richieste del
primo al secondo sono espresse danno a mio parere la misura di come si modifichi il rapporto tra i
due personaggi nel volgere di pochi versi (sono infatti tutte situate in d19), contribuendo alla sua
evoluzione. Il passaggio a tecniche diverse per compierle sembra avvenire secondo la gradazione
della politeness stabilita da Brown e Levinson335. Incoraggiato dalle parole di lode che Cnemone gli
ha riservato e dalle decisioni da lui prese a suo vantaggio, Gorgia rivolge a Cnemone una richiesta
di collaborazione nella ricerca di un marito per la ragazza, affermando: δεῖ δὲ µετὰ σοῦ νυµφίον /
ὡς τάχισθ’ εὑρεῖν <τιν’> ἡµᾶς τῆι κόρηι, σοὶ συνδοκοῦν, vv. 748-749. La sua richiesta è esplicita
ma mitigata da espedienti di politeness positiva e negativa, dato che il parlante unisce attraverso il
pronome di prima persona plurale se stesso e l’interlocutore, sottolinea inoltre l’unione di intenti in
cui essi dovrebbero muoversi attraverso il sintagma µετὰ σοῦ e riservando un out all’interlocutore
soltanto alla fine del turno, con l’accusativo assoluto σοὶ συνδοκοῦν, che comunque ancora una
volta mette in relazione l’interlocutore con il parlante attraverso il preverbio συν-.
Presto, però, la fiducia da lui nutrita nella possibilità di creare un rapporto diverso e nuovo
con il neo-acquisito padre viene frustrata dal categorico rifiuto dell’interlocutore ad interessarsi
delle faccende familiari. Per questo, egli insiste nella richiesta ma in modo sempre più tenue e
cauto. Al v. 751, infatti, lo fa contrapponendosi alla contro-richiesta del vecchio di essere lasciato in
pace nell’affermativa βούλεται γὰρ ἐντυχεῖν σοι—, completata poi con τὴν κόρην αἰτῶν τις, in cui
prevalgono le strategie di segno negativo: anzitutto egli non utilizza espressioni di dovere o
imperative, ma un’affermazione; in essa, inoltre, distanzia la propria persona dalla richiesta in
quanto la attribuisce al pretendente della fanciulla; infine, la sua insistenza – presupponente un
rifiuto della richiesta di Cnemone di essere lasciato in pace – viene indicata in modo molto lieve
dalla particella γάρ sottintendente dissenso336.
Di fronte a un nuovo rifiuto, Gorgia non recede, ma prosegue precisando in un’affermativa
ellittica del verbo, che colui che è interessato alla ragazza ha contribuito al salvataggio del vecchio
335
336
Essa è stata da me riportata nella Tabella 2.
Cfr. Denniston, 73-75, Provolo 1960/1961, 217-218.
213
(ὅ <σε> συνεκσώσας, v. 753), ossia mediante il ricorso all’espressione indiretta (off recordness) con
orientamento di politeness positiva, la quale gli consente di non esercitare eccessiva pressione
sull’interlocutore e al contempo di testimoniare un interesse per le sue esigenze. Il giovane, che ha
forse sperato in un superamento delle barriere costruite da Cnemone tra sé e i suoi familiari, è
costretto a rendersi conto della permanenza delle stesse e divenendo più cauto e polite nella
richiesta che gli sta più a cuore si allontana progressivamente dalla persona dell’interlocutore337.
Che il passaggio da strategie di segno positivo a strategie negative e di off recordness
nell’atto di richiesta segni l’estraniarsi di Gorgia da Cnemone può essere confermato dal fatto che il
giovane nei confronti di estranei si mostra sempre orientato verso le strategie di segno negativo (si
pensi ancora una volta all’inizio di interazione tra lui e Sostrato in d6 ai vv. 269-298, sino al
discorso di Sostrato).
Quanto all’interazione tra appartenenti al personale di servizio, si osserva una frequenza
simile di richieste prive di mitigazioni e di richieste polite con una prevalenza delle prime.
All’interno del rapporto tra Geta e Sicone si osserva ad esempio come il cuoco già nel primo
dialogo con lo schiavo (d7) ingiunga direttamente a Geta le azioni necessarie alla preparazione del
banchetto, valendosi dell’autorità di cui gode nei confronti degli schiavi della casa presso la quale
lavora (vv. 406, 419-420), e ricorra invece alle strategie di politeness soltanto per le azioni che lo
schiavo non è obbligato a compiere per lui. Così, ad esempio, quando desidera soddisfare la propria
curiosità riguardo al sogno della madre di Sostrato (vv. 410, 411), si vale della politeness positiva
(il vocativo Γέτα, che si contrappone al freddo ἄνθρωπε con cui è stato appena apostrofato dallo
schiavo e non presenta l’aggiunta παῖ338) e negativa (l’espressione πρὸς θεῶν) per convincere a
parlare lo schiavo, mostratosi più volte restio. In seguito, nel preparare la beffa (d24), il cuoco
utilizza tra i vv. 906-908 la politeness negativa (con invocazioni agli dei, espressioni parentetiche di
supplica, minimizzazioni della richiesta) poiché in preda alla paura di essere scoperto, ma in questo
modo si pone sotto la leadership di Geta, che, più sfrontato, ne approfitta per imporgli in modo
diretto e non temperato le sue decisioni339.
337
Tutto ciò può a mio avviso aiutarci a spiegare i successivi comportamenti di Gorgia nei confronti di Cnemone. Nei
versi immediatamente successivi a quelli presi in esame (754-756) alla domanda del vecchio se Sostrato sia un
contadino, il figlio adottivo mente clamorosamente, poiché risponde in modo affermativo: il suo comportamento, che
può sembrare a prima vista in contrasto con la probità mostrata costantemente dal giovane, è a mio avviso interpretabile
come una scelta di politeness ancora superiore alle precedenti, scelta che comporta la rinuncia a compiere un FTA nei
confronti dell’interlocutore dicendogli qualcosa che non gli piace. In seguito, ai vv. 854-855, il giovane mostrerà
riluttanza a coinvolgere Cnemone nei festeggiamenti organizzati dalla famiglia di Sostrato prevedendo i suoi rifiuti, che
infatti non tarderanno a manifestarsi (come testimoniato dai vv. 868-869 e 876-877).
338
Cfr. Dickey 1996, 232-233.
339
Per il testo da me accolto cfr. supra, 106 n. 98.
214
2.3.3.2 Atti di consiglio e invito
Esaminerò congiuntamente questi atti, costituenti tentativi di far compiere all’interlocutore
una determinata azione o di farlo astenere da essa nell’esclusivo o prevalente interesse di
quest’ultimo, attribuendo al consiglio un superiore grado di costrittività rispetto al semplice invito a
compiere un’azione che può essere vantaggiosa o piacevole. Non sempre è facile distinguere questi
atti da altri direttivi.
Nel Dyscolos è notevole la netta preferenza per un’espressione diretta di questi atti, che nella
quasi totalità dei casi si presentano come espliciti, assumendo spesso la stessa forma di quelli di
richiesta e di ordine in quanto espressi attraverso frasi imperative, infinitive rette da verbi come δεῖ,
µοι δοκεῖ, ecc. Le ragioni di questo dato possono essere più d’una, ma la più immediata è a mio
parere costituita dal fatto che essi presentano un basso grado di imposizione (Rx) per il destinatario
e la sua faccia. Essa spiega come mai nella comunicazione tra inferiori e superiori siano i primi a
fare uso più frequentemente di atti del genere e di solito in modo diretto e privo di mitigazioni. Un
esempio è costituito dal v. 556 di d11, in cui lo schiavo Geta utilizza un’imperativa col pronome di
seconda persona singolare espresso (ἀλλὰ πάραγε σύ) per invitare Sostrato ad entrare nella grotta e
prepararsi al banchetto. Allo stesso modo, Sostrato in d20 formula nei confronti del padre un
analogo invito (quello ad entrare per pranzare) in termini molto simili (πάραγε, v. 780).
I consigli e gli inviti si presentano spesso anche rafforzati, come avviene ad esempio nel
dialogo d21 tra Sostrato e suo padre ai vv. 805-sgg. Il giovane ha chiesto a suo padre di dare la
sorella in sposa a Gorgia ma questi ha rifiutato per non portarsi in casa due poveracci (vv. 795-796).
Sostrato allora si impegna in un lungo e tortuoso discorso in cui gli consiglia di essere generoso
poiché l’avere amici è senz’altro più conveniente di conservarsi intatta la ricchezza. L’atto viene,
come ho già evidenziato altrove, rafforzato da varii espedienti, come la costruzione ἐγώ … φηµὶ
δεῖν340.
Le strategie di politeness osservate all’interno di atti di consiglio possono essere di segno
negativo o positivo. Tra le prime, si ha ad esempio l’impersonalizzazione di parlante ed
interlocutore per evitare di risultare troppo pressanti sul want di faccia negativa rappresentato dalla
libertà dall’imposizione. Un esempio di questo è rappresentato dal già citato consiglio di Gorgia a
Cnemone ai vv. 696-697 di d17, che ho già illustrato come esempio di atto mitigato341. Una
strategia di segno negativo è anche quella di limitare l’atto con una frase condizionale che ne
340
341
Per gli altri espedienti di rafforzamento dell’atto di Sostrato cfr. supra, 195.
Cfr. supra, 194.
215
subordina l’accoglimento alla volontà dell’interlocutore, non dandola per scontata342. Essa si trova
impiegata in d19 quando Gorgia incoraggia Sostrato a seguire suo padre nella grotta per parlargli
del matrimonio: lo fa attraverso l’imperativa εἰσιὼν αὐτῶι λάλει <νῦν>, εἴ τι βούλει τῶι πατρὶ /
κατὰ µόνας (vv. 781-782), che è ovviamente on record ma viene mitigata dall’if-clause εἰ … βούλει
(oltre che dall’indefinito τι).
Tra le seconde, si trova ad esempio l’uso di vocativi indicanti stima e affetto nei confronti
del destinatario, al fine di rafforzare l’idea che l’atto viene pronunciato per favorire i suoi interessi.
Un esempio di questo si trova in d6, in cui ancora Gorgia consiglia a Sostrato di non cercare di
avvicinare Cnemone in una frase imperativa in cui compare il vocativo ὦ βέλτιστ’(ε)343. In questo
stesso atto costituiscono strategie aggiuntive la frase πράγµατα ἔχειν per designare il
comportamento da cui si consiglia di desistere e la spiegazione delle ragioni del consiglio (µάτην
γὰρ ἕξεις), entrambe indicanti premura nei confronti dell’interlocutore.
Nonostante siano numerosi i personaggi del Dyscolos che pronunciano consigli e inviti,
alcuni sembrano farne uso più frequentemente di altri. La frequenza di questi atti conosce i valori
più alti nell’eloquio di Cherea, Callippide e Gorgia, mentre è notevole che Sostrato ne faccia un uso
estremamente parco. Tutto ciò è dovuto non soltanto al ruolo drammatico che i diversi personaggi
rivestono (Sostrato ad esempio è colui che vuole soprattutto essere aiutato e consigliato sul da farsi),
ma questi dati possono a mio parere rivelarsi significativi del carattere di alcuni. A proposito di
Cherea, in d2 si nota come continui a proferire consigli all’indirizzo di Sostrato anche quando
questi non sono altro che scuse per porre termine allo scambio verbale con lui344. Al contrario, per
quanto riguarda Gorgia essi, di solito realmente tesi all’interesse dell’interlocutore (che in d6 ai vv.
338-340 è Sostrato, in d17 ai vv. 692 e 694-697 Cnemone, in d19 ai vv. 760 e 781 ancora
Sostrato)345, rivelano la genuina attitudine didascalica del giovane, che, come anticipato da Pan nel
prologo, dall’esperienza delle difficoltà ha tratto le sue lezioni di vita risultando più maturo dei
giovani della sua età (vv. 28-29).
342
Della funzione mitigante di elementi o frasi che mettono in forse alcune la disponibilità del destinatario di un atto
direttivo a compiere l’azione indicatagli ho scritto supra, 189. Stelter 2004, 417-420 ha osservato come anche nel greco
di Aristofane le frasi condizionali possano avere una funzione mitigante.
343
Il fatto che il vocativo βέλτιστε venga rivolto da Gorgia a Sostrato ancora due volte in questo stesso dialogo (vv. 319
e 342) rende comunque chiaro che, dopo essersi sincerato che Sostrato non ha cattive intenzioni verso la figlia di
Cnemone, Gorgia intende mostrargli più volte la propria stima, in modo da riparare alle gravi e incaute accuse
indirizzategli all’inizio del loro incontro (cfr. G-S ad v. 319).
344
Ne parlerò infra, 265-267.
345
Un’eccezione soltanto parziale è data dal consiglio di Gorgia a Sostrato ai vv. 284-287. Il giovane contadino dice a
colui che sospetta di voler molestare sua sorella di non avere troppa fiducia nella sua condizione di ricchezza
disprezzando i poveri e di mostrarsi degno della sua fortuna, dato che chi vivendo una vita florida commetta ingiustizie
di solito conosce un repentino mutamento in peggio. In questo caso infatti l’atto, seppure formulato con un consiglio, di
cui presenta sfumature, è soprattutto una critica.
216
2.3.3.3 Atti di impegno e promessa
Vengono compiuti quando il parlante si impegna ad un comportamento o ad un’azione.
Esaminerò congiuntamente gli atti di impegno e promessa pur osservando che forse le promesse
sono un sottoinsieme degli impegni: un impegno può essere preso anche con se stessi nel parlare
insieme ad altri, mentre una promessa è un impegno con il destinatario ad un determinato
comportamento voluto da quest’ultimo (o a lui favorevole)346. Sono i commissivi della terminologia
searliana.
Poiché gli atti di impegno e di promessa vengono espressi di solito semplicemente mediante
frasi affermative con il verbo all’indicativo futuro o (meno frequentemente) presente, senza
contenere performativi espliciti347, possono essere facilmente confusi con l’espressione di
un’intenzione348 o con quelli di offerta. E’ notevole come l’atto di impegno possa avere lo scopo di
rassicurare l’interlocutore, funzionando talvolta come strategia di politeness positiva349 mitigante un
FTA (ad esempio il rifiuto di un’offerta, la chiusura di conversazione, ecc.).
Come atti indipendenti, gli impegni occorrono piuttosto raramente nel Dyscolos. Essi
vengono espressi in modo diretto, il che può spiegarsi con il fatto che spesso si tratta di atti a favore
dell’interlocutore, costituendo in primo luogo FTA contro la faccia negativa del parlante.
Preparandosi in d2 a chiudere lo scambio verbale con Sostrato, Cherea si impegna nei suoi
confronti ad andare il giorno dopo da solo a parlare con il padre della fanciulla. Lo fa con
un’affermativa al futuro (ἀλλ’ ἕωθεν αὔριον / ἐγὼ πρόσειµ’ αὐτῶι µόνος, τὴν οἰκίαν / ἐπείπερ οἶδα,
vv. 131-132).
Nello stesso modo in d7 Sicone si impegna a preparare a Geta un pranzo speciale (ἐγώ σε
χορτάσω κατὰ τρόπον τήµερον, v. 424).
Atti di impegno nei confronti dei familiari esprime più volte Cnemone nel IV atto
(all’interno dei dialoghi d17 e d19) dopo l’incidente. Il vecchio, in parte ricredutosi riguardo al
proprio stile di vita dopo essere stato salvato da Gorgia, promette dapprima al giovane come
rappresentante della famiglia e in seguito a tutti i familiari riuniti al suo cospetto che d’ora in poi
non li disturberà più (rispettivamente ai vv. 692-694 e 747). L’espressione degli atti avviene in
modo diretto attraverso una frase affermativa all’indicativo futuro e l’unica modificazione rilevante
346
Escludo invece da questa trattazione le minacce, che pure potrebbero essere interpretate come impegni a fare
qualcosa contro il destinatario (cfr. Searle 1976, 89-90).
347
Una parziale eccezione è rappresentata dagli atti di fidanzamento: essi contengono il verbo performativo ἐγγυάω (=
“impegnarsi, promettere, garantire”, oltre che “fidanzare”), che rappresentando un impegno compie in realtà un atto
indipendente da quello che preannuncia (si tratta dunque di quello che Searle definirebbe una dichiarazione e non di un
impegno).
348
Nella sua classificazione degli impegni Austin 1987, 116 notava questa possibilità di confusione, ma al tempo stesso
osservava che anche le dichiarazioni di intenzione impegnano chi le pronuncia.
349
Cfr. supra, 183.
217
in ambedue i casi è costituita dal fatto che il parlante si riferisce a se stesso in III persona singolare,
indicandosi come Κνήµων la prima volta e come <ὁ> χαλεπὸς δύσκολός τ’(ε) … γέρων la seconda.
Questa scelta, se da una parte testimonia, in particolare la seconda volta, l’assunzione da parte del
parlante della prospettiva dei destinatari, dall’altra allontana l’atto dalla sua persona350.
Gli atti pronunciati da Sostrato nei riguardi della fanciulla in d4 e da Geta in d13 possono
essere visti anche come atti di offerta.
2.3.3.4 Atti di offerta
Poiché consistono nel mettere a disposizione del destinatario beni o prestazioni, questi atti
costituiscono una categoria ‘ibrida’ tra gli impegni e gli inviti.
Le modalità di espressione delle offerte nel Dyscolos sono varie: più di una volta vengono
comunicate attraverso frasi imperative, ma conoscono anche le forme dell’interrogativa e
dell’affermativa con indicativo presente o futuro alla I persona singolare o plurale.
Come ho anticipato, un’offerta di aiuto viene pronunciata da Sostrato nei riguardi della figlia
di Cnemone in d4: dopo aver sentito che la fanciulla ha bisogno di riempire di acqua una brocca ma
si vergogna di entrare nel santuario delle Ninfe a prenderla, il giovane le si rivolge dicendo che se
ella gli darà la brocca, egli gliela riporterà subito piena d’acqua (ἀλλ’ ἂν ἐµοὶ δ[ῶις, αὐτίκα / βάψας
ἐγώ σοι τ[ὴν ὑδρίαν ἥ]ξω φέρων, vv. 199-200)351. Il fatto che l’offerta si esprima come affermativa
preceduta da una condizionale che subordina l’atto ad un precedente atto dell’interlocutrice e
dunque alla sua volontà, costituisce a mio parere una strategia di politeness negativa con la quale il
parlante mostra di attendere il consenso dell’interlocutrice prima di passare all’azione, senza
dunque volerla costringere. Si metterà in movimento infatti soltanto dopo che questa avrà
esplicitamente accettato l’offerta (ναὶ πρὸς θεῶν, v. 201), verosimilmente porgendogli la brocca.
In d13 Geta si rivolge a Cnemone affermando che gli procurerà un gancio e una fune per
calarsi nel pozzo (ἡµεῖς ποριοῦ[µεν ἁρπάγην / καὶ σχοινίον, vv. 599-600)352. La sua offerta,
espressa attraverso un’affermativa all’indicativo futuro, non conosce mitigazioni poiché compiuta
in una situazione di urgenza per venire incontro ai bisogni dell’interlocutore. Essa si scontrerà
tuttavia con il rude e categorico rifiuto di Cnemone (vv. 600-601).
Un esempio di offerta espressa con frase imperativa è in d6 al v. 375. Davo porge la propria
zappa a Sostrato che ha appena chiesto di portargliene fuori una (τὴν παρ’ ἐµοῦ λαβὼν ἴθι, v. 375).
350
Per il significato di questo modo di esprimersi di Cnemone cfr. infra, 315-sgg.
La lacuna che ci priva di parte dell’enunciato contenente l’offerta non costituisce un problema, dato che le
integrazioni proposte sono quasi sempre le stesse: quella stampata da Sandbach oppure δοῦναι θέληις, ad essa pressoché
equivalente (cfr. Sandbach in apparato). Ho esaminato l’atto supra, 190.
352
Le integrazioni del testo mancante sono quelle accettate dalla maggioranza degli editori (cfr. Handley ad loc.).
351
218
La sua espressione esplicita e non temperata è dovuta a mio parere soprattutto al fatto che lo
schiavo si offre di soddisfare una richiesta del giovane353.
Un atto di offerta contiene anche la domanda posta da Gorgia a Cnemone in d17 al v. 691
(βούλει τι, Κνήµων; εἰπέ µοι): nel chiedere al patrigno se desideri qualcosa, il giovane contadino si
mostra molto cauto nel mettergli a disposizione il suo aiuto, pur indicando con l’imperativa εἰπέ µοι
che segue immediatamente la domanda un forte interesse alle sue esigenze.
2.3.3.5 Atti di proposta
Li intendo come quegli atti costituenti tentativi del parlante di far compiere all’interlocutore
un’azione che si desidera effettuare insieme a lui a vantaggio sia dell’uno sia dell’altro. Anche le
proposte fanno parte dunque degli atti direttivi, quantunque non sia sempre facile distinguerle da
atti come l’offerta, l’invito o il consiglio.
Nella commedia non si ravvisa la presenza di un performativo specifico dell’atto354. I modi
di proporre sono pertanto diversi: si passa dalla domanda con congiuntivo deliberativo a periodi
ipotetici dell’eventualità che nella protasi presentano l’azione proposta e nell’apodosi quello che ne
sarà il risultato a parere del parlante, a frasi che utilizzano la costruzione δεῖ + infinito, ad
affermative con indicativo fino ad elaborazioni condotte nell’arco di diversi turni da parlante ed
interlocutore insieme.
La difficoltà di trovare per l’atto una forma standard in greco antico rende ardua la
discussione circa le strategie di politeness che intervengono nella sua formulazione all’interno della
commedia. In generale, comunque, si osserva come esso sia caratterizzato dalla sottolineatura della
complicità di parlante e interlocutore nell’atto, del comune interesse a compierlo (mettendo talora in
evidenza soprattutto quello dell’interlocutore), dell’affetto esistente tra parlante e interlocutore, che
sono chiari espedienti di politeness positiva.
Nell’apertura di conversazione di dII (vv. 107-108) Pirria pre-annuncia a Cnemone la
proposta di Sostrato di combinare un matrimonio tra il giovane e la figlia355. Essa viene infatti
anticipata dalla sottolineatura che l’affare che lo schiavo intende sottoporre al vecchio è nel suo
interesse (ἥκω … σπεύδων ὑπὲρ σοῦ πρᾶγµ’(α)). Trattandosi di un pre-annuncio, esso anticipa
soltanto l’atto vero e proprio, posponendolo alla reazione dell’interlocutore, che tuttavia sarà
negativa e non consentirà che esso venga compiuto.
353
È chiaro che quest’atto può sovrapporsi a quello di invito.
Del resto nel greco letterario “fare, presentare una proposta”, reso solitamente con γνώµην εἰπεῖν, διδόναι, γνώµην o
λόγον εἰσφέρειν, προτιθέναι, è un’espressione quasi esclusiva del lessico politico (cfr. Montanari s.v.) e non si trova mai
alla prima persona singolare a designare l’atto che si sta compiendo (come ad es. in “Io propongo…”).
355
È ovvio che lo schiavo Pirria era soltanto un ambasciatore della proposta.
354
219
Piuttosto forti sembrano anche le proposte formulate con frasi affermative: in particolare, lo
è quella rivolta da Sostrato a suo padre in d21 (vv. 855-857) di fare insieme una bella bevuta in
concomitanza con la veglia delle donne, espressa mediante la costruzione ‘di dovere’ δεῖ con
l’infinito (δεῖ πότον / ἡµῶν γενέσθαι, παππία, νυνὶ καλόν). La forza dell’atto è giustificata al suo
interno dal carattere piacevole dell’azione proposta, sottolineato attraverso l’uso dell’aggettivo
καλός che lo qualifica; esso non risulta costrittivo nei confronti dell’interlocutore anche perché già
di fatto in programma all’interno del simposio che si sta preparando. Ad accrescere la complicità e
la comunanza di interessi tra parlante e interlocutore dovevano essere senz’altro la prima persona
plurale ἡµῶν impiegata dal parlante per indicare se stesso e l’interlocutore nonché il vocativo
affettuoso παππία, che doveva risultare particolarmente forte se si considera che l’impiego di
vocativi di questo tipo riferiti al proprio padre è, in tutte le commedie menandree pervenuteci,
riservato alle donne (cfr. ad es. Mis. 213 ed il v. 648 di questa commedia)356.
In forma interrogativa doveva essere espressa la proposta che Geta fa a Sicone relativamente
allo scherzo da giocare a Cnemone in d24 ai vv. 897-900. Lo schiavo si serve probabilmente357
dell’interrogativo τί seguito dalla protasi di un periodo ipotetico dell’eventualità per formulare la
proposta (traducibile come: “Che ne dici, a proposito, se prima lo trasciniamo fuori di casa, poi,
quando lo abbiamo messo qui, cominciamo a bussare alla porta, a chiedergli cose in prestito, a farlo
andare su tutte le furie?”). Alla menzione dell’idea segue subito quella del vantaggio dell’azione per
parlante e interlocutore (ἔσται τις ἡδονή, λέγω), sottolineato dal verbum dicendi che rafforza,
specificandolo, il valore illocutorio dell’affermazione.
2.3.3.6 Atti di rimprovero
Sono atti di valutazione negativa di azioni e comportamenti dell’interlocutore (ritenuti
ingiusti, erronei, turpi, inadeguati ecc.). Nonostante siano diversi dalle accuse non risultano da esse
sempre facilmente distinguibili.
Anche per questi atti linguistici si riscontra nel Dyscolos l’assenza di enunciati con
performativo espresso (ad es. con il verbo λοιδορέω, / -έοµαι, µέµφοµαι e simili) che li individuino
in maniera esplicita.
356
Diverso è il quadro emergente da Aristofane, in cui si trovano usati diminutivi e vezzeggiativi anche da parte di figli
maschi ai loro padri (anche se non nella maggioranza dei casi). Cfr. per una discussione del passo e degli usi menandrei
riguardo ai vocativi indirizzati ai genitori cfr. Dickey 1996, 222-223 (“As in prose, these expressions are used primarily
by daughters rather than by sons, but here the addressee is the father not the mother, for mothers in Menander are very
rarely addressed. In addressing fathers, sons generally use πάτερ ‘father’, with one example of παππία ‘papa’, while
daughters use πάππα ‘papa’, πάτερ, and, once, φίλτατε, ‘dearest’”).
357
Il testo del v. 897, corrotto, è frutto di un’integrazione di Handley.
220
L’esame delle loro occorrenze rivela che la forma più comune in cui questi atti sono espressi
è senz’altro quella interrogativa. Le frasi interrogative esprimenti rimproveri o critiche possono
essere di struttura diversa: si va da domande di tipo ICTS in cui si ripete parte del turno pronunciato
dall’interlocutore per stigmatizzare le parole da lui dette o il loro contenuto a domande in cui si
chiedono polemicamente le ragioni di un comportamento o in cui si chiede all’interlocutore se
faccia o abbia fatto quanto effettivamente fa o ha fatto e simili.
Accanto alle interrogative, esprimono critiche e rimproveri anche frasi affermative in cui si
danno giudizi negativi dell’agire dell’interlocutore (ad esempio attraverso la costruzione οὐ δίκαιόν
ἐστι con l’infinito), si predica quanto si rimprovera all’interlocutore (non soltanto azioni, ma anche
stati mentali, atteggiamenti, ecc.) o ancora si illustra l’effetto negativo che le sue azioni hanno,
hanno avuto o avranno sul parlante, sull’interlocutore o su terzi. In questi casi il rimprovero si
sovrappone in parte all’accusa.
Infine,
anche
frasi
esclamative
possono
contenere
rimproveri
nei
confronti
dell’interlocutore, esprimendo o sottintendendo un giudizio negativo su di lui e sul suo agire.
Altre modalità si riscontrano in frasi aventi in primo luogo un valore illocutorio diverso,
come le interrogative con indicativo futuro preceduto da negazione (del tipo οὐ ποιήσεις…;) nelle
quali l’intenzione del rimprovero si aggiunge a quella del comando perentorio e minaccioso358.
Talvolta, infine, anche le forme considerate possono presentare valori illocutori aggiuntivi rispetto
al rimprovero: si riscontra più di una volta, ad esempio, come le domande-rimprovero non perdano
del tutto il valore di domande reali. In taluni casi il rimprovero si articola in più di un enunciato,
mostrando di delinearsi nella mente del parlante attraverso diversi passaggi, o cumulando in sé più
di un valore illocutorio, o ancora venendo presentato in modo indiretto (off record) perché risulti
meno minaccioso per la faccia positiva dell’interlocutore.
I rimproveri espressi in forma interrogativa sembrano non esclusivi né tipici di determinate
classi sociali, dato che vengono scelti tanto dai liberi quanto dal personale di servizio. La loro
diffusione e il fatto che siano immediatamente riconosciuti nel loro valore illocutorio da parte dei
destinatari rende chiaro che sono del tutto on record359. Tuttavia, la loro forza di FTA appare
variare: la domanda-rimprovero sembra di per sé una critica piuttosto blanda che per divenire un
forte rimprovero deve essere accompagnata da modificatori rafforzativi di vario tipo.
Così ad esempio in d21, dopo che Sostrato gli ha tenuto un discorso sul valore dell’amicizia
per far sì che acconsenta al matrimonio di Gorgia, Callippide afferma di capire le sue ragioni, ma
sottolinea l’inutilità della lunga predica del figlio con la domanda-rimprovero τί µοι λέγεις γνώµας;
358
Su questa forma di comando e sul suo carattere impolite mi sono soffermata supra, 210 n. 326.
È possibile che i rimproveri in forma interrogativa risultino dalla convenzionalizzazione di una strategia di politeness
(cfr. supra, 185).
359
221
(v. 817). Che l’atto non sia una domanda reale è chiaro, anche perché il parlante non attende una
risposta dell’interlocutore ma continua, portandolo a conclusione, il ragionamento già cominciato.
Esso comunque non risulta grave od offensivo in quanto, pur risultando riconoscibile, non contiene
l’espressione esplicita di giudizi di valore nei confronti del comportamento biasimato (se non l’uso,
in senso dispregiativo, del sostantivo γνώµη ad indicare la massima morale pesante ed inutile360).
Gli atti di questo tipo compiuti da Cnemone, che costituiscono la maggioranza degli esempi
di rimprovero forniti da questa commedia, vengono anch’essi compiuti attraverso domande, ma
divengono particolarmente aggressivi poiché Cnemone solitamente modifica le frasi interrogative
con rafforzativi rappresentati da vocativi offensivi, maledizioni, ecc. e talora aggiunge all’offesa
verbale comportamenti non verbali come le urla e l’aggressione fisica dell’interlocutore (si pensi
all’incontro con Pirria raccontato dallo schiavo in dII, in cui sono messi in evidenza appunto le
caratteristiche prosodiche del parlare del vecchio e i suoi gesti). Interessante è notare come, nella
maggioranza dei casi nei quali il rimprovero viene espresso in maniera così forte ed aggressiva,
l’interlocutore di Cnemone sia un rappresentante del personale di servizio o sia un personaggio che
ha osato per primo tentare di stabilire un contatto verbale con lui (oltre che nel dialogo citato, anche
in d9, d10, d12). L’unico caso in cui una sua domanda-rimprovero, seppure chiara e rafforzata da
lamentele ed inviti sarcastici, non è corredata da insulti o da botte è quello del rimprovero a Sostrato
nel corso del primo incontro tra i due personaggi (d3 ai vv. 172-177), dopo che il giovane ha tentato
di giustificare la propria presenza nei pressi della porta di casa del vecchio. In una seconda
occasione di incontro tra i due, tuttavia (in ?d18 dal v. 702), allo stesso Sostrato Cnemone si rivolge
con il vocativo ἄθλιε).
Un atto che si colloca in posizione intermedia tra i due estremi di domanda-rimprovero citati
è a mio parere quello compiuto da Gorgia nei confronti di Davo in d5 ai vv. 233-234. Il giovane
chiede allo schiavo: οὕτω παρέργως δ’, εἰπέ µοι, τῶι πράγµατι / φαύλως τ’ ἐχρήσω;, in tal modo
criticando aspramente il comportamento da questi tenuto poco prima nell’assistere all’incontro tra
Sostrato e la figlia di Cnemone. Quest’atto è ovviamente del tutto diretto perché contiene giudizi
espliciti sull’operato dell’interlocutore (παρέργως e φαύλως) e viene rafforzato dalla parentetica
εἰπέ µοι (indicante sempre un forte coinvolgimento del parlante in ciò che dice361), ma risulta meno
violento di quelli di Cnemone poiché non contiene insulti alla persona dell’interlocutore.
Le affermazioni contenenti un rimprovero sono piuttosto diffuse nella commedia e
compaiono nel parlare di liberi e schiavi. Sostrato, che ne fa uso piuttosto spesso, ne pronuncia ad
esempio una nel passo d21 all’indirizzo di Gorgia dopo che questi ha rifiutato l’offerta di prendere
360
Quest’accezione negativa del sostantivo e dei termini da esso derivati o ad esso semanticamente vicini si coglie
anche in altri passi menandrei (ad es. in Asp. 414, Sam. 677-678).
361
Cfr. supra, 146 e 211.
222
in moglie la sorella dell’amico. Il giovane commenta la decisione comunicatagli dall’amico in modo
diretto, cioè qualificandola come un “dire sciocchezze” (φλυαρεῖς, Γοργία, al v. 831) e subito dopo
spiegandogli le ragioni del suo rimprovero.
Quanto ai rimproveri posti in frasi esclamative, essi compaiono in pochissimi casi,
indicando a mio parere scandalo o dispetto in chi li proferisce: la quasi totalità delle occorrenze di
questa modalità nel Dyscolos compare in bocca a Cherea, che ad esempio in d2 commenta il crudo
modo di esprimersi dello schiavo Pirria riguardo a Cnemone dicendo: ὡς ὀργίλως (v. 102).
Non ritengo che le diverse forme (interrogativa, affermativa, esclamativa) in cui gli atti di
rimprovero si presentano li rendano di per sé più o meno forti. Il loro carattere minaccioso nei
confronti dell’interlocutore dipende appunto dalla presenza o meno di rafforzamenti (come insulti,
maledizioni, comportamenti non verbali aggressivi, ecc.) e di strategie intese a mitigarli.
L’esame delle strategie di politeness utilizzate nell’espressione dei rimproveri rivela come
quelle maggiormente diffuse siano l’off recordness, in gran parte soltanto formale o comunque
disambiguata, e la politeness negativa.
L’off recordness viene ottenuta soprattutto mediante l’understatement, l’ambiguità, l’ironia.
Una forma di understatement è rappresentata dalla critica che Cherea rivolge a Sostrato in d1 ai vv.
74-75, la quale contiene tuttavia elementi capaci di disambiguarla362.
Ho già ricordato inoltre come il discorso iniziale di Gorgia a Sostrato in d6 (vv. 271-287),
costituente anch’esso un atto di rimprovero, si svolga per lo più secondo modalità off record,
cominciando come riflessione di carattere generale sul rapporto tra le azioni e i destini degli uomini
e concludendosi col consiglio all’interlocutore di non essere troppo sicuro della propria condizione
sociale disprezzando i poveri, ma di mantenersi degno di essa dinanzi agli altri363.
La politeness negativa si esprime soprattutto attraverso limiti posti alla forza illocutoria e al
contenuto dell’atto (ad es. γε o γοῦν limitativi, πως, ἴσως, ecc.), che diminuiscono il grado di
sottoscrizione del parlante a quanto sta dicendo, ma anche col distanziamento della persona
dell’interlocutore dall’azione stigmatizzata e/o di quella del parlante dall’atto di biasimo (ad es.
costruzioni impersonali).
Così ad esempio in d14 Sostrato sottolinea l’improprietà sociale del rifiuto espresso da
Gorgia al suo invito a pranzo in un’interrogativa che chiede chi tra gli uomini rifiuterebbe mai di
partecipare al banchetto sacrificale di un conoscente (ὦ Ἡράκλεις, / τουτὶ δ’ ἀπαρνεῖταί τις
ἀνθρώπων ὅλως, / ἐλθεῖν ἐπ’ ἄριστον συνήθους τεθυκότος;, vv. 612-614). Il rimprovero è dunque
compiuto attraverso una domanda di carattere generale che non si riferisce implicitamente
all’interlocutore né al parlante. Nonostante essa appaia immediatamente chiara come domanda
362
363
Ne ho parlato anche supra, 200.
Sull’off recordness del discorso cfr. supra, 203.
223
‘retorica’ avente il valore di affermazione negativa, anche in ragione del momento conversazionale
in cui occorre (ossia dopo un’insistenza nell’invito già rifiutato dall’amico), evita di esercitare
pressioni troppo forti sulla faccia del destinatario divenendo un espediente di segno negativo. Al
suo interno, comunque, compaiono elementi intesi nel contempo ad accrescerne la forza, come
l’esclamazione da cui è introdotta364, l’avverbio ὅλως, che ‘universalizza’ il valore
dell’affermazione sottesa alla domanda, e il pronome neutro con iota deittico, che mette in rilievo
(anticipandola) l’infinitiva indicante l’azione che secondo il parlante non è possibile rifiutare.
La politeness positiva comprende nei rimproveri presenti nella commedia scherzi ed
espressioni di stima all’interlocutore.
Un esempio di critica attenuata da una strategia di politeness positiva è presente in d1 (v.
53), quando Cherea storce il naso sulla velocità dell’innamoramento di Sostrato scherzandoci
sopra365.
Strategie di politeness positiva e negativa si combinano nell’atto di critica rivolto da
Callippide a Gorgia in d21 (vv. 835-836). Esso viene espresso con una frase affermativa la cui forza
è mitigata da due avverbi, dei quali il primo dà una valutazione qualitativa positiva
dell’interlocutore proprio mentre lo critica (εὐγενῶς, rafforzato da un γε con valore esclamativo366)
ed il secondo, indefinito (πως), costituente un limite al valore dell’aggettivo riferito
all’interlocutore367.
Nella comunicazione tra liberi ed esponenti del personale di servizio si osserva come i primi
non mitighino mai i loro rimproveri verso i secondi. Le interazioni tra gli schiavi e i loro padroni
lasciano registrare la quasi totale assenza di rimproveri in bocca ai primi, i quali generalmente si
limitano a segnalare un certo malumore in atti di valore illocutorio differente (come rifiuti di
obbedire ad un ordine, ecc.). Il caso di Simiche, la quale nel passo c29 rimprovera Cnemone per il
suo carattere (vv. 875-878) non costituisce un’eccezione, in quanto la schiava si concede
un’inconsueta libertà di parola approfittando di non trovarsi faccia a faccia con il padrone,
immobilizzato a letto, che rimprovera soprattutto per l’offesa al dio Pan compiuta rifiutando di
recarsi nella sua grotta. Una vera e propria controtendenza è osservabile nel comportamento verbale
di Geta, che si consente più volte parole di biasimo verso i padroni. Ciò avviene ad esempio in d11
(vv. 563-570) quando critica l’idea di Sostrato di invitare ancora altre persone al banchetto. Non è
tuttavia privo di significato il fatto che lo schiavo scelga di esprimersi mediante l’off recordness
364
Il suo potere disambiguante è stato da me sottolineato supra, 200.
Cfr. supra, 182.
366
Per questo valore di γε dopo avverbi, aggettivi, verbi o sostantivi cfr. Denniston, 127-128.
367
Le integrazioni proposte per ricostruirlo sono diverse: tra le altre, cito il περίεργος di Gallavotti inteso nel senso di
“eccessivo” (apud Handley ad loc. che lo accoglie nel suo testo), il παράκοπος di Barigazzi (ibidem) e il παράλογος
proposto exempli gratia da Sandbach (in G-S ad vv. 833-sgg.). Nonostante le differenze di significato, esse sono
accomunate dal ritenere l’aggettivo espressione di una critica all’atteggiamento rinunciatario di Gorgia.
365
224
disambiguata, ossia concedendo ironicamente al padroncino di portare pure a tremila il numero dei
partecipanti, e che rivolga le sue parole più forti ad un destinatario di II persona plurale facendo
sfociare in entrambi i casi la critica in un atto di lamentela, meno minaccioso per la faccia
dell’interlocutore. Nei confronti di liberi cui non sono assoggettati, gli esponenti del personale di
servizio sembrano consentirsi maggiore libertà di parola: ad esempio Pirria e Sicone,
rispettivamente in dII (al v. 112) e d10 (al v. 504), si preparano entrambi a lanciare una
maledizione all’indirizzo di Cnemone, anche se soltanto dopo essere stati da lui percossi.
Nella comunicazione tra esponenti del personale di servizio i rimproveri non conoscono
spesso attenuazioni dovute a politeness. Ciò accade ad esempio tra Geta e Sicone, che, come si è già
osservato, non si preoccupano quasi mai di mitigare questi atti rivolgendosi l’uno all’altro, ma
anche nei confronti di altri personaggi della loro condizione: così, se Geta non si fa scrupolo di
esprimere a Sicone il proprio fastidio per le sue domande pressanti dettate da eccessiva curiosità (ad
es. in d7 al v. 412 con la frase ἀπολεῖς368), Sicone dal canto suo sa essere ancora più forte e volgare
condendo i suoi rimproveri con maledizioni e volgarità (si pensi alle parole con cui critica il modo
di chiedere di Geta in c12 ai vv. 487-488 oppure al rimprovero-insulto οὐ λαικάσει φλυαρῶν;
presente in d24 al v. 892369)
368
Questo ed analoghi enunciati sono estremamente diffusi in commedia come espressioni di rimprovero e di fastidio
per ἀπολεῖς cfr. ad esempio Aristoph. Ran. 1245, per forme simili (come παρατενεῖς, ἀποκτενεῖς, lat. enicas) presenti
nella Samia cfr. infra, 239.
369
Per l’uso del verbo cfr. Handley ad v. 892.
225
2.3.4 FTA e politeness nella Samia
2.3.4.1 Atti di ordine, richiesta, supplica
Come nel Dyscolos370, anche in questa commedia la loro espressione varia a seconda della
situazione, dello stato d’animo e delle intenzioni comunicative di chi li compie, nonché dei rapporti
tra il parlante e l’interlocutore.
Nella maggioranza dei casi presi in considerazione, le richieste e gli ordini vengono
compiuti in modo esplicito nei modi visti a proposito dell’altra commedia.
I rafforzamenti interni all’atto sono realizzati, come per il Dyscolos, da avverbi (o aggettivi
neutri usati come avverbi) e particelle che sottolineano per l’interlocutore l’urgenza con cui l’atto va
compiuto, occorrendo soprattutto nella comunicazione di personaggi liberi con esponenti del
personale di servizio (come quella tra Demea e Parmenone in D5 ai vv. 189-sgg.) o in interazioni
particolarmente concitate tra personaggi di status sociale simile (come quella contenuta nel passo
D14 tra Demea e Nicerato ad es. ai vv. 582 e 583). Anche nella Samia occorrono inoltre le frasi
interrogative in cui compare la successione οὐ e indicativo futuro del verbo indicante l’azione
ordinata, presenti soprattutto negli atti di ripetizione di un ordine non immediatamente eseguito
dall’interlocutore o dopo minacce e rimproveri per comportamenti del destinatario che il parlante
non gradisce e si propone di far cessare (è ciò che avviene ad esempio in D15 ai vv. 678-679, in cui
Moschione, adirato dal fatto che Parmenone non ha eseguito l’ordine impartitogli in precedenza,
glielo ripete in questa forma e con accompagnamento di percosse).
Tra le forme risarcite, costituenti una minoranza di casi, si osserva una notevole prevalenza
di quelle di politeness negativa su quelle di politeness positiva e su quelle di off recordness. Le
strategie di segno negativo osservabili nella Samia comprendono: 1) la minimizzazione
dell’imposizione data dall’FTA all’interlocutore (espressa in primo luogo dal neutro avverbiale
µικρόν, trovato ad esempio nella richiesta che Demea si prepara a rivolgere a Nicerato al v. 547371);
2) l’aggiunta di espressioni di supplica come πρὸς (τῶν) θεῶν (che compare ad esempio
nell’accorata richiesta di Demea a Moschione al v. 720 di D17372) e ἱκετεύω (rivolto in D11 da
Demea a Nicerato al v. 518); 3) la subordinazione della richiesta alla volontà e alle esigenze
370
Cfr. supra, 209-213.
Probabilmente non è dovuto ad intenzioni di politeness l’uso dell’avverbio al v. 305, dove sembra da intendersi
letteralmente in modo da dare il senso di “(Avvicinati) ancora un po’ ” alla frase che segue l’esecuzione da parte di
Parmenone dell’ordine impartitogli da Demea nell’unità di turno precedente probabilmente attraverso un’imperativa
priva di mitigazioni. Se anche fosse da ascrivere a ragioni di politeness, esso sembrerebbe inteso a nascondere
temporaneamente l’umore del padrone.
372
Al v. 303 l’espressione di supplica, rivolta da Parmenone e Criside come rappresentante delle donne di casa, sembra
in realtà mostrare una certa impazienza dello schiavo, il che accade spesso con questa espressione (cfr. ad es. Dysc. 341)
così come nelle lingue moderne con diverse espressioni di supplica (cfr. l’italiano “per cortesia” o “per carità”).
371
226
dell’interlocutore (il che viene realizzato dalla frase condizionale εἰ … σοι δοκεῖ … in D11 ai vv.
489-490 in occasione di una richiesta di Demea al figlio, la cui politeness è comunque in parte
sarcastica); 4) l’utilizzo di modi e tempi verbali che ridimensionano il grado di sicurezza e la portata
delle presupposizioni del parlante sulle esigenze, i doveri, i desideri attribuiti all’interlocutore (si
pensi ancora all’atto espresso da Demea in D16 ai vv. 700-701, in cui probabilmente l’impersonale
δεῖ che regge la frase infinitiva indicante quanto richiesto a Moschione è all’imperfetto373) o che
attenuano la forza di un comando (lo stesso Demea più volte – ad esempio nella ῥῆσις appena citata
ai vv. 709-710 e in D17 al v. 721 – indirizza richieste negative a Moschione usando µή con il
congiuntivo aoristo, mentre in momenti di maggiore tensione – come ai vv. 466 e 477-478 di D11 –
preferisce rivolgerglisi facendo seguire alla negazione l’imperativo presente).
Le strategie di politeness positiva che si trovano impiegate in unione a questi atti sono
invece: 1) la richiesta esplicita all’interlocutore di condividere i wants del parlante (presente in D11
al v. 518 quando Demea chiede a Nicerato di essere con lui solidale buttando fuori Criside dalla
propria casa con la frase συναδικοῦ γνησίως ὡς ἂν φίλος374); 2) il sottolineare, viceversa, che
quanto preteso è a vantaggio dell’interlocutore (come fa Moschione nello stesso dialogo al v. 473
facendo notare al padre che la sua richiesta di far ritornare Criside in casa è effettuata nel suo
interesse375); 3) il riferimento a parlante ed interlocutore come a membri di uno stesso gruppo (ciò
che accade al v. 472 in occasione dello stesso atto di richiesta appena esaminato, in cui Moschione
precisa di volere che Criside sia presente insieme a loro alle nozze376); 4) il premettere
un’espressione di accordo con il volere dell’interlocutore all’atto di manifestazione della propria
volontà (strategia testimoniata nel passo della commedia appena citato al v. 471, quando Moschione
prima di manifestare la propria richiesta replica affermativamente a quella di celebrare le nozze
rivoltagli dal padre); 5) l’impiego di vocativi indicanti affetto e/o stima per l’interlocutore (come il
βέλτιστε che il cuoco, forse in un atto di richiesta di ascolto, indirizza a Demea in D8 al v. 384
tentando di intervenire nell’interazione tra il vecchio e Criside).
373
Il tempo in cui è usato il verbo impersonale è in realtà oggetto di discussione tra gli studiosi: Austin e Jacques
stampano σ’ ἔδει, Sandbach li segue anche se in G-S ad loc. si osserva che “B has no signs of elision, and the present
tense gives a better sense than the imperfect ἔδει” poiché “Demeas’ immediate concern is with how Moschion is to act
now, not with what he ought to have done in the past”, traducendo la frase: “You must put up with those acts of mine
which pained you”, e lo stesso fanno Paduano (il quale ad loc. sostiene la sua scelta affermando che l’osservazione di
Demea si riferisce al passato e che il verbo al presente implicherebbe un’affermazione dispotica della paternità) e
Lamagna. Arnott opta invece nel suo testo per il presente. Se si scegliesse il presente, l’enunciato di Demea non
conterrebbe se non minimi accorgimenti di politeness: l’uso di un verbo impersonale per esprimere l’idea di dovere può
infatti considerarsi in diverse lingue del mondo una strategia di politeness ormai convenzionalizzata.
374
Va detto che questa strategia succede ad una di politeness negativa impiegata a mitigare lo stesso FTA (cfr. infra,
230).
375
L’atto è stato da me esaminato supra, 178, tra gli esempi di strategie positive.
376
Di questa strategia non si può avere assoluta certezza visto che il dativo ἡµῖν comprendente parlante ed interlocutore
è un’integrazione di Austin accolta comunque dalla maggioranza degli editori.
227
Di alcune strategie risulta difficile stabilire il segno. E’ questo ad esempio il caso della frase
ταύτην ἐµοὶ δὸς τὴν χάριν, pronunciata ancora in D11 al v. 468 da Moschione nella richiesta al
padre di far rientrare Criside in casa: una richiesta espressa in questa o simile forma si trova usata in
Menandro e nella tragedia in contesti di politeness negativa che sottolineano la situazione di
bisogno e di inferiorità in cui il parlante si trova rispetto all’interlocutore, chiamato a compiere
l’azione richiesta come alla concessione di un favore377. Nel passo considerato, tuttavia, il fatto che
Moschione chiede la riammissione di Criside in casa come un favore è finalizzato, nelle intenzioni
del parlante, a sottolineare come questi identifichi i proprii interessi con quelli dell’interlocutore
(cui dovrebbe ovviamente stare a cuore più che a ogni altro riavere con sé la donna amata)378.
Passando all’off recordness, è importante distinguere quella ascrivibile ad intenzioni di
politeness da parte del parlante da quella dovuta a ragioni diverse. Non di rado nei dialoghi di
questa commedia accade infatti di trovare atti il cui carattere indiretto dipende soltanto dal fatto che
il valore illocutorio di ordine o richiesta risulta subordinato ad altre illocuzioni. Appare ad esempio
ovvio che un atto di rimprovero per un’azione che l’interlocutore sta compiendo o si prepara ad
effettuare contenga anche una sfumatura direttiva, ingiungendo implicitamente al destinatario di
mutare il proprio comportamento o le proprie intenzioni. Ciò accade in diversi passi, come in D6 ai
vv. 292-294, in cui Parmenone interrompe il lungo turno del µάγειρος rimproverandolo di “farlo a
pezzetti” con le sue chiacchiere (κατακόπτεις γέ µε / … εἰς περικόµµατα, vv. 292-293),
pronunciando dunque una lamentela piuttosto esplicita che non rinuncia all’insulto mediante
sarcasmo ed iperbole379. In questo caso (come in molti altri dello stesso tipo) il fatto che la richiesta
di tacere per il cuoco rimanga in sordina dipende soltanto dall’enfasi data dal parlante ad un atto
ancora più minaccioso per la faccia dell’altro, rendendo perciò questo tipo di off recordness di
scarso interesse per la nostra analisi.
L’off recordness che risulta rilevante per il nostro studio è presente invece in un numero
piuttosto limitato di passi. Uno di questi è rappresentato dalla domanda di Demea a Nicerato in D4
al v. 196, che suona: σὺ δ’ οὐδέπω, Νικήρατε;380. Con essa il parlante, che ha appena ordinato al
proprio schiavo di andare a fare la spesa per il banchetto nuziale, intende evidentemente sollecitare
l’interlocutore a recarsi anch’egli al mercato per poter cominciare al più presto i preparativi, ma
377
Per quanto riguarda Menandro, in Epit. 231 si ha la stessa frase δὸς τὴν χάριν nella cortese richiesta che Sirisco
rivolge a Smicrine mentre nel papiro Didot I (fr. dub. pp. 328-330 Sandbach) 41-42 si trova la frase χάριν δικαίαν καὶ
φιλάνθρωπον … / αἰτῶ σε ταύτην rivolta da una fanciulla al proprio padre. In Euripide, la richiesta è pronunciata in HF.
321 da Anfitrione che supplica Lico, in Hel. 940 da Elena in atteggiamento supplichevole nei confronti di Teonoe e in
Or. 104 ancora da Elena nei confronti di Elettra. In Eschilo, si trova soltanto in Pr. 821-822, rivolta dal coro delle
Oceanine a Prometeo.
378
Per gli effetti, del tutto contrari alle intenzioni di Moschione, che questo modo di esprimersi avrà su Demea cfr.
infra, 283.
379
La forza minacciosa dell’atto per la faccia dell’interlocutore è inoltre accresciuta dalla violazione deliberata delle
regole conversazionali da parte dello schiavo, ossia dall’interruzione che provoca nel prendere la parola.
380
Ho esaminato questa richiesta tra le chiusure di conversazione (in cui costituiva il passo C4) supra, 139.
228
anziché esprimersi con un imperativo o con un verbo di dovere si limita a menzionare le condizioni
che rendono rilevante il compimento dell’azione richiesta. Dalla risposta di Nicerato (vv. 196-198)
si comprende che egli ha immediatamente colto il senso del turno; tuttavia, le sue esigenze di faccia
non sono state violate dall’amico, che almeno formalmente pare avergli lasciato la libertà di
decidere le proprie azioni.
Particolarmente interessanti da questo punto di vista sono anche in D10 i vv. 431-433 della
commedia, che vedono Moschione, appena entrato in conversazione con Nicerato, esprimere la
volontà di celebrare al più presto le nozze. La sua battuta si articola in tre diverse unità, delle quali
la prima è una domanda (νῦν ποοῦµεν τοὺς γάµους; al v. 431), che introduce l’argomento di
conversazione ex abrupto381. Essa viene seguita da un’affermazione che la motiva: il parlante dice
infatti di avere incontrato poco prima Parmenone al mercato e di essere stato da lui informato dei
preparativi (vv. 431-432). A quest’ultima segue infine una nuova frase interrogativa, che suona: τί
κωλύει / µετιέναι τὴν παῖδά µ’ ἤδη; (vv. 432-433) avendo il valore di affermazione negativa (οὐδὲν
κωλύει...). Il valore illocutorio prevalente dell’intera battuta (che si impone su quello letterale di
domanda) è dunque quello di richiesta. Le frasi infinitive introdotte dall’interrogativa τί κωλύει
costituiscono spesso atti linguistici direttivi382. Nel passo della commedia preso in esame la
domanda, riferita al parlante e rivolta al padre della sposa, costituisce la richiesta del permesso di
andare a prendere la fanciulla. Essa viene svolta in diverse unità di turno costituenti ognuna
letteralmente un atto diverso; il momento conversazionale in cui queste unità occorrono (l’apertura
di conversazione) e la diffusione della costruzione interrogativa τί κωλύει con infinitiva per
esprimere una richiesta fungono tuttavia da disambiguatori rendendo chiaro il valore illocutorio
delle parole di Moschione. Inoltre la presenza di alcuni intensificatori come gli avverbi temporali
νῦν ed ἤδη rendono minima l’attenuazione della forza dell’atto.
Quando le modalità di espressione degli atti linguistici di richiesta e di ordine rinvenuti nella
Samia vengono messe in relazione con i rapporti tra i personaggi il dato che emerge più
chiaramente è il fatto che le strategie di politeness in questa commedia vengono usate in modo
proprio (ossia non ironicamente o per scopi diversi da quello di salvaguardare la faccia del
destinatario) da personaggi di varia estrazione sociale sempre nei confronti di liberi. All’interno dei
rapporti tra i personaggi principali si notano variazioni anche notevoli nell’espressione di questi atti
che risultano in gran parte connessi con le traversie che essi conoscono nel corso della vicenda.
381
Cfr. supra, 133.
Ciò accade più volte ad esempio nei dialoghi platonici. Si pensi ad esempio a Charm. 155b ma soprattutto a Crat.
408d, in cui ad una domanda introdotta da τί σε κωλύει Socrate risponde prontamente: συχνὰ µέν µοι προστάττεις,
mostrando di aver compreso il valore dell’atto dell’interlocutore. Per κωλύω in atti di richiesta (anche se in costruzione
diversa) cfr. Epit. 227.
382
229
Ad esempio, nella relazione di vicinato e di amicizia tra Demea e Nicerato si osserva subito
al loro primo apparire (D2) una certa familiarità di modi, che li porta a raggiungere con facilità
l’accordo sul matrimonio tra i rispettivi figli383. A causa dello stato di grave mutilazione in cui ci
sono pervenuti i vv. 167-sgg. non possediamo se non in minimi resti il dialogo in cui Demea
chiedeva a Nicerato di anticipare al giorno stesso le nozze tra Moschione e Plangone (D4): dai
brandelli di testo rimastici è possibile desumere che ad una prima espressione della richiestaproposta Nicerato si opponeva ed ipotizzare che nelle sue insistenze Demea utilizzasse anche
l’argomento della reciprocità di favori384 prevista all’interno del rapporto che intercorre tra loro,
ossia una strategia di politeness positiva.
Le successive richieste svolte tra i due si collocano a molti versi di distanza da questi:
troviamo infatti ancora una richiesta di Demea a Nicerato in D11 al v. 518, quando entrambi
ritengono ormai palese la verità intorno al bambino, che erroneamente credono nato da una tresca
tra Moschione e Criside. Il primo chiede al secondo di cacciare via Criside, che ha ospitato in casa
propria, e lo fa combinando una strategia di politeness negativa che innalza la persona
dell’interlocutore (l’uso della parentetica ἱκετεύω accanto all’imperativo) con una successiva
strategia di segno opposto, consistente in una frase imperativa che invita il destinatario a
condividere con lui i sentimenti di rabbia e di sdegno per l’accaduto come un vero amico dovrebbe
fare (συναδικοῦ γνησίως ὡς ἂν φίλος). Nel momento in cui Demea ritiene perduta parte della
propria immagine sociale, cerca solidarietà e aiuto presso un amico muovendo da una posizione di
inferiorità ma tentando subito dopo di regolare il rapporto con questi attraverso il riferimento alle
prestazioni reciproche che la φιλία prevede.
Una nuova richiesta all’interno dell’interazione tra i due si ha in D12 al v. 547 ed è una
richiesta di ascolto che ancora una volta Demea rivolge a Nicerato: essa è temperata da una strategia
di politeness negativa che ridimensiona la portata dell’imposizione comportata dall’FTA (µικρόν,
introducente un verbo che poi non viene pronunciato a causa dell’allontanamento repentino di
Nicerato) ma viene probabilmente anche combinata con una sfumatura di protesta per la furia del
destinatario, comunicata dal vocativo ὦ τᾶν385. Si osserva chiaramente come dopo l’apprendimento
383
È chiara tuttavia la superiorità di Demea all’interno del rapporto, dovuta in gran parte alla sua condizione sociale
superiore a quella di Nicerato.
384
Al v. 183 si conserva secondo il testo di Sandbach il sostantivo χάρις mentre secondo quello di Lamagna, basato su
più recenti ispezioni del Bodmeriano e su una proposta di integrazione avanzata da Kamerbeek (apud Lamagna ad loc.),
la forma verbale χαρίσηι (da χαρίζοµαι, “fare cosa gradita, compiacere”).
385
Il valore del vocativo è in realtà piuttosto incerto: secondo G-S ad loc. con esso Demea esprimerebbe al vicino le
proprie rimostranze per il modo brusco in cui ha interrotto la conversazione e si è precipitato in casa (nel commento ad
Dysc. 247 G-S descrivono infatti il vocativo come avente “frequently … a shade of meaning that may be irony … ,
impatience, or remonstrance”). Tuttavia, Dickey 1996 insiste nel ritenerlo un “friendship term” notando come in diversi
autori il suo uso possa variare “from friendly to negative” (159). Non escluderei pertanto un suo possibile uso a scopo di
politeness in Menandro, anche perché lo scarso numero di occorrenze nei testi delle commedie pervenuteci (oltre a
quella presa in esame, Dysc. 247 e 359 e Mis. A82) non permette di escluderne la polivalenza.
230
della verità da parte di Demea la sua faccia, ferita da quello che sembrava essere avvenuto ai suoi
danni, riacquisti gradualmente la propria integrità (anche a causa della pressoché contemporanea
scoperta della verità da parte di Nicerato) e come questo cambiamento si colga nei modi in cui il
personaggio compie atti direttivi nei confronti dell’amico. Qualche verso più tardi, in D13 (v. 562),
egli si opporrà recisamente alla decisione comunicatagli dall’amico di regolare la situazione in casa
propria a costo di ammazzare Criside, chiedendogli di recedere dal proposito con la frase µηδαµῶς,
Νικήρατε. Dopo il recupero dell’immagine che credeva irrimediabilmente danneggiata, Demea fa in
modo di riacquisire la propria autorevolezza presso l’amico anche rivolgendogli le proprie richieste
in modo non temperato.
In seguito allo scontro con Nicerato (D14), che si mostra agguerrito e potrebbe fare del male
al bambino pur di vendicarsi della perdita dell’onore da parte di sua figlia (vv. 571-580), il recupero
della faccia da parte di Demea si può cogliere pienamente: il bambino, accettato come parte della
sua famiglia, è ormai in salvo (anche grazie alle resistenze da questi opposte alle richieste di farsi da
parte e di consegnare il piccolo postegli da Nicerato in modo diretto e privo di attenuazioni
rispettivamente ai vv. 571-573 e 578-579) e, mentre Nicerato rivolge contro la propria casa il
desiderio di vendetta per quanto accaduto, il vecchio può assumere nuovamente il ruolo che aveva
in precedenza, quello di amico di condizione superiore, che si rivolge al partner in difficoltà
attraverso ordini espressi in modo forte (come appunto l’ordine di fermarsi µένε δή del v. 582 e
quello di cessare di parlare πέπαυσο, al v. 612) ma anche attraverso atti come consigli e inviti, che
sono completamente a suo vantaggio386.
Questo rapporto rischia in D17 nuovamente di squilibrarsi in favore di Nicerato a causa dei
capricci di Moschione, ma dopo il ‘ravvedimento’ di quest’ultimo Demea non abbandona più le sue
posizioni e capisce che il comportamento più giusto da adottare è quello di celebrare al più presto le
nozze. Per questa ragione ingiunge con sicurezza a Nicerato di fare uscire la sposa (vv. 723 e 724) e
si adopera in seguito, impartendo ordini anche a Criside, agli schiavi e a Moschione, perché la
cerimonia venga completata.
Il finale della commedia vede dunque Demea riconquistare la propria immagine anche
attraverso il proferimento sicuro e non temperato di atti di comando, innalzandosi in modo
definitivo rispetto a Nicerato ma anche svincolandosi dal figlio: non a caso è affidata a lui l’ultima
parola anche nella conclusione della commedia, con la richiesta di applausi al pubblico e l’augurio
che la Vittoria accompagni sempre i cori del poeta387.
386
387
Cfr. infra, 235-236.
Sulla probabile identificazione dell’attore con il poeta cfr. G-S ad vv. 736-737 e Lamagna ad v. 737.
231
2.3.4.2 Atti di consiglio e invito
Le loro modalità di compimento sono le stesse ravvisate per quelli di richiesta e di ordine.
Anch’essi, inoltre, vengono espressi nella maggior parte dei casi in maniera chiara ed esplicita, di
solito attraverso imperative, infinitive rette da verbi di dovere come δεῖ o χρή, frasi all’indicativo
futuro introdotte da ὅπως.
Come già osservato a proposito del Dyscolos, l’espressione diretta del consiglio trova
spiegazione nel fatto di essere un atto compiuto a vantaggio dell’interlocutore anche se minacciante
la sua faccia negativa. Questo spiega perché esso possa trovarsi in questa forma anche nella
comunicazione tra uno schiavo e il suo padrone: è ciò che avviene in D1 ai vv. 63-65, quando
Parmenone, dopo aver confermato a Moschione la notizia del ritorno di Demea, consiglia al ragazzo
di affrontare immediatamente con il padre la questione del matrimonio (ἀλλ’ ὅπως ἔσει / ἀνδρεῖος
εὐθύς τ’ ἐµβαλεῖς περὶ τοῦ γάµου / λόγον). La costruzione usata nell’enunciato388 appare conferire
particolare forza all’atto389, testimoniando pertanto scarso rispetto, da parte del parlante, per le
esigenze di faccia negativa dell’interlocutore. Il fatto che l’azione così vivamente raccomandata
costituisca la soluzione per quello che rappresenta il problema più impellente del giovane390, e che
questa costruzione sia spesso impiegata nel dramma per compiere atti direttivi anche in scambi
verbali cortesi o addirittura affettuosi391 rende tuttavia altrettanto chiara l’attenzione del parlante
verso gli interessi dell’interlocutore.
Tra gli atti non temperati classificabili più propriamente come inviti c’è ad esempio quello
pronunciato in D9 al v. 418 da Nicerato in favore di Criside. Esso si esprime mediante una frase
imperativa (πρὸς τὴν γυναῖκα δεῦρ’ ἀκολούθει τὴν ἐµήν).
In alcuni casi l’attenzione all’interlocutore può essere resa esplicita, mitigando quindi il
carattere di FTA dell’atto per l’interlocutore attraverso accorgimenti di politeness positiva. Il loro
388
Probabilmente lo schiavo si preparava ad utilizzarla nuovamente nel suo turno seguente (vv. 67-69), dato che,
secondo B, anch’esso presenta un ὅπως, dopo il quale, secondo diversi studiosi (in primo luogo Sandbach), si aveva
interruzione di enunciato (aposiopesi). Non sono mancate comunque proposte di modifica del testo tràdito (per le quali
cfr. Lamagna, ad v. 69).
389
A proposito di ὅπως con indicativo futuro in dipendenza di un verbum curandi sottinteso KG II 376 osservano che è
una costruzione impiegata “zum Ausdrucke einer nachdrücklichen Aufforderung oder Warnung”. Secondo G-S ad v. 63
essa è equivalente ad un imperativo (dunque, a quanto pare, ad una forma non mitigata di atto direttivo).
390
Sarà lo stesso Parmenone, rimproverato da Criside pochi versi più tardi per il vigore con cui si esprime (v. 69), a
rendere esplicita la propria intenzione di condurre a soluzione la vicenda realizzando il bene del padroncino (vv. 71-75).
391
Si pensi ad esempio ad Aristoph. Pax 77, Pl. 326. In Eur. Cycl. 595 la frase ἀλλ’ ὅπως ἀνὴρ ἔσηι è presente in una
calorosa esortazione di Odisseo. In Men. Georg. 80-81 la costruzione viene utilizzata in una massima pronunciata a
conclusione di ῥῆσις dallo schiavo Davo. Volutamente scortese sembra invece l’impiego della costruzione
nell’avvertimento che Onesimo rivolge a Smicrine in Epit. 1110-1111 (αὖθις δ’ ὅπως µὴ λήψοµαί σε, Σµικρίνη, /
προπετῆ λέγω σοι), ma, dato che esso prelude alla rivelazione della verità al padre di Panfile, risulta assimilabile a mio
parere ad un bonario e scherzoso rimbrotto. Non va ovviamente dimenticato, come notano G-S ad loc., che la
costruzione consente di sostituire facilmente l’imperativo del verbo essere, dato che ἴσθι è in commedia soltanto
l’imperativo di εἰδέναι), ma questo non compromette il valore della mia osservazione, dato che l’imperativo è
ugualmente diretto.
232
impiego si può osservare rispettivamente in D9 (v. 419) e in D15 (v. 677). In entrambi, infatti,
l’invito ad avere coraggio (θάρρει), è accompagnato dall’interrogativa τί βούλει; intesa
rispettivamente come esortazione all’interlocutore ad accontentarsi di quello che si può fare in una
situazione difficile e ad essere felice di una serie di circostanze che gli sono favorevoli392: con essa
il parlante dunque fa mostra di compiere il proprio atto in piena consapevolezza delle esigenze e
della situazione dell’interlocutore, anzi di proporgli il proprio parere in nome di queste. A proposito
dell’ultimo esempio, è tuttavia interessante notare come i risarcimenti di politeness impiegati dallo
schiavo non abbiano successo, dato che Moschione si sentirà minacciato riguardo alla faccia
negativa dai suoi consigli e gli rimprovererà appunto il suo νουθετεῖν (vv. 677-678).
Le forme di risarcimento di segno negativo osservate a proposito di questi atti risultano
simili a quelle trovate per gli atti di richiesta e di ordine, essendo costituite ad esempio dall’uso di
tempi e modi verbali come il congiuntivo aoristo dopo la negazione µή393 (v. 721) o come
l’imperfetto dei verbi di dovere (vv. 498-499 in cui l’atto consigliato è retto dall’imperfetto ἐχρῆν),
i quali rendono meno diretta (e dunque meno minacciosa per la faccia del destinatario)
l’imposizione provocata dall’FTA, talaltra da avverbi o pronomi neutri che ridimensionano la
portata della stessa (si pensi al µικρά che accompagna l’invito-proposta di Demea a Nicerato in D14
ai vv. 587-588394).
Accanto alle strategie appena esaminate sono testimoniate nella commedia anche quelle di
off recordness, presenti tuttavia sporadicamente. A ben vedere, la scelta dell’espressione indiretta
viene sempre compiuta nell’atto di insistenza di un consiglio o comunque qualora l’atto di consiglio
implichi piuttosto chiaramente un disaccordo del parlante con l’interlocutore: è il caso dei vv. 137138 di D3, in cui Moschione insiste nello sconsigliare al padre di cacciare Criside di casa
manifestando il proprio dissenso nei confronti dell’opinione, da questi sostenuta, che sia
impensabile accogliere in casa un figlio illegittimo, e lo fa attraverso una domanda ‘retorica’ di
carattere generale sul significato proprio dei termini νόθος e γνήσιος395.
392
Non sono d’accordo con l’interpretazione della frase data da G-S ad vv. 676-677, secondo la quale si tratterebbe di
un’allarmata domanda di Parmenone a Moschione su quali siano le sue intenzioni quando il giovane avanza minaccioso
contro di lui: nel senso di “che altro vuoi, che vuoi di più” la domanda ricorre infatti, come nel passo presente, in diversi
passi di altri autori (si pensi ad esempio a Demosth. 39,35, Eub. fr. 106 K-A, Antiph. fr. 108 K-A) in unione ad elenchi
di oggetti o situazioni che giustificano un certo atto linguistico (affermazione di disaccordo, risposta, ecc.) per indicare
che essi sono condizione sufficiente perché l’interlocutore accolga l’opinione del parlante accantonando la propria.
393
Cfr. supra, 209-210.
394
La forma del neutro plurale con valore avverbiale è all’epoca di Menandro piuttosto inconsueta, ma cfr. G-S ad v.
588 per la citazione di altri passi (di autori del IV e III secolo) che usano allo stesso modo (σ)µικρά.
395
Parlerò di questo atto infra, 355-356.
233
2.3.4.3 Atti di impegno e promessa
Nella Samia avviene raramente che gli atti di impegno siano puri. Di solito vengono prodotti
in occasione del compimento di determinate mosse conversazionali costituenti atti linguistici
indipendenti, come l’accettazione di un ordine, di una richiesta o di una proposta, la risposta ad una
domanda, la chiusura di argomento o di conversazione, ecc. Possono essere espressi in vario modo,
anche a seconda del momento conversazionale in cui ricorrono. La forma che più comunemente
assumono è quella di frasi affermative con verbo all’indicativo presente o futuro e alla prima
persona singolare. Soprattutto negli impegni costituenti risposte si trova spesso l’ellissi del verbo,
che viene sottinteso e risulta ricavabile dai turni precedenti (quelli di domanda).
Un impegno espresso in questo modo è quello di Moschione in D1 riguardo al parlare a suo
padre del matrimonio con Plangone (πάντα ποιήσω, v. 76).
Piuttosto di rado si assiste alla mitigazione di questi atti. Si trovano invece più volte
elementi di intensificazione, quali ad esempio avverbi di tempo (εὐθύς o ἤδη ad esempio
nell’impegno di Demea con Moschione ai vv. 154-157 di D3), verbi o sostantivi indicanti
particolare sollecitudine da parte del parlante riguardo all’azione che si impegna e si prepara a
compiere (il verbo τρέχω al posto di un verbo di moto più neutro come ἔρχοµαι o πορεύοµαι nel già
citato impegno da Demea ai vv. 154-157).
Talvolta, le strategie di rafforzamento si cumulano in uno stesso atto: ai già citati vv. 154157, ad esempio, Demea, oltre ad annunciare di voler raggiungere immediatamente il vicino per
parlargli della questione, aggiunge al v. 156 che da parte loro tutto sarà fatto (τὰ παρ’ ἡµῶν γὰρ
παρέσται396). La seconda parte dell’impegno, pur espressa in un’affermativa avente come soggetto i
preparativi e non più il parlante, costituisce un rafforzamento dell’impegno in quanto il vecchio
presenta al figlio come sicuro quello che prevede sia il risultato del suo impegno, ossia la
realizzazione di tutto quanto è necessario alla celebrazione delle nozze.
Un atto di impegno può essere compiuto reciprocamente da due parlanti, il che si registra ad
esempio tra Demea e Nicerato in D14 (ai vv. 605-614), che li ha visti in precedenza scontrarsi
anche fisicamente sulla questione del bambino. Gli impegni pronunciati dai due vecchi l’uno nei
confronti dell’altro (ποήσω pronunciato da Nicerato, τὰ παρ’ ἐµοὶ δ’ ἐγώ da Demea al v. 613)
396
A causa di una lacuna materiale che investe le sezioni finali dei vv. 156-162 non è chiaro se la frase citata si
concludesse con il verbo oppure continuasse. Sandbach, che propone, pur senza inserirla nel testo, l’integrazione ταῦθ’
ἃ σὺ λέγεις, ritiene che Demea assicurasse a Moschione la preparazione di quanto da lui evidentemente richiesto nel
testo precedente al v. 145, quasi completamente perduto; simile è l’integrazione di Austin ταῦθ’ ἅ µοι λέγεις. Jacques
segna invece cambio di battuta dopo παρέσται e fa pronunciare a Moschione la frase di approvazione ταῦτά γ’ εὖ
λέγεις. Personalmente, sono favorevole a non porre cambio di locutore prima del v. 157 (discuto il problema supra, 141
n. 193).
234
suggellano infatti il consenso raggiunto tra i due sul da farsi, indicando l’avvenuta composizione di
ogni divergenza.
2.3.4.4 Atti di offerta
La sola offerta sicura in questa commedia è a mio parere quella presente in D1 al v. 79 (τί δὴ
γὰρ οὔ;)397: con essa Criside si mostra disposta a portare avanti, nei confronti di Demea, la finzione
per cui il bambino sarebbe figlio suo e lo fa dapprima inserendosi in una coppia domanda/risposta
aperta da Parmenone398 nei confronti di Moschione e dopo, in seguito all’obiezione di Moschione
secondo la quale in questo modo si attirerà l’ira del vecchio, rispondendo che la rabbia sarà presto
cancellata dal sentimento che Demea prova verso di lei ed aggiungendo di essere disposta a
sopportare qualunque pena pur di non vedere il bambino affidato ad una nutrice esterna alla casa
paterna. In questo caso l’atto viene compiuto più di una volta in almeno due turni di
conversazione399 con sempre maggiore forza400.
2.3.4.5 Atti di proposta
Le modalità attraverso le quali le proposte presenti nella Samia vengono compiute sono le
seguenti: 1) frasi indipendenti con congiuntivo esortativo alla prima persona plurale, rinvenute ad
esempio in D2 ai vv. 112-113, in cui Demea propone a Nicerato di lasciar perdere l’argomento di
conversazione che stanno trattando (καὶ ταῦτα µὲν / ἑτέροις µέλειν ἐῶµεν) e al v. 116, in cui uno dei
due vecchi401 espone la propria opinione sul matrimonio tra Moschione e Plangone con la frase
ἀγαθῆι τύχηι πράττωµεν; 2) frasi imperative con le quali il parlante come quella presente in D14 ai
vv. 587-588, in cui Demea invita Nicerato (con l’imperativa περιπάτησον … µετ’ ἐµοῦ) a fare con
lui una breve passeggiata per chiarire la verità su quanto accaduto tra Plangone e Moschione402.
Va tuttavia precisato che esistono anche modi indiretti e graduali di compiere un atto di
proposta. Ad esempio nel primo dialogo svolto in scena tra Demea e Nicerato, dopo la proposta di
397
Cfr. supra, 148 n. 206.
L’attribuzione della battuta dei vv. 77-79 a Parmenone è sostenuta da Lamagna ad loc. con svariate e a mio parere
convincenti argomentazioni.
399
Il fatto che il testo di B si interrompa con il v. 85, nel quale Criside sta appunto illustrando che cosa sia disposta a
fare per il bene del piccolo, non ci rende sicuri sul numero di turni in cui ella effettuava l’atto.
400
L’analisi dell’atto è contenuta infra, 296.
401
Secondo Sandbach e Lamagna, che seguono una proposta di Blume e di Kassel (cfr. in particolare Lamagna ad v.
115), il parlante è Nicerato, secondo altri, come Jacques, si tratta invece di Demea.
402
Quest’atto è comunque interpretabile anche come invito, dato che serve a placare l’ira dell’interlocutore prima
ancora che a ristabilire la concordia tra i due padri di famiglia.
398
235
chiusura di argomento dei vv. 112-113 appena esaminata403, si delinea quella di Demea di
concludere l’accordo per il matrimonio di Moschione e Plangone attraverso la serie di domande,
risposte e dichiarazioni di consenso innescata dal vecchio ai vv. 113-114 (con l’interrogativa ὑπὲρ
ὧν δ’ ἐλέγοµεν / τί δοκεῖ ποεῖν σοι;).
Similmente, nei versi appena citati di D14, è lo stesso Demea a voler discutere con Nicerato
su quanto è accaduto tra Moschione e Plangone, e lo fa attraverso una serie di atti di varia natura
(come consigli, risposte, domande) che insieme concorrono a costituire una proposta (vv. 584-585).
L’individuazione dell’atto può perciò non essere sempre immediata. Non è comunque
casuale che esso venga compiuto più di una volta nell’interazione tra Demea e Nicerato,
protagonisti di un rapporto paritario nel quale nessuno dei due può imporre alcunché all’altro (in
particolare su temi che riguardano il futuro della famiglia), e forse neanche che sia gestito con un
certo tatto dal primo, che si cura sempre (pur tradendo la seconda volta una certa ironia) di dare
all’interlocutore la sensazione di tenere in un certo conto la sua persona.
È possibile che si presentasse in forma di proposta anche l’atto con il quale Demea, in D4 ai
vv. 170-175 (di cui ci sono pervenuti resti soltanto in parte ricostruibili), chiedeva a Nicerato di
celebrare le nozze il giorno stesso, anche se pare che esso si trasformasse, in seguito ad un primo
rifiuto di quest’ultimo (v. 176), in una esplicita richiesta.
2.3.4.6 Atti di rimprovero
Le loro modalità di espressione comprendono: 1) frasi interrogative in cui si chiede il perché
dell’azione sanzionata o se l’azione sanzionata stia avvenendo (ad es. ἀπόπληχθ’, ἕστηκας
ἐµβλέπων ἐµοί; in D2 al v. 105), oppure se l’interlocutore non stia facendo quello che sarebbe
naturale facesse (come la domanda-rimprovero οὔκουν ἀκούεις;, occorrente in D1 al v. 62 e in D8
al v. 369 prima della ripetizione di un atto già compiuto e di fronte al quale l’interlocutore non ha
reagito nel modo atteso), domande riguardanti le parole dell’interlocutore o le azioni cui esse si
riferiscono (ad es. quella di forma ICTS τί “λανθάνειν”; in D7 al v. 321 o la domanda τίς ὁ
φλύαρος;, pronunciata da Demea in C13 al v. 441 e in D11 al v. 456), ecc.; 2) frasi affermative in
cui si descrive l’azione dell’interlocutore oggetto del biasimo (ad es. τρέµεις, ἀνδρόγυνε in D1 al v.
69), oppure se ne descrivono gli effetti negativi nel presente o nel futuro (παρατενεῖς, γύναι,
presente in C12 al v. 421); 3) frasi affermative in cui il parlante esprime in modo esplicito
disapprovazione delle azioni dell’interlocutore (ad es. οὐκ ἀξιῶ, / Μοσχίων, che in D16 ai vv. 708709 segue l’illustrazione dei comportamenti del destinatario che il parlante ritiene ingiusti); 4) frasi
403
Si può dire anzi che il cambiamento di argomento di conversazione costituisca il primo momento dell’atto di
proposta successivo.
236
affermative in cui si rivolge una critica alla persona dell’interlocutore (ad es. ἀνδράποδον εἶ
probabilmente presente in D11 al v. 506404); 5) esclamazioni (come ὦ Ζεῦ, τοῦ θράσους in D11 al
v. 487).
Le forme di espressione più comuni per gli atti di questo tipo sono costituite, al pari di
quanto avviene nel Dyscolos, da frasi interrogative ed affermative. Le esclamazioni sono meno
diffuse.
Le frasi interrogative sembrano tuttavia mantenere talvolta almeno parte del loro valore
illocutorio proprio, come avviene, oltre che nella citata apertura A1405, anche, ad esempio nella
domanda che Moschione pronuncia all’indirizzo del padre al v. 452 (τί ποιεῖς ταῦτα;), che, dopo il
completamento di una coppia-inserto, riceve in replica il rifiuto di rispondere. Il testo fornisce chiari
segnali del fatto che le parole di Moschione sono state intese dal padre correttamente come
l’espressione di una critica: commentandole tra sé e sé il vecchio ne trae la conclusione che il figlio
sia stato mandato a trattare con lui dalla stessa donna (πρεσβεύεταί τις πρός µε al v. 454), che stia
intervenendo in sua difesa, ossia contro la decisione del padre (τί γὰρ προσέρχεθ’ ὑπὲρ ἐκείνης; al
v. 457)406.
A volte, pur essendo prive di elementi disambiguanti come gli insulti, le domanderimprovero rivelano invece il loro valore illocutorio immediatamente, risultando anche piuttosto
forti. È quanto avviene ad esempio in D8 al v. 384: all’interrogativa τί µοι διαλέγει; rivolta da
Demea al cuoco che ha appena cercato di intromettersi nel dialogo tra il vecchio e Criside, il
destinatario replica con un invito a “non mordere” (µὴ δάκηις allo stesso verso)407.
La comparazione tra gli atti di rimprovero che si presentano in forme differenti non sembra
rivelare una maggiore forza degli uni o degli altri. A dare o togliere forza ad un atto di questo tipo
sembrano essere dunque altri elementi, come l’aggiunta di vocativi offensivi e di giudizi di valore
espliciti su un atto o su una persona o di particelle e avverbi rafforzativi, che ne accrescono il potere
minaccioso, oppure l’impiego di termini, particelle o costruzioni mitiganti, i quali al contrario lo
riducono.
Nella Samia, comunque, la massima parte degli atti di rimprovero è espressa in modo diretto
e non risarcito. Le strategie di politeness impiegate sono soprattutto quelle dell’off recordness e
della politeness negativa, ma non mancano esempi di accorgimenti di segno positivo. Pressoché
costantemente, le strategie di off recordness sono comunque tali soltanto sul piano formale, in
404
Sandbach, seguito dalla maggioranza degli editori, integra il verso in questo modo, ma accanto a questo supplemento
ne sono stati proposti diversi (cfr. Lamagna in apparato e ad loc.).
405
Ho esaminato la domanda-rimprovero di Criside che realizza l’apertura supra, 130.
406
Sicuramente valore di critica ha la frase τί ταῦτα ποιεῖς in Demosth. 55,5.
407
Probabilmente lo scambio di battute indicava che la domanda-rimprovero dovesse essere pronunciata tenendo
determinati atteggiamenti sovrasegmentali (sulle didascalie interne del teatro antico cfr. supra, 61).
237
quanto formulate in contesti che le rendono immediatamente comprensibili. Ad esempio, nella fase
iniziale di D11 Moschione rivolge a suo padre diverse critiche mitigate che sono funzionali alla
richiesta di riammettere Criside in casa, le quali, per il loro ordine e gli atti linguistici cui si
accompagnano (ad esempio rifiuti di accogliere richieste, domande ICTS aventi il valore di richieste
di chiarimento, ecc.), risultano tuttavia immediatamente chiare. Tra queste si hanno interrogative
come quella iniziale, già citata, o quella dei vv. 458-459, in cui Moschione chiede al padre che cosa
si aspetta che dicano gli amici non appena saranno informati dell’accaduto: essa, che suona τί τ]οὺς
φίλους / προσδοκᾶις ἐρεῖν πυθοµένους;, contiene una doppia mitigazione in quanto si presenta in
forma di domanda e allontana l’atto dalla persona dell’emittente, spostando l’attenzione sugli amici
(e sulle critiche che potranno muovere sul comportamento di Demea) e sul padre. Se l’off
recordness è soltanto formale, sicuramente l’atto presenta risarcimenti di politeness negativa.
Un altro esempio di rimprovero espresso in forma indiretta ma disambiguata è ancora una
volta indirizzato da Moschione a Demea. Questa volta ciò avviene nel finale della commedia, ossia
in D17 ai vv. 724-725: dopo l’abbandono della spada da parte di Moschione e l’assunzione da parte
del padre di un atteggiamento deciso che lo porta ad ordinare a Nicerato di andare a prendere la
sposa, il giovane, rimasto solo col padre, critica il precedente atteggiamento tollerante di Demea
nella battuta εἰ τοῦτ’ ἐποίεις εὐθύς, οὐκ ἂν πράγµατα / εἶχες, ὦ πάτερ, φιλοσοφῶν ἄρτι. L’atto di
critica avviene attraverso la menzione del comportamento che l’interlocutore avrebbe dovuto tenere
in un certo momento al posto di quello che ha invece scelto di adottare. Esso finisce per essere
soltanto formalmente off record soprattutto per il riferimento al discorso tenuto precedentemente da
Demea con il verbo φιλοσοφέω (usato in senso negativo408), che funge da disambiguatore. È
comunque notevole in esso l’assenza di riferimenti alla persona del parlante, che si eclissa e parla di
un momento che lo ha visto protagonista (se Demea ha pronunciato il discorso lo ha fatto per
convincere il figlio a riappacificarsi con lui) come di qualcosa che non l’abbia riguardato409.
Strategie di politeness positiva caratterizzano il discorso di Demea a Moschione in D16 (vv.
694-712). Pur avendo nel suo insieme un valore di critica e di richiesta, la ῥῆσις del vecchio
comincia con una manifestazione di stima nei confronti del figlio (ὅτι µὲν ὀργίζει, φιλῶ σε al v.
695), con la quale questi mostra di comprenderne e condividerne le motivazioni, assumendo su di sé
la colpa di quanto accaduto tra loro. Partendo da un’espressione di accordo, realizza la diffusa
strategia di politeness positiva che attenua il potere minaccioso di FTA come il disaccordo o la
critica per la faccia dell’interlocutore410.
408
L’osservazione secondo la quale il verbo sarebbe utilizzato in senso negativo si deve a Blume 1974, 280 (e nota 58)
e viene ripresa da Lamagna ad v. 725.
409
Cfr. anche infra, 403.
410
Per la strategia, cfr. supra, 180.
238
Resta invece a mio parere incerto se enunciati quali παρατενεῖς (pronunciato da Nicerato in
C12 al v. 421 nei confronti della moglie e in D12 al v. 544) e ἀποκτενεῖς (detto da Demea al figlio
in D11 al v. 528), indicanti le conseguenze negative di un’azione che l’interlocutore sta compiendo
e dunque aventi al tempo stesso il valore illocutorio di rimprovero e di richiesta di abbandonare il
comportamento biasimato, debbano ad intenzioni di politeness le caratteristiche dalle quali sono
accomunati, ossia il fatto di essere al futuro (il che avrebbe l’effetto di allontanare nel tempo la
negatività dell’atto condannato e dunque di potenziare il valore illocutorio direttivo a svantaggio di
quello di critica) e di lasciare sottinteso l’oggetto, rappresentato dalla persona del parlante (il che
eviterebbe di porre in aperto contrasto quest’ultima con la persona dell’interlocutore, soggetto della
frase). Nei passi in cui ricorrono, questi enunciati risultano immediatamente chiari, per cui, data la
loro diffusione, se ne può concludere che se le caratteristiche discusse sono nate come accorgimenti
di politeness negativa, sembrano tuttavia in questa funzione essere andate incontro ad un processo
di convenzionalizzazione che ha sottratto loro efficacia.
Nella Samia, i rimproveri riguardano quasi tutti i tipi di relazione, comparendo anche nella
comunicazione tra schiavi e padroni da parte dei primi. Ciò avviene in particolare tra Parmenone e
Moschione in D1 (al v. 69) e D15 (ai vv. 670-672, 690). Essi, talvolta diretti e privi di mitigazioni
(si pensi al primo e al terzo degli esempi) non designano tuttavia da parte di Parmenone il tentativo
di assumere una posizione di superiorità: il fatto che sono sempre pronunciati in unione
all’espressione di consigli o di opinioni a vantaggio del padroncino testimonia infatti piuttosto un
atteggiamento franco e premuroso dello schiavo nei suoi riguardi.
239
3. COMPORTAMENTI INTERAZIONALI DEI PERSONAGGI
I risultati ottenuti nei capitoli precedenti consentono a mio parere di delineare un quadro dei
comportamenti interattivi dei personaggi principali, esaminando le forme di partecipazione al
dialogo che esprimono, gli atti linguistici che pronunciano in ogni occasione di interazione e le
modalità in cui questi ultimi si presentano, al fine di approfondire la nostra conoscenza delle
tecniche impiegate dal poeta comico per caratterizzarli attraverso il linguaggio aggiungendo nuove
informazioni a quelle acquisite dai numerosi studi già effettuati su questo argomento ed inserendo
queste ultime in un’ottica pragmatica, la quale li vede non come entità statiche ma nei delicati
equilibri interazionali e relazionali che stabiliscono1.
3.1 Dyscolos
3.1.1 Cnemone
Numerosi studiosi del Dyscolos hanno evidenziato le notevoli difficoltà che la
rappresentazione di Cnemone poneva da un punto di vista drammaturgico: come ha osservato in
particolare Armin Schäfer, egli, “in größter Abgeschiedenheit lebend und auf reine Passivität
gestellt” 2, poteva “zum Handeln nur provoziert werden, … immer in Reaktion, nicht in Aktion
dargestellt werden” 3, rendendo perciò necessario che l’impulso all’azione provenisse da fattori a lui
esterni. Analoghi problemi incontrava a mio parere la costruzione degli scambi verbali che lo
vedessero coinvolto. Raffigurare il personaggio nel dialogo significava infatti per il poeta comico
accettare la sfida di presentarlo al pubblico esattamente mentre egli nella finzione drammatica
esprime agli altri la propria riluttanza ad interagire con loro, servendosi della parola per bloccare
ogni possibilità di comunicazione. Menandro riesce a risolvere queste difficoltà, e al contempo
consente al personaggio di sprigionare tutta la sua forza comica, attribuendogli uno stile
conversazionale che senza apparire frutto di artificio sembra invece nascere dall’intenzione, in sé
paradossale ma caratteristica del tipo del misantropo, di ‘comunicare’ il proprio rifiuto di
1
Sulla caratterizzazione linguistica dei singoli personaggi nelle commedie menandree cfr. Zini 1938, Sandbach 1970,
111-143, Arnott 1964, 110-123, Arnott 1968, 1-17, Arnott 1970, 55-57, Feneron 1974, 81-95 e 1975, Del Corno 1975a,
13-48, Katsouris 1975a, soprattutto 101-126, Bozanic 1977, Brenk 1987, 31-66, Casanova 2007, 1-16.
2
Schäfer 1965, 80.
3
Schäfer 1965, 75. Simili osservazioni sono contenute in Arnott 1968, 12, il quale afferma: “Knemon’s role is basically
one of reaction to events, not of initiating action”. Anche Paduano, XX, osserva: “… la mania di Cnemone non ha forza
estroversa; come è stato notato, esplode soltanto in risposta a quelle che vengono considerate aggressioni altrui e di per
sé si limita a coltivare con ostinazione patetica l’ideale della solitudine”.
240
comunicare4. Il comportamento dialogico di Cnemone presenta particolarità pragmatiche che si
rivelano determinanti per lo sviluppo di un’interazione e al tempo stesso, grazie alla loro regolarità,
forniscono interessanti informazioni sul suo modo di essere e sul difficile rapporto che ha con il
mondo esterno.
Nelle aperture di conversazione, il personaggio si caratterizza per il fatto di non rivolgere
mai per primo la parola a nessuno, esprimendo in tal modo il proprio rifiuto degli altri. Come ho già
messo in evidenza, di tale costume viene fatta esplicita menzione dal dio Pan nel prologo della
commedia (v. 10 del passo aI), attraverso le cui parole a mio parere il drammaturgo intende invitare
implicitamente il pubblico a prestare particolare attenzione agli atteggiamenti dialogici del vecchio,
dato che saranno soprattutto questi a qualificarlo5. Nel corso dell’opera Cnemone si manterrà fedele
all’abitudine di non aprire mai un confronto verbale con estranei fino al momento della caduta nel
pozzo. Ognuno dei dialoghi di cui è protagonista, siano essi rappresentati sulla scena oppure riferiti
da un personaggio-narratore, lo vede intervenire soltanto in replica a tentativi di avvicinamento da
parte di altri. Particolarmente interessante risulta a tal proposito il passo che rappresenta il primo
incontro del vecchio con Sostrato (d3). Accortosi della presenza di un estraneo nei pressi della
propria porta, Cnemone esprime fastidio senza rivolgersi direttamente al giovane sconosciuto ma
urlando ad alta voce che “non è possibile raggiungere la solitudine da nessuna parte neanche se ci si
volesse impiccare” (vv. 169-170). Come si nota, il vecchio evita di indirizzarsi in modo diretto al
giovane pur intendendo criticare apertamente una sua azione6. Soltanto dopo che Sostrato si è
deciso ad aprire lo scambio rivolgendoglisi7, il vecchio reagisce nei modi cui è aduso.
Allo stesso modo, allorché nel III atto il vecchio si accorge dell’arrivo dei pellegrini alla
grotta di Pan (ai vv. 431-sgg.), eviterà di aggredirli pur mostrandosi disgustato dai loro modi
rumorosi e si limiterà a pronunciare contro di loro delle maledizioni ‘a parte’ mentre essi
chiacchierano (v. 432). È lo stesso Cnemone, infine, a ricordare questa sua abitudine nel monologo
4
Sulla paradossalità di questo comportamento mi soffermerò infra, 298-313.
Görler 1963, 277, nota che l’ampia descrizione riservata all’ἀπροσηγορία di Cnemone “zeigt, daß Menander dieser
Eigenschaft besonderes Gewicht beimessen wollte”.
6
Handley ad vv.169-sgg. commenta efficacemente: “Knemon speaks at Sostratos rather than to him”. Blundell 1980
trova il fatto che “alternate asides” (24) dei due personaggi precedano l’inizio del dialogo una scelta “unusually
elaborate, … in keeping with Sostratos’ fright and Knemon’s extreme recluctance to converse with people” (46).
7
Ciò accade secondo me nella seconda frase del v. 171. Il testo dei vv. 168-171 è discusso: al v. 168 B ha infatti la
forma errata τυπησεισ, che Sandbach e la maggioranza degli editori correggono (a mio parere giustamente) in τυπτήσει,
in modo da avere il futuro del verbo τύπτω alla III persona singolare: è infatti improbabile che Sostrato domandi a
Cnemone, il quale lo ha appena visto, “Dunque mi picchierai proprio?”, come confermato tra l’altro dalle parole
pronunciate dal vecchio immediatamente dopo (vv. 169-170), in cui niente lascia pensare che gli sia stata appena rivolta
la parola da uno sconosciuto. A differenza di Sandbach, invece, ed in accordo con Paduano e Ferrari, al v. 171 non
ritengo necessaria la correzione, proposta da van Groningen (apud Sandbach in apparato), della forma χαλεπαινει di B
in χαλεπαίνει<ς>, poiché mi sembra del tutto verosimile che Sostrato si chieda se il vecchio continui a lamentarsi della
sua presenza in quel luogo, o lo constati, come ritenuto da Jacques.
5
241
del IV atto (d19), allorché osserva che Gorgia avrebbe potuto decidere di non aiutare τὸν … οὐ
προσειπόντ’(α) (vv. 724-726).
Coerente con la scelta di evitare ogni occasione di scambio con estranei è l’impiego che il
personaggio fa dei vocativi, i quali vengono da lui ampiamente utilizzati non già come appelli
finalizzati a prendere contatto con il destinatario ma, al contrario, col valore di allocuzioni offensive
volte a scoraggiare l’interlocutore8. I soli appelli che pronuncia in scena prima dell’incidente, ai vv.
427-429, 453-455, 502, sono riferiti alla schiava Simiche (alla quale si rivolge con il ‘freddo’ γραῦ)
e si accompagnano a frasi imperative dopo le quali egli attende non già una replica verbale ma
l’esecuzione dell’ordine in esse comunicato9. Nei primi due passi il comando viene espresso sulla
porta di casa attraverso poche parole dirette alla schiava che si trova all’interno, un modo che,
secondo Netta Zagagi, si addice perfettamente al carattere di Cnemone, il quale addirittura in queste
occasioni “shrinks from all avoidable contacts with others”10. Tale atteggiamento si accorda con
quanto si può ricavare su Cnemone dalle parole della figlia nel primo atto (vv. 193-194) e da quelle
di Gorgia nel secondo (vv. 334-335): il vecchio rivolge la parola esclusivamente ai membri del
proprio oikos, ossia alla fanciulla, che vuole con sé durante il lavoro nei campi, e alla schiava al fine
di impartirle degli ordini. In tali casi egli mostra un’assoluta preferenza per i modi di espressione
bald on record, pronunciando nella quasi totalità dei casi frasi imperative esplicite non temperate
attraverso strategie di politeness: ciò è dovuto al disinteresse del vecchio per la faccia altrui nonché
forse ad un certo disprezzo per le convenzioni sociali in quanto modi di praticare con gli altri.
Questa caratteristica del comportamento conversazionale di Cnemone non si modifica se
non parzialmente e momentaneamente dopo la caduta nel pozzo. Nonostante infatti il vecchio
convochi presso di sé tutti i familiari e si rivolga loro esplicitamente in d19 (v. 709), lo fa soltanto
per tenere loro un discorso da lui inteso come unico nonché conchiuso in se stesso e non iniziale di
interazione. Nel corso del monologo, i successivi vocativi rivolti a Gorgia sono allocuzioni con cui
il vecchio richiede la sua attenzione in momenti che ritiene importanti, mentre in seguito ad esso
indirizzerà al giovane un’allocuzione più brusca in reazione ad un suo tentativo di coinvolgerlo in
un’attività (rispettivamente µειράκιον, v. 729, παῖ, v. 741 e οὗτος, v. 750). Le consuete funzioni
hanno invece gli altri vocativi pronunciati in questi versi, da quelli indirizzati alla figlia
8
Cfr. supra, 77.
Una situazione simile è ai vv. 588-sgg.: anche se in questo caso Cnemone non usa appelli, egli corre fuori di casa per
ordinare a Simiche di rientrare, non al fine di aprire con lei un’interazione.
10
Zagagi 2004, 106. La fondatezza di questa osservazione viene efficacemente dimostrata dalla studiosa (105-106)
attraverso il confronto dei passi del Dyscolos considerati con un analogo comando comunicato dal vecchio
dell’Aulularia Euclione alla propria serva Stafila (vv. 90-100): poiché la caratteristica fondamentale del personaggio
della commedia latina è l’avarizia piuttosto che la misantropia, egli, a differenza di Cnemone, non ha difficoltà ad
ammonire la serva riguardo ai pericoli che possono provenire dall’esterno in un dialogo faccia a faccia che si protrae
piuttosto a lungo e al quale prende parte anche Stafila.
9
242
rispettivamente ai vv. 700 e 740, per introdurre dapprima una richiesta e in seguito un ordine11,
all’allocuzione di insulto a Sostrato scorto a stazionare lì vicino (ἄθ̣λ̣ι̣[ε, v. 702).
La forza caratterizzante posseduta dall’abitudine appena illustrata viene confermata dal
finale della commedia, in cui il δύσκολος compare come vittima delle beffe di Geta e Sicone (nei
passi d25, d26 e d27). Più volte accade che uno dei due, bussando con violenza alla porta di casa di
Cnemone fintamente rivolto agli schiavi di casa (v. 921) o semplicemente passando dinanzi al
vecchio disteso (v. 927), provochi da parte sua interventi che, dato lo stato di prostrazione fisica in
cui si trova, possono essere esclusivamente di natura verbale e non comprendere le percosse con cui
egli è solito mandar via gli importuni. In tal modo i due ottengono che egli si rivolga loro per primo
ed ‘apra’ suo malgrado lo scambio verbale, costringendolo così a modificare questo atteggiamento.
Se il comportamento adottato da Cnemone ad inizio di conversazione costituisce un
accorgimento ad un tempo facile ed efficace per raffigurare la sua resistenza al contatto umano, più
arduo risulta far sì che questa si esplichi nel successivo corso di uno scambio verbale: a tale scopo
occorre infatti che il personaggio cerchi di sottrarsi al dialogo senza riuscirvi, ossia che ne determini
lo sviluppo contrariamente alle sue intenzioni. Al poeta comico si è reso perciò necessario
selezionare e disporre in modo accurato le violazioni delle regole conversazionali di cui il
misantropo si serve per palesare la propria scarsa disponibilità all’interazione. Alcune di queste
occorrono solo occasionalmente nei dialoghi in cui egli viene coinvolto. E’ il caso, ad esempio, del
silenzio attribuibile o delle interruzioni, che pure costituiscono nella conversazione reale le
manifestazioni più ovvie ed efficaci dell’atteggiamento non collaborativo di un parlante. Poiché
queste violazioni minacciano di sottrarre ai dialoghi della commedia la stessa possibilità di aver
luogo o, nel migliore dei casi, la chiarezza necessaria alla loro piena comprensione da parte del
pubblico, occupano, ogniqualvolta compaiono, sempre una posizione marginale al loro interno. Il
silenzio si riduce quasi esclusivamente alla mancata risposta di Cnemone ai saluti finali, ultima
mossa della sezione di chiusura di una conversazione (come ho mostrato nell’analisi di c11).
Quanto alle interruzioni della frase o del turno che l’interlocutore sta pronunciando, esse riguardano
soltanto battute il cui contenuto è già noto al pubblico (ad esempio in dII al v. 107 quella di Pirria
che cerca di spiegare al vecchio le ragioni della sua visita) o risulta facilmente intuibile (si pensi alle
maledizioni che il δύσκολος interrompe in dII e in d10 rispettivamente ai vv. 112 e 50412).
11
Il primo di essi (v. 700) si distingue da quelli normalmente usati per il fatto di essere quello di un vezzeggiativo,
contenendo dunque una modificazione a scopo di politeness dell’atto in cui occorre (cfr. infra, 249).
12
A proposito di questi due passi, va precisato che non tutti gli studiosi si dicono certi della loro natura di interruzioni.
In particolare Ricottilli 1984, 63 osserva riguardo al secondo: “Anche qui [sc. come ai vv. 112-sgg., n.d.r.] l’aposiopesi
può essere realizzata dall’io o dal tu che interrompe”. L’incertezza è condivisa da Caroli 1999, 48. Di diverso avviso è
invece Casanova 2007, 3, che a proposito di ambedue i luoghi osserva: “chi parla è interrotto bruscamente dal suo
interlocutore, che per questo risulta essere un personaggio rozzo e maleducato, fortemente scostante”. A mio parere
risulta macchinoso nel secondo dei due passi immaginare che Cnemone intervenga al v. 504 dopo che il cuoco ha già
243
Solitamente, Cnemone affida invece alle parole (accompagnate talvolta da comportamenti
non verbali intesi a corroborarle13) il compito di allontanare gli importuni. La maggioranza dei
dialoghi cui prende parte rivela come il personaggio non sia del tutto impermeabile alla
comunicazione: egli mostra anzi quasi sempre di avere analizzato e compreso le battute pronunciate
in precedenza dal partner del momento. I suoi enunciati, occupanti sempre i turni di replica (rare
sono infatti le sue autoselezioni nel dialogo), possono assumere diversi aspetti, presentandosi in
forma di frasi interrogative, imperative od affermative; essi hanno tuttavia costantemente verso
l’interlocutore i valori illocutori di rimprovero, minaccia ed ordine di ritirare immediatamente
l’azione compiuta o descritta dall’atto linguistico da questi appena pronunciato14. Le domande non
sono mai reali, assumendo spesso la forma di ICTS interrogativi che, senza avere il valore di inizi di
riparazione, stigmatizzano e rigettano, ripetendole polemicamente, le parole dell’interlocutore (le
quali vengono in tal modo anche letteralmente ‘rispedite al mittente’)15. Spesso sarcastiche sono le
rare frasi imperative (si pensi agli inviti rivolti a Sostrato ai vv. 174-177 e a Sicone al v. 503).
Quanto alle affermazioni, esse sono generalmente le parti complementari di coppie di adiacenza
aperte dall’interlocutore con atti di richiesta, domanda, offerta. In tutti i casi si tratta dei
complementi che in generale nel dialogo si sviluppano come non preferenziali (dunque rifiuti o
risposte sgradite), i quali, contrariamente alla norma, vengono proferiti da Cnemone come se
fossero quelli preferenziali, ossia in modo diretto ed immediato, e sono spesso seguiti da frasi di
conferma e di rafforzamento ed amplificazione del loro contenuto (il che accade nella risposta data
a Simiche ai vv. 590-593). Le rare occasioni in cui il vecchio riprende la parola dopo un PRT,
applicando la regola c del passaggio di parola, sono appunto per lo più finalizzate a rafforzare uno
stesso atto linguistico (ne sono un esempio le domande con valore di rimprovero che il vecchio
pronuncia all’indirizzo di Pirria mentre lo picchia, riportate ai vv. 114-115) o a passare da una
mossa conversazionale alla successiva (si pensi ai vv. 511-512).
Menandro riesce a coinvolgere il suo personaggio nella comunicazione verbale mostrando
come questi, pur rimanendo ostinatamente coerente nell’amore e nella ricerca della solitudine, si
rinunciato, auto-interrompendosi, a pronunciare la maledizione nei suoi confronti: preferisco perciò pensare ad eterointerruzioni.
13
Di questi, le aggressioni (cfr. ad es. i vv. 110-sgg.) e le percosse (come quelle al v. 503) costituiscono gli atti non
verbali più importanti di Cnemone dal punto di vista comunicativo. Pur non avendo propriamente valore comunicativo,
risulta comunque significativa del rapporto di Cnemone con gli altri la tendenza a rientrare in casa quando vede in giro
altre persone (come avviene ad es. ai vv. 178, 455, 602).
14
Le funzioni illocutorie appena individuate si accumulano in un’unica unità di frase nei turni più semplici, mentre
vengono distribuite in diverse unità all’interno di quelli più complessi (nei quali il rimprovero precede di solito la
minaccia e/o il comando).
15
Le ripetizioni conversazionalmente rilevanti nel suo parlare sono quasi sempre del tipo appena descritto, ossia eteroripetizioni in atti di rimprovero aventi spesso forma di ICTS. Le auto-ripetizioni sono più rare e servono spesso a
ripetere un atto linguistico già compiuto (ad es. in d12 al v. 596, in cui la ripetizione dell’ordine di rientrare già rivolto a
Simiche è dovuta al fatto che la prima volta esso non ha sortito l’effetto perlocutorio cercato).
244
divida tra la fuga del confronto con gli altri ed una smania, comune ai burberi, di aggredirli e
contrastarli quando stabiliscono un contatto con lui16.
Questo modo di fare caratterizza il personaggio in tutte le occasioni di interazione che lo
coinvolgono prima della caduta nel pozzo: con Pirria e Sostrato nel primo atto e, ancor più
marcatamente, nel terzo con Geta, Sicone e la schiava Simiche. Soltanto nei primi due dialoghi (dII
e d3) esso ottiene tuttavia l’effetto desiderato: all’inizio per il fatto che alla reazione verbale si
accompagnano le percosse ed il lancio di oggetti contro il malcapitato Pirria, nell’incontro con
Sostrato poiché questi, spaventato dall’incedere minaccioso del vecchio, decide di rinunciare ad un
vero e proprio confronto verbale con lui, come dimostra la falsa motivazione della propria presenza
in quel luogo che si affretta a fornire ai vv. 171-172. I dialoghi successivi (d9 e d10) vedranno
invece il personaggio infrangere ancora l’aurea regola di sottrarsi alla comunicazione parlando il
meno possibile, e lasciarsi perciò trascinare in indesiderati scambi di messaggi dall’istinto di
attaccare verbalmente (λοιδορεῖσθαι, verbo con cui le sue reazioni particolari o abituali vengono
designate ai vv. 35517, 487, 623) chiunque lo importuni18.
Nel dialogo con Geta (vv. 466-479), Cnemone prende più volte la parola per rimproverare lo
schiavo di avere osato importunarlo e per fornire il complemento non preferenziale a coppie di
adiacenza da questi aperte. Nonostante il suo parlare trasudi ira (grazie al sarcasmo e all’iperbole),
l’interlocutore, il quale non sa di non poter modificare la disposizione del vecchio, cerca di
neutralizzare gli atti da questo compiuti per dirigere l’interazione nel senso voluto: più di una volta
replica alle domande-rimprovero di Cnemone come a domande reali, fornendo loro la risposta più
ovvia (che asseconda in qualche modo le attese dell’interlocutore), in modo da stemperarne il valore
illocutorio. Ad esempio, alla domanda del vecchio se tra loro ci sia per caso un συµβόλαιον (v. 469)
che consente allo schiavo di presentarsi dinanzi a casa sua, Geta risponde negativamente e aggiunge
che per questo non si è presentato con testimoni ma è lì soltanto per chiedere in prestito un paiolo
(vv. 470-472), riuscendo dunque a formulare la sua richiesta; in seguito, con un comportamento
simile, riesce a ritirare in tempo utile l’atto di richiesta e a chiudere lo scambio verbale rimanendo
incolume, a differenza di quanto fatto da Pirria19. La scena con Sicone (vv. 498-514) conosce uno
16
Photiades 1959, 309 definisce a ragione quella di Cnemone una “insociabilité agressive”.
In questo verso, pronunciato da Gorgia, non è chiaro se si parli degli insulti e delle ingiurie rivolti da Cnemone agli
interlocutori o piuttosto dell’oggetto di discorso (i giovani tra i quali scegliere un marito per la figlia) che Gorgia
intende proporre al vecchio.
18
Anche nel dialogo con Sostrato si può dire che sono le stesse lamentele urlate da Cnemone a spingere il giovane a
rivolgergli la parola, dopo essersi chiesto angosciosamente al v. 171: ἐµοὶ χαλεπαίνει;
19
Parte della critica ha visto in questa scena, a mio parere a torto, un completo fallimento di Geta (cfr. da ultimo
Petrides 2004, 121). In realtà, se si considera che l’insuccesso di una richiesta poteva darsi per scontato in anticipo
quando questa veniva rivolta a Cnemone, il fatto che lo schiavo di Sostrato sia riuscito comunque a far procedere
l’interazione evitando le botte non è un risultato insignificante. Esso sembra anzi in parte confermare quanto Sostrato
aveva osservato su Geta alla fine del primo atto (ἔχει <τι> διάπυρον καὶ πραγµάτων / ἔµπειρός ἐστιν παντοδαπῶν· τὸ
δύσκολον / τὸ τοῦδ’ ἐκεῖνος < > ἀπώσετ’, οἶδ’ ἐγώ ai vv. 183-185). Lo stesso Cnemone affermerà nei versi
17
245
sviluppo solo in parte differente. In essa il cuoco, pur preparato ad utilizzare le più svariate tecniche
adulatorie, si imbatte in uno Cnemone che, indispettito dai diversi incontri della giornata, lo afferra
subito e non esita a batterlo (v. 503). Ciononostante, ancora una volta l’aggressività verbale di
Cnemone e l’agire maldestro che caratterizza il cuoco faranno sì che il vecchio, pur rifiutandosi
anche questa volta di prestare alcunché, sia costretto a portare avanti lo scambio verbale che
intendeva stroncare sul nascere. Anche dopo il rifiuto Sicone si mostra del tutto insensibile al valore
illocutorio delle frasi pronunciate da Cnemone per allontanarlo (ossia ai vv. 505-508 il rifiuto della
richiesta da lui rivolta e negli stessi versi nonché al v. 509 l’ordine di andare via), prendendo la
parola per esprimere sterili obiezioni a quanto da lui dichiarato o per porre nuove domande. Quando
tuttavia, ormai deciso ad andare via, il cuoco saluta ironicamente Cnemone, questi viene ancora una
volta sopraffatto dall’ira e, anziché limitarsi a non rispondere come aveva fatto con Geta, replica di
non volere saluti da nessuno di quelli che lo hanno importunato (οὐ βούλοµαι / χαίρειν παρ’ ὑµῶν
οὐδενός, vv. 513-514), in questo modo lasciando all’interlocutore, di battuta pronta, l’ultima parola
(v. 515)20.
In entrambi i dialoghi il tentativo del personaggio di disfarsi degli importuni si dimostra
fallimentare: ogni battuta pronunciata, ogni provocazione verbale raccolta dal vecchio si rivela
infatti una ‘trappola comunicativa’ in cui egli rimane imprigionato, anche grazie all’abilità dello
schiavo prima e alla goffaggine del cuoco in seguito. Tutto ciò è perfettamente calcolato da
Menandro, il quale crea una felice corrispondenza tra i comportamenti interazionali del personaggio
e le azioni da lui intraprese nel corso del terzo atto: come la sua decisione di non andare a lavorare
nei campi per rimanere a custodia della casa lo esporrà allo scambio verbale con Geta ed il
comportamento tenuto in quest’ultimo non farà desistere Sicone da un secondo ‘attacco’ alla sua
tranquillità, allo stesso modo, nel corso dei due incontri, quanto più egli cerca di scacciare
l’importuno di turno, tanto più si trova intrappolato nella comunicazione, raggiungendo il culmine
dei propri fallimenti nel finale del dialogo con Sicone.
L’effetto immediato di questo cumularsi di fatti, appartenenti a piani diversi ma diretti in
uno stesso senso, è naturalmente la comicità, che, simile ad uno spettacolo pirotecnico, cresce in
modo graduale, di scena in scena e poi sempre più fittamente di battuta in battuta. Tuttavia, i modi
comunicativi del personaggio vogliono a mio parere dire qualcosa di più sulla sua personalità,
sottolineando come la ricerca della solitudine non abbia prodotto in lui un distacco completo dal
immediatamente successivi al dialogo (485-486) di non spiegarsi come lo sconosciuto sia riuscito ad andare via
salvando la pelle.
20
Su questa chiusura di conversazione (passo c13) mi sono soffermata supra, 90.
246
mondo esterno ma celi verso questo un malessere profondo, al quale in simili situazioni egli
accenna senza mai mostrarsi pronto a parlarne in modo esplicito21.
Le caratteristiche dei comportamenti interazionali di Cnemone appena individuate emergono
anche nella scena dei vv. 588-sgg. con Simiche (d12), nonostante l’esito di questa sia diverso in
ragione della situazione in essa rappresentata e del rapporto esistente tra i due personaggi coinvolti.
Cnemone è uscito unicamente per riportare in casa la schiava, fuggita dopo aver provocato la caduta
della zappa nel pozzo. Che il vecchio non intenda aprire uno scambio verbale con lei è dimostrato
dal fatto che non appena la vede le ingiunge di rientrare, senza replicare alle sue parole di
giustificazione o chiederle spiegazioni (βάδιζε δὴ / εἴσω, vv. 589-590). Anche in questo caso,
tuttavia, si lascia dominare dall’ansia di esprimere la propria rabbia: non appena Simiche gli chiede
che cosa è intenzionato a farle una volta entrata in casa, egli fornisce immediatamente una risposta
diretta e pertinente, affermando che la legherà e la calerà nel pozzo (al fine, si intende, che sia lei
stessa a riparare il danno provocato recuperando gli oggetti perduti) con il rischio di farvela cadere.
Il complemento non preferenziale alla domanda dell’interlocutrice viene proferito come se fosse
quello preferenziale, ossia in maniera immediata, esplicita e formalmente semplice. Esso viene
addirittura enfatizzato all’interno del turno da un ICTS interrogativo che lo precede (ἐγώ;),
similmente a quanto era avvenuto nelle due scene con Geta e Sicone22. Il vecchio persiste in questo
atteggiamento anche in seguito: alle suppliche della schiava di desistere dal proposito ribatte
confermandolo con ulteriori particolari (per lei estremamente inquietanti) su come organizzerà il
recupero degli oggetti (ταὐτῶι γε τούτωι σχοινίωι, νὴ τοὺς θεούς. κράτιστον, εἴπερ ἐστὶ παντελῶς
σαπρόν ai vv. 592-59323). Quando questa, sempre più spaventata, propone di chiamare in aiuto
Davo dalla casa accanto, Cnemone, dopo averla rimproverata per quello che ha appena detto,
21
Approfondirò queste osservazioni in seguito (infra, 303-sgg.). Préaux 1959, 332-333, ritiene che la tecnica comica
connessa ai modi di Cnemone sia quella “que Bergson, dans «Le Rire», caractérise comme «du mécanique plaqué sur
du vivant»; secondo questa prospettiva “le misanthrope a un fort potentiel comique; il est un obsédé, une machine à
vitupérer et à dire «non» … L’impossibilité du dialogue avec le misanthrope est ainsi une source féconde de péripéties
comique: Ménandre l’exploitera à coups répétés. Cnémon est une machine; c’est ce qu’il faut montrer en le faisant agir
comme une machine, à ripetition. Et quand elle révèle qu’un homme est devenu un automate, la répétition fait rire,
irrésistiblement”. L’aspetto evidenziato è senz’altro presente nei modi del personaggio, e tuttavia troppo generico mi
sembra paragonare quest’ultimo ad una macchina: se è vero che i suoi comportamenti sono ripetitivi, essi hanno
motivazioni psicologiche che un attento esame dei dialoghi in cui il personaggio è coinvolto può chiaramente ravvisare.
Più fondate mi sembrano le seguenti osservazioni di Arnott 1968, 12: “since the number of ways a misanthropic
humgruffin will react to a series of situations is limited, there is a danger of repetitiveness and monotony. Menander
avoids the danger … by comical caricature”, realizzata attraverso “a host of minutely observed gestures, clichés, or
tendencies to this rather than to petty action”.
22
Nella prima, il rifiuto di Cnemone di soddisfare la richiesta in prestito di un paiolo viene infatti preceduto da un turno
avente la forma di un ICTS (λεβήτιον; al v. 473), il quale è anche un “understanding check”; nella seconda, la supplica
di Sicone di non essere frustato ma lasciato libero viene seguita da una battuta del vecchio che, pur presentandosi come
una domanda-ICTS (ἄφες; al v. 503), ha anch’essa la funzione di anticipare il mancato soddisfacimento della richiesta:
secondo i commentatori, infatti, il vecchio picchia il malcapitato cuoco dopo il v. 503 (cfr. G-S ad v. 504).
23
Seguo in questi versi la distribuzione indicata da B poiché, diversamente da Sandbach, non ritengo opportuno un
cambio di battuta dopo il v. 592.
247
chiude definitivamente il confronto ripetendo in forma leggermente variata l’ordine proferito
all’inizio (θᾶττον βάδιζ’ εἴσω)24.
Il modo in cui questo dialogo si conclude (ossia mediante la ripresa, da parte di Cnemone,
dell’atto linguistico pronunciato all’inizio, non attendente che una silenziosa replica da parte della
schiava) offre lo spunto per trattare più ampiamente un’altra caratteristica dei dialoghi aventi come
protagonista il δύσκολος: pur non riuscendo sempre ad arrestare il flusso verbale, col proprio
atteggiamento egli fa sì che ognuno di essi si configuri come una successione di tentativi
dell’interlocutore di mantenere il contatto cui corrisponde un’uguale serie di reazioni negative da
parte sua; in altre parole, le intenzioni comunicative del primo, anche quando vengono espresse, si
scontrano sistematicamente con la chiusura manifestata dal secondo e non hanno alcun effetto su di
lui e sulle sue decisioni, che rimangono immutate. Gli scambi di battute che lo vedono coinvolto
non conoscono quello sviluppo interno che soltanto il contributo di entrambi i partner di dialogo
può determinare, non trasformandosi perciò in interazioni propriamente dette. A nessuno Cnemone
consente di spiegarsi compiutamente o di interloquire anche in suo favore (come dimostrato, oltre
che dal dialogo con Simiche, anche dall’irata reazione con cui in d13 ai vv. 600-601 rifiuta l’aiuto
offertogli da Geta). Emblematiche a tal proposito possono considerarsi la forma e la durata delle
battute di chiunque parli con lui. Si tratta nella maggior parte dei casi di turni costituiti da una sola
unità di lunghezza non superiore ai due versi: ad autoselezionarsi più volte riescono infatti nei
dialoghi considerati soltanto Sostrato e Geta, a superare i due versi unicamente quest’ultimo.
Anche a tal proposito sarà significativa la scena della beffa, che presenta il rovesciamento
dei comportamenti pragmatici imposti da Cnemone agli altri. In essa infatti Geta e Sicone non solo
si divertiranno a rivolgere al vecchio incapace di reagire le più disparate richieste di oggetti, ma lo
tormenteranno in seguito con un lungo e dettagliato resoconto del simposio che ha appena avuto
luogo nella grotta, introducendolo esplicitamente (πάντα ταῦτ’ ἀνέξει al v. 933, ἄκουε δ’ ἑξῆς
24
Alla luce di quanto ho appena affermato è forse possibile affrontare il discusso problema del perché Cnemone, dopo
il rientro di Simiche in casa, non metta in atto quanto annunciato alla schiava, decidendo invece di calarsi nel pozzo (vv.
598-599). G-S ad v. 591 formulano l’ipotesi che Cnemone modifichi i propri piani dopo avere appreso da Geta (cui
assegnano il v. 593) che la corda è marcia e dopo avere udito la proposta di Simiche di chiamare Davo, per lui
impensabile. Scarterei tuttavia non soltanto l’ipotesi ma anche l’attribuzione delle battute su cui si fonda per le seguenti
ragioni: 1) da un punto di vista paleografico, costringerebbe ad intervenire in misura più consistente sul testo del papiro,
ipotizzando per due volte l’assenza dell’indicazione di cambio di battuta; 2) la divisione dei versi tra Cnemone e Geta
renderebbe oscuro il valore della frase pronunciata dal vecchio al v. 592: se egli la pronuncia allo scopo di sconcertare
la vecchia, perché non dovrebbe pronunciare anche la frase successiva, in cui la sua minaccia raggiunge una Pointe?
Qualora invece quest’intenzione gli sia estranea, per quale ragione dovrebbe aggiungere alla sua risposta l’informazione
sulla corda che userà? Più semplice mi sembra invece ritenere che Cnemone, in preda alla rabbia, abbia minacciato
Simiche di affidare a lei il rischioso onere di recuperare gli oggetti quasi per la voglia di rispondere in modo sgradito
alla sua domanda (il fatto che l’espressione δήσας καθιµᾶν + accusativo descriva un piano per calare qualcuno giù nel
vuoto anche in Aristoph. Vesp. 380 e 396-sg. non esclude affatto che la risposta di Cnemone a Simiche sia una
minaccia, pace Stoessl 1960, 58) e che una volta ritrovata, insieme con la solitudine, la lucidità, riconosca come unica
soluzione praticabile al problema la propria discesa nel pozzo.
248
πάντα al v. 935) e scandendone i vari momenti con espressioni fàtiche (ἀκούεις; al v. 941, µέµνησο,
al v. 945, ecc.) e nuovi inviti ad ascoltare che sono in realtà imposizioni.
Il significato e la portata del cambiamento intervenuto in Cnemone dopo l’incidente ed il
salvataggio da parte di Gorgia si colgono a mio parere non soltanto attraverso le decisioni e i
movimenti compiuti dal vecchio, ma anche nei comportamenti conversazionali da lui tenuti
nell’ultima parte della commedia.
Pur mostrandosi già nel dialogo con Gorgia successivo al salvataggio (d17) sempre reattivo
(non apre infatti mai coppie di adiacenza se non per pronunciare un ordine che richiede un
comportamento non verbale ai vv. 697-698), lascia parlare il figliastro che gli rivolge atti di offerta,
critica e consiglio. Dopo l’uscita di Gorgia, inoltre, rivolge alla figlia una richiesta esprimendosi,
come non ha mai fatto, in modo polite (ossia il vocativo affettuoso θυγάτριον, nonché con la
domanda βούλει µ’ ἀναστῆσαι λαβοῦσα;), anche se riserva i toni di sempre a Sostrato quando si
accorge che sosta vicino a lui (τί παρέστηκας ἐνταῦθ’, ἄθ̣λ̣ι̣[ε;).
Nella scena successiva (costituente il passo d19), il suo comportamento lascerà emergere
come Cnemone sviluppi la comunicazione con i suoi familiari in maniera del tutto unilaterale. Che
egli concepisca il discorso come un monologo in sé conchiuso che non ammette repliche risulta
chiaro non soltanto dalla sua lunghezza, assolutamente spropositata per un primo turno di
conversazione, ma anche dal contenuto prevalentemente auto-referenziale e dalla mancata cessione
della parola agli astanti anche quando questi vengono chiamati in causa25. Cnemone nomina gli altri
soltanto per contrapporvisi (vv. 711-712, 735, 747), per rivolgere loro delle richieste, per concedere,
infine, di continuare a seguire quelli che secondo lui sono i loro costumi e le loro consuetudini. Non
è un caso che più di una volta egli indirizzi loro frasi imperative, seppure con sfumature illocutorie
diverse a seconda dell’intenzione del momento (ad es. ai vv. 735 e 746): esse indicano in modo
diretto ciò che il parlante richiede o concede26 e, per le azioni che richiedono, non necessitano di
risposte. Con Gorgia, che costituisce il destinatario privilegiato del suo discorso, Cnemone non si
comporta in modo molto diverso: se da una parte rivolge lodi esplicite al suo comportamento
(descrivendo al v. 723 l’atto da lui compiuto come un ἔργον … ἀνδρὸς εὐγενεστάτου), lascia
tuttavia che resti il gesto che ha compiuto a parlare per lui, non dandogli mai la parola e giungendo
addirittura, per mezzo della domanda non reale del v. 729 (τί δ’ ἐστί, µειράκιον;), a bloccare un suo
25
Che le caratteristiche appena elencate siano difficilmente accettabili in una conversazione è testimoniato, almeno per
l’odierna società occidentale, da Kerbrat-Orecchioni 1996, 29, che indica come proprio di una ‘buona conversazione’
l’equilibrio “de la longueur des tours” e “de la «focalisation» du discours”, spiegando che “sont en effet stigmatisés non
seulement celui qui «monopolise la parole», mais aussi celui qui tient un discours exclusivement «autocentré » … il est
mal venu dans notre société de toujours «tirer la couverture à soi», même si la chose est en fait assez commune”. Simili
osservazioni sono, come ho già evidenziato, ricavabili riguardo alla conversazione antica (cfr. supra, 59 n. 219).
26
Sugli usi della modalità imperativa nella lingua greca cfr. KG I 236-237.
249
tentativo di intervento27. Prendendo dunque a parlargli direttamente, compie mediante il linguaggio
azioni intese a ricompensarlo: attraverso quelli che la teoria degli speech acts chiama “enunciati
performativi” o “dichiarazioni”28, lo adotta come figlio e gli affida l’amministrazione del
patrimonio e dell’intera famiglia. Tuttavia, nell’ultima parte del discorso, in cui il vecchio tornerà
ad esprimere pensieri simili a quelli di sempre, si nota anche sul piano linguistico un suo parziale
ritorno a modi meno attenti alla faccia altrui: rivolgendosi nuovamente alla figlia, le chiede questa
volta in modo diretto e privo di attenuazioni di essere disteso (κα]τάκλινόν µε, θύγατερ, v. 740).
Infine, esprime critiche sarcastiche alle vite condotte dagli altri, temperando i suoi giudizi soltanto
con l’avverbio ἴσως (v. 746), e definendo se stesso <ὁ> χαλεπὸς δύσκολός τ’(ε) … γέρων (v. 747).
Dopo il monologo, Gorgia conquista il diritto di parlare attraverso un esplicito riferimento
alle disposizioni prese dal patrigno per l’avvenire dell’intera famiglia (la maggior parte delle quali
lo riguarda direttamente): afferma infatti di accettare tutto quanto deciso, assumendo perciò un
ruolo attivo nella realizzazione delle azioni appena compiute da Cnemone attraverso la parola.
Immediatamente dopo introduce la questione che più gli sta a cuore, quella del matrimonio della
sorella29. Cnemone si ribella appena può alle richieste del figlio adottivo (lo immaginiamo infatti
impegnato a riprendere fiato dopo la grande fatica compiuta), pur sforzandosi di non ricadere nella
terminologia offensiva e violenta di sempre (apostrofa Gorgia freddamente con il pronome οὗτος30
e, rammentandogli di avere già detto ciò che pensava, gli chiede di essere lasciato in pace in una
frase imperativa cui conferisce i toni di una supplica con l’espressione πρὸς τῶν θεῶν). Il giovane si
mostra abile a fronteggiare le sue resistenze31 e, collegando il pretendente della figlia all’operazione
di salvataggio condotta poco prima in suo favore, ha successo: Cnemone comincia ad interessarsi a
Sostrato, e, pur evitando di stabilire un contatto verbale con lui, pone a Gorgia, per la prima volta
dal suo apparire in scena, due domande reali prive di altre sfumature illocutorie (rispettivamente ai
vv. 753 e 754). Una lacuna piuttosto fastidiosa ci priva del finale del dialogo: resta dubbio se
27
E’ pressoché unanime il consenso dei commentatori (ad es. Handley ad v. 729, G-S ad v. 729, Jacques, Turner 1980,
5) nel ritenere che Gorgia cerchi di protestare quando viene indicato da Cnemone come l’unico capace di un’azione così
nobile come quella appena compiuta e che il vecchio gli faccia quindi capire che fa meglio a tacere. In ogni caso, ci
troviamo di fronte ad una domanda non reale, dopo la quale il parlante non cede la parola al destinatario.
28
“Enunciati performativi” sono definiti dagli studiosi che si rifanno alle classificazioni austiniane quegli enunciati che
“hanno la caratteristica di costituirsi in azione in modo spettacolare: fanno quello che dicono e dicono quello che fanno,
ossia si autoverificano”, rappresentando, all’interno degli atti illocutori, “un caso particolare … in cui l’azionalità del
linguaggio è particolarmente evidente ed eclatante” (Caffi 2002, rispettivamente 35 e 29); gli stessi sono nella
nomenclatura searliana definiti “dichiarazioni” (cfr. supra, 16). Di essi fanno parte appunto l’adozione di Gorgia come
figlio da parte di Cnemone e l’affidamento a lui del patrimonio e della sorella, di cui diventa κύριος.
29
Che a Gorgia stiano particolarmente a cuore il presente e l’avvenire della sorella è testimoniato dalle parole del
giovane ai vv. 240-246 e 353-354.
30
G-S ad v. 750 affermano che il pronome “implies impatience” e ciò viene confermato a mio parere dai passi
menandrei in cui esso ricorre, ossia Sam. 310, 657, 675; Dickey 1996, 154-158 afferma che in Aristofane il pronome
non è di per sé offensivo, appartenendo semplicemente ad un registro basso. La studiosa accosta perciò a quest’uso
quello menandreo, ma le sue conclusioni vengono a mio parere smentite dai luoghi citati da G-S.
31
Delle strategie impiegate da Gorgia per mantenere il contatto stabilito con Cnemone ed ottenere che veda il
pretendente della figlia ho già detto supra, 213-214.
250
Cnemone e Sostrato abbiano mai parlato insieme, e non si conoscono i modi in cui il vecchio
esprimeva il suo parere favorevole al matrimonio (si trattava di un accoglimento della proposta o,
come suppone Handley ad vv. 755-760, di una mancata opposizione ad essa?). La presenza di
almeno un imperativo (forse di un composto di δίδωµι) lascia supporre che egli rimettesse ogni
decisione a Gorgia, come aveva già stabilito, e chiedesse quindi di essere riportato in casa.
La comunicazione tenuta nei confronti dei familiari, la pronuncia di atti linguistici diversi da
quelli soliti di rimprovero e di minaccia, l’uso di strategie di politeness (come l’invocazione agli
dei, l’uso di vocativi affettivi, la limitazione delle proprie affermazioni, la pronuncia di richieste
temperate), le due domande reali rivolte a Gorgia riguardo a Sostrato ma al contempo l’unilateralità
dei suoi atteggiamenti e il rifiuto di interagire con gli altri subito dopo il discorso mostrano come il
cambiamento di Cnemone sia soltanto parziale.
Le oscillazioni palesatesi nei dialoghi appena esaminati caratterizzeranno i suoi
atteggiamenti comunicativi sino alla fine della commedia. Prima che ricompaia in scena trascinato
da Geta e Sicone, viene nominato ai vv. 868-869 da Gorgia, il quale riferisce a Sostrato che ha
supplicato di portare via anche la vecchia per poter rimanere completamente solo. Il verbo riferito
dal parlante a Cnemone (ἱκετεύω) si addice perfettamente al suo nuovo volto: anziché ordinare
minacciosamente di non essere disturbato, prega i familiari perché lo lascino in pace. Nella scena
della beffa (vv. 911-969) il suo parziale recupero dei toni di sempre appare giustificato dalla
situazione. Anche in essa, tuttavia, si avvertono dei cambiamenti, dovuti senza dubbio anche allo
stato di fragilità fisica in cui Cnemone versa. Egli non reagisce subito in modo violento a Sicone e
Geta, ma tenta di farlo soltanto in seguito alle loro iperboliche e sfacciate richieste; inoltre, una
volta constatata l’impossibilità di scacciare i due importuni, adotta una nuova strategia per parare i
loro attacchi: quella di subire in silenzio le loro parole, senza reagire se non lamentandosi quando
sollecitato dai due, mostrando come ormai gli interessi soltanto di essere lasciato in pace. Ma
neppure questa strategia (che forse sarebbe stato opportuno adottare in altre occasioni) può avere
successo: il vecchio si trova infatti in totale balia dei due, esattamente perché ha voluto che nessuno
dei familiari restasse ad occuparsi di lui32. Ecco perciò che Geta può costringerlo a danzare,
ottenendo così in conclusione di commedia il suo consenso a farsi portare nella grotta (vv. 957958).
32
Mentre prepara la beffa con Geta, ai vv. 900-901 Sicone paventa una bastonatura da parte di Gorgia qualora essi si
facciano sorprendere ad infastidire il vecchio.
251
3.1.2 Sostrato
I comportamenti interattivi di Sostrato costituiscono a mio parere un importante mezzo di
caratterizzazione della sua personalità. La coerenza mostrata riguardo a determinate scelte
comunicative (relative alla gestione del passaggio di parola, al rispetto del sistema delle preferenze,
al compimento di determinati FTA) può in parte senz’altro venire attribuita alla relativa omogeneità
tipologica degli scambi cui partecipa, la maggior parte dei quali lo vede impegnato nel tentativo di
ottenere qualcosa dall’interlocutore del momento; il numero piuttosto elevato dei dialoghi
(risultante complessivamente pari a tredici) e la varietà dei partner che lo affiancano in essi
(familiari, liberi a cui è legato da un rapporto di amicizia, liberi sconosciuti, schiavi propri ed altrui)
assicurano tuttavia a mio parere il carattere significativo dei risultati ottenuti.
Riguardo alle regole del passaggio di parola, sono diverse le osservazioni da fare. Il giovane
si rivolge spesso a persone note o sconosciute per aprire coppie di adiacenza. Quando si prepara a
dar luogo ad una conversazione Sostrato distingue nettamente le tecniche di apertura usate a
seconda del partner che gli sta di fronte: quando si tratta di un proprio schiavo non impiega speciali
accorgimenti linguistici per attrarre la sua attenzione, limitandosi ad esempio all’appello con il solo
vocativo oppure entrando direttamente in conversazione, ad esempio con una domanda (si pensi ai
passi d2 e d11). Nei casi in cui si rivolge ad estranei liberi si mostra invece attento alle consuetudini
sociali, pur facendo un uso equilibrato dei rituali di apertura, ossia non lasciandovi molto spazio
quando ciò non sia opportuno. Nel brevissimo dialogo con Cnemone (d3), indirizza al vecchio una
breve battuta in cui, pur non diffondendosi in saluti che risulterebbero sicuramente sgraditi dato
l’atteggiamento mostratogli dal vecchio, gli esprime comunque la propria deferenza con il vocativo
di rispetto πάτερ (vv. 171-172). In quello di poco successivo con la figlia di Cnemone (d4), Sostrato
non pronuncia nei confronti della ragazza rituali di apertura, del tutto inadatti alla situazione di
urgenza in cui ella si trova, ma le offre il proprio aiuto in modo estremamente discreto (ai vv. 199200). A persone note (ad esempio amici o familiari) Sostrato si rivolge in modo molto meno
formale, soprattutto quando riapre interazioni già incominciate e sospese per breve tempo (è il caso
di d22).
Le coppie di adiacenza che il personaggio apre sono le più varie: dal tipo domanda/risposta
alle coppie richiesta/accoglimento, accusa/rifiuto, offerta/accettazione, ordine/accoglimento,
invito/accettazione, saluto/saluto. Quanto al completamento di coppie di adiacenza, egli si mostra
sempre pronto ad effettuarlo, non rendendosi responsabile di violazioni (ad esempio attraverso
silenzi attribuibili). Persino quando in d2, deluso per il fallimento della missione di Pirria e per il
‘tradimento’ di Cherea, scarica la propria rabbia contro lo schiavo lanciandogli una maledizione,
252
non rinuncia a rispondere alla sua domanda τί δ’ ἠδίκηκα, Σώστρατε; (v. 140) e a ragionare con lui
sulle possibili cause del comportamento del padre della fanciulla in diversi turni di conversazione
(vv. 141-145)33.
Gli atteggiamenti assunti da Sostrato riguardo alla presa di parola per autoselezione –
segnala in generale il grado di partecipazione e di interesse di un parlante nei confronti
dell’interazione in corso – dipendono dal suo stato d’animo e dagli obiettivi che intende raggiungere
nel corso di un determinato scambio verbale. Di solito l’autoselezione da parte di Sostrato non è
fine a se stessa, come per chi avverte l’esigenza di dire la propria in ogni situazione comunicativa.
Essa ha quasi sempre finalità pratiche, avvenendo molte volte nei dialoghi in cui il personaggio
tenta di persuadere l’interlocutore (si pensi ad esempio al passo d21, in cui il giovane si
autoseleziona molte volte per convincere il padre a concedere la figlia in sposa a Gorgia) o di
sollecitarne l’azione (come nello stesso dialogo a partire dal v. 841, in cui, dopo il consenso di
Gorgia, chiede al padre di pronunciare la formula di fidanzamento e organizza i dettagli della festa
cercando di fare in modo che Gorgia vi conduca Cnemone).
Attraverso la produzione di segnali di sostegno e il completamento di catene d’azioni il
personaggio manifesta il proprio atteggiamento nei confronti dell’interlocutore e di quanto da lui
detto: ad esempio, il fatto che tanto all’inizio di d1 nei confronti di Cherea (al v. 68) quanto in d6
durante la presentazione del carattere di Cnemone da parte di Gorgia (ai vv. 325-326 e 337-338)
pronunci battute aventi il valore di segnale di sostegno per quanto detto dall’interlocutore rende
chiara la sua intenzione di mostrare accordo o quantomeno interesse per ciò che viene detto dal
partner di conversazione. Al contrario, colpisce particolarmente il silenzio in cui il personaggio
cade nel corso del passo d2 durante e dopo il racconto di Pirria (a partire dal v. 94). Mentre lo
schiavo riferisce della missione andata male presso il padre della fanciulla, Sostrato non proferisce
parola, deluso dal fallimento e in fondo non interessato a conoscerne i dettagli34. Dal corrucciato
torpore che lo ha preso sembra scuotersi soltanto per rigettare (con l’affermativa δειλίαν λέγεις del
v. 123) la supplica-consiglio di Pirria di andare via rinunciando ad un ulteriore tentativo di contatto
con il folle vecchio. Ma l’atteggiamento di Cherea dopo il racconto fa sì che egli non si riprenda.
Alle valutazioni e ai piani da questi propostigli, da cui emerge chiaramente il tentativo dell’amico di
33
In tutti i dialoghi che lo vedono protagonista, esiste un solo caso di presunta violazione della regola da parte di
Sostrato: si tratta della mancata reazione, nel passo d6, ad una domanda di Gorgia (τί κακοπαθεῖν σαυτὸν βιάζηι; al v.
371), sulle cui ragioni gli studiosi della commedia si sono a lungo interrogati giungendo talora a correggere il testo
tràdito o a ritenere la domanda rivolta a Davo (cfr. G-S ad loc.). In realtà, il problema è soltanto apparente, per il fatto
che l’interrogativa rivoltagli da Gorgia non ha il valore illocutorio di domanda ma quello di commento negativo ad una
sua decisione. Inoltre, va detto che, se non immediatamente dopo, qualche verso più tardi il giovane pronuncia
un’affermazione che può costituire un atto di giustificazione alla critica del giovane contadino (οὕτως ἔχω·
παραποθανεῖν ἤδη µε δεῖ / ἢ ζῆν ἔχοντα τὴν κόρην ai vv. 379-380).
34
In maniera efficace Paduano, 352 n. 14, chiarisce che durante il racconto di Pirria “Sostrato rimane dolorosamente
assorto, senza ribattere, non perché … voglia urbanamente ascoltare tutto prima di dare il suo giudizio, ma perché i
particolari non lo interessano. Ha capito che il suo piano è fallito, e tanto basta”.
253
cavarsi d’impaccio, il giovane oppone sino al termine del loro incontro uno sdegnoso silenzio –
classificabile pragmaticamente come mancato completamento di catene d’azioni – attraverso il
quale testimonia la rinuncia definitiva a comunicare con l’amico35.
La produzione, all’interno di uno scambio dialogico, di un turno composto da più unità non
è mai indice di verbosità nel giovane: nella maggior parte dei casi egli non si autoseleziona più
volte per proferire turni di lunga durata36. Riguardo ad essa, i turni di Sostrato non si differenziano
generalmente in misura notevole da quelli dell’interlocutore (se non nel finale di d2, che ho appena
esaminato, oppure in d3, che vede contrapporsi alla veloce battuta iniziale di Sostrato la lunga tirata
di Cnemone ai vv. 172-177). E’ soprattutto raro che le sue battute superino di gran lunga quelle del
partner di conversazione: ai vv. 301-314 di d6, in cui pure il giovane si risolve a spiegare
precisamente i propri sentimenti e le proprie intenzioni nei confronti della figlia di Cnemone dopo
un’accusa ingiusta (avanzata contro di lui da Gorgia in lunghi e tortuosi turni di conversazione ai
vv. 271-287, 289-293, 293-299), egli sembra rivelarsi subito non aduso a tenere a lungo la parola,
chiedendosi dopo i primi versi che cos’altro sia il caso di dire dopo aver rivelato di amare la
fanciulla incontrata (τί γὰρ ἄν τις εἴποι; al v. 304) e procedendo in seguito attraverso enunciati brevi
e chiari37; l’unico passo in cui si dilunga è d21, all’interno del quale il giovane risulta sin troppo
prolisso agli occhi di suo padre tenendo un discorso lungo e articolato sulla maggiore utilità degli
amici rispetto alla ricchezza (vv. 797-812)38.
La costruzione dei turni da parte sua è sintatticamente varia. Non si notano sotto questo
aspetto particolarità rilevanti, oltre a qualche anticipazione enfatica (come la frase οὕτως ἔχω e i
pronomi τουτί e τοῦτο prolettici di frasi successive rispettivamente ai vv. 379 di d6, 613 di d14 e
793 di d21), alla frequente inserzione di brevi frasi parentetiche o di vocativi destinati a conferire
maggiore forza al contenuto dell’unità di turno in corso di proferimento (ad esempio <εὖ> ἴσθ’ ὅτι
al v. 313 di d6 e ἀκριβῶς ἴσθι al v. 615 di d14). In alcuni passi il giovane sembra riservare
particolare attenzione, nel corso del proferimento di un turno, agli atteggiamenti non verbali
dell’interlocutore. Si pensi ad esempio al turno pronunciato in d14 (vv. 611-617), che, quanto a
durata e composizione, sembra essere influenzato dal silenzio con cui Gorgia reagisce alle
35
Ho descritto quest’atteggiamento supra, 88-89.
Queste osservazioni consentono di tracciare anche a tal proposito una distinzione tra Sostrato e Cherea, palesemente
diversi sotto molti aspetti: il secondo infatti non esita a tenere la parola quando si tratta di vantare le proprie qualità (ciò
che avviene nel turno di d1 ai vv. 57-68) e di riempire di sussiegose valutazioni, promesse palesemente false,
rassicurazioni e consigli il vuoto comunicativo creatosi tra sé e l’amico (come nei turni di d2 occupanti rispettivamente
i vv. 125-129 e 129-134), cfr. infra, 263-264.
37
Per lo stile rapido, concreto, personale tenuto da Sostrato in questo discorso in contrapposizione al sermoneggiare
sentenzioso di Gorgia cfr. Sandbach 1970, 116-117 e Del Corno 1975a, 25.
38
Sulle caratteristiche stilistiche del discorso cfr. Handley ad loc. Sul carattere diretto e non temperato da strategie di
politeness dell’atto linguistico direttivo contenuto nel discorso mi sono soffermata supra, 195 e 215.
36
254
insistenze dell’amico nell’invitarlo a banchetto39. Quanto alla coerenza argomentale, essa non viene
violata neppure quando Sostrato introduce un nuovo argomento di conversazione. Particolarmente
significativo mi sembra a tal proposito il dialogo d21. In esso, non appena Callippide ha
sottolineato di avere acconsentito volentieri al matrimonio del figlio, Sostrato propone di trattare
nuovamente il tema “matrimonio di Gorgia” (sul quale il padre aveva evitato di ritornare),
legandolo a quello del proprio matrimonio con un’osservazione sul fatto che Gorgia è degno di
entrare nel loro oikos, presentato come comune proprietà dei due eventi (se egli può sposare la
sorellastra di Gorgia perché il giovane è stato ritenuto degno della loro famiglia, allo stesso modo
Gorgia potrà sposare la sorella di Sostrato in virtù dello stesso fatto). La sua abilità non riguarda in
questo caso soltanto il piano pragmatico, ma anche, o forse soprattutto, quello retorico: lo scopo di
Sostrato è infatti non solo (e non tanto) quello di passare ad un nuovo argomento evitando ‘salti’,
ma piuttosto quello di reintrodurre la richiesta di poter dare la propria sorella in sposa a Gorgia già
respinta dal padre. Nel suo ragionamento (vv. 791-794) Sostrato utilizza la dignità di Gorgia non
solo come tramite tra due temi, ma anche come argomento retorico in favore della tesi sostenuta.
L’ascolto e l’analisi dei turni pronunciati dagli interlocutori avviene da parte del giovane in
modo diverso a seconda del suo grado di interesse per quanto essi dicono. A proposito del dialogo
d2 si può senz’altro affermare che egli ha capito perfettamente il valore illocutorio dei turni (o delle
loro parti fondamentali) e le intenzioni che vi si celano dietro (alla parte finale del resoconto di
Pirria, che si conclude con l’esortazione ad andare via, Sostrato replica verbalmente, a Cherea
palesa attraverso il silenzio la propria delusione per i consigli da lui ricevuti), ma non si possiede la
certezza che il personaggio abbia mantenuto costante la propria attenzione riguardo a tutti i
particolari dei turni dello schiavo o di quelli dell’amico quando questi ha ormai reso chiaro di
volersi defilare40. Qualcosa di simile avviene probabilmente nel finale del dialogo d11 (dai vv. 563sgg.): di sicuro Sostrato comprende che Geta nel suo lungo turno di lamento, non condivide la scelta
di invitare altre persone al banchetto, ma nel turno successivo non segnala in alcun modo di avere
prestato ascolto all’intera serie di accuse e lamentele pronunciata dallo schiavo, immerso com’è nel
suo nuovo piano41. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l’attenzione che riserva alle parole degli
interlocutori è resa immediatamente evidente dal fatto che nelle proprie battute si riferisce
esplicitamente alle parole dell’altro, in modo da portare avanti il ragionamento tenendo conto in
ogni momento del contributo dell’interlocutore. Per farlo si serve non soltanto delle modalità più
comuni all’interno di uno scambio verbale, ma anche di modalità che appaiono essere specifiche del
39
Queste osservazioni valgono naturalmente soltanto se si accoglie l’attribuzione delle battute di B, come fanno
Sandbach e Paduano (a differenza di diversi studiosi, tra cui Jacques e Ferrari).
40
Cfr. supra, 253-254.
41
Su questo scambio di battute cfr. supra, 110.
255
personaggio. Se di solito, infatti, si connette al turno precedente inserendo nella prima unità della
sua battuta avverbi o particelle a quello riferiti (ad es. δέ, καί, οὖν, µὲν οὖν, τοίνυν, ἀλλά, ἔπειτα) o
servendosi della ripetizione, occorrente spesso sotto forma di domande-ICTS che generalmente
realizzano il tentativo di capire meglio che cosa l’interlocutore abbia detto e per quali ragioni (ἑκών;
al v. 81942 e πῶς καλῶς; al v. 829 di d21), accade anche più di una volta, in momenti di confronto
con punti di vista diversi, che egli riformuli in un enunciato il contenuto o il valore illocutorio del
turno a cui intende replicare, per proseguire in seguito nel ragionamento esponendo la propria
opinione o facendo presente all’interlocutore una situazione che secondo lui non ha considerato: si
pensi alle frasi: σκώπτεις· ἐγὼ δέ …, con cui in d1 al v. 54 biasima la leggerezza di Cherea nei suoi
confronti e gli descrive brevemente il proprio stato d’animo; ἀποστῆναι κελεύεις µ’(ε) che
pronuncia in d6 al v. 346 preparandosi a rifiutare il consiglio di Gorgia di abbandonare ogni
speranza di sposare la ragazza; περὶ χρηµάτων λαλεῖς … all’inizio (v. 798) della battuta diretta a
suo padre sull’inutilità di accumulare denaro nella situazione di precarietà che caratterizza la sorte
dell’uomo in d21; forse εἰ τοῦτ’ ἀδίκηµ’ ε[ἴρηκ]ας in d6 (v. 303), con cui dimostra l’infondatezza
delle accuse di Gorgia. Dopo queste osservazioni risulta tanto più singolare il comportamento
verbale del personaggio in d1 quando, dopo che Cherea ha illustrato la strategia che intende attuare
per aiutarlo (informandosi preliminarmente sulla famiglia, lo stile di vita e il patrimonio della
fanciulla), fa sapere all’amico ai vv. 70-72 che ha già preso l’iniziativa di mandare lo schiavo Pirria
a parlare con il padre della fanciulla senza riferirsi in alcun modo al turno precedente (ad esempio
con avversative, ripetizioni, commenti), mettendolo semplicemente dinanzi al fatto compiuto43.
A proposito delle violazioni delle norme conversazionali commesse dal personaggio, se si
esclude dal loro computo la mancata collaborazione alla chiusura del dialogo con Cherea (d2), che
l’amico non ha neanche atteso preoccupandosi di scappare via subito dopo l’ultimo turno
pronunciato44, esse si limitano all’interruzione di un turno di Gorgia in d22 al v. 872, che vuole
42
Accogliendo l’attribuzione delle battute proposta da Sandbach per il v. 819, come sono incline a fare, si ritiene
ovviamente che Sostrato ripeta l’ultima parola della battuta immediatamente prima conclusa dal padre per sincerarsi che
davvero egli dica la verità quando afferma di accettare volentieri (ἑκών) la richiesta del figlio. A ben vedere, tuttavia,
non esistono argomentazioni decisive in favore del testo oxoniense: è ugualmente plausibile che Callippide finisca la
sua battuta al verso precedente, Sostrato pronunci per la prima volta in forma interrogativa il termine ἑκών e il padre la
ripeta affermativamente nella risposta. In B infatti manca sicuramente un dicolon, che doveva essere collocato dopo la
seconda occorrenza dell’aggettivo al v. 819 oppure precedentemente alla prima alla fine del v. 818.
43
G-S ad v. 69 osservano: “Sostratos disregards the unwelcome advice, confessing that he has already taken positive
action by sending Pyrrhias to broach the matter: there is a fait accompli, marked by the perfect tense of πέποµφα”. In
modo simile Schäfer 1965, 38, osserva riguardo alla seconda parte di questa scena: “Die beiden Personen sprechen
schließlich nur mehr miteinender, aber ohne sich noch zu erreichen; die Worte des einen gehen am anderen vorbei”,
aggiungendo, ib. n. 28, “Besonders deutlich zeigt es sich von v. 70 an: Auf die umständliche Meinung des Chaireas,
auch jetzt müsse man sich erst nach γένος, βίος, τρόπος erkundigen, stellt ihn Sostratos vor das fait accompli τὸν
Πυρρίαν ἐγὼ πέποµφα. … Diese Gesprächsform hier lehnt sich wohl an die in Tragödie (z.B. Eur. Hipp., Dialog
Phaedras mit der Amme) und Komödie (z.B. Arist. Plut., Dialog des Chremylos und Blepsidemos) zu verschiedenen
Absichten verwendete szenische Form des mißverständlichen Sprechens an”.
44
Ho già discusso supra, 253 n. 33 la questione della risposta alla domanda postagli da Gorgia al v. 371 di d6.
256
essere un modo immediato e familiare per scuotere l’interlocutore, il quale sta esprimendogli la sua
difficoltà (dovuta ad insicurezza) ad intervenire al simposio organizzato dalla famiglia di cui si
prepara ad entrare a far parte45.
Lo studio dei vocativi ne evidenzia da parte di Sostrato un uso piuttosto vario: il personaggio
li impiega spesso come appelli per prendere contatto con un’altra persona (ad esempio per dare
inizio ad un dialogo, come avviene all’inizio di d2 e d11 o richiedere il compimento di un’azione,
come al v. 867, quando si rivolge alla madre all’interno della grotta), ma anche come allocuzioni
interne ad un confronto verbale. In generale, il personaggio sembra piuttosto attento nella scelta dei
vocativi quando si rivolge a liberi, pur non raggiungendo in generale eccessi di deferenza, mentre
nei confronti di familiari e schiavi si comporta in modo più naturale e soltanto verso questi ultimi si
lascia andare, peraltro di rado, a manifestazioni di rabbia mediante l’uso di vocativi offensivi. A
proposito di Gorgia, in d6 utilizza più volte il normale µειράκιον (vv. 299, 342) da cui si
distaccherà soltanto al v. 359 quando preferirà ὦ τᾶν46. Nel seguito della commedia i due si
rivolgeranno l’uno all’altro con il vocativo del nome proprio, testimoniando la maggiore confidenza
che a poco a poco si stabilisce tra loro. Nei confronti di Pirria, invece, impiega in d2 il vocativo
offensivo κακόδαιµον quando ha la sensazione che questi gli stia sfuggendo (v. 84) e forse µαστιγία
nella ripresa di dialogo successiva all’uscita di Cherea (v. 140)47.
Gli atteggiamenti non verbali non sembrano appartenere alle forme di comunicazione che
Sostrato preferisce. Essi non svolgono mai un ruolo determinante nei dialoghi, tranne che nella
parte conclusiva dell’incontro con Cherea (d2), quando il giovane innamorato lascia chiaramente
intendere al suo interlocutore (che pure fa mostra di non avvedersene) di essere rimasto deluso dei
suoi comportamenti. Il silenzio adottato in quella occasione da Sostrato si sostituisce alle parole,
rivelatesi con un simile interlocutore strumenti di comunicazione fallaci ed in quanto tali inutili.
45
G-S ad v. 871 affermano soltanto: “Gorgias would have completed his sentence with some verb like συνδιατρίβειν”,
Handley ad vv. 871-sg. si limita ad osservare che Sostrato “gaily sweeps the objections aside”. Casanova 2007 sostiene
invece che sia Gorgia a fermarsi prima dell’intervento di Sostrato, operando una sospensione della frase con ellissi del
verbo, che comunque resta molto lieve “non comportando una chiara decisione di reticenza” (5).
46
Di µειράκιον e di ὦ τᾶν ho cercato il valore in altri passi menandrei e nella prosa greca classica e post-classica,
rifacendomi soprattutto per quest’ultima ai risultati di Dickey 1996, 73-76, 90 e 158-160 e 210-211. In prosa la valenza
del primo sembra poter variare da “flattering”, quando viene usato nei confronti dei bambini, ad “insulting” se rivolto a
chi si comporta come adulto, anche se tra estranei è rispettoso soprattutto se reciproco (Dickey 1996, 74). A proposito
di Menandro, G-S ad v. 319 notano come il vocativo sia spesso usato nei confronti di un interlocutore che secondo il
parlante abbia “something to learn”, rinvenendo questa sfumatura anche nell’uso che di esso fa Sostrato. Riguardo al
secondo, sembra che nella prosa greca esso non sia necessariamente negativo ma possa esserlo (Dickey 1996, 158-160);
in Menandro ricorre anche al v. 247 di questa commedia (in una frase di Davo che sembra di protesta verso Gorgia), in
Sam. 547 e in Mis. A82, due passi in cui il parlante sembra esprimere compassione verso l’interlocutore (collocandosi
dunque in un certo senso in una posizione di superiorità rispetto a lui). L’uso di ὦ τᾶν da parte di Sostrato potrebbe a
mio parere preparare la sua accettazione della sfida di incontrare Cnemone (la quale sarà infatti espressa nel prossimo
turno da lui pronunciato) mostrando a chi sa essere inesperto d’amore come il pericolo non possa frenare la sua
determinazione, soprattutto se egli avrà nuovamente occasione di vedere la fanciulla oggetto del suo sentimento.
L’interpretazione è simile a quella di G-S ad 359 anche se a me sembra esagerato ritenere con loro questa frase la
reazione ad un presunto tentativo di Gorgia “to scare Sostratos”. Cfr. anche supra, 230-231 n. 385.
47
Va precisato che nel verso il vocativo è frutto di integrazione (cfr. Sandbach in apparato).
257
L’influenza del sistema delle preferenze sui modi comunicativi di Sostrato si coglie riguardo
a diversi aspetti, offrendo interessanti spunti di riflessione sul carattere del personaggio. In linea
generale si può osservare come il suo comportamento verbale si modifichi, in base al carattere
preferenziale o meno dell’enunciato che egli si prepara a produrre, nei modi individuati dall’analisi
conversazionale nell’interazione reale odierna.
Il personaggio associa spesso la produzione del complemento non atteso di una coppia di
adiacenza (ad esempio il rifiuto di un consiglio o di una richiesta) a quella di elementi che lo
marcano chiaramente come non preferenziale. In d6, ad esempio, preparandosi a rifiutare il
consiglio di Gorgia di lasciar perdere ogni tentativo di avvicinare Cnemone, Sostrato apre due
coppie-inserto di tipo domanda/risposta volte ad accertare il grado di esperienza dell’amico in
materia amorosa e soltanto in seguito pronuncia il suo rifiuto in modo indiretto, fornendo la
motivazione per cui non può accettare il consiglio (οὐκέτι / τοῦτ’ ἐσ]τὶν ἐπ’ ἐµοί, τῶι θεῶι δέ ai vv.
346-347) In modo simile si comporta in d19: quando Gorgia cerca di differire il soddisfacimento
della sua richiesta di pronunciare la formula di fidanzamento tra lui e la figlia di Cnemone e gli
consiglia di consultarsi prima con suo padre, Sostrato replica che questi non gli si opporrà in nulla
(v. 761), rendendogli chiaro che non sussistono le motivazioni per attendere ancora. Ancora, nel
replicare negativamente all’invito di Geta ad entrare nella grotta in d11, Sostrato non risponde in
modo diretto ma afferma che lo farà soltanto “dopo una piccola corsa” (µικρὸν διαδραµών, v. 557)
e spiega subito dopo che andrà ad invitare ancora due persone.
Al contrario, solitamente non incontra difficoltà a chiudere una coppia in modo
preferenziale. Gli enunciati prodotti in questi casi sono infatti sempre espressi in modo esplicito e
richiedono una produzione di materiale verbale inferiore a quella che caratterizza i complementi
non preferenziali. Si pensi ad esempio all’accoglimento della richiesta di Gorgia di essere ascoltato
all’inizio di d6 (καὶ µάλ’ ἡδέως· λέγε, al v. 270). In d20 il giovane si mostra estremamente abile
nella comunicazione con Callippide. Pur non rifiutandosi di rispondere alla domanda del padre (che
egli sa essere affamato) se la famiglia abbia già pranzato, evita di comunicargli l’informazione che
gli risulterebbe sgradita, sottintendendola ad una frase avversativa dal contenuto rassicurante (ἀλλὰ
καὶ σοὶ παραλέλειπται, v. 780), la quale viene immediatamente seguita dall’invito ad entrare,
esplicito e brevissimo (πάραγε, nello stesso verso). E’ per questo che la sua replica ha le
caratteristiche di un complemento preferenziale al primo elemento di una coppia di adiacenza. Lo
stesso atteggiamento si può notare a proposito delle catene d’azioni: dopo che Cherea ha delineato
le strategie che utilizza in favore di un amico innamorato, Sostrato finge di condividere in pieno
quanto da lui sostenuto e gli esprime falsamente il proprio accordo con una brevissima frase,
fungente come si è detto anche da segnale di sostegno (καὶ µάλ’ εὖ, v. 68).
258
Il comportamento conversazionale di Sostrato è inoltre interessante anche nei casi in cui si
trova di fronte al confliggere di preferenze diverse48. In d19, ad esempio, dopo avere ottenuto da
Gorgia un’attestazione di stima attraverso la pronuncia della formula di fidanzamento e
l’indicazione delle ragioni per cui secondo il giovane contadino l’amico è degno di sposare sua
sorella, Sostrato reagisce minimizzando i ‘complimenti’ ricevuti: all’augurio di Gorgia di rimanere
tale qual è adesso, Sostrato replica infatti dapprima affermando che sarà molto migliore che nel
presente (πολὺ µὲν οὖν κρείττω̣[ν ἔτι, v. 771), alludendo evidentemente all’importanza, per lui, di
avere finalmente combinato il matrimonio, ma subito dopo chiude l’argomento osservando che “è
forse di pessimo gusto lodare se stessi” (ἀλλ’ ἐπαινεῖν αὑτόν ἐστι φορτικόν <τι> πρᾶγµ’ ἴσως, v.
772). Come nella conversazione quotidiana di tipo occidentale, dunque, la non preferenzialità del
disaccordo rivela minore forza rispetto alla norma per cui non bisogna lodare se stessi49. Alla fine
dello stesso dialogo, ai vv. 782-783, nell’accogliere il consiglio di seguire suo padre nella grotta
rivoltogli da Gorgia, Sostrato innanzitutto si sincera che questi lo aspetterà in casa e gli promette
che lo raggiungerà presto. L’accoglimento di un consiglio è, come si è detto, ritenuto un atto
preferenziale. In questo caso, tuttavia, poiché costringe uno dei parlanti a separarsi dall’altro, viene
preceduto da una rassicurazione, essendo realizzato alla stregua di un complemento non
preferenziale. L’attenzione nei confronti dell’organizzazione delle preferenze è forse anche alla
base del silenzio di Sostrato nei confronti di Cherea in d2. Nonostante il mancato completamento di
catene d’azioni sia ritenuto non preferenziale, il silenzio viene scelto da Sostrato per evitare di
giungere ad uno scontro aperto con Cherea ed indicare al tempo stesso il suo disaccordo con le
valutazioni e le strategie suggerite dall’interlocutore, il quale, dal canto suo, fa mostra di non notare
il comportamento dell’amico non avendo alcun interesse a comunicare davvero. Il comportamento
di Sostrato, dunque, pur essendo piuttosto ‘eloquente’, fa sì che non si giunga ad uno scontro aperto
con Cherea ma lascia che l’interazione si chiuda senza rimuovere l’ormai frantumata lastra di
ipocrisia che pesa sul rapporto che il giovane ha con chi gli parla50.
Il sistema delle preferenze è, come si è detto, strettamente connesso e parzialmente
sovrapponibile all’impiego di strategie di politeness nel proferimento di FTA51. In generale si nota
come Sostrato tenda ad esprimere FTA che possono essere minacciosi per la faccia
dell’interlocutore in modo diretto ma risarcito soprattutto da strategie di diverso segno, tra cui
prevalgono quelle positive. A proposito delle richieste, ciò avviene ad esempio nella parte iniziale
di d1, quando spiega a Cherea che la sua condizione di sofferenza lo ha indotto ad associarlo a sé
48
Del conflitto di preferenze nella conversazione reale ho trattato supra, 98.
Cfr. Levinson 1993, 337.
50
Sulle differenti valenze del silenzio in reazione ad una valutazione cfr. ancora Levinson 1993, 337.
51
Della vicinanza tra l’organizzazione conversazionale delle preferenze e l’uso di strategie di politeness nel
proferimento di FTA ho trattato supra, 96 n. 82.
49
259
πρὸς τὸ πρᾶγµα, giacché lo ritiene amico e adatto all’azione (vv. 55-57), ma anche ai vv. 320-321 di
d6 in cui il giovane chiede aiuto a Gorgia per il matrimonio: subito dopo avere espresso ottimismo
sul fatto che il giovane contadino possa essergli utile52, Sostrato lo motiva con la frase γεννικὸν ὁρῶ
σε τῶι τρόπωι al v. 321, manifestando ammirazione per la persona del destinatario.
Altre volte le sue richieste sono formalmente indirette ma risultano immediatamente
comprensibili all’interlocutore: ad esempio in d21, quando sollecita suo padre a pronunciare la
formula di fidanzamento per Gorgia con la frase λοιπόν ἐστιν ἡµῖν ἐγγυᾶν (v. 841)53.
Non mancano esempi dell’uso da parte sua di strategie di politeness negativa, la cui
frequenza è tuttavia nettamente minoritaria rispetto a quelle di segno opposto, comprendenti ad
esempio l’autoumiliazione del parlante con frasi di supplica e tentativi di minimizzare l’imposizione
procurata all’interlocutore54. Nei pochi casi in cui una richiesta è priva di mitigazioni, la sua forma è
spiegabile con il fatto che deriva dall’accoglimento di un consiglio e contiene aspetti minacciosi per
la faccia dello stesso parlante. È questo ad esempio il caso della richiesta rivolta a Gorgia o a Davo
ancora in d6 di avere una zappa (ἔκφερε δίκελλαν, v. 375), la cui decisione è finalizzata a mostrare
la convinzione con cui egli accoglie lo ‘scomodo’ consiglio di Davo di lavorare la terra.
Gli atti di invito e di offerta, costituenti FTA soprattutto per la faccia del parlante (e molto
meno per quella negativa dell’interlocutore) sono spesso pronunciati in modo diretto da Sostrato,
come si nota negli ultimi dialoghi cui prende parte, in cui il giovane rivolge a Gorgia degli inviti in
maniera esplicita attraverso l’imperativo o il congiuntivo esortativo (rispettivamente ai vv. 852-854
di d21 e al v. 871 di d22). Meno diretta, anche se altrettanto chiara, è l’insistenza del giovane
nell’invitare Gorgia a banchetto molti versi prima, in d14 (vv. 611-612). Il valore della frase οὐκ ἂν
ἐπιτρέψαιµί σοι / ἄλλως ποῆσαι doveva comunque risultare immediatamente chiaro
all’interlocutore, visto che l’espressione retta all’infinito dall’ottativo potenziale costituisce,
preceduta da negazione, una formula comune negli inviti55. A ben vedere dunque Sostrato utilizza
delle strategie di attenuazione soltanto per l’atto di insistenza nell’invito, che doveva essere meno
preferenziale di quello di invito, già rifiutato da Gorgia fuori scena. La forma dell’offerta di aiuto
52
Cfr. supra, 184.
Nonostante una lacuna al v. 759, è possibile ricostruire una simile frase in d19 al v. 759, con cui Sostrato chiede a
Gorgia di recitare la formula per lui (cfr. G-S ad loc.).
54
Gli esempi di queste strategie usate da Sostrato sono stati da me discussi supra, 190-196.
55
Commentando il valore della formula in Aristoph. Av. 133, Fraenkel 1962, 69-71, nota come essa sia estremamente
frequente negli atti di invito e ne menziona diverse occorrenze in testi letterari e documentari: oltre al passo del
Dyscolos qui preso in esame e al verso aristofanesco appena citato, nomina ad es. Plat. Lach. 201 b, Rp. I, 328 b e 328 d
e, per i latini, Cic. Att. 2,2,3 (in cui si trova la frase: “cenes apud nos utique prid. Kalendas; cave aliter facias”). Lo
studioso osserva comunque che la stessa frase può anche servire “zur Unterstützung nicht einer Einladung, sondern
irgend einer dringenden Bitte”, come, tra l’altro, in Plat. Crit. 45 a e 46 a, Symp. 173 e, Rp. I, 338 a.
53
260
rivolta da Sostrato alla figlia di Cnemone in d456 è anch’essa esplicita, anche se mitigata attraverso
la frase condizionale che la precede.
Anche l’espressione degli atti di rimprovero nel parlare di Sostrato è, nella maggioranza dei
casi, chiara, indipendentemente dalle strategie che vengono utilizzate dal parlante per attenuarne la
forza. All’interno dell’interazione con Cherea in d1, Sostrato pronuncia un atto di rimprovero nei
confronti dell’amico soltanto all’inizio, deplorando il fatto che questi lo prenda in giro mentre egli è
preda di sofferenza (σκώπτεις· ἐγὼ δέ, Χαιρέα, κακῶς ἔχω, v. 54). In seguito, quando al giovane
innamorato risultano chiare l’ipocrisia di Cherea e l’insanabile differenza di vedute che li separa,
egli eviterà di entrare in aperto conflitto con lui, riservandosi di commentarne negativamente il
modo di agire soltanto dopo il suo allontanamento. Nelle interazioni con Gorgia è interessante
notare che a mano a mano che il rapporto tra i due giovani va avanti, Sostrato si esprime verso
l’amico in modo sempre più diretto e privo di attenuazioni. Così, se nel già esaminato rimprovero di
d14 per il rifiuto ottenuto ad un invito, Sostrato si esprime attraverso l’off recordness disambiguata
vicina alla politeness negativa, in seguito i rimproveri da lui espressi verso l’amico nei passo d21 e
d22 saranno del tutto diretti. Nel primo dei due il giovane, dopo avere chiesto a Gorgia spiegazioni
sulle ragioni del rifiuto del matrimonio da lui propostogli, lo rimprovera di φλυαρεῖν (v. 831). Il
rimprovero viene espresso in maniera esplicita, ricevendo probabilmente una certa enfasi dalla
presenza del vocativo del nome proprio dell’interlocutore. Nel secondo invece il rimprovero occupa
la prima frase della battuta conclusiva: similmente a quanto accaduto nel dialogo precedente,
Sostrato reagisce ad un’incertezza di Gorgia con una frase di biasimo (τίς ὁ λῆρος;, v. 872), cui
segue un atto di insistenza nell’invito che ha la forma di un comando (οὐ πρόει; allo stesso verso)
mitigato solo dall’illustrazione delle ragioni per cui l’insicurezza dell’interlocutore è immotivata
(οἰκεῖα ταῦτ’ ἤδη νοµίζειν πάντα δεῖ, v. 873). Nel prepararsi ad imparentarsi con l’amico, Sostrato
dunque sembra avvertire, nel proferire questi atti, come prioritaria l’esigenza della franchezza (che
porta con sé la directness) rispetto a quella della cortesia.
In un rapporto parentale asimmetrico qual è quello con il padre, Sostrato esprime una critica
in modo altrettanto diretto ma mitigato da strategie negative, in modo da evitare di attaccare
direttamente la persona dell’interlocutore ma al contempo ponendo una certa distanza tra sé e lui, il
che appare piuttosto notevole in una persona tendente ad essere diretta o a esprimersi nei modi della
politeness positiva quale abbiamo visto essere Sostrato.
L’insieme dei dati discussi rivela in Sostrato una completa padronanza degli strumenti
pragmatici che contribuiscono a dar vita ad una conversazione. In particolare, il personaggio sembra
essere consapevole della maggior parte delle regole e delle consuetudini che l’analisi
56
L’ho già presa in esame supra, 252.
261
conversazionale ha individuato come tipiche della conversazione reale odierna di tipo occidentale,
dalle norme del passaggio di parola all’organizzazione delle preferenze e all’uso di strategie di
politeness. La loro osservanza in un numero consistente di casi e la varietà delle realizzazioni che
esse conoscono dimostrano la sua capacità di adeguare il proprio atteggiamento interazionale ai vari
tipi di contesto in cui si trova a dialogare, che si differenziano soprattutto per l’interlocutore che ha
di volta in volta, per il modo in cui nelle diverse occasioni di interazione il rapporto con uno stesso
interlocutore cambia, per lo stato d’animo e gli scopi comunicativi suoi e dei suoi partner di
conversazione. In generale si può notare un uso più attento di strategie e accorgimenti comunicativi
con estranei liberi o con familiari ai quali è legato da un rapporto asimmetrico in cui egli occupa
una posizione di inferiorità. Nei confronti degli schiavi, siano essi appartenenti alla sua famiglia o
estranei, Sostrato sembra invece lasciarsi andare ad un modo di esprimersi più diretto e a volte
meno controllato.
262
3.1.3 Cherea
La caratterizzazione linguistica del personaggio nei pochi passi in cui compare (d1 e d2)
non avviene unicamente attraverso le sue scelte lessicali, che, come è da tempo stato notato57,
sembrano rifletterne la mediocrità ed il conformismo, ma comprende anche usi retorici e pragmatici
altrettanto significativi della sua personalità e del rapporto che lo lega all’interlocutore.
L’esame del turn-taking rivela la forte disinvoltura di Cherea nel dialogo già al suo apparire
in d1: egli prende di solito la parola mediante autoselezione ed apre – con atti linguistici di varia
natura come la domanda, il consiglio, la critica – più di una coppia di adiacenza nei confronti di
Sostrato, assumendo in tal modo una posizione dominante. Quando non si seleziona per aprire
coppie di adiacenza lo fa per prendere atto del contenuto delle battute dell’interlocutore e per
commentarlo, di solito in modo negativo (vv. 52-53, 74-75). L’esame della durata dei suoi turni
conferma l’immagine che di lui davano i comportamenti già citati, mostrando come non rinunci a
tenere la parola a lungo per ostentare le proprie qualità (vv. 57-68). Ugualmente significative sono
le violazioni di cui si rende responsabile nel dialogo considerato. Al v. 72 interrompe un turno di
Sostrato per chiedergli quello che questi stava appunto per dire, non nascondendo il proprio
sconcerto nei confronti delle azioni dell’amico, che in seguito manifesterà ancora più
esplicitamente; dopo i vv. 75-77 invece, non appena Sostrato ha riconosciuto l’errore commesso e si
è giustificato con una massima sulla difficoltà, per chi è innamorato, di comprendere che cosa sia
davvero utile fare, Cherea non completa la catena d’azioni che l’atto linguistico dell’amico avrebbe
atteso, ad esempio minimizzando la gravità del comportamento precedentemente condannato.
Anche dopo l’ingresso in scena di Pirria (dopo il quale al v. 82 si ha l’inizio del passo d2)
Cherea si mantiene fedele agli atteggiamenti tenuti in precedenza, tacendo prudentemente durante la
concitata apertura del dialogo tra lo schiavo e il suo padrone, forse fino al v. 10258, allorché
interviene autoselezionandosi dapprima con brevi commenti al resoconto dell’incontro con il padre
della fanciulla e quindi con due lunghi turni nei quali gestisce da solo, come vedremo, la chiusura
della conversazione e dell’incontro con Sostrato. In questo dialogo Cherea non commette violazioni
delle regole conversazionali, ma ne subisce più di una per ragioni di convenienza. Nel penultimo
57
In particolare da Arnott 1970, 55, che, basandosi su una nota di Stoessl, ad v. 53, parla, a proposito del linguaggio di
Cherea, di “odd habit of repeating colourless words in his conversation”, citandone come esempi “ἐρῶν 52, 53, 59;
εὐθύς 52, 59; ταχύ 52, 63; τελέως 117, 122; perhaps also τυχὸν… τετύχηκε 125 f.”. Su questi dati riflette anche Del
Corno 1975a, 26-27, affermando: “sorprende la frequente ripetizione di vocaboli poco significativi …, quasi che alla
convenzionalità delle opinioni espresse da questo personaggio … dovesse corrispondere un linguaggio altrettanto
scolorito”.
58
A causa di una fastidiosa lacuna materiale non si può essere certi che Cherea rimanga silenzioso ai vv. 92-94. Questa
sembra essere l’opinione di Sandbach, che distribuisce le battute del passo tra i personaggi di Pirria e Sostrato (cfr. G-S
ad vv. 92-95); diversa è la ricostruzione recentemente proposta da Colin Austin, secondo cui il personaggio interveniva
almeno al v. 93 in replica ad una battuta di Sostrato (Austin 2004, 214).
263
turno prima della sua uscita di scena, il giovane consiglia a Sostrato di rinviare la missione presso il
padre della fanciulla. Della mancata risposta dell’amico, evidentemente dovuta a disaccordo, egli fa
mostra di non avvedersi, anche perché nel frattempo è intervenuto Pirria, il quale avalla questa
soluzione (νοῦν ἔχετε)59; al contrario, Cherea utilizza astutamente il mutismo di Sostrato per
riprendere a parlare e congedarsi da questi tra promesse, consigli e rassicurazioni formulati in modo
da non richiedere mai repliche verbali da parte sua. Mentre Sostrato, dal canto suo, rinuncia a
rendere esplicita con la parola la propria delusione, a facilitare involontariamente l’uscita di Cherea
è nuovamente Pirria, che accoglie in blocco tutte le idee da lui espresse (πράττωµεν οὕτως)
‘coprendo’ l’eloquente silenzio del suo padrone.
Le scelte operate dal personaggio riguardo al passaggio di parola e le sue reazioni agli
atteggiamenti altrui ne evidenziano dunque l’abilità nel guidare uno scambio verbale nella direzione
voluta.
Quanto alla struttura ed alla composizione dei turni, il personaggio riesce sempre a far
emergere con chiarezza che ogni sua battuta viene originata da quanto detto nel turno precedente,
intendendo probabilmente far presente all’interlocutore l’attenzione prestata alle sue parole o alle
situazioni che lo riguardano. Indicativo è a tal proposito nelle sue battute il fenomeno della
ripetizione, anche variata, di quanto detto da Sostrato, mediante il quale Cherea sembra voler
mettere in evidenza la volontà di venire incontro alle esigenze da questi espresse nella richiesta di
aiuto dei vv. 55-57 (passo d1). Nel turno immediatamente successivo a quello di Sostrato egli
accoglie la sua richiesta delineando i possibili comportamenti da adottare in casi come il presente
con parole simili a quelle appena impiegate dall’amico (con παραλαµβάνει τις τῶν φίλων… al v. 58
testimonia di assumersi l’incarico che questi intende affidargli e di ritenere scontata la definizione
di φίλος che Sostrato ha appena dato di lui). Ancor più notevole è quanto avviene anche al v. 128:
intendendo sottolineare l’opportunità del consiglio di rinviare l’incontro con il padre della fanciulla,
Cherea invita Sostrato a capire che “in ogni occasione è più efficace saper cogliere il momento
propizio”, impiegando al grado comparativo l’aggettivo πρακτικός, che Sostrato nella sua richiesta
aveva riferito a lui (v. 56). Esattamente nel momento in cui si defila, Cherea cerca di rafforzare
nell’amico-interlocutore l’idea che la sua decisione derivi dalla volontà di assolvere meglio, con una
strategia dettata dall’esperienza, l’incarico assunto e non dall’intenzione di rinunciarvi60.
Altri particolari ricorrenti nella struttura delle unità di turno prodotte da Cherea nel dialogo
rivelano come al tempo stesso il personaggio attribuisca grande importanza a ciò che egli stesso
dice. Non mi sembra ad esempio casuale che per ben tre volte nei versi che pronuncia egli premetta
59
Cfr. supra, 88 n. 63.
A tal proposito G-S ad v. 128 osservano: “Chaireas lives up to his reputation for giving practical advice (56). It is
comic that he advises inaction”.
60
264
a quanto sta per dire un pronome neutro od un’intera frase prolettici, in modo da conferirvi
particolare enfasi61. Ciò avviene ai vv. 53 (in cui τοῦτο prepara una battuta di spirito ai danni di
Sostrato), 58 (quando alla lunga esposizione delle linee di condotta adottate per venire in aiuto di
amici innamorati premette la frase οὕτως ἔχω), 127 (introducendo con la frase εὖ τοῦτ’ ἴσθ’ ὅτι la
sentenza con cui intende dare credibilità alla propria proposta finale). Questa scelta retoricosintattica, non molto frequente nel Dyscolos, ricorre in bocca a parlanti in procinto di dire qualcosa
cui attribuiscono grande importanza, di solito nel corso di accanite discussioni. Essa viene compiuta
altrettante volte soltanto da Sostrato e Geta, che pronunciano un numero di versi pari almeno al
doppio di quelli assegnati a Cherea: nell’eloquio di quest’ultimo ricorre pertanto con una frequenza
significativamente più elevata62.
Funzione enfatizzante ha spesso anche l’uso di accorgimenti retorici come l’aggiunta di frasi
sentenziose a suffragio di un’idea o di un ragionamento (vv. 62-63, 127-129 e per il tono anche 6668), l’accumulazione asindetica di termini designanti azioni od oggetti in descrizioni minuziose (vv.
59-60 e 65-66), l’uso dell’allitterazione nelle frasi di valore gnomico (v. 128).
In accordo con le caratteristiche appena descritte è anche l’impiego del vocativo Σώστρατε,
l’unico da lui pronunciato in ambedue i dialoghi. E’ notevole che due dei tre passi in cui compare
siano gli stessi cui il parlante attribuisce particolare rilievo con gli strumenti retorici e sintattici
poc’anzi descritti, ossia la battuta in cui sceglie di illustrare i comportamenti adottati in favore degli
amici che si trovino in emergenze amorose (v. 57) e quella in cui consiglia a Sostrato di rinviare la
missione esplorativa presso il vecchio (v. 127)63. Se si considera che quando, come in questi casi, il
vocativo viene usato con valore di allocuzione ha la funzione di rafforzare il contatto con
l’interlocutore in un particolare momento dell’interazione verbale in corso, appare presto chiaro che
in entrambi i casi Cherea ha inteso richiamare l’attenzione di Sostrato sul contenuto delle proprie
parole64.
61
Sul valore enfatico di queste costruzioni nel linguaggio dialogico terenziano cfr. Müller 1997, 220. La stessa funzione
nella lingua greca viene riconosciuta già in KG I 658.
62
Sostrato utilizza l’espediente ai vv. 379 (quando descrive a Gorgia la propria situazione affermando: οὕτως ἔχω·
παραποθανεῖν ἤδη µε δεῖ / ἢ ζῆν ἔχοντα τὴν κόρην), 613 (notando l’improprietà sociale del rifiuto espresso da Gorgia al
suo invito), 793 (chiedendo al padre le ragioni del suo rifiuto di concedere la propria figlia in sposa a Gorgia). Geta lo
impiega nel dialogo al v. 418 (spiegando a Sicone la ragione fondamentale del sacrificio dopo il sogno inquietante avuto
dalla madre di Sostrato) ed al v. 565 (quando, dopo avere appreso con disappunto la decisione del padroncino di invitare
ancora due persone al banchetto sacrificale, si dice sicuro che non riceverà nulla da mangiare), nel monologo al v. 605
come parte di un’intera frase prolettica della descrizione della vita dei contadini attici.
63
La terza occorrenza (prima in ordine cronologico) è quella del v. 51, che appare finalizzata in primo luogo a
soddisfare l’esigenza scenica di presentare al pubblico i due personaggi al loro primo ingresso in scena (in particolare il
protagonista Sostrato). Essa non ha particolare valore conversazionale, se non forse quello di meglio rendere la sorpresa
del parlante riguardo ai fatti appena raccontati dall’interlocutore.
64
Del vocativo pronunciato al v. 127 non va ignorata tuttavia l’altra funzione conversazionale, di importanza
fondamentale negli scambi verbali tra più di due parlanti, di chiarire l’identità del proprio destinatario nei turni non
rivolti a tutti gli interlocutori. Nel caso specifico Cherea, dopo avere indirizzato a Pirria brevi commenti sui fatti da
questi raccontati (vv. 112 e 116-117), ritorna a rivolgersi a Sostrato per illustrargli le sue idee sul da farsi.
265
Una riflessione approfondita merita anche il modo in cui il personaggio formula FTA nei
confronti degli interlocutori. Sembra che Cherea non ne modifichi l’espressione verbale con
strategie di politeness non tanto per riguardo all’interlocutore quanto piuttosto al fine di mantenere
un’immagine costante nei suoi confronti.
Nel dialogo d1, ad esempio, il giovane non si fa scrupolo di criticare più volte Sostrato
assumendo una posizione di superiorità rispetto a lui.
Così, ai vv. 52-53, egli si prende gioco della repentinità con cui è avvenuto l’innamoramento
dell’amico in modo piuttosto chiaro, dapprima con un’esclamazione che lascia la critica ancora
implicita (off record) non esprimendo un giudizio di valore (ὡς ταχύ), quindi con un enunciato in
cui scherza su quanto ritiene anormale nell’amico, utilizzando un espediente di politeness positiva
per esprimere il suo atto.
Qualche verso più tardi (v. 72), mentre apprende che Sostrato ha preso l’iniziativa di inviare
il proprio schiavo dal padre della fanciulla amata, non si fa scrupolo di interrompere il turno
dell’amico con una domanda che letteralmente invita questi a completare l’informazione che sta
dando ma contemporaneamente tradisce sconcerto per la stessa (πρὸς τίνα;). Non appena questa
viene fornita, segue da parte sua un nuovo atto di critica: come il precedente, anch’esso è
formalmente indiretto, presentandosi come una semplice esclamazione di sorpresa (Ἡράκλεις, /
οἷον λέγεις, vv. 74-75), ma riesce facilmente riconoscibile al destinatario nelle sue intenzioni
illocutorie sia per la sua ricorrenza nel parlare ad indicare sconcerto anche in quanto introdotta
dall’invocazione segnalante spesso turbamento di fronte a qualcosa di inatteso, pericoloso od
inappropriato65.
Poco più avanti, nel dialogo d2, Cherea commenta con fastidio le dure parole che Pirria
riserva al padre della fanciulla. Il giovane si limita a pronunciare un’esclamazione simile a quelle
precedenti rilevando come lo schiavo si lasci andare ad espressioni di rabbia (ὡς ὀργίλως, v. 102),
ma ancora una volta non formula un chiaro giudizio di valore sul suo modo di esprimersi, pur non
avendo l’obbligo di rispettare la sua persona.
Più di una volta, dunque, Cherea pronuncia parole di critica nei confronti di uno dei
partecipanti alla conversazione in modo da risultare comprensibile ma al tempo stesso senza troppo
esporsi, ossia mantenendo il contegno grazie al quale può presentarsi come perfetto rappresentante
degli ideali dell’establishment.
E’ probabile che il solo passo falso da lui compiuto nella gestione del proprio
comportamento conversazionale sia costituito dall’esclamazione in cui prorompe al v. 102 (ἐς
κόρακας) commentando la reazione inaspettatamente violenta del padre della fanciulla al saluto di
65
Cfr. supra, 200 e n. 314.
266
Pirria. Si tratta verosimilmente di una momentanea perdita del controllo nel giovane, testimoniante
la sua crescente inquietudine per la situazione presente66.
Nei due turni rivolti a Sostrato rispettivamente ai vv. 125-128 e 128-133 diviene
progressivamente chiara l’ipocrisia del personaggio nel compiere la chiusura di conversazione
(anch’essa costituente un FTA per il fatto di porre fine ad una conversazione di propria iniziativa):
anziché sconsigliare l’amico dall’avere a che fare con un πένης γεωργός – il quale, oltre ad essere
socialmente pericoloso, non rispecchierà senz’altro i requisiti relativi a γένος, βίος e τρόποι da
valutare secondo lui accuratamente prima di un matrimonio (cfr. vv. 65-66) – preferisce suggerirgli
di differire ogni iniziativa e promettere falsamente di assumersi il compito di parlare di persona al
vecchio il giorno dopo67, spendendo un numero eccessivo di parole al fine di accelerare il decorso
del dialogo. All’atto di chiusura, in particolare, Cherea si limita ad accennare quando invita Sostrato
a tornare anch’egli (καὶ σύ) a casa, facendo capire di prepararsi a farlo68. Il giovane rinuncia dunque
alla franchezza soltanto al fine di non perdere l’immagine di persona amica esperta e capace
riconosciutagli all’inizio dell’interazione. Si comprende dunque come mediante l’impiego di alcune
strategie di politeness egli miri non tanto a rispettare le esigenze di faccia dell’interlocutore ma a
salvaguardare le proprie.
66
Cfr. Bozanic 1977, 96.
“Chaireas proposes to take the affair into his own hands, as he had suggested at 65 would be the correct procedure.
His failure to do anything today is not to be allowed to diminish his importance” (G-S ad v. 132).
68
Sull’accumulazione delle tecniche di pre-chiusura impiegate da Cherea in sostituzione di un vero e proprio atto di
chiusura mi sono già soffermata supra, 88-89.
67
267
3.1.4 Callippide
Gli atteggiamenti interazionali che il vecchio adotta nei dialoghi d20 e d21 – gli unici a cui
partecipa – sono legati in gran parte al suo ruolo drammatico, dato che le scelte e le azioni da lui
compiute avvengono quasi interamente nel dialogo, manifestandosi attraverso l’interazione verbale
con altri personaggi.
Quando nel dialogo d20 al v. 779 dà avvio ad un brevissimo scambio verbale con Sostrato,
Callippide non utilizza specifiche tecniche di apertura, ma, con una domanda generica cui fa seguire
il vocativo del nome del figlio (τί τοῦτο;) ed una specifica sulla situazione del banchetto
(ἠριστήκατε;), entra immediatamente in argomento.
Anche intervenendo nella discussione in corso tra Sostrato e Gorgia di d21 evita inutili
formalità preferendo dire subito al secondo che cosa pensa del suo comportamento.
Callippide si mantiene prevalentemente reattivo all’inizio del passo d21 nei confronti di
Sostrato, che ha dato inizio alla conversazione al fine di ottenere qualcosa dal padre. Oltre a quella
domanda/risposta sono presenti coppie critica/rifiuto e consiglio/accettazione. Numerose sono
invece le coppie che egli chiude, mostrandosi sempre disponibile a farlo (senza cioè commettere
violazioni). Le autoselezioni di Callippide sono altrettanto esigue e non determinano mai la
produzione di turni di lunga durata. La coerenza del suo comportamento riguardo alle regole del
turn-taking rivela dunque come egli intervenga soltanto ogniqualvolta ritenga necessario farlo per
risolvere una situazione o sollecitare un’azione.
Le mosse interazionali compiute dal personaggio sono spesso cruciali nello svolgimento di
uno scambio verbale: apre il primo dialogo con il figlio, prende autonomamente l’iniziativa di
intervenire nel secondo, impantanatosi per la divergenza di opinioni tra i parlanti che vi erano
impegnati, è lui a decidere nel dialogo maggiore (d21) di chiudere l’argomento di discussione
dando inizio anche alla chiusura di conversazione sia nei confronti di Gorgia (vv. 847-849) sia in
quelli di Sostrato (vv. 857-860).
In tutti i dialoghi la comunicazione non verbale non riveste un ruolo rilevante per Callippide,
il quale affida alle parole persino il compito di annunciare i suoi spostamenti dalla scena.
Riguardo al rapporto tra gli FTA e la politeness, si può osservare come Callippide risulti in
generale piuttosto diretto nella comunicazione, anche nel compiere atti come l’espressione di
disaccordo, il rifiuto o la critica. Il personaggio non utilizza particolari strategie di politeness ma
mostra un’evidente preferenza per il parlare chiaro. Durante la discussione con il figlio in d21,
riaffermando il rifiuto di dare la propria figlia in sposa a Gorgia (vv. 794-796), il riferimento
all’interesse della famiglia, indicata dal pronome di prima persona plurale (ἡµῖν, v. 796), costituisce
268
un modo per ricordare all’interlocutore la comunanza di esigenze che li legano69. La replica verbale
del vecchio al lungo discorso di Sostrato (vv. 813-819) contiene un FTA di rimprovero per la
predica ricevuta dal giovane, che si esprime in forma chiara attraverso una domanda (τί µοι λέγεις
γνώµας;, v. 817) ma senza rafforzamenti di sorta (come termini offensivi, giudizi negativi espliciti,
ecc.). Nei confronti di Gorgia Callippide pronuncia ai vv. 835-836 un rimprovero forse espresso in
maniera diretta ma al contempo attenuato da limiti (quali l’avverbio εὐγενῶς rafforzato dalla
particella γε esprimente al contempo l’apprezzamento per l’atteggiamento nobile del giovane nel
rifiutare di approfittare della ricchezza dell’amico, e l’indefinito πως)70 e ai vv. 846 e 847
ripetutamente il rifiuto dell’offerta, da parte di Gorgia, di una dote per la sorella: dapprima lo fa in
modo diretto ma temperato attraverso la costruzione µή e congiuntivo aoristo71 e in seguito
presentandolo come consiglio diretto al giovane a non dividere la propria eredità (κέκτησ’ ὅλον σύ).
Da quanto osservato emerge come il comportamento dialogico (ed in genere interazionale)
di Callippide sia sempre autorevole ed essenziale, esplicito ma al contempo rispettoso
dell’interlocutore del momento.
69
Si può comunque supporre che il parlare in prima persona plurale sia non dovuto primariamente ad esigenze di
politeness ma costituisca una caratteristica del parlare dei padri di famiglia. In questa commedia anche Cnemone prima
del grande monologo in cui rinuncia al suo ruolo di padre si esprime spesso in prima persona plurale (ne parlerò infra,
318), e più di una volta lo fanno anche i padri di altre commedie (ad es. Demea nella Samia, cfr. v. 157).
70
Il testo dei vv. 835-836 è mutilo.
71
Cfr. supra, 209-210.
269
3.1.5 Gorgia
Molti tra i comportamenti interattivi di Gorgia conoscono nel corso della commedia
numerose variazioni dipendenti dal contesto in cui si manifestano, pur mantenendo delle
significative regolarità.
L’applicazione delle regole del turn-taking da parte del personaggio riflette in modo chiaro i
rapporti con i suoi interlocutori, mettendo in qualche caso in luce come essi si modifichino nel
corso della commedia (talvolta proprio attraverso l’interazione rappresentata in scena). Il primo
dialogo in cui compare (passo d5), che lo vede impegnato a parlare col proprio schiavo Davo, viene
da lui chiaramente dominato grazie alla frequenza dell’autoselezione e all’apertura di diverse coppie
di adiacenza regolarmente chiuse dal partner di conversazione. Nel passo d6 Gorgia si mostra
all’inizio estremamente attivo nel dialogo, dapprima per ammonire il giovane ancora sconosciuto a
non commettere ingiustizie, in seguito per scusarsi e spiegare all’interlocutore il carattere di
Cnemone rendendogli chiare le insormontabili difficoltà che si incontrano ad avere a che fare con
lui. Nel seguito dello scambio, invece, resta del tutto estraneo alla trasformazione in inganno della
propria idea di far incontrare Sostrato con Cnemone, compiuta da Davo col consenso di Sostrato.
Attivo è il personaggio anche nel passo dV, nel quale consiglia al giovane innamorato di smettere di
lavorare. Si mostra invece poco collaborativo nel corso del primo tentativo compiuto da Sostrato di
avvicinarlo a sé mediante l’invito al banchetto sacrificale celebrato dalla sua famiglia: lo dimostra il
dialogo d14, in cui Gorgia dapprima manifesta col silenzio la propria riluttanza ad accettare l’invito,
quindi cambia opinione comunicandolo all’interlocutore soltanto indirettamente attraverso le parole
rivolte a Davo (vv. 616-619). Che il legame di amicizia appena nato tra i due giovani si sia
rafforzato emerge una prima volta non molti versi dopo, allorché Gorgia, dopo avere appreso
dell’incidente occorso a Cnemone (passo d16), non si fa scrupolo di chiedere immediatamente aiuto
a Sostrato (vv. 637-638), poi in modo ancora più esplicito in d19 soprattutto quando alla presenza
di Cnemone sostiene la proposta di matrimonio dello spasimante (vv. 748-755). Il personaggio
diviene quasi esclusivamente reattivo negli ultimi dialoghi che lo vedono coinvolto (d21 e d22), nel
corso dei quali soprattutto dietro insistenza di Sostrato e per iniziativa di Callippide entra nella loro
famiglia assistendo al cambiamento del proprio status sociale.
Anche il comportamento da lui tenuto nei dialoghi con Cnemone (d17 e d19) è fortemente
significativo del genere di relazione esistente tra i due: in essi è infatti quasi sempre Gorgia a
cercare lo scambio e la comunicazione, nel primo caso aprendo la conversazione, nel secondo
trasformando il monologo di Cnemone in una interazione nonostante le resistenze del vecchio.
270
Il personaggio non si sottrae quasi mai al compito di completare una coppia di adiacenza
aperta dall’interlocutore quando ha a che fare con personaggi liberi. Tuttavia, un comportamento
singolare che Gorgia manifesta più volte nel corso della commedia è il completamento silenzioso di
coppie che in un primo momento il giovane contadino aveva mostrato di voler chiudere in modo
non preferenziale. Ciò accade ad esempio in d14, ma anche in d21, al termine del quale il giovane
cede alle insistenze di Sostrato entrando nella grotta di Pan per partecipare al simposio, ma lo fa
senza proferire parola dopo avere in precedenza espresso difficoltà ad accettare l’invito a causa
della propria timidezza. Un fenomeno assimilabile al precedente si verifica in d23, quando Gorgia
accetta senza replicare verbalmente l’invito di Callippide a tenere per sé l’intera eredità, anche se
quest’invito era esso stesso il complemento negativo di una coppia offerta/accettazione aperta dal
giovane qualche verso prima. Questo comportamento appare degno di nota soprattutto poiché viene
adottato sempre in reazione ad una proposta generosa rivolta a Gorgia da Sostrato e da Callippide,
testimoniando dapprima un’aperta riluttanza, quindi la difficoltà del giovane contadino ad accettare
la relazione asimmetrica che la famiglia dell’amico gli impone con affettuosa leggerezza.
Anche l’applicazione delle restanti regole del passaggio di parola riflette lo stato d’animo
del personaggio influenzando gli equilibri relazionali esistenti con i suoi partner di conversazione: il
prendere la parola autonomamente e il tenerla più a lungo sono infatti come nella conversazione
reale indici di un comportamento attivo e talvolta dominante all’interno di uno scambio verbale. Nei
dialoghi con Cnemone questo si verifica soltanto parzialmente: se nel primo dei due (d17) Gorgia si
accosta gradualmente al vecchio e, in diverse unità di turno, cerca di farlo riflettere sui mali della
solitudine profittando del momentaneo cambiamento dei suoi modi, nel secondo (d19) è costretto
dal suo atteggiamento non collaborativo a ridurre lo spazio dei suoi interventi fino alla
presentazione di Sostrato.
La durata dei turni proferiti dal personaggio influenza pesantemente la loro struttura interna:
solitamente infatti i più lunghi contengono unità complesse. Queste comprendono spesso numerose
frasi diversamente connesse tra di loro: il più delle volte sono contrapposte l’una all’altra,
presentandosi in rapporto di coordinazione avversativa; quando tra loro è presente la subordinazione
il periodo si sviluppa in modo faticoso, conoscendo anacoluti e, sul piano logico, piccole forzature e
contraddizioni (si pensi alla predica sui doveri familiari rivolta a Davo in d5, nonché ai turni iniziali
del passo d6, in cui il personaggio illustra le ragioni per cui lo sconosciuto interlocutore non
dovrebbe commettere ingiustizia nei confronti dei più deboli)72. L’andamento farraginoso di alcune
unità di turno è comunque del tutto involontario, o addirittura nasce paradossalmente dalla volontà
72
Sullo stile di Gorgia si sono soffermati ad esempio Arnott 1964, 116-119, Sandbach 1970, 116-119 e da ultimo
Ireland 1981, 186-187, che ne ha sottolineato il carattere contorto e la predilezione per l’antitesi e lo ha contrapposto
all’“uncomplicated, loose style” di Sostrato.
271
del personaggio di esprimere in modo chiaro e completo il proprio pensiero, testimoniata dall’uso,
nei turni più lunghi (come quello ai vv. 271-287 nel passo d6 e quello ai vv. 821-826 nel passo
d21), di domande ‘retoriche’ con funzione “didaktisch-textgliedernd”73 e dalla frequenza della
ripetizione di frasi e parole in uno stesso passo74.
Anche l’uso dei vocativi riflette il modo di relazionarsi agli altri del personaggio.
Significativo è ad esempio il fatto che egli non ne usa mai di offensivi, neanche nei confronti del
proprio schiavo Davo quando lo rimbrotta in d5 (vv. 233-247), chiamandolo solo con il nome
proprio (∆ᾶε, v. 240 e forse 235) né di Sostrato nel momento in cui gli rivolge pesanti accuse
(l’unico vocativo impiegato in quell’occasione è il distante ma rispettoso µειράκιον al v. 269); nei
confronti di quest’ultimo anzi, dopo che avrà chiarito le sue buone intenzioni verso la fanciulla, si
rivolgerà più volte nel corso dello stesso dialogo con il gentile βέλτιστε, attestante stima, in modo
da riparare al precedente atteggiamento (vv. 319, 342)75.
Nel linguaggio di Gorgia si ravvisano spesso FTA, i quali appartengono tuttavia a pochi tipi
ricorrenti. Il giovane pronuncia soprattutto atti di consiglio, rimprovero, invito, disaccordo. Il
ricorrere di simili atti linguistici nell’eloquio di Gorgia si addice perfettamente al carattere del
personaggio, il quale già nel prologo viene descritto da Pan come ὑπὲρ τὴν ἡλικίαν τὸν νοῦν ἔχων
(v. 28). Egli esprime gli atti facendo ricorso, anche nei casi in cui intende essere particolarmente
esplicito, ad accorgimenti di politeness destinati ad attenuare la minaccia per la “faccia” del
destinatario. In particolare, egli predilige l’off recordness e la politeness negativa soprattutto nei
confronti degli estranei.
Particolarmente significativo a tal proposito risulta a mio parere il turno iniziale del primo
dialogo con Sostrato (d6), con cui Gorgia gli rivolge un atto di rimprovero piuttosto forte76. Esso
inizia in modo indiretto con un discorso di carattere generale sul rapporto tra la condotta e il destino
degli uomini, il quale occupa la porzione maggiore (vv. 271-283) del turno. Si arriva al dunque
soltanto nell’ultima parte di questo (vv. 284-287), ma la reprimenda viene attenuata dal fatto di
assumere la forma di consiglio all’interlocutore, pur espresso in forma forte attraverso frasi
imperative (µήτ’(ε) … πίστευε … µήτε … καταφρόνει … πάρεχε).
Il quadro di azione individuato si ripropone anche nel primo dialogo con Cnemone (d17). Lo
scambio viene aperto da Gorgia dapprima con atti di offerta di aiuto (βούλει τι, Κνήµων; εἰπέ µοι, v.
691) e di invito a farsi coraggio (θάρρει, v. 692) che mettono in evidenza il suo atteggiamento
73
Schöpsdau 1995, 448. Cfr. anche KG II 162.
Ripetizioni degne di nota da questo punto di vista sono ad esempio quella, variata, della frase del v. 348 al v. 371 e
quella del verbo del v. 845 al v. 846.
75
Su questo vocativo cfr. anche G-S ad v. 319, che osservano come con la ripetizione dello stesso Gorgia voglia “repair
his earlier unfortunate attitude”.
76
Il peso dell’accusa deriva ovviamente dalla gravità di quanto viene contestato all’ancora sconosciuto Sostrato, ossia
l’intenzione di sedurre la figlia di Cnemone o, ancor peggio, di perpetrare violenza sessuale su di lei (cfr. vv. 289-293).
74
272
solidale ma non pressante nei confronti del patrigno (nel primo dei due atti la mitigazione
rappresentata dalla forma interrogativa viene controbilanciata dalla frase εἰπέ µοι che ne costituisce
invece un rafforzamento; l’atto successivo è invece diretto e privo di mitigazioni). Soltanto in
seguito ad essi, ossia con il tatto avuto anche in altri casi, Gorgia giunge al cuore del discorso,
impegnandosi nel tentativo di far capire a Cnemone la negatività della sua scelta di vita: gli atti da
lui compiuti sono rispettivamente di critica (vv. 694-695) e di consiglio (vv. 696-697). Il primo
comincia in modo formalmente off record con un’affermazione di carattere generale sui mali della
solitudine, che lascia affiorare il proprio valore illocutorio grazie a piccoli accorgimenti come
l’espressione, attribuita all’ ἐρηµία, τοιοῦτον … κακόν, in cui il dimostrativo tradisce il riferimento
ai fatti appena accaduti, l’uso della frase ὁρᾶις;, che spesso introduce atti di critica77 e il verbo
composto παραπόλλυµαι, che spesso “carries a connotation of unnecessary or regrettable death”78) e
dalla successione in cui sono poste le diverse unità. In fine di turno il giovane formula il consiglio,
presentato come conseguenza di quanto appena detto: τηρούµενον δὴ τηλικοῦτον τῶι βίωι / ἤδη
καταζῆν δεῖ (vv. 696-697). Utilizzando una delle strategie più efficaci della politeness negativa,
l’atto evita menzioni alla persona del destinatario omettendo il soggetto di seconda persona nella
frase infinitiva retta dall’impersonale e, contrariamente al solito, anche riferimenti alla stessa
persona di Gorgia come soggetto dell’enunciazione, per allontanare tanto il parlante quanto
l’interlocutore dall’FTA e ottenere in tal modo un effetto mitigante. Anche l’estrema brevità dei
turni e delle unità che li compongono è un segno della cautela avuta dal giovane contadino nel
rivolgersi al δύσκολος.
A proposito degli atti di rifiuto di richieste, offerte, inviti, essi sono, come si è visto,
caratterizzati da esitazioni, silenzi o al contrario lunghe spiegazioni, caratterizzandosi come non
preferenziali. Tra i diversi esempi dell’atto di rifiuto si può citare quello relativo alla proposta di
imparentarsi con Sostrato sposandone la sorella in d21: dopo aver sottolineato il profondo legame
affettivo che ha con Sostrato, dunque con un atteggiamento di politeness positiva, Gorgia manifesta
il rifiuto in modo del tutto indiretto, con una frase (µείζω … ἐµαυτοῦ πράγµατ’ οὔτε βούλοµαι /
οὔτ’ ἂν δυναίµην µὰ ∆ία βουληθεὶς φέρειν, vv. 825-826) che non viene compresa fino in fondo
dall’interlocutore (v. 827), chiarendo il proprio pensiero in diverse battute successive (vv. 827-829,
829-831 e 833-834) soltanto perché incalzato dall’amico.
77
Per il valore della frase cfr. KG II 354 ma anche Willi 2003, 185, da cui quest’uso viene qualificato come
“triumphant” nei confronti di “a preceding remark or action of the interlocutor”. In questo caso l’azione
dell’interlocutore che viene stigmatizzata è la decisione di non chiedere aiuto a nessuno per recuperare gli oggetti dal
pozzo in ossequio alla sua scelta di solitudine.
78
G-S ad v. 695. Cfr. anche LSJ s. v. È chiaro tuttavia che in ragione di questa sfumatura semantica il verbo fungeva
anche da strategia di segno opposto nei confronti dell’interlocutore, indicando che a Gorgia sarebbe dispiaciuto se
Cnemone avesse perso la vita nell’incidente.
273
Gorgia pronuncia più volte anche atti di disaccordo, esprimendoli di solito attraverso le
procedure tipiche delle riparazioni. Nel passo d6 ciò accade al v. 289, quando, a Sostrato che gli ha
chiesto se ritenga che egli stia compiendo qualcosa di ἄτοπον (v. 288), il giovane contadino
risponde di ritenere che l’interlocutore abbia in animo di compiere un ἔργον φαῦλον79. Pochi versi
più tardi (v. 326), all’interno dello stesso passo, corregge la definizione di Cnemone come ὁ
χαλεπός (v. 325) appena data da Sostrato specificando che l’uomo ὑπερβολή τις ἐστὶν τοῦ κακοῦ. In
ambedue i casi, animato dall’ansia di rappresentare con esattezza un pensiero od una situazione80,
non si fa scrupolo di correggere quanto l’amico ha appena detto, ma senza sottolinearne
l’inadeguatezza con domande di forma ICTS ripetenti polemicamente parte del suo turno, bensì
sostituendovi direttamente ciò che ritiene più corretto. Più esplicito è il disaccordo espresso ai vv.
833-834 (passo d21) anche perché costituente al contempo un atto di rigetto dell’accusa di Sostrato
di non ritenersi degno del matrimonio: replicando, Gorgia precisa che in realtà si giudicherebbe
degno di sposare la fanciulla, ma non di ricevere dalla famiglia di lei grandi ricchezze partendo da
una condizione di povertà. La ripetizione, effettuata per ben due volte, dell’aggettivo ἄξιος
precedentemente pronunciato da Sostrato rende l’atto del tutto patente: messo sotto tiro dall’amico,
il parlante si sente costretto a fargli presente che l’accusa da lui appena formulata non è fondata
precisando le proprie posizioni.
Minore attenzione per la personalità dell’interlocutore si nota senza dubbio quando Gorgia si
rivolge a persone di famiglia, ma anche in casi di questo genere il giovane tende sempre a
trasformare un atto fortemente negativo come quello di rimprovero in un insegnamento positivo,
illustrando convinzioni di carattere morale e individuando linee di condotta cui uniformarsi per il
futuro, e, come già detto, non si lascia mai andare ad insulti. Lo dimostra più di tutto il dialogo d5
ai vv. 233-247, che fornisce un ritratto completo della personalità del giovane già al suo primo
apparire in scena: dopo avere, con un’interrogativa trasudante nervosismo, chiesto polemicamente
al proprio schiavo Davo perché si è comportato παρέργως … φαύλως τ’(ε) (vv. 233-234) di fronte
allo sbalordimento di costui gli spiega quali azioni sarebbe stato giusto intraprendere e lo invita per
79
Cfr. G-S ad v. 288. Görler 1961, 302, scrive: “Diese Worte gleichen einer Explosion”, aggiungendo, sempre a
proposito della battuta di Gorgia: “Er setzt nicht nur dem ἄτοπον des Sostratos, das ganz der urbanen Sphäre angehört,
ein wuchtiges ἔργον φαῦλον (in Sperrstellung) entgegen, sondern berichtigt diesen Ausdruck, der ihm gleich darauf zu
milde erschien, am Schluß seiner Worte durch πρᾶγµα θανάτων ἄξιον πολλῶν”. Ritengo tuttavia giusto osservare
anzitutto come quest’ultima espressione, che conclude la battuta di Gorgia, non costituisca una vera e propria rettifica di
ἔργον φαῦλον: poiché si riferisce alla violenza sessuale, indica propriamente soltanto una parte dell’azione moralmente
deprecabile che secondo Gorgia l’interlocutore ha in mente. Si può forse parlare più correttamente di un’amplificazione
connessa ad uno spostamento di prospettiva nel giudizio del parlante sul piano criminoso dell’interlocutore: dalla sua
qualificazione morale Gorgia passa, descrivendone a colui che ne è accusato le possibili componenti in ordine di
crescente gravità, a pensare al modo della sua punizione, a ciò spinto secondo me dalla rabbia che progressivamente si
impadronisce di lui. Inoltre, non credo che si possa dire che Gorgia esploda, nonostante la forza del suo modo di
esprimersi.
80
Nel secondo caso il giovane stesso dichiara quest’intento ai vv. 322-323, affermando di volere τὰ … ὄντα πράγµατ’
ἐµφανίσαι.
274
il futuro a comportarsi diversamente in nome di valori ritenuti inderogabili e includendo se stesso
come destinatario dell’ordine attraverso un congiuntivo esortativo alla I persona plurale, dunque
con una strategia positiva.
275
3.2 Samia
3.2.1 Moschione
Dall’analisi dei dialoghi cui Moschione partecipa il dato che emerge in maniera più
immediata è la sconcertante mutevolezza degli atteggiamenti da lui manifestati nei confronti delle
regole del passaggio di parola in conseguenza delle situazioni d’interazione che si trova a dover
gestire. In generale, si può dire che Moschione mantiene un atteggiamento attivo e rispettoso delle
regole del turn-taking quando non è preda di stati emotivi come paura, rabbia e sbigottimento, il che
accade soprattutto allorché vede minacciata o sente ferita la propria immagine.
L’applicazione, da parte sua, delle regole del turn-taking (ossia la presa di parola per
autoselezione e la selezione, da parte sua, del parlante successivo) lo vede far mostra di volersi
confrontare con l’interlocutore soprattutto nei dialoghi con il padre precedenti la scoperta della
verità circa l’errore da lui commesso nei confronti di Plangone (D3 e in parte D11), cui dà inizio e
nei quali pronuncia atti linguistici di consiglio, richiesta, critica, oltre ad aprire ripetutamente coppie
domanda/risposta, mostrandosi estremamente attivo. In quelli successivi alla rivelazione
(comprendenti parte di D11, D16 e parte di D17) Moschione diviene progressivamente passivo: se
in D11 dopo l’uscita di Nicerato egli insiste nel farsi ascoltare dal padre per raccontargli la verità
venendo reso oggetto di domande, raccomandazioni e richieste di chiarimento da parte del padre,
negli ultimi dialoghi, trattenuto dall’intenzione di mostrarsi sdegnato ma anche dalla paura di fare
arrabbiare Demea, non apre se non nel finale coppie di adiacenza nei confronti del padre.
Degli altri dialoghi che lo vedono partecipe, quelli con Parmenone (D1 e D15) sono
accomunati soprattutto dal passaggio, talvolta brusco, da un’iperattività conversazionale dovuta ad
una certa ansia conoscitiva da parte del giovane relativamente a ciò che riguarda le azioni e i
comportamenti del padre (si pensi ad esempio ai vv. 61-63 e 688-689, in cui ripete una stessa
domanda dopo aver già ricevuto una risposta adeguata ma inattesa dall’interlocutore) ad un
atteggiamento silenzioso e passivo (ai vv. 69 e 690) dovuto in entrambi i casi alla paura delle
possibili reazioni di Demea a suoi comportamenti. I due dialoghi si distinguono invece per le coppie
di adiacenza aperte dal giovane: nel primo dialogo infatti Moschione dà inizio soltanto a coppie
domanda/risposta mentre nel secondo pronuncia anche atti quali l’ordine, il rimprovero, l’insulto,
ecc. Se dunque da una parte si mostra in quest’ultimo aggressivo nei confronti dello schiavo,
dall’altra non riesce ad evitare gli eccessi e i difetti comunicativi (appunto l’iperattività e il silenzio)
non appena si trovi in situazioni che possano compromettere la sua reputazione presso Demea.
276
Quanto agli scambi verbali con Nicerato (D10, in parte D11, D17), se nel primo Moschione
sembra tenere testa al vicino di casa per il numero di applicazioni della regola, nel secondo il suo
atteggiamento nei confronti del vecchio si modifica notevolmente: l’esplosione di rabbia di questi ai
vv. 492-sgg. lo lascia pressoché privo di parole (riesce infatti in ventitré versi a pronunciare soltanto
due brevissime richieste di chiarimento ai vv. 497 e 513) anche allorché si rende conto
(probabilmente dopo il v. 507) che questi, insieme a suo padre, lo sta accusando di un atto ben più
terribile di quello che ha commesso; a proposito dell’ultimo dialogo, che si conclude felicemente
con la celebrazione, da parte dei due personaggi, del rito delle nozze, all’inizio di esso Moschione
chiude in modo piuttosto inatteso delle coppie di adiacenza aperte dal vicino e ne apre qualcuna che
suona altrettanto strana a chi non conosca le motivazioni profonde e gli scopi del suo agire: ad
esempio, ad una minaccia del vicino, reagisce infatti pregandolo di attuare quello che ha detto di
voler fare (δῆσον, ἱκετεύω, v. 719), ad un suo ordine minaccioso, seguito da una supplica del padre
ad obbedire per non irritare il vicino, obbedisce dicendo di essere stato convinto da preghiere
(ἀφείσθω· καταλελιπαρήκατε / δεόµενοί µου, vv. 721-722).
Anche le violazioni della regola hanno la stessa concentrazione all’interno dei dialoghi che
lo vedono coinvolto. In quelli con il padre, non si assiste ad evidenti violazioni prima della
rivelazione della verità: al contrario, in D3, anche nei turni di disaccordo, sia Moschione sia Demea
osservano il massimo rispetto della regola, il che offre l’impressione di un confronto molto aperto
tra i due interlocutori. La frettolosa chiusura di conversazione operata da Moschione ai vv. 161-162,
che avviene nonostante una prima opposizione di Demea ad essa e senza l’attesa di un consenso
successivo, è giustificata dal giovane con diverse strategie, non risultando scortese nei confronti di
suo padre (che infatti non se ne lamenta); in D11 il giovane non commette violazioni almeno sino
alla rivelazione della verità (vv. 477-479), mentre in seguito ad essa, oltre alla mancata risposta ad
una domanda del padre postagli al v. 480, causata soltanto da disattenzione ma cruciale per il
proseguimento dell’equivoco attraverso la creazione di un malinteso conversazionale, il giovane
cade in una progressiva immobilità soprattutto dopo l’intervento di Nicerato (ossia a partire dal v.
491), non riuscendo a replicare ai rimproveri e alle accuse che gli vengono rivolti se non con brevi
domande ICTS esprimenti confusione e incredulità. In D16, Moschione non completa le coppie di
adiacenza di tipo domanda/risposta e richiesta/accoglimento che il padre apre nei suoi confronti (ai
vv. 691, 693, 712).
Nei confronti di Nicerato, in D10 costituisce una violazione piuttosto importante la sua
mancata risposta al saluto rivoltogli da Nicerato ai vv. 430-431, dovuta all’impazienza di chiedere
277
al futuro suocero di celebrare le nozze81; in D17 Moschione viola la regola non rispondendo alla
prima domanda di Nicerato, probabilmente rivolta (anche) a lui (v. 715).
Nel primo dialogo con Parmenone (D1), invece, Moschione compie una temporanea
violazione a causa del silenzio con cui replica al rimprovero dello schiavo (τρέµεις, ἀνδρόγυνε, v.
69), silenzio causato dalla paralisi di attività e comunicazione che la paura gli sta provocando; in
D15 la prima violazione (anche se forse non così importante né sentita, visto che ne è vittima uno
schiavo) è costituita dalla mancata risposta al saluto da parte di Moschione (v. 658), cui seguono
l’indifferenza verso il preannuncio della buona notizia da parte di Parmenone (v. 673), il rifiuto del
consiglio esplicito dello schiavo (vv. 677-678), l’assenza di risposta alle richieste di chiarimento
dello stesso (vv. 661, 678).
Il rispetto del sistema delle preferenze da parte sua fa sì che egli produca con una certa
difficoltà atti non preferenziali come l’espressione di riluttanza nell’accogliere il consiglio di
Parmenone in D1 (ai vv. 65-66, 67 e 69). A tal proposito è notevole in D11 che l’equivoco tra
Demea e Moschione preesistente alla loro interazione faccia sì che quello che al giovane sembra un
comportamento preferenziale (ossia in generale l’interessamento a che la lite tra Demea e la sua
amata venga composta) appaia l’opposto al padre (il quale sospetta una tresca tra lui e la donna):
per questa ragione la sicurezza mostrata dal figlio nel mantenere tale atteggiamento per tutta la
prima parte dello scambio chiedendo al padre le ragioni della sua decisione (prima del v. 477, in cui
Demea lo accusa esplicitamente) viene interpretata come inaccettabile sfrontatezza da Demea, il
quale invece, nell’apprestarsi a compiere la rivelazione di quanto ha scoperto, usa tutte le cautele
che precedono il proferimento di atti non preferenziali. In seguito, il suo silenzio di fronte alle
accuse di Nicerato è dovuto all’impossibilità di produrre da parte sua il complemento preferenziale
ad esse, costituito dal loro rifiuto: Moschione infatti crede di essere accusato della seduzione di
Plangone, colpa che ha realmente commesso, ma per Nicerato e suo padre il suo comportamento
non può che costituire un’ammissione di colpa. Neanche quando il giovane si rende conto
dell’errore in cui sono incorsi i due vecchi riuscirà a discolparsi, dato che per scagionarsi dalla falsa
accusa dovrebbe ammettere la sua vera colpa, che risulterebbe meno grave per suo padre ma
peggiore per il padre della fanciulla di cui ha abusato82. Soltanto dopo l’allontanamento del vicino,
infatti, egli insisterà con suo padre per rivelargli la propria colpa, ma ciò sarà dovuto soltanto alla
volontà di scagionarsi dall’accusa più grave, come precisato dallo stesso personaggio nel corso della
rivelazione (vv. 526-527), derivando dunque da una sua valutazione all’interno di un conflitto di
preferenze.
81
82
Cfr. supra, 133-134.
Per l’analisi di questi malintesi cfr. anche supra, 161-162.
278
La durata dei turni del giovane nel dialogo rivela come questi mantenga più a lungo la
parola soltanto quando è davvero interessato a far procedere un’interazione in un determinato senso
(il che ad esempio avviene durante gli scambi di opinioni con il padre in D3 e in D11 o nella
richiesta-protesta che rivolge a Nicerato in D10 ai vv. 431-433) e come in nessun caso la sua
predominanza in interazione si esprima attraverso la produzione di turni di notevole estensione.
Quanto alla struttura delle battute, non si notano particolarità rilevanti riguardo a
Moschione, che pronuncia turni costituiti solitamente da frasi complete e in pochi casi, ancora una
volta quando è dominato dalla paura e dallo sbalordimento, da singole parole (si pensi ai vv. 497 e
513). Riguardo ai contenuti trattati, va notato che il giovane rispetta sempre la coerenza
argomentale: è proprio l’osservanza, da parte sua, della coerenza argomentale a costituire a mio
parere in una certa misura la ragione della prosecuzione dell’equivoco tra lui e suo padre in D11
(vv. 477-sgg.): se infatti Demea dà per scontato che la rivelazione circa la paternità del bambino
costituisca implicitamente un atto d’accusa anche per Criside e giustifichi l’avvenuta punizione
della donna, tutto ciò non viene compreso da Moschione, che non immagina quale grave accusa gli
si stia muovendo e dunque rimane sull’argomento in discussione, chiedendo in sostanza quali colpe
abbia l’etera nella vicenda del bambino.
La comprensione dei turni dell’interlocutore da parte di Moschione è sempre corretta, salvo
in D11 quando Demea effettua la rivelazione di quanto crede di avere scoperto (vv. 477-479) e
all’inizio della reazione di Nicerato (vv. 492-sgg.): ciò è tuttavia dovuto non a manchevolezze del
giovane nell’ascolto e nella comprensione dei turni dell’interlocutore, ma all’ambiguità con cui
Demea si esprime nel formulare l’accusa83.
Il fenomeno della ripetizione di parole, espressioni o frasi all’interno di un dialogo è
presente nel parlare di Moschione in misura simile in cui si registra per gli altri personaggi. La
funzione delle ripetizioni da lui pronunciate è varia: le etero-ripetizioni in turni di forma ICTS
servono il più delle volte a esprimere sentimenti di stupore e/o di disaccordo o richieste di
chiarimento, mentre quelle presenti in frasi di altro genere possono avere svariati valori, fungendo
ad esempio da espressioni di accordo o disaccordo, di accettazione dell’atto linguistico appena
compiuto dall’interlocutore, probabilmente di correzione. Quanto all’auto-ripetizione, essa si
colloca nella maggior parte dei casi in quella di interi atti linguistici, indicando l’insistenza del
parlante in essi (non è un caso che risulti particolarmente frequente in D15, nel quale ognuno dei
due partner di conversazione cerca di portare avanti lo scambio in un determinato senso), oppure
nella conduzione di un’argomentazione (D3), riguardando i termini relativi ai suoi temi
fondamentali.
83
Su di essa cfr. infra, 288-289.
279
I vocativi utilizzati da Moschione nei confronti dei partner di conversazione e viceversa
appaiono significativi del tipo di rapporto esistente tra il giovane e l’interlocutore del momento o
meglio del loro reciproco posizionamento. Nel rapporto, per se non problematizzato ma senz’altro
tenuto in conto dall’autore per la caratterizzazione del giovane, tra questi e il proprio schiavo
Parmenone, risalta anche per i vocativi utilizzati la differenza tra D1 e D15: mentre nel primo
Parmenone non risparmia critiche al padroncino, giungendo ad apostrofarlo con l’insultante
ἀνδρόγυνε quando si accorge che sta tremando (v. 69), e non vede il suo comportamento da questi
in alcun modo sanzionato, nel secondo è il giovane a mostrarsi in vario modo impaziente o
addirittura arrabbiato, rivolgendo allo schiavo, oltre che minacce e rimproveri, i vocativi οὗτος e
ἱερόσυλε84; da ciò si può desumere come il ruolo di confidente e consigliere che Parmenone mostra
di esercitare nei confronti di Moschione all’inizio della commedia non venga più accettato in
seguito dal giovane, che vi si ribella con forza; all’interno del rapporto con Demea, si nota come
Moschione si indirizzi al padre sempre con il vocativo πάτερ85 limitandosi a non rivolgergli la
parola quando si mostra sdegnato nei suoi confronti, mentre questi, che in condizioni normali
chiama il figlio Μοσχίων o παῖ e alla fine della commedia gli si rivolge con σύ, quando si ritiene
vittima del suo tradimento giunge a rivolgerglisi con l’espressione κάθαρµα σύ: tutto ciò,
determinato sicuramente da una situazione che può dirsi eccezionale anche tra le vicende
menandree a noi note, lascia tuttavia anche emergere per il figlio l’esistenza di un obbligo di
rispetto e riverenza più ferreo nei confronti del padre rispetto a quello avuto da questi verso il figlio,
ossia, in altre parole, di un’asimmetria relazionale. Nella comunicazione tra Moschione e Nicerato,
nella prima parte della vicenda (precedente gli equivoci e la loro soluzione) essi si rivolgono l’uno
all’altro con i vocativi dei rispettivi nomi propri (tranne che al v. 436, in cui il vecchio pronuncia un
φίλτατε di solito interpretato come forma di mitigazione dell’atto di comunicazione di una brutta
notizia sulla sua famiglia, ma che potrebbe essere anche ironico86), mentre in seguito Nicerato, in
preda all’equivoco, utilizza vocativi iperbolicamente offensivi e nell’ultima scena gli si rivolge
dapprima probabilmente con un παῖ e poco dopo con il vocativo µειράκιον, che sono più neutri e dei
quali il secondo può avere in Menandro delle sfumature negative di significato87.
Nei dialoghi che lo vedono partecipe (ancora una volta in quelli che precedono lo
scioglimento dell’equivoco) il personaggio pronuncia spesso domande di forma ICTS le quali
84
Sul valore di οὗτος come address cfr. supra, 70 n. 10. Riguardo al secondo Lamagna ad v. 678 osserva che
“l’aggettivo ha perso col tempo la sua carica significante per trasformarsi in un’offesa generica, come già ἀσεβής al v.
322”, confermandone dunque il carattere di insulto. A proposito di ἱερόσυλε Dickey 1996, 169-170 ne attesta l’estrema
rarità nella prosa e nella poesia classiche (oltre che in Menandro ben nove volte, è attestato soltanto in Luc. 21,35).
85
Il vocativo è sicuramente preceduto dall’interiezione ὦ soltanto nell’atto di critica che Moschione rivolge a Demea al
v. 725, non so se enfatizzandolo, mentre potrebbe esserlo (come ritiene ad esempio Sandbach, che lo inserisce nel testo
anche se, come precisa in apparato, a mo’ di integrazione exempli gratia) al v. 452, pervenutoci mutilo.
86
L’uso ironico di questo vocativo è attestato ad esempio anche al v. 293 di questa commedia e in Plat. Symp. 173e.
87
Cfr. supra, 257 n. 46.
280
fungono talora da veri e propri iniziatori di riparazione (tale è ad esempio in D11 la domanda τί …
λέγεις; nei confronti del padre, il quale parla tra sé e sé non rendendosi comprensibile88) talaltra da
espressioni di stupore o rabbia (ancora τί λέγεις; al v. 689) e da richieste di chiarimento.
Per il testo da me accolto Moschione non è responsabile di interruzioni di turni altrui nel
corso dell’intera commedia se non in D11 al v. 497, quando pronuncia un segnale di sostegno e
dunque non opera una vera e propria violazione, provocando soltanto una breve discontinuità nel
turno di Nicerato89. Il giovane si rende responsabile di un’aposiopesi soltanto nella prima parte di
D15, quando interrompe un proprio turno di minaccia (εἰ λήψοµαι / ἱµάντα – , vv. 662-663)90.
Se il silenzio, l’immobilità ed il tremore di cui Moschione cade preda quando si lascia
sopraffare da paura e vergogna (ad esempio in D1) non sono dovuti a sue intenzioni comunicative
ma sono piuttosto il prodotto della sua incapacità di controllare certi sentimenti (anche se finiscono
per comunicare all’interlocutore, in modo corretto od errato, il suo stato d’animo), altre volte, come
si è visto, il giovane si serve della comunicazione non verbale per manifestare i propri stati d’animo.
Ciò accade ad esempio quando si prepara ad ingannare il padre per fargli credere di partire: decide
infatti di rendergli noto il suo malumore per le accuse da lui ingiustamente subite in primo luogo
facendosi vedere mentre si equipaggia per lasciare la casa e partire mercenario (cfr. il dialogo D15
con Parmenone e i vv. 663-sgg.)91. In seguito, egli giunge ad utilizzare lo stesso silenzio dovuto a
paura e ad irresolutezza che spesso lo coglie a fini comunicativi. Ciò accade nell’intero passo D16
(vv. 691-712) che non può dirsi uno scambio verbale a tutti gli effetti a causa del comportamento
costantemente silenzioso del personaggio nei confronti del padre: se è vero che anche in esso il
silenzio di Moschione è dovuto soprattutto ad irresolutezza e a paura, viene a mio parere da lui
mascherato da segnale di sdegno e di dispetto e allo stesso modo viene inteso da Demea. Lo stesso
vale per l’inizio di D17, che vede ancora il giovane tacere di fronte alle domande irate di Nicerato
prima di prendere la parola al v. 719.
L’esame delle strategie di politeness utilizzate da Moschione nel compiere FTA nei
confronti dei suoi interlocutori rivela come il personaggio sia solito utilizzarne soprattutto nei
confronti di suo padre. Non si ravvisa infatti l’uso di tali strategie nella comunicazione verso
88
Per le riparazioni nella Samia cfr. supra, 151-160
Secondo il testo adottato da Sandbach Moschione interromperebbe un turno anche in D3 al v. 158, sottraendo la
parola a suo padre. Ho già specificato tuttavia in precedenza le ragioni per cui sono favorevole ad adottare per quello e
per i versi contigui la distribuzione delle battute suggerita dallo stesso Sandbach in G-S ad vv. 156-159.
90
A tal proposito Licinia Ricottilli osserva: “È la classica aposiopesi di minaccia: è incerto in particolare se si tratti di
aposiopesi dell’io, cioè se sia il padrone che si arresta (per autocontrollo, perché non ha neppure bisogno di parlare,
visto che può agire, ecc.) o se sia lo schiavo Parmenone che lo interrompe per evitare che proferisca contro di lui le
parole minacciose. Forse qui scatta il timore che ciò che viene detto si avveri, cioè quello che abbiamo definito il valore
magico delle parole. Ma c’è anche la necessità pratica di bloccare immediatamente il padrone, prima che passi
all’azione contro di lui” (Ricottilli 1984, 69-70). Casanova 2007, 11 n. 51 vede nella minaccia espressa da Moschione
“il primo segno di una ‘presa d’iniziativa’, un inizio di virilità” per il troppo timido giovane.
91
Il significato relazionale di questa modalità comunicativa sarà da me trattato infra, 393-sgg.
89
281
Parmenone e Criside (in D15 vedremo addirittura come il giovane si faccia valere presso lo schiavo
con atti chiaramente impolite come ordini perentori, rifiuti di rispondere, minacce e rimproveri, a
cui si aggiungono le percosse al v. 679), il che non desta sorpresa, data la loro condizione di
inferiorità. Maggiormente perplessi lascia il fatto che Moschione non mitighi quasi mai se non
minimamente gli FTA compiuti nei confronti di Nicerato: si è già notato come in D10 non completi
al v. 431 la coppia di adiacenza saluto/saluto aperta dal vicino compiendo, nell’ottica della
politeness, un FTA conversazionale e come nello stesso dialogo (ai vv. 431-433) la sua richiesta di
andare a prendere la fanciulla compiendo finalmente il rito nuziale pur non essendo veramente
diretta appaia soltanto minimamente temperata dal fatto di avere forma di domanda92; in seguito in
D11 il giovane pronuncia nei confronti di Nicerato una richiesta non temperata con frase imperativa
(ἀποτρέχειν αὐτῆι φράσον δεῦρ’ εἰσιών, Νικήρατε, v. 464). Soltanto in D17 il giovane supplicherà
il vicino di legarlo (v. 719), mostrando così non solo l’impazienza di porre fine alla messinscena
che sta recitando senza perdere la faccia ma forse anche il fatto di riconoscere al vicino il potere di
risolvere la situazione in cui rischia di rimanere intrappolato93.
Nella comunicazione con Demea, invece, si nota una presenza pressoché costante di FTA
risarciti da accorgimenti di politeness da parte di Moschione. In particolare, sia in D3 sia in D11 il
giovane predilige il ricorso ad espedienti di segno negativo o di off recordness anche soltanto
formale, come l’uso di frasi interrogative per esprimere disaccordo o critica (ad es. τίς δ’ ἐστὶν
ἡµῶν γνήσιος … ἢ τίς νόθος, γενόµενος ἄνθρωπος;, ai vv. 137-138, in cui il pronome di I persona
plurale comprende tutti gli uomini e non soltanto il parlante e l’interlocutore), il parlare in termini
generali (come nell’esempio appena riportato ma anche ad es. nella massima οὐ πάντα γὰρ /
ἐπιτρέπειν ὀργῆι προσήκει dei vv. 462-463), l’impiego di costruzioni impersonali (ἐστ’ ἀπρε[πές
con infinitiva al v. 162), l’auto-umiliazione (come, probabilmente, nei versi mutili 161-162
affermando di volere andar via disturbare i due vecchi con la sua presenza94). Le strategie
sinteticamente elencate95 consentono a Moschione di compiere atti minacciosi nei confronti della
faccia positiva del padre in modo piuttosto disinvolto, mostrando come essi discendano dalla sua
adesione a certe convinzioni e a certi valori e non da cattive intenzioni verso la sua persona. In tal
modo il giovane può insistere nel portare avanti la propria opinione, apparendo indipendente e
maturo, senza al contempo risultare irrispettoso del padre. Nel secondo dei due dialoghi menzionati
si osserva tuttavia come, dopo che con i consueti atteggiamenti non è riuscito ad imporre a Demea
la sua opinione sulla riammissione di Criside in casa, scontrandosi con un’ostinazione mai
92
Ho trattato l’atto supra, 231.
Cfr. infra, 401.
94
Per la ricostruzione dei versi cfr. Lamagna ad v. 162.
95
La loro trattazione completa (con l’illustrazione delle ricadute interazionali e relazionali da esse avute) sarà presente
nel capitolo dedicato alla relazione tra padre e figlio (infra, 336-sgg.)
93
282
sperimentata nel genitore, Moschione cambi atteggiamento, passando a formulargli la richiesta di
tornare sui suoi passi con strategie positive evidenzianti la comunanza di intenti e di interessi
esistente tra loro: oltre all’imperativa ταύτην ἐµοὶ δὸς τὴν χάριν del v. 468, che in questo passo
funziona soprattutto come strategia positiva96, sono tali un’espressione di accordo prima
dell’insistenza nell’FTA (ἀλλ’ ἐῶ al v. 471, con cui Moschione accoglie la richiesta del padre di
lasciargli celebrare le nozze), la precisazione di formulare la sua richiesta venendo incontro ai wants
dell’interlocutore (ἕνεκα σοῦ σπεύδω µάλιστα τοῦτο, v. 473). Questo cambiamento di strategie si
rivela a mio parere interessante per sottolineare la differenza tra strategie di diverso segno: se quelle
negative, come ho detto, tengono parlante e interlocutore ad una certa distanza, le strategie di
politeness positiva mostrano nel primo un atteggiamento più dimesso, confidenziale e affettuoso
sottolineando la presenza di complicità e condivisione tra loro97.
Il ritorno all’off recordness disambiguata e alla politeness negativa nella comunicazione con
Demea si ha soltanto in D17 ai vv. 724-725 quando Moschione, risoltasi la situazione, rimprovera il
padre di non aver mostrato immediatamente un atteggiamento risoluto verso di lui, affermando che
se lo avesse fatto non si sarebbe disturbato a filosofeggiare con il discorso tenuto98. Nello stesso
dialogo si osserva tuttavia come Moschione utilizzi strategie di distanziamento della propria
persona dall’atto linguistico che sta compiendo anche in precedenza: lo fa ai vv. 721-722 con una
battuta la cui prima unità è occupata dall’imperativo perfetto ἀφείσθω (traducibile con la frase: “Sia
gettata (sc. la spada)!”), mentre la seconda dall’affermazione καταλελιπαρήκατε / δεόµενοί µου.
L’atto linguistico in essa compiuto è quello dell’accoglimento di un ordine (e di una richiesta99), ma
il modo in cui si presenta mira alla deresponsabilizzazione del parlante rispetto ad essa: la forma
verbale usata nel primo, non presente altrove in Menandro e di uso piuttosto raro in altri autori100,
viene spiegata come “dramatic in effect … for the ordinary ἀφίηµι or καταβάλλω”101, oppure come
caratterizzante, insieme all’enunciato successivo, “in modo comicamente solenne la decisione di
Moschione”102, ma contribuisce a mio parere anche a spersonalizzare l’azione; l’affermazione
contenuta nel secondo enunciato motiva la decisione descritta nel primo presentandola (falsamente)
come il risultato di suppliche e preghiere rivolte a Moschione dai due vecchi, che vengono resi
96
Ne ho spiegato le ragioni supra, 230.
Il passo appena preso in esame sembra confermare la sensazione, ricevuta anche dal confronto tra Sostrato e
Callippide all’inizio del V atto del Dyscolos (vv. 784-sgg.), per cui l’utilizzo di determinate strategie di politeness
negativa nella comunicazione tra familiari provoca un effetto di distanziamento del parlante dall’interlocutore che rende
loro preferibili quelle positive, al contrario di quanto invece sembra avvenire tra gli estranei.
98
Per questo FTA di Moschione verso il padre cfr. supra, 240-241.
99
Intervenendo dopo il proferimento dell’ordine da parte di Nicerato, Demea modula in senso attenuativo l’ordine
trasformandolo in una richiesta-consiglio (chiede infatti al figlio di non far adirare il vicino).
100
Si trova infatti spesso nella letteratura filosofica e scientifica in prescrizioni, disposizioni, passaggi da un argomento
a un altro, ecc. (ad es. in Plat. Leg. 764a, Aristot. EN. 1096a, 1159b, Metaph. 990a, Hp. epist. 27,133, ecc.).
101
Da G-S ad v. 721.
102
Da Lamagna ad v. 721, il quale riprende forse delle osservazioni di Blume 1974, 278-279.
97
283
soggetti della frase e le cui presunte azioni sono per giunta descritte in maniera iperbolica mediante
l’accostamento di due verbi di significato simile il primo dei quali risulta particolarmente forte per
il fatto di essere un composto103. Notevoli sono dunque in questo turno l’eclissi della persona del
parlante nella prima unità e la sua comparsa come oggetto della frase nella seconda, nonché la
funzione della seconda come motivazione della prima. Il fatto che Moschione temperi quest’atto,
costituente un FTA non per gli interlocutori, ma per la propria persona, rende le strategie usate
accorgimenti di self-politeness, volendo sottolineare come il parlante non si stia piegando alla loro
volontà spontaneamente ma vi sia stato indotto controvoglia, cedendo alle loro preghiere104.
103
G-S ad v. 721: “This intensive compound was previously not recorded before Lucian, its rarity makes the falsity of
Moschion’s claim more absurd”. Lamagna ad v. 722: “anche in questa occasione Moschione si qualifica come
incorreggibile sognatore: mentre il suo proposito di essere pregato dal padre è fallito, lui prova a fare come se tutto
fosse andato secondo i piani, e afferma di restare a causa di preghiere insistenti”.
104
La valenza di quest’atto per il posizionamento di Moschione in interazione e per la relazione con il padre sarà da me
trattata più approfonditamente infra, 401.
284
3.2.2 Demea
I comportamenti interattivi del personaggio risentono delle alterne vicende cui questi va
incontro all’interno del plot essendo al tempo stesso connessi alle relazioni che lo legano ai partner
di interazione.
Nella conversazione, il personaggio si mostra estremamente attivo ed autorevole al suo
primo apparire in D2, quando prende la parola più volte per portare avanti l’interazione con coloro
che lo accompagnano e in particolare con Nicerato: nei confronti altrui, il vecchio apre numerose e
diverse coppie di adiacenza – da quelle di tipo domanda/risposta a quelle ordine/accoglimento,
proposta/accettazione, ecc. – operando più volte l’introduzione e il cambiamento di argomento al
suo interno (ai vv. 96 e 112) e scegliendo chi possa partecipare ad essa (si pensi all’ordine di entrare
in casa dato ai propri schiavi ai vv. 104-105, quando si prepara a trattare con il vicino la più delicata
questione del matrimonio dei loro figli)105. Un simile atteggiamento si può ravvisare in Demea
all’interno del secondo dialogo con Nicerato, D4: nonostante la perdita quasi completa di gran parte
dei versi che lo compongono, si sa che era lui a dare inizio allo scambio e a proporre a Nicerato di
anticipare le nozze di Moschione e Plangone, insistendo di fronte a suoi ripetuti rifiuti fino ad
ottenerne il consenso (vv. 186-187) e in seguito operando anche la chiusura dell’interazione per
dare inizio speditamente ai preparativi per la festa (v. 196)106.
Nei confronti di Moschione il vecchio sembra invece già nel primo dialogo (D3) restio a
discutere le proprie faccende sentimentali, come mostra il fatto che è suo figlio a chiedergli di
raccontare che cosa è accaduto e a trascinarlo, suo malgrado, in un confronto sull’argomento (ai vv.
129-sgg.). A causa della lacuna materiale di circa sedici versi che ci priva del cuore del dialogo non
è possibile stabilire come i due continuassero a confrontarsi sull’argomento e come da esso
passassero a parlare del matrimonio di Moschione, ma dalle battute finali dello stesso emerge un
atteggiamento maggiormente attivo del vecchio a proposito della seconda questione, che si esprime
nella manifestazione dell’intenzione di andare subito dal vicino a chiedergli di anticipare le nozze e
nella successiva richiesta al figlio di assistere al colloquio, da questi non accolta. L’autorevolezza
mostrata da Demea nei dialoghi con Nicerato viene in parte meno già in questo primo confronto con
il figlio, che gestisce il procedere dell’interazione con lui con un atteggiamento incalzante.
Con gli schiavi, Demea mantiene ovviamente costante la propria predominanza,
indipendentemente dagli stati d’animo da cui è attraversato. Lo testimoniano, oltre ai versi rivolti
105
È la distribuzione stampata da Sandbach (e accolta da Lamagna e Arnott). Quella accolta invece da Jacques e
Paduano (che attribuisce i vv. 115-117 sino a θέµενοι a Demea e il v. 117 sino a γοῦν) lascia emergere come assoluto
dominatore del dialogo Demea, che pur avendo chiesto l’opinione del vicino ne ripropone anticipatamente la propria e
sottolinea immediatamente dopo di averla concepita per primo.
106
Sui numerosi problemi testuali del passo cfr. Lamagna ad loc.
285
dall’uscio agli schiavi di casa (costituiscono la chiusura C13), i dialoghi con Parmenone che tiene
prima e dopo l’insorgenza dell’equivoco (rispettivamente D5 e D7), nei quali è il padrone a dare
inizio allo scambio e ad autoselezionarsi più volte aprendo coppie di adiacenza nei confronti dello
schiavo guidando nel senso voluto l’interazione107.
Nei confronti di tutti gli altri, la nascita dell’equivoco segnerà un provvisorio ma radicale
cambiamento nel personaggio, il quale, impostosi il silenzio con tutti riguardo alla ‘verità’ che crede
di avere scoperto, si mostrerà estremamente riluttante al confronto verbale. Tuttavia, se in D8
riuscirà, anche se a fatica, nel suo intento, non replicando alle domande e alle richieste di
chiarimento di Criside sulle ragioni per cui la sta cacciando di casa e arrivando a tacitarla
definitivamente al v. 380108, nel successivo dialogo con il figlio (D11) si lascerà trascinare nella
comunicazione dopo un’iniziale riluttanza manifestata non soltanto non prendendo la parola, ma in
più casi (vv. 457, 459-460, 466) anche non completando – con silenzi attribuibili o rifiuti di
rispondere – coppie di adiacenza aperte da Moschione: giungerà pertanto dietro richiesta esplicita di
questi a rivelare di sapere che il bambino è figlio del giovane e, in seguito alla presunta ammissione
della colpa da parte del giovane109, diverrà repentinamente più attivo ed aggressivo sino
all’intervento di Nicerato (v. 491), che con la sua esagerata reazione diverrà dominatore del dialogo
sino all’uscita. Soltanto la scoperta della verità circa il bambino farà sì che Demea ritorni agli
atteggiamenti rivelati all’inizio sul piano conversazionale. Tuttavia, se gli scambi verbali con il
vicino immediatamente successivi ad essa (D13 e D14) lo vedranno recuperare a poco a poco
quell’autorevolezza di cui presso di lui godeva sin dall’inizio della vicenda (anche se dopo lo
scontro fisico tra i due, data la furia con cui Nicerato intende vendicare l’oltraggio subito dalla
figlia) divenendo di nuovo leader dell’interazione pur senza dare la sensazione di imporsi (vv. 584615)110, in quelli con il figlio faticherà a fare andare avanti l’interazione: in D16 Demea è il solo ad
essere attivo, aprendo diverse coppie di adiacenza senza mai ricevere replica verbale dal figlio,
mentre in D17 la comunicazione tra padre e figlio sembra resa possibile soltanto dalla presenza di
Nicerato (dato che Demea interviene all’interno di coppie di adiacenza svolte tra il vicino e il figlio
e non risponde ad un’osservazione di critica rivoltagli da Moschione mentre sono da soli ai vv. 724725)111, riprendendo a funzionare soltanto nel finale (vv. 732-sgg.), quando anche Moschione
collaborerà con il padre al compimento della cerimonia.
107
In D7 tuttavia sarà lo schiavo a porre fine al dialogo autonomamente fuggendo dietro minacce di marchiatura da
parte del padrone (v. 324).
108
Dopo averla ridotta al silenzio continuerà tuttavia a parlarle per comunicarle la propria delusione per i suoi
comportamenti (cfr. supra, 151).
109
Per la mia interpretazione del passo cfr. supra, 164-165.
110
Sul modo scherzoso in cui Demea riesce a comunicare la verità su quanto accaduto a Plangone cfr. supra, 166.
111
Probabilmente a questo e ad altri momenti di silenzio registi diversi potevano dare differenti durate a seconda del
rilievo che si intendeva attribuire al tema del problematico rapporto tra padre e figlio.
286
A proposito delle violazioni delle regole conversazionali, si nota ovviamente un loro
addensarsi nei dialoghi svolti quando è convinto di essere stato tradito da Criside (D7, D8, D11).
Tuttavia, se nei confronti di Parmenone queste comprendono il mancato completamento di coppie
(vv. 296-297), la ripetuta interruzione dei turni e la brusca chiusura di argomento (ai vv. 310, 312,
320), e contro Criside il mancato completamento di coppie di tipo domanda/risposta o
richiesta/accoglimento, nel dialogo con Moschione esse saranno molto più blande, comprendendo
rifiuti di rispondere, silenzi attribuibili e l’interruzione di una coppia di adiacenza attraverso
l’annullamento del suo primo elemento (vv. 465-466)112, ma non interruzioni del turno dell’altro (il
vecchio non sottrarrà la parola al figlio neanche nei momenti in cui si fa più aggressivo verso di lui,
vale a dire ai vv. 477 e 490) né unilaterali chiusure di argomento (le quali saranno tentate più volte
ma senza successo sino al v. 471).
L’operare del sistema delle preferenze conferma le tendenze già illustrate a proposito degli
altri fenomeni conversazionali: in generale, infatti, esso è meno rilevante nella comunicazione del
personaggio con gli esponenti del personale di servizio e sembra sospeso nelle interazioni
conflittuali (che comprendono ancora una volta i dialoghi svolti durante l’equivoco ma anche la
prima parte di D14 sino ai vv. 584-585). Ho già sottolineato tuttavia come in D11 nei confronti di
Moschione Demea eviti di produrre un atto non preferenziale come l’accusa usando cautela anche
quando è deciso a proferirlo (v. 476)113.
I silenzi provocati nel dialogo dalla mancata autoselezione di Demea risultano significativi
dello stato d’animo del personaggio nei confronti dell’interazione in cui è coinvolto e
dell’interlocutore del momento. Ho già spiegato il motivo per cui credo che in D8 Menandro
rappresenti questo tipo di silenzio in diversi momenti114. In D11 mi sembra che il silenzio
interazionale sia rappresentato soprattutto attraverso battute in cui Demea si rivolge, oltre che a se
stesso, agli spettatori e ad Apollo (vv. 454, 456, 457-458, 461-462, 473-475), evitando di proseguire
l’interazione e provocando la ripresa della parola da parte di Moschione e il compimento di nuovi
atti linguistici come domande oppure richieste di chiarimento circa le parole pronunciate ‘a parte’,
evidentemente non comprese.
Demea pronuncia nel dialogo turni di una certa estensione in diverse occasioni: oltre che in
D8, in cui la ripetuta autoselezione del parlante, unita al divieto imposto a Criside di interloquire e
all’esclusione del cuoco, pone fine in qualche modo alla conversazione, eliminando il passaggio di
parola e in tal modo facendo sì che il dialogo si trasformi in un monologo di Demea, è notevole il
112
A questo proposito mi sembra opportuno osservare che la violazione conversazionale commessa da Demea è soltanto
apparente: è chiaro infatti che essa risponde a un tentativo di Moschione di intromettersi nella vita privata del padre
determinando il ritorno di Criside in casa contro la sua volontà.
113
Cfr. supra, 161-162.
114
Su questo tipo di silenzio ho già scritto in supra, 151.
287
lungo turno pronunciato dal vecchio in D16, col quale egli cerca di comporre il dissidio creatosi con
il figlio (vv. 694-712).
Quanto alla composizione dei turni, si può osservare in generale che essi sono nella maggior
parte dei casi costituiti da frasi ben formate, le quali risultano di solito complete anche quando
constano soltanto di una o poche parole, come avviene ad esempio nelle domande di forma ICTS, o
quando, integrando frasi di un turno precedente, ne riprendono la sintassi talvolta limitandosi a
completarle.
Le modalità dell’introduzione e del cambiamento di argomento da parte del personaggio
risultano interessanti anche per meglio comprendere come l’equivoco posto al centro del plot possa
protrarsi a lungo nonostante il numero di scambi verbali da lui condotti con diversi interlocutori
dopo che è stato suscitato. Se nei dialoghi precedenti il sorgere dell’equivoco essi vengono
effettuati normalmente, interessante risulta il modo in cui il vecchio introduce il tema dell’identità
dei genitori del bambino all’inizio di D7: anziché presentarlo in modo diretto, Demea preferisce
rivolgere allo schiavo una strana affermazione che suona: ἐγώ σε µαστιγοῦν, µὰ τοὺς δώδεκα θεούς,
/ οὐ βούλοµαι διὰ πολλά (vv. 305-307). Il riferimento ad una punizione in una situazione di
tranquillità rende immediatamente chiaro allo schiavo che gli si rimprovera qualcosa115: non a caso,
infatti, la sua replica ai vv. 307-308 consta della ripetizione stupita (in domanda di tipo ICTS) della
parola che lo ha colpito maggiormente nella battuta del padrone (µαστιγοῦν;) e di una domanda
reale relativa appunto alla colpa che gli si ascrive (τί δὲ / πεπόηκα;); rispondendo ad essa, Demea
rimane ancora vago, affermando di essersi accorto che lo schiavo gli nasconde qualcosa
(συγκρύπτεις τι πρός µ’ , ἤισθηµαι, v. 308). Soltanto dopo che Parmenone, impauritosi, tenterà di
negare l’accusa, il padrone giungerà al nocciolo della questione chiedendogli di dirgli di chi sia
figlio il bambino (vv. 313-314). I primi due atti, quindi sono funzionali a fare in modo che lo
schiavo, opportunamente da essi spaventato, fornisca risposte pertinenti sul tema di conversazione
propostogli.
Apparenti difetti di coerenza argomentale si possono invece cogliere nei dialoghi con
Criside e Moschione svolti durante l’equivoco (D8 e D11): nel secondo, ai vv. 477-sgg., nel rivelare
quella che crede essere la verità su Criside e il figlio, Demea ne svela soltanto la metà affermando
che il bambino è figlio di Moschione (τὸ παιδίον σόν ἐστιν, v. 477). In tal modo crede di aver reso
sufficientemente chiaro al figlio che egli, sia pure implicitamente, sta riferendosi alla tresca che
ritiene la donna abbia avuto con lui, mentre non fa che suscitare in Moschione una domanda con la
115
L’atto di minaccia è svolto in modo off record, anche se non a fini di politeness.
288
quale il figlio gli chiede che cosa c’entri Criside con il fatto che il bambino è suo (ἔπειτά σ’ ἀδικεῖ
Χρυσίς, εἰ τοῦτ’ ἔστ’ ἐµόν;, v. 479)116.
Il malinteso conversazionale è una caratteristica dei dialoghi di Demea da me in parte già
esaminata117. Ai passi già trattati (riguardanti i dialoghi D7 e D11), che costituiscono gli esempi di
malinteso più interessanti per le conseguenze che hanno sul piano drammatico e relazionale, posso
aggiungere in questa sede il malinteso in cui cade Demea in D3 a partire dal v. 153 quando, dopo la
domanda (non si sa se reale o avente il valore di richiesta o di lamentela) di Moschione su come il
padre possa aiutarlo senza essere informato di nulla di ciò che è accaduto, il vecchio risponde
affermando di avere capito a fondo quello che il figlio intende comunicargli (indicato sia da
Moschione sia da lui con il generico πρᾶγµα rispettivamente ai vv. 151 e 154)118, convinto che si
tratti del suo sentimento nei confronti della figlia del vicino. Probabilmente Moschione capisce che
il padre ha equivocato il senso della sua domanda, ma non lascia emergere il malinteso per non
rivelare la propria colpa.
A proposito delle ripetizioni, quelle di parte del turno dell’altro parlante appaiono avere le
stesse funzioni che hanno nel parlare di altri personaggi, mentre le auto-ripetizioni sono piuttosto
frequenti forse in dipendenza dello stato di concitazione e di nervosismo in cui Demea spesso si
trova nel dialogo: esse compaiono infatti soprattutto nei dialoghi svolti durante lo svilupparsi
dell’equivoco (D8 e D11) o in quelli contenenti vivaci confronti con altri personaggi (D14), mentre
in altri casi sembrano avere valore ‘retorico’, essendo finalizzati a rendere efficaci parti di discorsi
(D16)119.
I vocativi pronunciati e ricevuti da Demea sono anch’essi interessanti per far luce sui suoi
rapporti con gli altri personaggi. Se nei confronti di alcuni i vocativi usati sono sempre gli stessi
(come Criside e Nicerato120), in altri casi cambiano a seconda della situazione di interazione in cui il
vecchio si trova. Ciò avviene ad esempio a proposito di Moschione. Dai primi dialoghi (D3),
emerge che in situazioni di normalità Demea gli si indirizza con il vocativo del nome (v. 154) o con
116
Ancora Blume 1974, 186 sottolinea: “Das Vertrackte an der Situation liegt darin, daß Demeas mit seiner Feststellung
… wiederum nur erst die Hälfte des wahren Tatbestandes getroffen hat. In seinen Augen gilt natürlich immer noch der
Satz ‘mater semper certa’, und deswegen fühlt er sich berechtigt, das eigentlich Schockierende des Vorfalls schweigend
zu übergehen”. Dell’apparente infrazione della coerenza argomentale da parte di Demea in D14 ho già trattato supra,
166.
117
Cfr. supra, 163-165.
118
Interessante è a questo proposito l’uso, al v. 153, del verbo κατανοέω che vuol dire “comprendere (a fondo)” che a
mio parere Menandro contrappone all’ ἀγνοῶ probabilmente falso pronunciato da Moschione al v. 131 dopo che il
padre si è lamentato dei comportamenti di Criside: se infatti Moschione, che dichiara all’inizio del dialogo di non
capire, sa fin troppo bene come sono andate le cose, Demea, che alla fine afferma con convinzione di avere afferrato
chiaramente a che cosa si riferisca il figlio, non immagina in realtà i fatti cui il giovane allude. Sulle ragioni profonde di
questo e dei successivi malintesi mi soffermerò infra, 379-sgg.
119
I più tra questi esempi sono stati da me discussi supra, 158-159.
120
A quest’ultimo Demea si rivolge soltanto al v. 547 con il vocativo ὦ τᾶν, nel quale va colta forse una sfumatura di
protesta per il fatto che l’amico rientra in casa senza prestargli ascolto (cfr. G-S ad loc.).
289
il vocativo παῖ (vv. 129, 148) mentre il figlio gli rivolge il vocativo πάτερ (v. 128). In D11
l’appellativo usato da Moschione verso il padre resta costantemente πάτερ, pronunciato in apertura
di dialogo e in turni dal tono piuttosto forte (vv. 452, 486), mentre Demea passa dal vocativo del
nome di persona, pronunciato numerose volte all’inizio (vv. 452, 459, 465), a nessun vocativo nella
delicata fase in cui l’ira del vecchio monta per l’atteggiamento apparentemente sfrontato del figlio
(vv. 466-480) e al fortemente offensivo κάθαρµα σύ nel momento di massima tensione nella
comunicazione tra i due (v. 481), per poi di nuovo evitare i vocativi nella fase della spiegazione e
ritornare al consueto Μοσχίων quando lo scagiona definitivamente da ogni accusa (v. 537). In D16
Demea ritorna ai vocativi consueti, usandoli in domande stupite o in unità di turno cui egli
attribuisce particolare rilievo (come quella iniziale della ῥῆσις di chiarimento e quella che esprime
una critica al figlio, poste rispettivamente ai vv. 694 e 709), proseguendo più o meno allo stesso
modo in D17 (Μοσχίων al v. 720, ma σύ, più sbrigativo, al v. 732).
A proposito delle interruzioni, Demea come si è detto ne compie più volte in D7121 e in D14
(al v. 612) riuscendo così a dirigere l’interazione in un senso opposto a quello che stava prendendo
attraverso le parole dell’interlocutore e una sola volta. Nel suo parlare compaiono più volte anche
aposiopesi, che lo caratterizzano tuttavia anche nel monologo, in particolare quando si rivolge
esplicitamente agli spettatori122. In D8 costituiscono aposiopesi le auto-interruzioni di Demea ai vv.
372 e 374, testimonianti a mio parere le difficoltà di Demea nel mantenere il silenzio su quello che
crede di avere scoperto circa il figlio e Criside ma anche il prevalere in lui dell’autocontrollo123.
Un’aposiopesi eufemistica è invece quella del v. 598 in D14, interpretabile come scelta del
personaggio di alludere a quanto accaduto tra Plangone e Moschione evitando di completare una
frase dal contenuto imbarazzante e per giunta già ovvio.
Le forme in cui si presentano gli FTA che il personaggio compie nel dialogo dipendono
ovviamente dal contesto interazionale in cui egli è immerso.
Gli atteggiamenti più costanti e meno problematici sono sicuramente quelli tenuti da Demea
nei confronti di Parmenone e degli schiavi di casa in generale. Limitandoci in questa sede all’analisi
dei dialoghi che lo vedono confrontarsi con il primo (D5, D7 e D16), si può osservare in essi
l’estrema disinvoltura con cui Demea compie atti minacciosi per la sua faccia non curandosi mai di
temperarli con strategie di politeness ma anzi spesso rafforzandoli attraverso mezzi lessicali,
sintattici e conversazionali, in modo da rivelare nelle situazioni meno gravi una pressoché completa
indifferenza alla faccia altrui e in quelle più concitate e difficili la chiara volontà di offenderla.
121
Ne ho parlato supra, 153.
Ne parlerò infra, 385.
123
Cfr. Casanova 2007, 14 ritiene questi e in genere tutti gli usi dell’aposiopesi da parte del personaggio i casi più
clamorosi di aposiopesi nella commedia, che lo caratterizzano come “personaggio di forte sentire che s’impone un
durissimo autocontrollo, usando ripetutamente l’aposiopesi, difendendo il suo silenzio”.
122
290
A differenza di altri personaggi (come Moschione o, nel Dyscolos, Sostrato) Demea non
rivela marcate tendenze verso questo o quel determinato modo di esprimere gli FTA nel dialogo,
riuscendo anzi spesso efficacemente ad accostare strategie di segno diverso. Così in D2, nell’FTA
che ho indicato come proposta di abbandonare l’argomento di conversazione che si sta trattando, il
vecchio utilizza la directness temperata da strategie di segno positivo (καὶ ταῦτα µὲν / ἑτέροις
µέλειν ἐῶµεν, vv. 112-114) come la contrapposizione tra il soggetto dell’enunciato (un “noi”
inclusivo di parlante ed interlocutore) e non specificati altri (ἕτεροι) cui si lascia il compito di
occuparsi di argomenti oziosi, mentre immediatamente dopo nello stesso dialogo delinea invece in
modo meno diretto il secondo atto di proposta, quello di concludere il patto di matrimonio tra la
propria famiglia e quella del vicino: lo introduce infatti in forma di domanda, chiedendo al vicino
che cosa ne pensi (ὑπὲρ ὧν δ’ ἐλέγοµεν / τί δοκεῖ ποεῖν σοι;, vv. 114-115), e attendendo il suo
parere prima di esprimere enfaticamente il proprio accordo124.
Strategie varie si combinano mirabilmente nei versi finali di D14 (dal v. 584 sino al v. 612)
negli FTA compiuti da Demea per far sì che il vicino accetti di placare la sua ira e di celebrare le
nozze tra la figlia e Moschione.
Dopo averlo trattenuto dal rientrare in casa con ordini espressi in modo forte e non
temperato (v. 582) e inviti a contenersi (v. 583), Demea capisce che può cominciare a dialogare
serenamente con lui soltanto compiendo un passo indietro rispetto alla conflittualità sviluppata nei
versi precedenti: perciò, quando l’esagitato vicino lo rende oggetto dell’accusa di complicità
nell’ingiustizia perpetrata ai suoi danni, reagisce con l’imperativa τοιγαροῦν ἐµοῦ πυθοῦ, / τῆι
γυναικὶ µὴ ’νοχλήσας µηδέν (vv. 584-585). Con essa Demea compie innanzitutto l’FTA di
accettazione dell’accusa attraverso il connettivo τοιγαροῦν, che esprime velocemente accordo con
l’interlocutore e proietta l’attenzione su quanto segue, e immediatamente dopo quello di invito ad
acquisire le informazioni sull’accaduto da lui come da persona informata sui fatti. Quando Nicerato
ha accettato di ascoltarlo, Demea, pure non rinunciando a prenderlo in giro con un modo di fare
giocosamente allusivo, giunge a poco a poco al nocciolo della questione rivolgendo risposte
rassicuranti alle sue domande (come φλυαρεῖς· λήψεται µὲν τὴν κόρην, / ἔστι δ’ οὐ τοιοῦτον, ai vv.
586-588, in cui l’accusa di “dire sciocchezze”125 è esplicita ma contribuisce a tranquillizzare
l’interlocutore negando che egli sia stato danneggiato), invitandolo a una breve passeggiata
chiarificatrice (περιπάτησον ἐνθαδὶ / µικρὰ µετ’ ἐµοῦ ai vv. 587-588 in cui l’imposizione
rappresentata dal direttivo viene minimizzata dal neutro avverbiale), includendo se stesso e l’amico
124
L’attribuzione delle battute è comunque discussa (cfr. supra, 285 n. 105).
Del verbo φλυαρεῖν è testimoniato un uso piuttosto ampio tra persone di pari grado, come amici liberi o del
personale di servizio, di solito in atti di disaccordo (cfr. ad es. Dysc. 831), o verso personaggi di grado inferiore, in atti
di accusa o rimprovero (cfr. ad es. 658 e Peric. 336); nella Samia, tuttavia, anche Parmenone si permette di usarlo nei
confronti di Moschione al v. 690.
125
291
nel processo di ricerca e di comprensione della verità (con l’esclamazione ὡς ταχὺ / εὕροµεν, vv.
595-596), esprimendo, anche se in modo ironicamente iperbolico, manifestazioni di stima nei suoi
confronti (ἀλλὰ χείρων οὐδὲ µικρὸν Ἀκρισίου δήπουθεν εἶ, vv. 597), impedendogli di ritornare
sull’argomento in modo perentorio ma mostrando premura nei suoi confronti (πέπαυσο· µὴ
παροξύνου ai vv. 612-613, in cui l’ordine diretto all’interlocutore di cessare di parlare, aggravato
dall’interruzione del suo turno, viene temperato dall’invito affettuoso a non adirarsi), infine, a
suggello del raggiunto consenso, con ulteriori complimenti e lodi (κοµψὸς εἶ, v. 614126).
Nei confronti di Moschione il padre rivela già nel primo scambio verbale (D3) un’attitudine
alla directness temperata in FTA diversi, come il consiglio (si pensi ad esempio all’enunciato µήπω
δὴ βάδιζ’, ἄχ[ρι ἂν µάθω …, in cui l’invito a non andare via è soltanto minimamente temperato
dalla successiva temporale che lo motiva) o il rifiuto di un consiglio (come quello espresso ai vv.
134-136 attraverso diverse unità di turno127), ma al contempo all’espressione diretta e addirittura
rafforzata di FTA contro la propria persona (come quello di impegno a realizzare nel più breve
tempo possibile le nozze, espresso ai vv. 154-157)128. Se in D11 la sua comunicazione si fa in
ragione della situazione da oscura e indiretta al fine di nascondere l’accaduto (si pensi ad esempio
all’atto di accusa off record πάντ’ οἶδα al v. 466) ad esplicita e aggressiva dopo la presunta
ammissione di colpevolezza da parte del figlio (con rimproveri conditi da insulti ai vv. 481-484), in
seguito al chiarimento della verità non esita a pronunciare in modo privo di mitigazione un atto di
richiesta di scuse al figlio e contemporaneamente di auto-accusa (οὐδὲν ἀδικεῖς Μοσχίων <µ’>· ἐγὼ
δέ σε / ὑπονοῶν τοιαῦτα, vv. 537-538).
Una combinazione di strategie di politeness per FTA diversi (di critica, accusa, auto-accusa,
richiesta) che contribuiscono tutti a dare luogo ad un macro-atto129 di richiesta al figlio di desistere
dal proposito di partire si trova impiegata dal vecchio nel discorso tenuto in D16 (ai vv. 694-712).
In esso Demea formula FTA rivolti contro se stesso quali le auto-accuse esprimendosi in modo
diretto ma temperato da strategie di (self-)politeness, tra cui la vaghezza nell’individuare l’oggetto
della sua colpa (realizzata con pronomi indefiniti come τι ai vv. 702, 710), la minimizzazione della
stessa, indicata come errore (ἠγνόησ’(α) ed ἥµαρτον al v. 703, ἁµαρτία al v. 707) o follia (ἐµάνην
ancora al v.703), la sua limitazione mediante l’esplicita menzione di ciò che non è arrivato a fare
all’interlocutore (οὐχὶ τοῖς ἐχθροῖς ἔθηκα φανερὸν ἐπιχαίρειν al v. 706, in cui la negazione è
126
Cfr. Lamagna ad v. 614, che vede comunque una punta di ironia nelle parole di Demea (senz’altro presente, come
anche in precedenza), e G-S ad loc. (“Demeas flatters Nikeratos, ‘you are a clever chap’, i.e. to accept the theory put
forward and go on quietly with the wedding”). Per la stessa frase in Menandro in un atto di lode/complimento cfr. Peric.
298.
127
Nonostante la lacuna presente al v. 136 si può infatti affermare con certezza che Demea rimproverava a Moschione
di dire cose non conformi al suo carattere.
128
Per la forma rafforzata dell’impegno cfr. supra, 235.
129
Per la nozione di macro-atto linguistico, che comprende, in un turno o un intero scambio verbale, più atti cfr. Van
Dijk 1980, 342-362.
292
enfatizzata dall’iota deittico) e della cautela mantenuta nei suoi confronti (σοῦ πρόνοιαν ἡλ̣ίκ̣η̣[ν /
ἔσχον, vv. 704-705), la contrapposizione allo sbaglio dei meriti di una vita acquisiti presso di lui (ad
esempio con τοῦτόν εἰµ’ ὁ δοὺς [ἔγωγε] ai vv. 698-700, con la messa in rilievo del pronome
indicante la serie di favori concessigli). Nello stesso discorso, inoltre, compie FTA di critica nei
confronti del comportamento del figlio facendoli precedere dall’espressione di parziale accordo con
cui comincia il discorso, secondo un atteggiamento di politeness positiva (ὅτι µὲν ὀργίζει, φιλῶ σε
al v. 695130), ma in seguito non risparmiandosi riferimenti ai doveri di figlio cui non sta
ottemperando (ἀνασχέσθαι σ’ ἔδει / καὶ τὰ λυπήσαντα [παρ’ ἐ]µοῦ καὶ φέρειν τι τῶν ἐµῶν / ὡς ἂν
ὑόν, vv. 701-702), affermazioni dirette in cui la persona dell’interlocutore viene indicata
esplicitamente mediante il pronome di II persona singolare (σὺ δὲ / τὴν ἐµὴν ἁµαρτίαν νῦν ἐκφέρεις
… ai vv. 706-708) o il vocativo del nome proprio (οὐκ ἀξιῶ, / Μοσχίων, vv. 708-709); infine,
compie la sua richiesta ancora in modo chiaro ma mitigato (µή con congiuntivo aoristo), non
trascurando in essa di menzionare ancora una volta i propri meriti al fine di ridimensionare l’errore
(µὴ µνηµονεύσηις ἡµέραν µου τοῦ βίου / µίαν ἐν ἧι διεσφάλην τι, τῶν δὲ πρόσθεν ἐπιλάθηι, vv.
709-710) e ricordando in una sentenza finale quanto sia bello obbedire prontamente al proprio padre
(οὐ καλῶς ἔχει / πατρὶ µόλις πιθέσθ’, ἀκριβῶς ἴσθι, τὸ δ’ ἑτοίµως καλόν, vv. 711-712).
In questo caso tuttavia l’abilità di Demea nel contrapporre le proprie colpe e i propri meriti
verso il figlio in modo da far prevalere i secondi, nel criticare l’atteggiamento presente di
Moschione in modo diretto ma risarcito da attestazioni di stima, nel bilanciare mitigazioni e
rafforzamenti nell’atto di richiesta non avrà il successo sperato131.
130
In particolare, la frase affermativa φιλῶ σε si trova usata più volte al fine di constatare una comunanza di sentimenti,
modi di essere, interessi tra parlante ed interlocutore che giustifica il compimento di un FTA (si pensi ad es. ad Epit. fr.
1, in cui è il cuoco Carione a rivolgerla allo schiavo Onesimo nello stabilire che anche questi è, come il parlante, un
impiccione e probabilmente al fine di chiedergli di continuare i pettegolezzi sul conto del padrone di questi Carisio,
oppure ad Aristoph. Av. 1010, in cui il parlante la impiega per introdurre un atto di consiglio, che risulterà meno
molesto all’interlocutore in quanto appunto prodotto da sentimenti positivi provati nei suoi confronti dal parlante).
131
Ne parlerò infra, 399-400.
293
3.2.3 Criside
I pochi dialoghi cui l’etera partecipa (D1, D8, D9, D14) contribuiscono a caratterizzare il
suo personaggio come disinvolto e coraggioso, fornendo informazioni anche sulle relazioni che
intrattiene con gli altri personaggi, in particolare su quella con Demea.
Nella conversazione il personaggio si mostra estremamente attivo in D1: la donna si
inserisce nella conversazione già iniziata tra i due pronunciando una domanda-rimprovero nei
confronti dello schiavo (v. 69), dunque evitando tecniche di apertura, mentre in seguito si
autoseleziona più volte per chiudere catene d’azioni esprimendo valutazioni su quanto detto dagli
interlocutori (v. 77), chiudere coppie di adiacenza (rispondendo ad una domanda rivolta
verosimilmente da Parmenone a Moschione al v. 79) e replicare in un turno di una certa estensione
ad una obiezione di Moschione (dal v. 80 sino alla lacuna). Nella scena dell’espulsione da parte di
Demea (D8) i comportamenti della donna riguardo alla regola subiscono notevoli cambiamenti: il
dialogo, che si presenta come una chiusura di interazione differita132, viene chiaramente guidato da
Demea, anche se Criside nella sua prima parte non si rivela del tutto passiva, ma al contrario prende
la parola più volte (ai vv. 369, 372, 374, 376-377, 379, 380) per pronunciare domande finalizzate a
rinviare la conclusione dello scambio, a comprendere le motivazioni che sono all’origine della
decisione del suo uomo e a tentare un chiarimento, tacitandosi soltanto in seguito all’esplicito
ordine di Demea di non parlargli. In D9 Criside svolgerà un ruolo prevalentemente reattivo,
limitandosi a rispondere alle domande di Nicerato sull’accaduto (vv. 407-408, 409, 413-416) e a
seguirlo in casa dietro suo invito (v. 420), ma senza replicare ai commenti negativi del vicino sulla
sua decisione di tenere il bambino (v. 411). Ancora meno attivo è infine il comportamento della
donna in D14, quando essa non solo non aprirà coppie di adiacenza (se non una coppia-inserto di
tipo domanda/risposta finalizzata a capire chi la stia chiamando) ma indugerà prima di chiudere nel
modo richiesto la coppia invito/accettazione aperta da Demea all’inizio del passo (come mostrano i
vv. 569, 574, 575).
Le violazioni delle regole del passaggio di parola da lei compiute sono limitate all’ingresso
ex abrupto in una conversazione già cominciata e alla chiusura di coppie di adiacenza al posto
dell’interlocutore selezionato in D1 e al ritardo, in D14, nel reagire agli inviti di Demea ad entrare
in casa, dovuto a stupore e ad incredulità per il repentino cambiamento di atteggiamento dell’uomo
nei suoi confronti, che costringeranno il vecchio a ripeterli più di una volta (vv. 574-575).
Il funzionamento del sistema delle preferenze rivela come nel dialogo che la vede più
partecipe (D1) compia in modo deciso tanto atti preferenziali come l’espressione di accordo con
132
Cfr. supra, 160-161.
294
l’interlocutore (v. 77) quanto atti non preferenziali quali il rimprovero e il disaccordo
(rispettivamente ai vv. 69 e 80-sgg.). La sua indecisione nel compiere un atto preferenziale quale
l’accoglimento di un invito in D14 è invece spiegabile con il carattere inatteso di quest’ultimo per la
donna appena espulsa dalla casa di Demea.
Quanto invece al silenzio, nel dialogo D8 si determinano in più occasioni momenti di
silenzio dovuti a mancata autoselezione dei partecipanti: essi si concentrano non a caso in seguito
all’esplicito divieto fatto da Demea a Criside di rivolgergli la parola (v. 380), costituendo l’effetto
dell’obbedienza della donna al proprio uomo e non il prodotto di una sua scelta autonoma. Il fatto
che invece in D9 la donna non prenda la parola per spiegare la decisione, valutata negativamente da
Nicerato, di allevare il bambino, è frutto della sua prudente e coraggiosa scelta di non far sapere
nulla al vicino riguardo alla verità dei fatti, che ovviamente ne scatenerebbe l’ira nei confronti di
Moschione.
Criside pronuncia vocativi soltanto in D1: nel turno iniziale (v. 69) si rivolge infatti a
Parmenone con δύσµορε, vocativo tipico del parlare femminile e spesso usato in atti di rimprovero
dato il suo valore indicante al contempo riprovazione e pietà133 e in seguito (v. 81) a Moschione con
ὦ βέλτιστε, vocativo che potrebbe essere interpretato come pronunciato con atteggiamento di
superiorità nella replica ad un’obiezione, ma anche come espressione di affetto134. In D8 Criside
non utilizza nessun vocativo nei confronti di Demea (ὦ τάλαν del v. 369 costituisce un intercalare
tipicamente femminile con valore di esclamazione135).
Domande aventi forma di etero-inizi di riparazione (ICTS) sono pronunciate da Criside
diverse volte in D8 (vv. 372, 374, 376) quando non trova sufficientemente comprensibili le parole
rivoltele da Demea e chiede perciò di specificarle concludendo frasi interrotte, spiegando il senso di
affermazioni poco chiare, ecc.
A proposito della comunicazione non verbale, Criside se ne serve quando quella verbale le è
impossibile: ad esempio in D8, al v. 398, tenta di trattenere ulteriormente Demea fuori di casa per
convincerlo a cambiare idea, che avviene soltanto per via gestuale visto che dieci versi prima il
vecchio ha esplicitamente vietato alla donna di parlargli136; non so invece se possa essere
classificata come comunicazione non verbale l’esitazione mostrata dalla donna nell’accogliere
l’invito di Demea in D14 (vv. 569-575): a mio avviso questo indugio è innanzitutto sintomo dello
133
Cfr. supra, 160 n. 227.
Secondo G-S ad v. 81 “may recognize Moschion’s concern for her interests”. Esso tuttavia può essere anche ironico
quando si mostra di aver ragione su un argomento (cfr. Dickey 1996, 111, 113, 120, 139).
135
Bain 1984, 33 parla per il vocativo di “a kind of exclamatory function, reflecting either self-pity or sympathy
towards someone else”, aggiungendo: “Whether τάλαν is to be regarded as an exclamatory expression which happens to
have a fossilized vocative form … or whether we are sometimes entitled to treat it as a true vocative is open to
question”.
136
Su questo tentativo silenzioso concorda la maggioranza degli interpreti (cfr. supra, 143 n. 197).
134
295
stupore circa l’atto compiuto da Demea e della conseguente incertezza relativa alla sua
interpretazione da parte della donna, non avendo dunque un valore comunicativo intenzionale e
autonomo, anche se in via secondaria finisce per assumerlo costringendo Demea a far capire in
modo più esplicito all’interlocutrice che è dalla sua parte.
Gli FTA formulati dalla donna in D1 rivelano in lei un’estrema sicurezza nell’interagire con
i suoi interlocutori. Questa si manifesta come aggressività nei confronti di Parmenone, che Criside
non esita a rimproverare con decisione e ad una cui domanda replica in modo piuttosto forte (per di
più in spregio alle regole conversazionali) pur lasciando spazio ad un’obiezione (τί δὴ γὰρ οὔ; al v.
79), mentre diviene sostegno nei confronti di Moschione, nei confronti del quale la donna pronuncia
un’affermazione di accoglimento della promessa da lui pronunciata e di espressione di fiducia nelle
sue parole (ἐγὼ µὲν οἴοµαι al v. 77, forse posto in antitesi all’atteggiamento scettico di Parmenone
nei confronti del padroncino137) e a partire dal v. 80 un rifiuto immediato e sicuro dell’obiezione
mossale riguardo all’opportunità di raccontare a Demea di essere la madre del bambino, seguito
nello stesso turno da tre affermative in cui ai numerosi espedienti di rafforzamento (rappresentati ad
esempio dagli avverbi κακῶς e τάχιστα, dall’enfasi posta sulla persona della parlante con ἔγωγε …
δοκῶ e dal superlativo dell’aggettivo ὀργίλος138) si accompagnano minime strategie di politeness
che non attenuano la loro forza illocutoria pur rendendo le frasi meno minacciose nei confronti della
faccia dell’interlocutore (si pensi ad esempio al vocativo gentile ὦ βέλτιστε, il cui valore, come ho
poc’anzi detto, è comunque discusso).
In D8 l’atteggiamento manifestato dalla donna è molto differente, poiché diverse sono le
circostanze del dialogo e diverso l’interlocutore: nel corso del suo svolgimento la donna subisce
numerosi FTA di accusa espressi sempre in modo diretto (e raramente mitigati) da parte di
Demea139 e si limita a differire l’esecuzione dell’ordine di andare via comunicatole dal vecchio
attraverso i già esaminati atti di domanda e di lamento oppure, dopo che dal vecchio le è stata
proibita la presa della parola, soltanto mediante movimenti e gesti. La fragilità mostrata in questa
interazione dalla donna è senz’altro dovuta alla repentina perdita della posizione occupata nella casa
di Demea per volere dello stesso, il che non le consente se non minimi tentativi di opposizione a
quanto deciso; accanto a questa motivazione va tuttavia menzionato l’obbligo del silenzio a cui
Criside si è sottoposta, il che costituisce senz’altro una ulteriore ragione della sua limitata capacità
137
Cfr. a proposito del valore conversazionale dell’atto di Criside Fele 2007, 59-68. Frasi simili con lo stesso valore
sono ad es. in Plat. Crit. 47d e Aristoph. Pax 863.
138
È probabile che anche le diverse allitterazioni di consonanti occlusive sorde (π, κ, τ) abbiano l’effetto di rafforzare le
parole di Criside. Ritengo tuttavia da escludere che ciò sia dovuto all’intenzione della parlante: è più probabile che si
tratti di un espediente del poeta per far risaltare la loro forza presso gli spettatori.
139
Cfr. infra, 415-417.
296
di azione all’interno dello scambio verbale. Essa appare dunque non tanto un segno di debolezza
quanto invece un indicatore di una certa forza morale.
Questa sensazione si rafforza in seguito all’esame del dialogo D9, in cui la donna replicando
a Nicerato non si risparmia critiche alla persona e al modo di agire di Demea (che definisce
ironicamente ὁ φίλος ὁ χρηστός σου ai vv. 407-408 e che paragona ad un pazzo ai vv. 413-416), ma
accetta silenziosamente sia le domande sia le critiche mossele dal vicino per la sua decisione di
allevare il bambino senza neanche destare il sospetto di potersi aprire raccontando la verità per
recuperare la propria posizione.
297
4. COMUNICAZIONE E RELAZIONI INTERPERSONALI
4.1 Dyscolos
4.1.1 Cnemone contro tutti
4.1.1.1 I paradossi della δυσκολία di Cnemone. I: ‘comunicare il rifiuto di comunicare’
Il carattere del protagonista Cnemone viene descritto con chiarezza in apertura di commedia
dal dio Pan, che lo introduce nei primi versi del prologo presentandolo immediatamente come
asociale e burbero nei confronti di tutti (vv. 5-13) e passando quindi a raccontare la storia della vita
sua e dei suoi familiari (vv. 13-35).
Per il pubblico dinanzi al quale la commedia fu rappresentata non doveva essere difficile
immaginare che il personaggio principale fosse il perno attorno al quale si sarebbe sviluppato il plot
nonché la fondamentale sorgente di comicità dell’opera1, anche per l’ampio sfruttamento che del
tema del rifiuto dei rapporti umani era già stato fatto nella tradizione comica alla quale Menandro
attingeva. Purtroppo, come è noto, su quest’ultima è possibile affermare ben poco a causa della
scarsità dei dati in nostro possesso: da essi si ricava innanzitutto come le sue prime menzioni,
presenti già nell’Archaia, siano legate al personaggio dell’ateniese Timone2, divenuto proverbiale
per l’odio che si diceva avesse coltivato nei confronti del genere umano per gran parte della vita
dopo aver conosciuto l’ingiustizia e l’ingratitudine degli amici. È lui che, per antonomasia, si
nomina come θεοµισής negli Uccelli di Aristofane (vv. 1548-1549) ed è la sua storia che nella
Lisistrata le donne del coro raccontano per esemplificare l’avversione verso la cattiveria degli
uomini3 (vv. 805-820), mentre Frinico nel suo Monotropos, commedia dedicata al tema della
misantropia, come testimoniato da un frammento a noi giunto (fr. 19 K-A) non rinuncia al
riferimento diretto a Timone nella presentazione del suo protagonista (forse rivolto al pubblico,
questi dopo aver detto il suo nome aggiunge: ζῶ δὲ Τίµωνος βίον, / ἄγαµον, ἄδουλον, ὀξύθυµον,
ἀπρόσοδον, / ἀγέλαστον, ἀδιάλεκτον, ἰδιογνώµονα)4.
1
Anche i titoli indicati per l’opera dal codice Bodmer (Dyscolos e, nella didascalia antecedente al testo, Misanthropos)
rendono inequivocabile la tematica su cui essa sarà imperniata.
2
Le notizie fondamentali su Timone si apprendono da Plutarco, che in Ant. 69-70 lo presenta come cittadino ateniese
vissuto all’epoca della guerra del Peloponneso, raccontando alcuni aneddoti sulla sua vita. Altre fonti antiche riguardo
allo stesso vengono prese in esame da Bertram 1906, 4-13 e Armstrong 1987, 7-11, i quali giungono a conclusioni
opposte: se il primo ne desume il carattere leggendario del personaggio, il secondo le ritiene storicamente attendibili.
3
Da queste intesi come maschi (ἄνδρες, v. 815).
4
È ancora Plutarco, Ant. 70, ad informare che si faceva menzione di Timone anche nella produzione di Platone comico.
298
Relativamente alla commedia del IV secolo, le notizie secondo le quali diversi tra i maggiori
poeti dell’epoca si erano cimentati con il medesimo tema (da Antifane, cui si attribuiscono un
Timon e un Misoponeros, ad Anassila, che come Frinico aveva composto un Monotropos, e a
Mnesimaco, autore di una commedia intitolata Dyscolos) rendono ragione di credere che il
personaggio dell’ostinato solitario animato da misantropia fosse divenuto un tipo comico ben
definito5.
Mentre risulta estremamente arduo distinguere i debiti menandrei verso la tradizione dalle
sue innovazioni nel trattamento della tematica6, appare invece possibile (e diviene perciò
fondamentale) prendere in esame le modalità di raffigurazione del personaggio e la sua collocazione
nell’azione nel corso di questa commedia, al fine di valutarne la coerenza e il grado di integrazione
all’interno del plot, apprezzare la verosimiglianza delle sue motivazioni e del loro incontrarsiscontrarsi con quelle degli altri, comprendere il rapporto tra lo sfruttamento del potenziale comico e
dei motivi di repertorio legati alla sua maschera e lo spessore della sua dimensione umana sia
psicologica sia sociale, tentare, infine, di cogliere il messaggio che l’autore, portando sulla scena
questa figura, ha inteso far pervenire ai suoi destinatari.
Per questi scopi, da tempo perseguiti nella ricerca menandrea, appare addirittura ovvia
l’utilità di uno studio del suo agire comunicativo e relazionale secondo la prospettiva da me
proposta. Ora, i comportamenti comunicativi di Cnemone sono stati da me già ampiamente
illustrati7; in questa sezione del lavoro mi propongo invece di indagare tutto ciò che si trova a monte
e a valle rispetto ad essi, vale a dire, rispettivamente, le caratteristiche e le ragioni profonde del
modo di essere che il personaggio rivela attraverso la comunicazione, nonché le ricadute
interazionali e relazionali che esso conosce.
Per farlo occorre a mio parere considerare i comportamenti che dispiega quando è insieme
agli altri e da solo (rappresentati, rispettivamente, in dialogo e monologo) non dimenticando il
riferimento a quanto detto di lui da Pan all’interno del prologo, che probabilmente, nonostante
l’estrema sinteticità, ne costituisce la descrizione più veritiera. Come si è detto, la divinità dei
boschi lo presenta come ἀπάνθρωπός τις ἄνθρωπος σφόδρα / καὶ δύσκολος πρὸς ἅπαντας (vv. 6-7),
aggiungendo, qualche verso dopo, che è così per carattere (τῶι τρόπωι, v. 13). Oltre a rendere
immediatamente chiara la personalità del protagonista, la qualificazione appena citata lascia a mio
parere affiorare, in nuce, degli aspetti di questa che appariranno in tutta la loro evidenza soltanto nel
5
Sul tema della misantropia negli autori della Mese cfr. Bertram 1906, 14-15 e 19-20 e Jacques1, XXXI-XXXIV. Nel V
sec. era stato forse trattato anche da Ferecrate negli Agrioi (cfr. Zimmermann 1998, 199).
6
I rapporti tra il Dyscolos di Menandro e il complesso di notizie relative a Timone (la cosiddetta “leggenda di Timone”)
sono indagati da Schmid 1959a, 157-182, Schmid 1959b, 263-266 e Photiades 1959, 305-326 (quest’ultima si sofferma
anche sugli sviluppi della figura del misantropo nella letteratura successiva a Menandro).
7
Cfr. supra, 240-251.
299
corso della commedia: si tratta innanzitutto della paradossalità dell’atteggiamento di un uomo che si
ostina a tenere alla larga gli uomini – sottolineata con particolare efficacia dall’espressione
ossimorica oltre che paronomastica ἀπάνθρωπος … ἄνθρωπος8 – e, in secondo luogo, del fatto che
il suo rifiuto della compagnia e della comunicazione con gli altri come i sentimenti di odio (cfr. v.
34) che lo ispirano derivano soprattutto dalla tortuosità ed involuzione intrinseche al personaggio,
che diviene a sua volta insostenibile da parte degli altri: δύσκολος ha infatti i significati di “difficile
da accontentare, sempre scontento, scontroso, irritabile, fastidioso”9 e si distingue per questo in
parte da µισάνθρωπος, contenente invece l’elemento del µῖσος come caratteristica distintiva di
coloro cui viene riferito10.
Sembra che già attraverso le scelte lessicali presenti nella descrizione del prologo il poeta
abbia voluto sottolineare come l’odio che Cnemone prova nei confronti degli altri uomini non sia a
lui connaturato ma nasca appunto dall’intransigenza mostrata nell’avere a che fare con i propri
simili.
Inoltre, se si considera la posizione di rilievo attribuita dall’intera riflessione filosofica
dell’epoca, al di là dei diversi orientamenti, ai vari aspetti delle relazioni umane, dai loro
fondamenti nella natura dell’uomo alle loro tipologie e aberrazioni, non risulta difficile
comprendere come la figura del δύσκολος nella Commedia Nuova si caricasse di significative
implicazioni morali11. A tal proposito è importante citare il fatto che all’aggettivo ricorre Aristotele
nell’Etica Nicomachea per indicare sia gli individui che difettano nella φιλία12, da lui ritenuta un
valore centrale per la vita dell’uomo, sia quelli carenti riguardo all’anonima virtù consistente
nell’avere modi amabili all’interno delle relazioni sociali13: poiché quello peripatetico costituiva
senza dubbio il pensiero etico dominante nella società dell’epoca e Menandro dimostra di esserne
8
Handley ad loc. osserva, a proposito di questa espressione, che “the verbal echo of the Greek gives a touch of
rhetorical colour to emphasize one of Knemon’s leading characteristics”.
9
Cfr. Montanari s. v.
10
Non sarà un caso che, oltre che nella didascalia di B, l’aggettivo µισάνθρωπος non compaia mai nel testo della
commedia, e che invece δύσκολος sia riferito più volte a Cnemone (oltre che al verso citato del prologo, anche ai vv.
747 e 893) e, come neutro sostantivato, al suo modo di fare nei confronti degli altri (τὸ δύσκολον è presente ai vv. 184 e
242). Dello stesso parere è Hesse 1969, 81-90. Sulle differenze tra i due aggettivi cfr. anche Haegemans 2001, 676 n. 5.
11
Per la φιλία nelle filosofie del IV-III secolo (da quella epicurea a quella stoica) cfr. Konstan 1997, 108-121, nell’etica
peripatetica cfr. oltre allo stesso (soprattutto 67-82 e 91-92) anche McKerlie 1991, 85-101, che fa della φιλία il fulcro
dell’“eudaimonismo altruistico” di Aristotele. Più di uno studioso ha inoltre osservato la forte analogia tra lo stile di vita
di Cnemone e quello attribuito agli iniziatori della filosofia cinica, a partire dal socratico Antistene (soprattutto Préaux
1959, 340 e Görler 1963, 285-286): non è da escludere pertanto che nella commedia si avvertissero anche gli echi del
dibattito aperto dalle scelte di semplicità e di solitudine compiute dai primi cinici all’insegna dell’autosufficienza, anche
se è eccessivo voler vedere nell’opera una critica filosofica ad esse.
12
EN. II, 7 1108a 26-30.
13
EN. IV, 12 1126b 12-25 e 1127a 6-12. Pur non trovando un nome per questa seconda virtù Aristotele specifica che è
notevolmente affine alla φιλία ma non può essere identificata con essa poiché non si associa a sentimenti di amore (τὸ
στέργειν) nei confronti di coloro ai quali si rivolge.
300
un profondo conoscitore14, diviene facile immaginare che questi ne sarà stato influenzato nella
costruzione del suo personaggio e nella delineazione del messaggio destinato al pubblico della
commedia15.
È perciò anche alla luce di queste conoscenze che risulta possibile comprendere in
profondità il senso della rappresentazione menandrea della δυσκολία di Cnemone, le cui
caratteristiche, anticipate da Pan, renderanno chiara nel corso della commedia l’inaccettabilità, per
un uomo, del suo assurdo sistema di vita.
Uno di questi aspetti è la percezione deformante che Cnemone mostra di avere delle
occasioni di contatto tra lui e gli altri, che è responsabile delle modalità in cui questi esprime il
proprio rifiuto di avere a che fare con chiunque.
La prima interazione della commedia che lo vede coinvolto è quella narrata dettagliatamente
dallo schiavo Pirria a Sostrato e Cherea ai vv. 103-121. In essa, sulle cui caratteristiche pragmatiche
mi sono già soffermata16, ciò che emerge immediatamente la contrapposizione tra i modi
estremamente polite scelti da Pirria per avvicinare il vecchio (che lo schiavo sottolinea con
particolare evidenza nel suo racconto dell’incontro affermando di essersi voluto mostrare nei suoi
confronti φιλάνθρωπος17 σφόδρα / ἐπιδέξιός τε ai vv. 105-106) e la reazione totalmente negativa di
questi, che al compimento di FTA verbali come l’interruzione della coppia di adiacenza aperta
dall’atto di saluto e pre-annuncio dello schiavo e l’urlo di rimproveri e di ordini di andare via,
unisce una vera e propria aggressione fisica, caratterizzata dalle percosse e dal lancio di zolle di
14
I rapporti tra la commedia menandrea e la filosofia del Peripato sono stati a lungo oggetto di discussione. Barigazzi
1965 (19-45) illustra con efficacia il radicamento del pensiero peripatetico nella società in cui Menandro nacque e si
formò e per la quale compose i suoi drammi, ma risulta sicuramente eccessivo quando ritrae il poeta come entusiasta
sostenitore ed instancabile divulgatore del complesso delle idee di questa scuola filosofica (etiche, estetiche, politiche)
presso il suo pubblico (cfr. soprattutto 108, 114, 159-160, 218-219, 224, 229-230). Fondata mi sembra perciò la critica
alla sua tesi sollevata da Gigante 1971, 461-484 che invita a non costringere la sensibilità e la profondità del poeta nelle
maglie di un sistema filosofico (“Una commedia di Menandro non è un trattato filosofico, ma, poiché non è neppure un
mero intreccio di situazioni e di accidenti, è anche espressione di arte, di umanità, di idee, di fermenti, di aspirazioni che
non possono essere racchiuse in una formula scolastica”, 484). Più equilibrata la posizione di Hunter 1985, 148-151
che, pur non misconoscendo la prossimità della commedia menandrea e della filosofia peripatetica, esclude una
dipendenza dell’una dall’altra ritenendo che la loro larga affinità “confirms the reality of the social and moral patterns
which both assume”. Sui rapporti tra questa commedia e il pensiero di Teofrasto si è soffermato in particolare Steinmetz
1960, 185-191.
15
Lo stesso sviluppo della vicenda, la quale si risolve anche grazie alla costruzione di un profondo rapporto di φιλία tra
Sostrato e Gorgia, indica come dietro alla figura dello scorbutico si celi una riflessione sulle relazioni umane e i
sentimenti che le ispirano. Su questo cfr. anche Haegemans 2001, 675-696.
16
In aII e dII, cfr. supra, 73-74 e 122.
17
L’aggettivo è tradotto in genere, qui come al v. 147, con “gentile, cortese” (cfr. G-S ad v. 106), anche se non si
riferisce soltanto alla gradevolezza dei modi ma rinvia altresì alla buona disposizione di una persona verso gli altri (per
il significato del termine cfr. Tromp de Ruiter 1932, 271-306, contenente un’ampia rassegna di passi in cui tale
aggettivo viene usato anche in questo senso). Appare tuttavia probabile che il fatto di salutare da lontano contenesse un
eccesso di cortesia da parte di Pirria, così come il suo pomposo inizio di conversazione (sul quale cfr. supra, 71,73).
L’abitudine di salutare da lontano è infatti ritenuta tipica dell’ἄρεσκος da Teofrasto (Ch. 5). È comunque evidente che
l’uso dell’aggettivo per indicare l’atteggiamento avuto verso un δύσκολος dovesse risultare comico per il pubblico, al
quale non era difficile prevedere la reazione che Cnemone avrebbe avuto.
301
terra, pietre e pere selvatiche contro l’interlocutore. Il posizionamento ostile ed aggressivo
realizzato da Cnemone nel dialogo è inequivocabile per i destinatari del racconto di Pirria, come
mostrano le parole di commento proferite nel corso del racconto da Cherea in turni fungenti da
segnali di sostegno (ἐς κόρακας, v. 112, µαινόµενον λέγεις / τελέως γεωργόν, vv. 116-117): il
comportamento del vecchio risulta così inappropriato all’interno della situazione descritta da Pirria
che Sostrato giungerà a dubitare della veridicità della ricostruzione dei fatti fornita dallo schiavo,
accusandolo di aver combinato qualcosa di cattivo nel podere del vecchio (lo si ricava dai vv. 141142 nonostante il loro stato di mutilazione) e, quando questi proverà a discolparsi, chiedendogli se
sia possibile che qualcuno lo abbia aggredito senza essere stato da lui precedentemente danneggiato
(ἀλλ’ ἐµαστίγου σέ τις / οὐδὲν ἀδικοῦντα;, vv. 142-143). Quando, immediatamente dopo, i due
vedono il vecchio incedere verso di loro, mentre Pirria se la svigna Sostrato osserva il suo sguardo
tutt’altro che ben disposto (οὐ πάνυ φιλάνθρωπον β[λέπειν µ]οι φαίνεται, / µὰ τὸν ∆ί’(α), vv. 147148) e nota le urla che emette parlando da solo (ἀλλὰ κ̣α[ὶ β]οᾶι / µόνος βαδίζων, vv. 149-150), un
comportamento che ritiene proprio di chi non è sano di mente (οὐχ ὑγιαίνειν µοι δοκεῖ, v. 150).
Nel monologo che tiene al suo primo ingresso in scena (vv. 153-168), Cnemone ripercorre
rapidamente l’accaduto in modo da posizionarsi in esso in maniera del tutto diversa. Trasudando ira
e desiderio di vendetta, il vecchio presenta l’incontro con lo schiavo di Sostrato come l’ultimo
episodio di una strategia condotta contro di lui da non meglio precisati importuni (indicati col
participio sostantivato τοὺς ἐνοχλοῦντας al v. 157) al fine di rendergli impossibile la vita (οὐ βιωτόν
ἐστι, µὰ τὸν Ἀσκληπιόν, v. 160): egli evita infatti di menzionare lo schiavo singolarmente, ma,
continuando a riferirsi alle azioni da lui compiute poco prima con una serie di verbi alla terza
persona plurale, lo lascia apparire semplicemente come un membro della categoria a lui nemica,
attribuendogli appunto l’intenzione di perseguitarlo a dispetto dei suoi tentativi di fuga e delle sue
giustificate ma insufficienti reazioni (λαλοῦσ’ ἐπεµβαίνοντες εἰς τὸ χωρίον / ἤδη, vv. 161-162,
πέφευγα, v. 164, διώκουσ’(ι), v. 166). Se dalla narrazione di Pirria sembrava indubbio che lo
schiavo era stato aggredito dal padre della fanciulla senza motivo, Cnemone afferma chiaramente
che ad essere stato aggredito è lui.
Nel successivo corso della commedia sino all’incidente, ogni tentativo di entrare in
interazione con Cnemone da parte di estranei scatenerà da parte del vecchio reazioni e commenti
analoghi a quelli appena descritti.
Il breve dialogo con Sostrato che segue l’ingresso in scena di Cnemone, occupando i vv.
171-177, ne offre immediatamente una conferma. Esso viene ovviamente intrapreso dal giovane
302
innamorato18 ma soltanto per fornire una giustificazione della propria presenza dinanzi alla casa del
vecchio: spaventato dall’ira da questi espressa nel monologo di entrata, Sostrato decide infatti di
rinunciare per il momento a comunicargli l’intenzione di sposare sua figlia e, rivolgendoglisi
rispettosamente (col vocativo πάτερ al v. 171)19, dice di trovarsi lì per caso ad attendere qualcuno; il
suo atto di giustificazione non avrà tuttavia l’effetto sperato20, dato che Cnemone non gli
risparmierà un’aggressione verbale21, indirizzandogli, sempre al plurale come se anche il giovane
fosse un membro del nutrito gruppo di molestatori che lo ha preso di mira (νενοµίκατ’(ε), ἐὰν …
βούλησθε, συντάττεσθ’(ε), οἰκοδοµήσατ’(ε), ἂν ἔχητε νοῦν, vv. 173-176), domande con valore di
rimprovero ed inviti sarcastici a fare dello spazio antistante alla sua casa un luogo di incontro.
Nonostante dallo svolgimento del dialogo emergano l’intenzione di Sostrato di non mostrarsi
invadente e la reazione sproporzionatamente irruenta del vecchio, quest’ultimo non esiterà subito
dopo aver chiuso lo scambio ad autocommiserarsi proprio come aveva fatto prima di esso: se l’οἴµοι
del v. 167 aveva introdotto la constatazione da parte sua della presenza di qualcuno davanti alla
porta di casa, l’esclamazione ὢ τάλας ἐγώ, presente al v. 177 precede invece l’affermazione che lo
vuole vittima di un ἐπηρεασµός, ossia di una soperchieria mirante a sottrargli libertà di azione22.
Sulla base di questi esempi è possibile già in questa fase della commedia, servendosi delle
categorie d’indagine da me adottate, afferrare con maggiore precisione la natura dei problemi
interazionali e relazionali da cui Cnemone è afflitto.
La sua ricerca ossessiva della solitudine gli fa vedere come imposizione e violazione di
legittime esigenze di libertà anche la più timida presa di contatto con lui da parte di un estraneo. È
per questa ragione che riflette su ogni occasione di incontro con estranei adottando costantemente la
storyline23 della vittima di una sopraffazione e per questo non smettendo di autocommiserarsi e di
incolpare gli altri e di presentare le sue reazioni legittimi tentativi di liberarsi degli importuni. La
percezione ovviamente differente della tipologia e del rapporto di causalità della serie di messaggi
scambiati tra lui e i suoi interlocutori, dovuta al fatto che anch’egli, come i suoi interlocutori, si
18
Ho illustrato a proposito dei comportamenti pragmatici di Cnemone il suo mantenersi fedele all’abitudine di non
aprire mai uno scambio verbale con altri (cfr. supra, 241).
19
Per inciso ricordo che a proposito del v. 171 non accolgo, al pari di Jacques1 e Arnott e a differenza di Sandbach, la
correzione proposta da van Groningen (apud Sandbach) χαλεπαίνει<ς>. Cfr. supra, 241 n. 7.
20
Nella terminologia dell’AC, si può dire che al primo elemento della coppia di adiacenza giustificazione/accettazione
non segue il complemento atteso da parte dell’interlocutore, in quella della teoria degli atti linguistici, si può affermare
che l’atto illocutorio di Sostrato non raggiunge l’obiettivo perlocutorio per cui era stato proferito.
21
A differenza di Pirria, Sostrato non ha varcato i confini della proprietà di Cnemone ed è a mio parere soprattutto per
questo che non subirà da lui percosse. È inoltre chiaro che Pirria era più esposto all’aggressione fisica per la sua
condizione di schiavo.
22
L’ἐπηρεασµός viene infatti definito da Aristot. Rh. II, 2 1378b 17-sgg. come ἐµποδισµὸς ταῖς βουλήσεσιν µὴ ἵνα τι
αὑτῶι ἀλλ’ ἵνα µὴ ἐκείνωι.
23
La storyline, ovvero il ruolo che si assume all’interno di una storia, è ovviamente fondamentale per il posizionamento
all’interno di un’interazione o nella narrazione di un evento (cfr. supra, 41 n. 128).
303
ritiene vittima di aggressione presentando i suoi comportamenti come necessarie reazioni difensive,
ha gli effetti che problemi di questo genere, denominati “problemi di punteggiatura” dei
comportamenti tenuti all’interno di un sistema interattivo dagli studiosi di pragmatica della
comunicazione, normalmente producono quando non si riesce a metacomunicare per risolvere la
diversità delle percezioni avute: il reciproco accusarsi di cattiveria e di follia24.
Ogni tentativo compiuto da estranei di intraprendere un’interazione con Cnemone lo pone
nella condizione di dover comunicare loro il proprio rifiuto di avere a che fare con gli altri, – o,
come da me indicato con una formula semplificante ma di sicura efficacia nel fare emergere
l’assurdità della situazione, di ‘comunicare il rifiuto di comunicare’. Questo comportamento, che
Cnemone avverte ovviamente come un peso poiché dà per scontato che gli altri conoscano il suo
rigetto dei rapporti umani25, presenta aspetti paradossali responsabili di effetti dello stesso tipo.
Sul piano conversazionale, ho già mostrato come il suo modo aggressivo di reagire ad ogni
tentativo di presa di contatto, traente origine dal malessere profondo provato verso il mondo esterno
che gli impedisce di raggiungere da esso un vero e proprio distacco, spesso finisca con
l’‘intrappolarlo’ in uno scambio verbale per la tendenza a replicare ai turni altrui con atti di
rimprovero, di minaccia e di ordine che a loro volta suscitano reazioni nell’interlocutore del
momento prolungando il dialogo ed accrescendo il suo fastidio26.
Quanto alle conseguenze che ogni scambio verbale ha sul piano relazionale, una delle più
evidenti è rappresentata dal fatto che, scacciando via in malo modo chiunque cerchi di
avvicinarglisi e bollandolo immediatamente come maledetto o delinquente, Cnemone non si cura di
dare ad alcuno la possibilità di spiegare le sue motivazioni, né tantomeno si mostra disposto ad
illustrare o a discutere le ragioni delle proprie singolari esigenze di ἐρηµία: pertanto, ogni occasione
di interazione si conclude senza risolvere, o per meglio dire acuendo, il problema pregresso
esistente tra lui e il mondo esterno, dato che gli estranei rimangono agli occhi di Cnemone da
evitare in quanto sicuramente malintenzionati e al tempo stesso egli si mostra loro come un essere
crudele e pericoloso.
Il persistere del problema viene rappresentato da Menandro in più di un’occasione attraverso
scelte linguistiche fortemente significative. A proposito del già esaminato dialogo con Pirria (vv.
105-sgg.) si può notare come Cnemone additi già nel suo primo turno l’interlocutore con il vocativo
24
Cfr. supra, 35.
A provarlo è il continuo ricorrere del rimprovero, per chi si accinga ad interagire con Cnemone, di essersi permesso di
bussare o accostarsi alla sua porta oppure di entrare nel suo podere: le domande/rimprovero σοὶ δὲ κἀµοὶ πρᾶγµα τί /
ἐστιν; (vv. 114-115) e ἐµοὶ γάρ ἐστι συµβόλαιον … καὶ σοί τι; (vv. 469-470), così come la deplorazione del fatto che gli
altri εὐθὺς ὥσπερ πρὸς φίλον / κόπτουσιν (vv. 481-482) rendono chiaro che secondo il vecchio l’inesistenza di un
rapporto pregresso (di amicizia, commerciale, giuridico ecc.) con lui dovrebbe vietare agli altri di avvicinarglisi.
26
Cfr. supra, 246.
25
304
offensivo ἀνόσιε / ἄνθρωπε (vv. 108-109), da lui normalmente impiegato nei confronti di chi ritiene
gli abbia fatto torto (esso occorrerà infatti anche ai vv. 469 e 595 rispettivamente all’indirizzo di
Geta e di Simiche)27. L’utilizzo di questo vocativo di insulto doveva risultare sicuramente degno di
nota in quanto estremamente raro: le occorrenze presenti sulla bocca di Cnemone sono infatti le
uniche sinora attestate in commedia, mentre nei pochissimi passi della prosa in cui esso compare ha
per lo più significato letterale, riferendosi a persone che si accusano di azioni sacrileghe28. Come
termine di insulto l’aggettivo è in commedia estremamente raro anche nel suo uso referenziale29, ma
si trova usato al v. 122, dove è pronunciato proprio da Pirria in riferimento a Cnemone: avendo
terminato il racconto della propria disavventura con il δύσκολος, lo schiavo definisce il vecchio
ἀνήµερόν τι πρᾶγµα τελέως, ἀνόσιος / γέρων (vv. 122-123), ossia con lo stesso attributo che questi
aveva affibbiato a lui durante la loro interazione. Questa scelta, che proprio in quanto infrequente
appare lungi dall’essere casuale30, ha l’effetto di rendere particolarmente evidente che l’impressione
ricevuta da Cnemone riguardo al comportamento di Pirria è la stessa che questi ha avuto da quello
del vecchio.
Se questa corrispondenza manca alla fine dell’incontro di Cnemone con Sostrato dato che il
giovane è concentrato esclusivamente sul matrimonio con la figlia di questi (subito dopo che il
vecchio è rientrato, ai vv. 179-180 osserva infatti che l’affare richiederà una fatica fuori
dell’ordinario31), essa ritorna con evidenza ancor maggiore al termine del successivo dialogo che
vede coinvolto Cnemone, quello con Geta all’inizio del III atto (vv. 479-482).
Dopo avere constatato la rudezza e l’indisponibilità di Cnemone e rischiato di essere da lui
percosso, lo schiavo di Callippide definisce Cnemone ἔχις πολιός (v. 480), effettuando un paragone
che sottolinea la sua pericolosità per chi incappa in lui32. Al verso successivo è invece Cnemone a
riflettere sull’accaduto e a riferirsi a Geta e a tutti gli importuni con l’appellativo ἀνδροφόνα
θηρί’(α), che può ritenersi equivalente al primo33. Questa coincidenza di valutazioni ha sicuramente
27
Sul valore caratterizzante di questo vocativo, che riflette l’isolamento di Cnemone e la sua prevenzione nei confronti
degli altri cfr. Arnott 1975, 148. Il fatto che in questo passo la presenza dell’aggettivo ἀνόσιος possa contribuire a
stabilire un’analogia dalle finalità comiche tra la disavventura di Pirria e il diffuso rituale del φαρµακός, come
ipotizzato da Di Marco 1997, 35-41, non compromette il valore delle mie osservazioni su di esso.
28
Per la scarsità delle occorrenze del vocativo, cfr. Dickey 1996, 170. Tra i pochi passi di prosa in cui compare basti
citare Hdt. 1,159, And. 1,116, Plut. Br. 17 e 17,258c. Cfr. anche supra, 123 n. 132.
29
Un’ulteriore occorrenza dell’aggettivo è probabilmente (non se ne può esserne certi in quanto essa è frutto di
integrazione di un verso lacunoso) presente in Peric. 724, in cui sembra essere riferito al gesto del taglio dei capelli
effettuato da Polemone ai danni di Glicera.
30
Differente è ad esempio l’uso dell’aggettivo ἱερόσυλος come termine di insulto: esso è molto più frequente e pare
usato in offese generiche (il che accade tra l’altro in Sam. 678, Epit. 1064, 1122, Peric. 366, ecc.).
31
Su Sostrato come innamorato impaziente ed iper-attivo cfr. Zagagi 1979, 39-48.
32
Che la metafora abbia il valore e le motivazioni da me indicate è confermato da Demosth. 25, 52 e 96, in cui è il
sicofante Aristogitone ad essere paragonato ad una vipera (e nel primo dei due passi anche ad uno scorpione) per la sua
propensione a fare del male agli altri.
33
Poiché l’espressione indica gli animali letali può evidentemente ritenersi comprensiva delle ἔχεις.
305
finalità comiche, ma a mio parere, insieme a quella registrata dopo il dialogo tra Pirria e Cnemone,
rinvia anche alle spiacevoli conseguenze relazionali (nel senso ampio del termine) generate da ogni
scambio verbale tra Cnemone e gli estranei, evidentemente non limitate ai due passi citati34.
Lo scarto esistente tra la negatività della “faccia” che il personaggio si procura presso gli
estranei e gli aspetti migliori della sua personalità emerge a poco a poco all’interno della commedia
ma mai attraverso il suo agire interazionale.
Andando per ordine si può notare come dal prologo di Pan, che pure ne fornisce
un’immagine inquietante, si comprenda che Cnemone è un instancabile lavoratore (passa infatti la
vita ξυλοφορῶν σκάπτων τ’, ἀεὶ / πονῶν, vv. 31-32) e ha educato la figlia, la quale continua a
vivere con lui, in modo da farla crescere ignara di ogni male (ὁµοία τῆι τροφῆι τις, οὐδὲ ἓν / εἰδυῖα
φλαῦρον, vv. 35-36)35. Su queste caratteristiche ci si sofferma più diffusamente nel II atto, quando è
il figlio di sua moglie Gorgia a fornire una descrizione del suo carattere a Sostrato, affinché questi si
renda conto dell’impossibilità di avvicinare Cnemone: pur parlando di lui come di una ὑπερβολή τις
… τοῦ κακοῦ (v. 326)36, ne lascia emergere appunto l’ostinazione nel lavorare la sua terra senza
chiedere l’aiuto di nessuno, schiavo o libero che sia (vv. 328-331), nonché l’affetto e l’attenzione
verso la figlia, che solitamente tiene con sé nei campi37 ed è l’unica persona alla quale rivolge la
parola (v. 334).
Il rapporto tra il modo di fare di Cnemone e la sua personalità emerge in maniera nitida
qualche verso più tardi, quando sempre parlando a Sostrato, tanto Gorgia (vv. 355-357) quanto
Davo (vv. 365-366) prevedono l’ira del vecchio nel vedere il giovane innamorato ozioso e avvolto
nella sua elegante mantellina: i due, in quanto parte dell’oikos frantumato di Cnemone, sono ormai
a conoscenza dello stile di vita e dei valori cui questi ispira il suo agire, che hanno descritto
compiutamente, e tuttavia sanno che in un eventuale scambio di battute dal suo atteggiamento
emergerà esclusivamente l’aspetto negativo di questi valori, rappresentato dall’aggressività e dagli
34
Anche se non viene evidenziato allo stesso modo, anche l’incontro con Sicone (vv. 499-513) si conclude con accuse
reciproche di cattiveria e di follia: il primo entrerà infatti in casa definendo “mali incurabili” i comportamenti subiti (v.
514), mentre il secondo, che immediatamente dopo lo scontro col vecchio si limita ad ipotizzare la stranezza degli
abitanti di File (vv. 517-518 e 520-521), quando uscirà per le urla di Simiche all’inizio del IV atto definirà ἔκτοπος
l’intera famiglia di Cnemone (v. 624) e nel monologo dei vv. 639-sgg. lo giudicherà cattivo e avaro.
35
G-S ad v. 35 affermano che “to a Greek the isolation of the household would bring about a desirable innocence in the
girl”, citando a suffragio di quanto osservato Xen. Oec. 7,6 (in cui si descrive orgogliosamente una donna come
cresciuta in isolamento). Un luogo altrettanto significativo è rappresentato da Long. 1,13, che presenta l’innocenza della
protagonista con le parole καὶ ἐν ἀγροικίαι τεθραµµένη καὶ οὐδὲ ἄλλου λέγοντος ἀκούσασα τὸ τοῦ ἔρωτος ὄνοµα.
36
Delle ragioni di questo giudizio dirò infra, 315.
37
Quest’informazione appare a mio parere particolarmente importante per sottolineare quale padre premuroso sia
Cnemone, accusato ingiustamente, ovviamente alle spalle, dallo schiavo di Gorgia Davo di abbandonare la figlia
esponendola ai pericoli esterni (vv. 222-224); se l’infondatezza dell’accusa era già chiara durante il suo proferimento,
dato che gli spettatori sapevano che Cnemone al momento dell’incontro tra la fanciulla e Sostrato si trovava in casa
(anche se l’uscita di lei era stata comunque causata in modo indiretto dal padre, come si ricava dai vv. 193-sgg.), queste
parole confermano che il vecchio si preoccupava nella maggior parte dei casi di assicurare alla sua creatura la
necessaria φυλακή.
306
insulti rivolti all’interlocutore. Ciononostante, il fatto che, come ho appena ricordato, Gorgia ha
precedentemente illustrato a Sostrato la vita parca e faticosa che il vecchio ha scelto per sé,
consente a Sostrato – già ben disposto nei confronti della famiglia della fanciulla di cui è
innamorato – di comprendere che dietro il comportamento scostante da cui egli stesso era rimasto
impressionato si nasconde un µισοπόνηρος (v. 388)38.
La doppia caratterizzazione del protagonista della commedia prosegue nel III atto, in cui agli
scambi verbali sempre brevi e violenti con altri personaggi si contrappongono monologhi rivelatori
del senso di giustizia e della profonda devozione verso gli dei che lo contraddistinguono. Così, dopo
avere assistito all’arrivo dei pellegrini nella grotta di Pan, Cnemone si lascia andare ad uno sfogo
piuttosto lungo in cui, tra l’altro, critica i dispendiosi sacrifici animali che essi sono soliti fare,
affermando che le uniche offerte davvero pie sono quelle interamente destinate al dio, come le
offerte di incenso e focacce (vv. 447-453). Diverse fonti attestano la diffusione di questa e analoghe
idee riguardo al culto degli dei dal IV secolo in poi: tra esse la più interessante è costituita dal Περὶ
εὐσεβείας di Teofrasto, che raccomandava nel culto degli dei un cuore puro e offerte semplici,
giungendo a condannare esplicitamente i sacrifici animali a vantaggio di quelli che non
comportavano spargimento di sangue39. In un simile contesto la presa di posizione di Cnemone
doveva dunque apparire non già una critica fine a se stessa da connettere esclusivamente con la sua
ossessione di rinvenire sempre aspetti negativi in ogni azione altrui, ma una valutazione se non
condivisibile quantomeno legittima: essa rivela che nel personaggio alberga anche un positivo senso
morale, contribuendo a sfaccettarne il ritratto.
Tuttavia, delle convinzioni espresse in modo così esplicito da Cnemone in monologo resta
ben poco nei successivi dialoghi con Geta e con Sicone, ambedue occasionati dalla celebrazione del
sacrificio. In particolare nel primo, Cnemone accenna ad esse dopo che Geta è riuscito a formulargli
la richiesta di un paiolo per la cottura delle carni: dopo una domanda di forma ICTS indicante
stupore per il termine usato da Geta in riferimento all’oggetto della richiesta (λεβήτιον)40 e seguita
38
Anche Handley scrive ad vv. 384-389: “Once more … it is suggested that there is more to Knemon’s misanthropy
than perversity and blind hatred; he hates the bad (388); and in this, the ‘odd man out’ of society may after all be right”.
G-S ad v. 388 attribuiscono questa conclusione di Sostrato al suo desiderio di pensare di colui di cui aspira a divenire
genero il meglio possibile, ma aggiungono che essa si rivela “not so far from the mark”.
39
Frammenti dell’opera teofrastea sono rinvenibili nel De abstinentia di Porfirio, che vi attinge ampiamente in II, 11,
15, 17 (in cui vengono citati i vv. 449-451 di questa commedia e poco prima simili versi della Mystis di Antifane,
costituenti il fr. 162 K-A), 18. Su questo cfr. almeno Pastorino 1960, 94-96 e nn. 71 e 74 e Steinmetz 1960, 187-188.
40
G-S ad v. 472: “It is stated in Cramer’s Anecd. Oxon. iii. 273 that one reason for using a diminutive is to make what
one asks for sound less important, ἐὰν ὃ αἰτῆι τις σµικρύνηι, ἵνα µὴ µεγάλην ποιήσηι τὴν χάριν … ὡς ἔχει τὸ παρὰ
Μενάνδρωι λεβήτιον. One might think that this ingenious observation, if made with regard to this passage, is proved
groundless by Getas’ use of the word at 456, but he may there be quoting the maids, who wish to minimize their
carelessness”. Se la considerazione dei passi citati rende del tutto plausibile quest’interpretazione dell’uso del
diminutivo, quella del verso 640, in cui esso è pronunciato da Sicone in un monologo in cui si rivolge a Cnemone in
absentia (in cui non c’è forse necessità di ridimensionare la portata della richiesta) sembra renderla incerta.
307
da un’affermazione di conferma da parte dello schiavo, Cnemone reagisce con la domandarimprovero µαστιγία, / θύειν µε βοῦς οἴει ποεῖν τε ταὔθ’ ἅπερ / ὑµεῖς ποεῖτε; (vv. 473-475), dalla
quale trapela soltanto l’intenzione del parlante di mostrare la propria diversità dagli altri per il
disprezzo dei sacrifici; non è un caso infatti che lo schiavo replichi al v. 475 rifiutando l’atto con
un’affermazione che costituisce anche un’accusa off record (οὐδὲ κοχλίαν ἔγωγέ σε) dato che
attraverso l’iperbole implica conversazionalmente che Cnemone è di incomparabile malvagità ed
empietà.
Anche questo passo lascia emergere che il fatto che Cnemone proferisca all’indirizzo degli
altri soltanto insulti, rimproveri e ordini di chiudere immediatamente il dialogo aperto con lui fa sì
che egli non esprima mai (perché a ciò non interessato) compiutamente le proprie convinzioni
positive, lasciando negli altri un’impressione del tutto negativa.
L’esempio più lampante di questa conseguenza della sua δυσκολία si ha tuttavia a mio
parere nel dialogo con Simiche ai vv. 588-596. Esso nasce dopo l’uscita del vecchio da casa al fine
di far rientrare Simiche, fuggita mentre questi veniva a conoscenza del fatto che questa aveva
lasciato cadere la zappa nel pozzo. Durante il concitato scambio verbale che si tiene tra loro, prima
di ottemperare all’ordine del padrone di ritornare dentro la schiava gli chiede che cosa sia
intenzionato a farle una volta in casa (τί ποιεῖν δ’, εἰπέ µοι, µέλλεις;, al v. 590) e questi risponde,
come sappiamo, affermando che la legherà e la calerà nel pozzo con la stessa corda a cui essa aveva
legato la zappa (vv. 590-593). Rimasto solo dopo il rientro in casa di Simiche, il vecchio tuttavia
tiene un toccante monologo in cui si autocommisera per la solitudine che coltiva come nessun altro
al mondo e afferma che scenderà egli stesso nel pozzo ([τάλας / ἐγώ, τάλας τῆς νῦν ἐρηµίας [ / ὡς
οὐδὲ εἷς. καταβήσοµ’ εἰ[ς τὸ φρέαρ· τί γὰρ / ἔτ’ ἐστιν ἄλλο;, vv. 596-599).
Come ho già sostenuto altrove41, le osservazioni svolte da Cnemone tra sé e sé non nascono
ovviamente da un subitaneo cambiamento né della personalità del vecchio né delle sue intenzioni
specifiche riguardo al da farsi per rimediare all’accaduto, ma confermano come questi, quando si
trova in interazione, si lasci trascinare dalla rabbia e dal fastidio per l’interlocutore del momento a
rendersi responsabile di atti, verbali e non, che di per sé non sarebbe portato a compiere ai danni
degli altri. È per la stessa ragione che quando Geta, il quale, non visto, ha assistito al suo sfogo, si
impegna a prestargli un gancio e una fune per aiutarlo (vv. 599-600), il vecchio rifiuta recisamente
la sua offerta augurandogli di morire di mala morte se si prova a parlargli ancora e fugge
rapidamente in casa (vv. 600-602). Proprio perché lo ha sentito lamentarsi in monologo, lo schiavo
ha tuttavia finalmente compreso che la personalità del vecchio non è malvagia e lo commisera per la
vita difficile che si ostina a trascorrere, improvvisando un’interpretazione ‘sociologica’ delle ragioni
41
Cfr. supra, 248 n. 24.
308
del suo modo di essere: se si comporta in questo modo, lo deve a suo parere al fatto di essere un
autentico contadino attico, semplice e laborioso anche se ostinato e irascibile42.
I dialoghi da me sinora presi in esame mostrano come il fatto che l’agire interazionale di
Cnemone contravvenga nettamente all’insieme delle norme e delle consuetudini previste a
proposito della comunicazione interpersonale dal codice culturale della società cui, suo malgrado,
appartiene, renda questo spesso inefficace nel perseguimento di certi scopi (quale quello di porre
fine ad un’interazione nel più breve tempo possibile) e, soprattutto, del tutto inadatto a rivelare in
profondità la personalità dell’uomo. Quest’ultima si scopre a poco a poco attraverso notizie
provenienti da chi lo conosce bene, dalle sue stesse parole pronunciate in monologo o da
informazioni apparentemente casuali che potrebbero, anche se soltanto parzialmente, motivarne la
δυσκολία, come le già citate parole di Geta e l’affermazione di Gorgia secondo cui quando chi è di
misera condizione viene fatto oggetto di ingiustizia diviene quanto di più scontroso esista al mondo
(τῶν … ἁπάντων … / … δυσκολώτατο[ν, vv. 295-296)43.
Nel corso dell’intera commedia Menandro mette più volte in rilievo che, mentre chi abbia
almeno una volta avuto a che fare con Cnemone soffre il fatto di non poter liberamente comunicare
con lui, questi non si cura o addirittura non si rende conto della totale inadeguatezza del suo agire in
interazione. Dall’uso che il personaggio fa dei verbi di dire per tutto il corso della commedia
emerge infatti come percepisca chiaramente la differenza tra il proprio modo di comunicare e quello
degli altri, dandone però una valutazione completamente distorta. Egli si riferisce con il verbo λέγω
(e con le forme di εἶπον ed εἴρηκα) al primo, diretto soltanto a se stesso nei monologhi e finalizzato
ad interrompere il dialogo in ogni occasione di incontro con gli altri o, tutt’al più, a comunicare alla
gente del proprio oikos ordini non attendenti repliche verbali (vv. 172, 501, 507, 509, 511, 596, 740,
742, 750), mentre designa regolarmente i tentativi di stabilire un contatto compiuti nei suoi
confronti con λαλέω (vv. 161, 504, 512, forse 601), verbo che riguardo a sé utilizza soltanto
42
“The picture of the simple, hard-working old countryman, for all his conservative stubbornness and irascibility, was
one which Attic popular tradition cherished with some affection; such, for example, were the charcoal-burners of
Aristophanes, Acharnians, and the fellow-farmers of Chremylos who form the chorus of the Plutus” (Handley ad vv.
603-sgg.).
43
La presenza, in questo passo, dell’aggettivo δύσκολος è secondo me da considerarsi tutt’altro che accidentale (come
ritiene Paduano, 359 n. 31 e al contrario di quanto affermato da G-S ad v. 297) data la sua rarità nelle commedie
menandree pervenuteci (si trova, frutto di integrazione, in Georg. 78) eccetto che in questa, in cui viene tranne che in
questo passo riferito sempre a Cnemone o al suo carattere (vv. 7, 184, 242, 747, 893) e appare in accordo con quanto il
vecchio rivelerà sulle ragioni del suo modo di essere nel grande monologo (vv. 719-720). L’affermazione non riesce
tuttavia a fornire motivazioni esaustive della personalità del protagonista, che, come lo stesso Gorgia ha detto, è un
individuo a cui nessun altro può essere paragonato (vv. 323-325) ed è tale “per carattere” come specificato da Pan (v.
13): essa sembra piuttosto costituire un’attenuante, al pari della già ricordata osservazione di Geta ai vv. 603-606 e di
quella di Cherea secondo cui un contadino povero è sempre eccessivamente rude a causa delle difficoltà legate alla sua
condizione sociale (vv. 129-131), le quali sono ancora più generiche per poter risultare pienamente calzanti riguardo a
Cnemone (di certo egli non è tale per la fatica e le troppo scarse soddisfazioni che gli dà il lavoro della terra, come
ipotizzato dallo schiavo, né, secondo quanto implicato da Cherea, per il suo status sociale, che come si apprende ai vv.
327-328 è modesto ma non proprio misero). L’aggettivo è usato in un’affermazione molto simile in Aristoph. Ve. 1105.
309
preceduto da negazione (v. 726)44. Quest’ultimo, riferito sino al V secolo al ciarlare spesso privo di
utilità e di veri contenuti, viene usato sempre più spesso in seguito nel senso più generale di “parlare
con, discorrere, dire”, avvicinandosi semanticamente a λέγω45. In Menandro compare tuttavia in
entrambe le accezioni e, usato in quella originaria, non manca di sottolineare il carattere non
necessario e a volte importuno delle chiacchiere46. La distinzione nell’uso dei verba dicendi operata
con costanza dal personaggio per cui il proprio modo di comunicare viene designato con il verbo
più comune mentre quello altrui con quello ‘marcato’ negativamente indica che egli avverte come
normale ed appropriato il primo, cui riconosce le caratteristiche dell’essenzialità, dell’efficacia e
della compiutezza, bollando invece il secondo come inutile e anzi dannoso47.
Per quanto riguarda gli altri, ho già avuto modo di notare come il comportamento di
Cnemone in interazione condizioni pesantemente il numero, la durata e la stessa natura dei turni
degli interlocutori48. Quello che mi interessa adesso fare osservare sono le modalità e la frequenza
con cui viene sottolineata nella commedia la frustrazione generata in coloro i quali abbiano almeno
una volta avuto a che fare con Cnemone dalla consapevolezza di non potere interagire con lui in
modo tranquillo.
Questa si esprime solitamente attraverso amare o indignate riflessioni nelle quali il desiderio
insoddisfatto di superare le barriere comunicative erette da Cnemone tra sé e gli altri più di una
volta spinge chi le conduce a rivolgerglisi direttamente in sua assenza.
Ciò accade ad esempio alla fine del I atto quando, dopo avere assistito, non visto, al breve
dialogo tra la figlia di Cnemone e Sostrato, Davo lo commenta con preoccupazione (vv. 218-229)49.
Nel corso del suo monologo lo schiavo di Gorgia pronuncia contro Cnemone, cui si rivolge con
un’allocuzione in absentia (ὦ Κνήµων al v. 22050), una maledizione cui subito dopo fa seguire un
rimprovero per la scarsa custodia che riserva alla propria figlia. E’ chiaro che il comportamento reso
44
I casi in cui il verbo λέγω viene più volte usato da Cnemone alla prima persona singolare dopo una negazione sono
sempre rappresentati da interrogative col valore di rimproveri o affermazioni del contrario (vv. 172, 501, 511, 596).
45
Per illustrare la differenza è a mio avviso sufficiente riferirsi al celebre frammento 116 K-A dei Demoi di Eupoli, in
cui un celebre uomo politico viene detto λαλεῖν ἄριστος, ἀδυνατώτατος λέγειν. Sul significato e gli usi di λαλέω in
Aristofane ed in altri autori comici cfr. Beta 2004, 148-167, che tuttavia del Dyscolos si limita a citare i vv. 504 e 512,
in cui il verbo viene impiegato in riferimento a Sicone, unicamente per mostrare come la loquacità sia caratteristica del
personaggio del cuoco.
46
Ciò si registra ad es. in Epit. 575 e 913, Sam. 284; privo di sfumature negative è invece il verbo al v. 797 di questa
commedia, in cui Simiche lo usa per dire che vuole chiacchierare con la propria padroncina prima che ella lasci la casa
paterna, nonché al v. 9, nel quale Pan lo riferisce a Cnemone preceduto da negazione.
47
Quest’uso non conoscerà significative modifiche neanche dopo la caduta nel pozzo (cfr. infra, 323-sgg.)
48
Cfr. supra, 248.
49
Come da me già rilevato, la legge vietava qualsiasi tipo di contatto tra una fanciulla libera e persone dell’altro sesso
che non appartenessero alla sua famiglia (cfr. supra, 86 n. 59).
50
Secondo G-S ad v. 823 nell’allocuzione la presenza dell’interiezione ὦ è giustificata dal fatto che, essendo Cnemone
assente, essa ha un carattere “rhetorical” (come in Asp. 14). Nello stesso passo del commento viene però citato un
discreto numero di passi contenenti l’interiezione in allocuzioni svolte alla presenza del destinatario (da Georg. 22,
Heros 19 e 72, a Mis. fr. 7 e Perinth. 3) e si specifica che quest’uso diviene prassi nella κοινή.
310
oggetto di biasimo è quello di non servirsi dell’aiuto di nessuno per proteggere la ragazza dai
pericoli esterni lasciandola da sola durante il giorno. Il fatto che questi atti siano indirizzati al
vecchio in seconda persona segnala a mio parere al tempo stesso la rabbia del parlante dovuta
all’impossibilità di avvicinare il vecchio per informarlo (tanto più che il primo conosce con certezza
i luoghi in cui l’altro potrebbe trovarsi)51. Non a caso, dopo avere soltanto immaginato di parlare a
Cnemone, lo schiavo osserva che non c’è altro da fare che riferire l’accaduto al fratello della
fanciulla Gorgia, che sta lavorando nei campi (in un nuovo periodo introdotto dalla locuzione
fortemente avversativa οὐ µὴν ἀλλά, che secondo G-S ad v. 226 gli conferisce il senso seguente:
“although this is really her father’s business, there is nothing for it but to tell her brother”), e si
decide ad andare a chiamarlo.
In modo simile, nel IV atto Sicone, spiando da fuori l’operazione di salvataggio di Cnemone
condotta in casa del vecchio, gli si rivolge con il vocativo offensivo ἱερόσυλε σύ, incastonandolo in
un periodo che potrebbe essere tradotto nel modo seguente: “Non dai un paiolino a chi sacrifica,
negandoglielo? Beviti tutto il pozzo in cui sei caduto, così non avrai da prestare a nessuno
nemmeno l’acqua!” (vv. 639-642). Anche il cuoco dunque impiega in modo artificiale elementi
della conversazione come l’allocuzione, il rimprovero in forma di domanda e l’invito con valore di
sfida per manifestare risentimento verso colui che si era mostrato in precedenza taccagno e
maleducato52.
Nelle commedie menandree pervenuteci i casi di allocuzione in absentia non sono
numerosi53 e, stando ai dati in nostro possesso, Cnemone ed il presunto morto Cleostrato dell’Aspis
sono gli unici a diventarne destinatari più di una volta, anche se per ragioni diverse: ciò conferma
come il loro impiego non sia casuale segnalando secondo le precise intenzioni del poeta il desiderio
insoddisfatto di chi parla di stabilire con la persona cui si rivolge un contatto verbale altrimenti
impossibile.
Un analogo ma più concreto tentativo di comunicare a Cnemone quanto si pensa evitando di
scatenarne le solite reazioni è presente ai vv. 874-878, dopo dunque che il vecchio ha annunciato
che non rinuncerà, nonostante i cambiamenti intervenuti nella sua visione del mondo, allo stile di
vita di sempre. Nel lasciare, ultima tra i membri della famiglia di Cnemone, la casa del vecchio, la
sua schiava Simiche indirizza una lunga battuta al padrone che si trova a letto, nella quale non si
51
Davo parlerà esplicitamente del pericolo che comporta recarsi da Cnemone ai vv. 247-249, forse (lo stato del testo ci
impedisce di esserne sicuri) rifiutando l’ordine di Gorgia di bussare alla sua porta.
52
Accanto a questa apostrofe sono presenti nel monologo di Sicone anche un appello agli spettatori (v. 659) ed uno,
probabilmente reale, alle donne nella grotta (vv. 660-661). Sembra che il cuoco, eccitato dalla situazione ed inorgoglito
dalle sue stesse parole, si senta padrone della scena.
53
Blundell 1980, 71-79, ne conta, nel monologo, undici sicuri includendo in questo numero anche i due del Dyscolos.
Ad essi si può a mio parere aggiungere Epit. 888, in cui un appello immaginario di Carisio alla moglie Panfile (ὦ
γλυκυτάτη … τῶν λόγων οἵους λέγεις) viene citato in discorso diretto dal suo schiavo Onesimo.
311
limita ad annunciare che sta andando via anche lei (nella frase affermativa ἄπειµι νὴ τὴν Ἄρτεµιν
κἀγώ del v. 874, cui l’invocazione alla dea dà l’aspetto di reazione condiscendente ma spazientita
ad una richiesta del destinatario) e ad osservare che egli rimarrà da solo: seguita infatti a parlare,
dapprima pronunciando nei confronti del padrone un’esclamazione di commiserazione per il suo
carattere (τάλας σὺ τοῦ τρόπου, v. 875), quindi citando in un’affermazione con valore di critica il
suo rifiuto di farsi portare dal dio, per preannunciargli, in fine di turno, che su di lui si abbatterà un
nuovo e più grave guaio (µέγα κακὸν … µεῖζον ἢ νῦν, vv. 877-878). Netta Zagagi ha sostenuto che
il passo contiene un’efficace esemplificazione della diffusa convenzione dello speaking back into
the house54, la quale, nel rappresentare i sentimenti di stizza e di sincero dispiacere provati dalla
schiava nei confronti di Cnemone55, contribuisce a caratterizzare ulteriormente il δύσκολος: poiché
esso comunica l’illusione della presenza fisica del personaggio in scena, il silenzio con cui
Cnemone reagisce alle parole della schiava non va ascritto esclusivamente al fatto che la
convenzione teatrale del parlare a chi si trova fuori scena non ammette risposta, ma ritenuto invece
“an individualized response of an exceptional character”, che diviene pertanto “a silent testimony to
his extreme emotional obtuseness, as well as a conclusive proof of Knemon’s genuine, deep-seated
desire to be totally cut off from his human surroundings”56.
Tuttavia, se è senz’altro vero che mentre la battuta viene pronunciata il lettore e lo spettatore
possono immaginare uno Cnemone stanco ed abbattuto che, pur di restare finalmente tutto solo,
rinuncia persino a replicare a parole piene di dispetto ma anche di commiserazione57, a risultare
degno di nota è tuttavia a mio giudizio soprattutto il fatto che la stessa persona che qualche verso
prima rivolgeva a Cnemone timide frasi di richiesta di scuse e di supplica o trepidanti domande sul
proprio destino58 si conceda l’inconsueta libertà di parlare al padrone così a lungo in maniera
diretta. Probabilmente a Menandro interessava soprattutto mostrare come il fatto di lasciarsi alle
spalle il proprio padrone nella consapevolezza che questi è immobilizzato a letto offra a Simiche
un’occasione unica all’interno della commedia: quella di criticarne le scelte dicendo apertamente
che cosa pensa del suo carattere. La schiava approfitta dunque della situazione poiché può
comunicare con Cnemone soltanto in questo modo particolarissimo, che le permette di fargli sentire
la propria voce senza stargli troppo vicino (faccia a faccia) e nella certezza di non correre il rischio
di subirne le reazioni.
54
Su di essa cfr. Handley 1970, 18-20 e Frost 1988, 7-8.
Zagagi 2004, 102-104. La studiosa pone questa reazione in antitesi a quella, definita di “surprise mixed with
indifference” (103), che Sostrato ha avuto ai vv. 869-871 dopo avere appreso della mancata partecipazione di Cnemone
alla festa.
56
Zagagi 2004, 103.
57
E’ la stessa reazione che, come vedremo, il vecchio adotterà come estremo mezzo di difesa dalle aggressioni di Geta e
Sicone a partire dal v. 932, dopo aver capito che non può liberarsi in alcun modo dei due.
58
Mi riferisco ai vv. 589, 590, 591, 594, ossia al dialogo preso in esame supra, 248 e 308.
55
312
Nonostante le esagerazioni caricaturali e la creazione di situazioni improbabili, per l’intero
corso della commedia viene data una raffigurazione coerente dei processi mentali che portano
Cnemone ad agire in certi modi e degli effetti che i comportamenti da lui dispiegati hanno sulla sua
vita, sull’immagine di sé che comunica agli altri e sui suoi interlocutori; è grazie a questa
descrizione e a quella dei rapporti familiari da lui gestiti che sarà possibile apprezzare nella parte
finale dell’opera (a partire cioè dal IV atto) la portata e i limiti del suo cambiamento.
4.1.1.2 I paradossi della δυσκολία di Cnemone. II: la gestione dei rapporti familiari
È a mio parere opportuno rifarsi ancora una volta al prologo di Pan come ad una guida al
carattere del protagonista del Dyscolos per individuare quello, tra gli aspetti del suo sistema di vita,
che appare essere il più paradossale e il più grave per le conseguenze che genera su chi ha a che fare
con lui: il fatto di essere a capo di un oikos.
Non appena si accinge a presentarlo, il dio mette immediatamente in evidenza come questo
particolare della vita di Cnemone sia in aperta contraddizione con la sua personalità, introducendolo
attraverso la congiunzione avversativa ὅµως e dopo un participio concessivo che menziona appunto
il suo modo di essere (ὅµως οὖν, τῶι τρόπωι τοιοῦτος ὤν, / χήραν γυναῖκ’ ἔγηµε … vv. 13-14)59. Se
la circostanza di avere preso moglie e di avere con lei generato una figlia appare poco conforme al
carattere del vecchio, discostandosi, tra l’altro, dalle abitudini di vita registrate in genere tra i
misantropi della tradizione comica forse con rare eccezioni60, essa viene compensata dal rapido
fallimento del suo matrimonio, con l’abbandono del tetto coniugale da parte di una moglie
esasperata dalla vita che questi le imponeva dando luogo a continui litigi (indicati dal verbo
ζυγοµαχεῖν al v. 17, che sottolinea efficacemente l’impossibilità di sfuggirvi e al contempo il loro
carattere assurdo e inutile61). A restare singolare dopo la separazione è invece il fatto che il
δύσκολος continui a vivere con sua figlia ed una vecchia schiava: pur avendo trovato da ridire nei
confronti della moglie dopo che questa gli aveva generato una femmina (vv. 19-20)62, Cnemone non
59
Opportunamente G-S ad v. 13 notano: “Knemon’s marriage, essential to the plot, may seem out of character.
Menander boldly anticipates that criticism by making the point himself”. Di uguale avviso Ireland 1994 (pubblicazione
elettronica).
60
Del Monotropos di Frinico si dice esplicitamente che al pari di Timone svolge una vita ἄγαµος (fr. 19 K-A) ed è
ἄπαις ἀγύναικος (fr. 20 K-A), mentre forse padre di una figlia come Cnemone era il Timone di Antifane, di cui un
frammento informa che aveva comprato per un matrimonio (fr. 204 K-A) e forse soltanto un nipote aveva il vecchio
discolo di Mnesimaco (fr. 3 K-A).
61
G-S ad loc.: “Lit. ‘fighting with a yoke-companion’, a metaphor from horses or oxen harnessed together. The word
properly implies fruitless struggle against that which cannot be escaped”.
62
“A daughter, who will one day need a dowry, can be considered a particularly heavy burden” (Handley, ad vv. 19sg.).
313
decide né di esporre la bambina appena nata (come pure talvolta avviene nelle vicende della Nea63)
né di mandarla via insieme con la madre presso il figlio di primo letto di questa, ma si accolla la
responsabilità di allevarla. Del carattere specialissimo di questo rapporto – l’unico che Cnemone si
impegna a coltivare – si viene pertanto a conoscenza già nel prologo; in esso si accenna tuttavia
subito dopo anche allo svantaggio, per la fanciulla, di avere un padre come Cnemone: lo mostra il
fatto che, dopo avere sottolineato l’intatta virtù della fanciulla e la sua particolare devozione nei
confronti delle Ninfe che abitano il santuario con lui (vv. 34-37), il dio afferma che insieme a queste
si è convinto a prendersi cura di lei, facendo in modo che se ne innamorasse un giovane capitato
nella zona per caso andando a caccia (vv. 38-44). Questa informazione implica ovviamente che
secondo il dio era necessario che qualcuno si occupasse di lei perché, come si conveniva ad una
fanciulla libera, le venisse trovato un marito adatto64. L’iniziativa presa dal dio circa
l’innamoramento di Sostrato non risolve tuttavia i problemi che si pongono perché la ragazza venga
finalmente data in sposa da un padre così difficile. Ma il prologo si conclude senza rivelare nulla del
modo in cui il lieto fine sarà raggiunto (v. 49).
Nel seguito del I atto, infatti, l’ἀπροσηγορία rivelata da Cnemone dapprima nell’episodio di
Pirria e in seguito in quello di Sostrato lascia prevedere che il compito che Pan si è assunto non sarà
affatto facile da assolvere neanche per lui, accrescendo sicuramente presso il pubblico la suspense
per i modi in cui il vecchio sarà convinto. L’atto si conclude, comunque, con una nuova idea di
Sostrato per tentare di avvicinare il δύσκολος, quella di far ricorso all’aiuto dello schiavo di suo
padre Geta, di cui il giovane sottolinea la personalità versatile e l’intelligenza brillante (ἔχει <τι>
διάπυρον καὶ πραγµάτων / ἔµπειρός ἐστιν παντοδαπῶν, vv. 183-184).
È all’inizio del II atto, tuttavia, che con maggiore evidenza si presenta la negatività di un
carattere come quello di Cnemone per coloro i quali appartengono alla sua famiglia in senso stretto
o allargato. Fa infatti il suo ingresso in scena Gorgia, il figlio di primo letto della moglie di
Cnemone che è ovviamente anche fratello della fanciulla per parte di madre, cui Menandro affida il
compito di sottolineare, con la triste saggezza propria di un ragazzo che ha dovuto crescere in fretta
(ἤδη δ’ ἐστὶ µειρακύλλιον / ὁ παῖς ὑπὲρ τὴν ἡλικίαν τὸν νοῦν ἔχων sono le parole con cui Pan lo ha
presentato ai vv. 27-28), come la vita di una famiglia frantumata si trascini penosamente e sia
destinata a concludersi con la sua estinzione65. Tale è infatti la situazione della famiglia di Cnemone
già all’inizio della commedia: il dio prologo aveva informato il pubblico del fatto che dopo
63
Si pensi ad esempio alla vicenda della Periciromene, nel cui antefatto Pateco, sconvolto dalla morte della moglie e
dal proprio fallimento economico, ha esposto i due figli (vv. 802-812).
64
Per l’importanza delle nozze per una fanciulla libera nell’Atene menandrea cfr. Lape 2004, 13-30.
65
Konstan 1995, 97 sottolinea che “the issue of the drama is not, in the first instance, Cnemo’s personal transformation.
It resides rather in Cnemo’s role as head of household and his relationship in this capacity to his fellow citizens”.
314
l’abbandono da parte della moglie Cnemone non ha nessun rapporto né con lei né con i vicini (tra
cui è compreso Gorgia, che, come specificato da Pan ai vv. 25-26, abita di fronte a Cnemone), verso
i quali prova odio come nei confronti di tutti (vv. 30-34), mentre il figlio della donna, ormai
divenuto un giovanetto, ha accolto la madre presso di sé e manda avanti con fatica la famiglia
lavorando insieme ad un fedele schiavo il piccolo podere ereditato dal padre (vv. 23-27).
Che gli atteggiamenti di Cnemone siano considerati da Gorgia una difficoltà per la quale
non esiste possibilità di soluzione è testimoniato dal fatto che egli vi fa cenno già al suo apparire,
quando, dopo aver rimproverato Davo di superficialità per non essere intervenuto ad impedire il
contatto tra la figlia del vecchio e il giovane a loro sconosciuto scacciando e minacciando
quest’ultimo (vv. 233-234 e 234-239), gli spiega di ritenersi responsabile per la sorella e di non
voler ricambiare il fare scostante ed ostile del padre di lei (µὴ τὸ τούτου δύσκολον / µιµώµεθ’ ἡµεῖς,
vv. 242-243), pur riconoscendo in seguito la difficoltà ad occuparsi della fanciulla se non si può in
alcun modo avvicinarli per i divieti imposti dal vecchio (vv. 249-254)66.
Il problema viene tuttavia esposto compiutamente soltanto nel corso dell’interazione con
Sostrato, dopo che questi avrà dichiarato l’intenzione di sposare la fanciulla volendo perciò
incontrare suo padre (vv. 302-314). È allora che Gorgia, quando il giovane innamorato gli chiede
aiuto per ottenere il suo scopo, si decide ad illustrargli la propria situazione familiare. Nel
presentare il vecchio come “un eccesso di male” (v. 326), questi descrive le sue abitudini di vita,
che comprendono il lavorare il proprio podere completamente da solo senza valersi dell’aiuto di
nessuno e il fare in modo da non vedere altri che la figlia, unica persona che tiene quasi sempre con
sé. La presentazione di quest’ultimo particolare avviene ai seguenti versi (vv. 333-337):
µεθ’ αὑτοῦ τὴν κόρην ἐργάζεται
ἔχων τὰ πολλά· προσλαλεῖ ταύτηι µόνηι,
ἑτέρωι δὲ τοῦτ’ οὐκ ἂν ποήσαι ῥαιδίως.
τότε φησὶν ἐκδώσειν ἐκείνην, ἡνίκ’ ἂν
ὁµότροπον αὑτῶι νυµφίον λάβηι.
Dal loro esame emerge in modo nitido come il paradosso di cui soffre la vita familiare di
Cnemone si esprima ancora una volta attraverso la comunicazione infelice del vecchio e derivi dalla
sua ostinazione a volersi occupare di sua figlia non cambiando quasi in nulla le proprie abitudini.
Verso di lei Cnemone mostra le attenzioni e l’affetto propri di un padre, dato che, al
contrario di quanto sospettato da Davo nel finale del I atto, non la lascia quasi mai da sola nel corso
66
Di queste osservazioni di Gorgia parlerò anche infra, 318.
315
della giornata e le rivolge la parola normalmente, cosa che non farebbe facilmente con nessun altro.
È evidentemente durante i colloqui con lei – che Gorgia può sentire lavorando nel podere accanto –
che Cnemone esprime sotto un altro, fondamentale aspetto, la consapevolezza dei propri doveri di
padre: “dichiara che ne concederà la mano allorché avrà trovato uno sposo dal suo stesso carattere”
(vv. 336-337). Egli è dunque solito pronunciare verso la fanciulla l’impegno a cercarle un marito, il
che costituiva, per la società menandrea, uno dei fondamentali obblighi di un genitore verso una
figlia femmina.
Il comportamento riferito costituisce tuttavia al contempo un esempio sintetico della
contraddizione in cui si dibatte il vecchio nella sua veste di padre: se da una parte si impegna ad
assolvere compiutamente i suoi doveri verso la figlia, dall’altra la sua personalità e il sistema di vita
scelto gli impediscono di farlo67.
Le sue promesse rispettano infatti soltanto apparentemente le condizioni necessarie alla loro
validità68, ma contengono a ben vedere un elemento che le rende atti paradossali: in esse l’atto
futuro a cui il parlante si impegna (l’ἔκδοσις della figlia, nominata attraverso il verbo
corrispondente) viene infatti da lui subordinato ad una condizione che è impossibile realizzare, vale
a dire il reperimento di un uomo che abbia il suo stesso carattere. Così com’è formulata e intesa, la
promessa risulta impossibile da mantenere, per una serie di ragioni tutte connesse al carattere di
Cnemone: anzitutto, Cnemone viene indicato da tutti come una personalità dai tratti unici e lo stesso
Gorgia proprio introducendolo ha specificato ai vv. 324-325 che si tratta di “un tipo come non ne
esistono di uguali, né tra gli antichi né nel tempo presente”; inoltre, non cercando né volendo vedere
nessuno, Cnemone non potrà trovare una persona di suo gradimento; se anche l’ipotetico uomo
esistesse, lui e Cnemone non potrebbero comunque incontrarsi rifuggendo entrambi il contatto
umano, mentre qualora qualcuno gli si avvicinasse per chiedergli la figlia, renderebbe
immediatamente chiara la sua diversità di carattere rispetto a Cnemone. In altri termini, Cnemone
intende trovare un uomo avente un preciso τρόπος X, che è il suo; ma, poiché il τρόπος X non
consente né a lui di cercare qualcuno né ad un uomo dal suo stesso carattere (ammesso che esista) di
67
L’assurdità degli atti di promessa o impegno compiuti da Cnemone, oltre ad essere immediatamente evidente, viene
sottolineata in maniera esplicita nel testo dall’osservazione di Sostrato secondo cui appunto essi implicano che
Cnemone non darà mai la figlia in sposa ad alcuno (vv. 337-338). Alcuni suoi effetti sul piano familiare sono osservati
da Zagagi 1994, 101, la quale sottolinea soprattutto come questa contraddizione ponga Cnemone “in an ambiguous
light”, rendendo il suo comportamento inaccettabile nel “social context of contemporary Athens” e dunque creando
conseguentemente “a deliberate tension in the plot”. Konstan 1995, 97 si sofferma ancor più specificamente sul
significato che l’incapacità di Cnemone di svolgere correttamente il ruolo di padre ha per la vita dell’oikos all’interno
della comunità di appartenenza, osservando che “his isolation cuts his household off from the network of connubial
relations that underwrites memberships in the polity”. Cfr. anche le osservazioni di Traill 2008, 51-53.
68
In realtà, il fatto che Cnemone non abbia intenzione di cambiare il suo comportamento per cercare un marito alla
figlia e che dunque non ne abbia neanche alcuna possibilità rende l’atto infelice tanto per Austin, che lo classificherebbe
come abuso (Austin 1987, 17-19), quanto per Searle, che lo riterrebbe un atto insincero (Searle 1976, 88-97).
316
trovare o di avvicinare lui, uno dei due dovrebbe necessariamente cambiare τρόπος, per cui i due
non potrebbero in nessun caso avere lo stesso τρόπος X69.
I messaggi che Cnemone invia su questo argomento divengono perciò affini alle predizioni
paradossali individuate dalla pragmatica della comunicazione come esempi di “paradossi
pragmatici”70, ossia di messaggi che contengono al loro interno un elemento che li invalida e
risultano pertanto difficili o impossibili da accettare per l’interlocutore, ma che al tempo stesso
costituiscono delle realtà interattive e relazionali alle quali non si può non reagire ma non si può
neanche reagire in modo adeguato, vincolando allo stesso modo sia chi ha prodotto il messaggio sia
chi lo ha ricevuto. Destinatari di questi messaggi di Cnemone sono la figlia, la quale per l’età, il
genere e l’inesperienza non si rende ovviamente conto della loro paradossalità, ma anche Gorgia,
che conosce questi atti dal racconto altrui o sentendoli direttamente dal proprio podere ed è
interessato ad essi in quanto fratello maggiore della ragazza per parte di madre. Questi comprende
quali conseguenze negative abbiano i messaggi trasmessi da Cnemone a tal riguardo: col
pronunciarli, infatti, Cnemone si posiziona nei confronti della fanciulla come suo legittimo κύριος,
mostrandosi consapevole dei doveri legati a questo ruolo e rendendosi perciò inattaccabile da un
punto di vista legale71, ma col subordinarli ad una condizione paradossale e dunque irrealizzabile li
rende privi di senso. La situazione in cui si trova Gorgia è quella, che un “paradosso pragmatico”
produce spesso, del “doppio legame”: non potendo, data l’inavvicinabilità di Cnemone,
metacomunicare con colui che ha prodotto il messaggio paradossale spiegandogli la sua
insensatezza né smettere di preoccuparsi della propria sorella in nome, Gorgia si trova nella penosa
condizione di preoccuparsi della sorella senza poter prestare la collaborazione al padre o addirittura
dovendo fare di tutto per non darglielo a vedere72.
69
Che per le persone difficili sia quasi impossibile stabilire rapporti (in particolare di φιλία) viene specificato da
Aristotele in diversi passi (ad es. in EN. VIII, 7 1158a 1-4).
70
Per la nozione di “paradosso pragmatico” cfr. supra, 38-39. In particolare sulla predizione paradossale cfr.
Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 216-226 (con la menzione di esempi molto vicini a quello illustrato a proposito di
Cnemone e della sua famiglia).
71
Per i doveri del κύριος cfr. Harrison 1968, 108-115.
72
Mi sembra opportuno precisare che quello determinatosi in questo caso non è un “doppio legame” psicologico,
derivante dall’incapacità di sciogliere il paradosso pragmatico a livello comunicativo con chi lo ha prodotto e dunque a
livello mentale, ma piuttosto un “doppio legame” sociale, che si produce con l’impossibilità di superare il paradosso a
causa dell’asocialità di Cnemone, dell’attenzione di Gorgia nei confronti della sorella e del fatto che il giovane
contadino non ha alcun diritto riconosciuto dalla legge ad occuparsene, dato che questa affida la completa responsabilità
della fanciulla al suo κύριος. Doppi legami esplicantisi soprattutto a livello sociale anziché psicologico sono citati da
Watzlawick e colleghi tra gli esempi da loro enumerati (cfr. Watzlawick/Beavin/Jackson 1971, 216-218). Un’analoga
situazione è quella, bene esaminata da Renata Raccanelli, che si crea nel Trinummus di Plauto quando il giovane
Lisitele vuole dare la sorella in sposa all’amico sfortunato Lesbonico trasformando il loro rapporto di amicizia in un
legame di parentela senza però pretendere da lui la dote: il messaggio che impone a Lesbonico di comportarsi con la
libera spontaneità di un amico divenendo però necessarius dà all’atto di offerta di Lisitele il carattere di un paradosso
pragmatico determinando perciò la reazione negativa dell’amico e la rottura (provvisoria) dell’amicizia (Raccanelli
1998, 122-128).
317
Che questa condizione sia priva di vie di uscita viene sottolineato con forza da Gorgia non
soltanto nel dialogo con Sostrato, ma anche in altri momenti della commedia – segno che il ragazzo
avverte con particolare sofferenza la paralisi familiare prodotta dalla personalità e dalle scelte di
Cnemone sulla vita dell’intero oikos.
Al giovane innamorato, Gorgia consiglia di non procurarsi problemi cercando, inutilmente,
di convincere Cnemone a fargli sposare la figlia, ma di lasciare il faticoso (e sempre infruttuoso)
compito di avere a che fare con lui ai parenti (per i quali l’uso del termine ἀναγκαῖοι al v. 339,
indicante le relazioni “necessarie”, appare in questo caso particolarmente pregnante) cui questi
problemi sono stati assegnati dalla sorte (vv. 338-340). Precedentemente, dialogando con Davo sul
pericolo che la figlia di Cnemone aveva corso incontrando un estraneo, aveva in un primo momento
affermato la necessità di assolvere i doveri familiari in ogni caso (οὐκ ἔνεστ’ ἴσως φυγεῖν /
οἰκειότητα, vv. 239-240) proteggendo la sorella dal disonore nonostante il comportamento del padre
verso di loro (vv. 241-243), salvo poi ammettere, in seguito all’obiezione mossa da Davo al suo
ordine di bussare alla porta del δύσκολος per la certezza che questi reagirà violentemente (vv. 247249), la difficoltà incontrata nel lottare con una persona a cui si è in qualche modo legati (non è un
caso che ad indicare questo inevitabile quanto rovinoso tipo di lotta compaia al v. 250 ancora una
volta il verbo ζυγοµαχέω, come al v. 17) ma che non si può né convincere né costringere a cambiare
atteggiamento, dato che contro le maniere forti ha la legge, contro i tentativi di persuasione il
carattere (τοῦτον οὔθ’ ὅτωι τρόπωι / ἀναγκάσαι τις εἰς τὸ βέλτι[ον … / οὔτ’ ἂν µεταπείσαι
νουθετῶν … / ἀλλ’ ἐµποδὼν τῶι µὲν βιάσασθαι τὸν νόµον / ἔχει µεθ’ αὑτοῦ, τῶι δὲ πεῖσαι τὸν
τρόπον, vv. 250-254).
Nel volersi occupare di sua sorella, Gorgia è portatore di un sentire ampiamente condiviso
nella società dell’epoca, come testimoniato da diverse fonti, a cominciare dall’etica aristotelica, che
presenta i doveri verso i familiari come un caso speciale degli obblighi comportati dalla φιλία73. Il
“doppio legame” sociale in cui si trova imprigionato è dunque dovuto al carattere di Cnemone e al
cozzare di leggi non scritte ma imposte al singolo dal codice culturale vigente contro la legge
scritta, la quale affidava la completa responsabilità della sorella di Gorgia al suo κύριος, che era
appunto il padre. Da quest’ultimo non provengono segnali di volere cedere il suo ruolo ad altri,
come testimoniano gli impegni presi nei confronti della figlia e il suo modo di parlare e comportarsi
73
Ad esempio in EN. IX, 2 1165a 30-sgg. Numerosi altri passi tratti da opere del V e IV secolo attestano che “l’ateniese
medio sentiva che il suo primo dovere era verso i genitori … , il secondo verso i parenti, il terzo verso gli amici e i
benefattori” secondo Dover 1983, 449-450 (cfr. anche le pagine successive sino a 453), seguito da Zagagi 1994, 98. Tra
i passi di autori antichi, ritengo importante per il presente discorso menzionare in particolare Demosth. 29,2 e 48,2,
entrambi testimonianti la difficoltà, per la mentalità vigente, di accettare di giungere a lite anche con parenti che si
fossero comportati in modo scorretto (nel primo passo Demostene teme rimproveri per avere spossessato
legittimamente un cugino disonesto e nel secondo deplora il fatto di essere stato costretto ad un processo contro dei
parenti).
318
come capo di un oikos (non è un caso che prima di rinunciare al suo ruolo nel IV atto egli parli di sé
spesso in prima persona plurale, identificandosi con la casa e il resto della famiglia74, e che ai vv.
443-444 si preoccupi di proteggere la casa dagli estranei che si trovano a circolare intorno ad essa
per recarsi al santuario). Il suo carattere tuttavia gli impedisce di adempiere alle mansioni connesse
con il suo ruolo, come accade innanzitutto a proposito della ricerca di un marito per la fanciulla ma
anche sotto altri aspetti, come ad esempio l’aver privato la ragazza della compagnia di sua madre e
di qualunque altra persona che non sia la schiava Simiche, e di rifiutare i vantaggi che potrebbero
provenire dalla collaborazione e dall’aiuto di altri parenti come Gorgia e Davo, il che è dimostrato
dal fatto che i due non possono bussare alla sua porta per riferirgli di un (presunto) pericolo appena
corso dalla fanciulla.
Se dunque gli atteggiamenti di Cnemone sono soltanto apparentemente pericolosi e animati
da malvagità nei confronti degli estranei che si avvicinino a lui, per lui stesso e i suoi familiari essi
costituiscono una vera e propria disgrazia, come gli atteggiamenti, le parole e lo stesso stato
d’animo di Gorgia nei versi esaminati mettono in evidenza.
4.1.1.3 Un cambiamento dopo l’incidente?
L’incidente occorso Cnemone tra la fine del III e l’inizio del IV atto costituisce
l’avvenimento dirimente della vicenda, la sua ‘peripezia’. La felice conclusione che esso trova
grazie al tempestivo intervento di Gorgia in suo soccorso provoca finalmente, in modo brusco e
inatteso, l’interruzione della deleteria routine comunicativa e relazionale che, come ho appena
mostrato, ha ormai da tempo imprigionato la vita di Cnemone e dei membri della sua famiglia. Il
gesto compiuto dal figlio della moglie, evidentemente reso possibile soltanto dalla situazione di
estremo pericolo in cui il vecchio è giunto a trovarsi75, lo induce ad un ravvedimento che riguarda
soprattutto l’opinione universalmente negativa sino ad allora avuta riguardo agli altri. I
comportamenti da lui tenuti dopo l’incidente sono tuttavia anch’essi segnati da contraddizioni:
come è noto, infatti, essi denotano cambiamenti parziali e in alcuni casi soltanto temporanei senza
dare luogo ad un mutamento radicale dello stile di vita che il vecchio ha sempre tenuto.
Ho già messo in evidenza come l’agire interazionale di Cnemone renda la portata e i limiti
della sua µετάνοια visibili in modo addirittura più chiaro ed immediato rispetto ai contenuti delle
sue decisioni per il futuro76. In questa sede mi propongo di ripercorrere l’andamento del IV atto
74
Lo si nota ad esempio ai vv. 168, 455, 482.
Si è infatti visto come in situazioni di normalità (cfr. i vv. 247-249, 329-331) o di difficoltà meno grave di quella
provocata dalla caduta (cfr. i vv. 595 e 600-601) Cnemone rifiuti il ricorso all’aiuto di persone che non siano la figlia o
la schiava Simiche.
76
Cfr. supra, 249-251.
75
319
prendendo in esame gli aspetti relazionali del comportamento di Cnemone nei confronti degli altri
(in particolare dei familiari) e viceversa.
A questo scopo i primi versi interessanti dell’atto sono quelli del dialogo intrapreso da
Gorgia nei suoi confronti ai vv. 691-700: prima di esso infatti (cioè ai vv. 620-690) Cnemone non
solo non compare in scena ma è soltanto oggetto dell’azione e del discorso di altri: Simiche che
cerca aiuto per lui, Gorgia e Sostrato che corrono a salvargli la vita, Sicone che commenta in modo
cinico e per il pubblico divertente le operazioni, lo stesso Sostrato che racconta come ha vissuto
l’esperienza del salvataggio. Ho già messo in evidenza come anche in questo dialogo Cnemone
mantenga per lo più un atteggiamento reattivo: è infatti Gorgia, che intende recuperare il δύσκολος
al consorzio sociale, ad aprire e a portare avanti lo scambio verbale77. Il giovane si accosta, come si
è visto, in modo graduale all’argomento di conversazione che gli sta a cuore proporre a Cnemone:
gli manifesta infatti dapprima un’attenta e premurosa disponibilità – attraverso atti di offerta e
invito a farsi coraggio – e soltanto nel terzo turno pronunciato coglie l’occasione di ‘farlo ragionare’
– con atti linguistici di critica e consiglio mitigati soprattutto da strategie di segno negativo e di off
recordness. Gli atti linguistici compiuti, la forma in cui si presentano e la loro successione nella
struttura conversazionale hanno l’effetto di posizionare Gorgia nei confronti dell’interlocutore come
interessato esclusivamente al suo benessere senza apparire invadente o incalzante. Lo sviluppo dello
scambio dopo le prime battute è reso possibile dal fatto che, contrariamente al solito, Cnemone non
dispiega gli atteggiamenti inequivocabilmente ostili di sempre: anche se non si può essere del tutto
certi riguardo a quello che dice a causa dello stato lacunoso del testo78, è sicura la presenza
dell’affermazione φαύλως ἔχω nel primo turno da lui pronunciato (v. 692), ossia della
comunicazione da parte di Cnemone di una propria condizione, e dell’atto di impegno οὐκέτι / ὑµῖν
ἐνοχλήσει τὸν ἐπίλοιπον γ̣ὰ̣[ρ χρόνον / Κνήµων (vv. 692-694), indicante il proposito del vecchio di
modificare i suoi atteggiamenti nei confronti degli altri79, nel secondo. Dopo la critica e il consiglio
di Gorgia Cnemone gli rivolge una richiesta che al giovane suona come accoglimento dei suoi atti80,
quella di riunire dinanzi a lui tutta la famiglia andando a prendere la madre (vv. 697-699).
77
Per l’analisi pragmatica degli atti da lui compiuti cfr. supra, 249.
Non conosciamo, a causa della perdita della parte finale del v. 691, l’intero contenuto della replica di Cnemone, ma il
τι conservato in B rende del tutto verosimile che in essa il vecchio, con una frase interrogativa non avente in realtà il
valore di una domanda (ad esempio τί βούλοµαι; secondo il testo di Handley, τί µοι λαλεῖς; secondo quello di Martin)
dichiarasse l’impossibilità di manifestare desideri o richieste o gli chiedesse di non essere importunato, motivando
subito dopo la sua risposta con la frase affermativa seguente.
79
Soltanto in seguito, quando Cnemone illustrerà nel monologo le proprie decisioni e ripeterà in forma lievemente
variata quest’atto (v. 747), sarà possibile comprendere il senso di quest’impegno: Cnemone vuole riunire la famiglia
escludendone però se stesso.
80
Stando al testo da me accolto (sul quale cfr. supra, 84 n. 52), il giovane saluta con entusiasmo la richiesta di
Cnemone nel compiere quanto questi gli ha chiesto.
78
320
Gli atti successivi di Cnemone, compiuti nell’attesa dell’arrivo della moglie con Gorgia,
cominciano a rivelare i limiti del progetto di cambiamento che Cnemone sembra aver concepito
dopo l’esperienza dell’incidente: a fronte di una richiesta fortemente mitigata che ha come
destinataria sua figlia (θυγάτριον, / βούλει µ’ ἀναστῆσαι λαβοῦσα; ai vv. 700-701), si ha,
successivamente ad un’esclamazione81 di Sostrato (µακάριε / ἄνθρωπε, vv. 701-702), una sua
domanda-rimprovero nello stile a lui consueto (τί παρέστηκας ἐνταῦθ’, ἄθ̣λ̣ι̣[ε;, v. 702)82. Si può già
sospettare che gli eventuali cambiamenti di Cnemone saranno ristretti al proprio nucleo familiare
senza contemplare i rapporti con gli estranei (lasciando al contempo immutate le speranze di
Sostrato di divenire suo genero).
Una lacuna di circa cinque versi ci impedisce di conoscere con precisione che cosa
avvenisse immediatamente dopo questa reazione spazientita di Cnemone. Quando il testo riprende
(v. 708), il vecchio ha già dato inizio al lungo discorso in tetrametri trocaici catalettici83 nel quale
finalmente si aprirà con i suoi familiari e definirà esplicitamente i mutamenti che intende apportare
per il futuro alla propria vita e alla loro. Sul discorso si sono soffermati ampiamente i più tra i
commentatori del Dyscolos84, data l’importanza che questo riveste per sapere se ed entro quali limiti
si possa parlare, a proposito del protagonista della commedia, di una µετάνοια: in questa sezione del
mio studio mi occuperò del significato che esso assume per i rapporti tra il vecchio ed il mondo
esterno, a partire non soltanto dalle osservazioni degli altri studiosi ma anche dalle caratteristiche
pragmalinguistiche che vi ho altrove riscontrato85.
Dai primi versi pervenutici del discorso (vv. 708-712) è già possibile notare la singolare
coesistenza di atteggiamenti del tutto inusitati per il personaggio e di segnali del persistere in lui di
una certa chiusura verso il mondo esterno: se è vero che per la prima volta Cnemone si rivolge a
persone che chiama singolarmente per nome per comunicare loro stati d’animo, valutazioni e
decisioni, comincia dicendo che nessuno potrebbe convincerlo a cambiare idea (probabilmente sul
81
In realtà non si ha accordo tra gli studiosi sull’interpretazione del vocativo: era finalizzato ad una presa di contatto
con Cnemone, costituendo dunque un appello (come ritengono Paduano e Ferrari), oppure costituiva piuttosto
un’esclamazione dovuta al fatto che il vecchio consentiva a sua figlia di toccarlo (secondo l’interpretazione di gran
parte degli studiosi, da Handley a Sandbach, Jacques1 e Arnott)? Propenderei per la seconda opinione, anche perché
nella sua battuta Cnemone rimprovera Sostrato di essere lì (παρέστηκας) e non di avergli rivolto la parola.
82
Per l’esame pragmalinguistico degli atti compiuti da Cnemone in questi versi cfr. supra, 249.
83
L’uso di questo metro provvedeva com’è noto a sottolineare l’intensità e l’importanza del momento, inserendo il
passo nella tradizione dei versi parabatici dell’Archaia, ma con un occhio ad Euripide, in particolare al grande discorso
di Ifigenia in IA. 1368-1401 (cfr. Handley, ad vv. 708-747, Perusino 1962, in particolare 62-64).
84
Tra questi sono ad esempio Webster 1960, 229, che ha sottolineato le analogie del discorso di Cnemone e delle
condizioni in cui viene pronunciato con le grandi ῥήσεις della tragedia, e Goldberg 1980, 85-87, il quale sottolinea la
coloritura seria che queste analogie davano al discorso ma anche l’effetto comico che esse dovevano avere data la
trivialità della situazione il felice esito dell’incidente.
85
Esse sono state da me individuate supra, 249-250.
321
suo stile di vita86) ma che essi saranno d’accordo con lui. L’affermazione anticipa pertanto quello
che emergerà esplicitamente in seguito: Cnemone ha preso le sue decisioni per il futuro e non è
disposto a ridiscuterle con i familiari. Lo sviluppo successivo della ῥῆσις, che pure procede
faticosamente87, si può per contenuti e struttura ripartire in tre sezioni88 scandite da brevi
interruzioni in cui il vecchio compie atti rivolti all’uno o all’altro dei suoi destinatari notando che
cosa stanno facendo, rivolgendo loro delle richieste, ecc.
Nella prima sezione, che dall’inizio si estende sino al v. 729, il vecchio pronuncia una serie
di affermazioni di valutazione riguardanti se stesso e Gorgia, che lo ha appena tratto in salvo. A
proposito di sé, il vecchio attribuisce i propri comportamenti ad un solo errore conoscitivo (ἓν …
ἴσως ἥµαρτον, v. 713): quello di non aver compreso i propri limiti confidando nella possibilità di
rendersi αὐτάρκης (v. 714), errore appena smascherato dall’evento occorsogli, che gli ha mostrato
quanto possa essere rapida e imprevedibile la fine della vita89. La ricerca di ulteriori giustificazioni
per il suo comportamento lo induce tuttavia subito dopo a menzionare un secondo errore grave
quanto il primo (vv. 718-721): questa volta la convinzione abbandonata, è quella, forse antecedente
alla scelta di rendersi autosufficiente rispetto al resto della società, secondo la quale non esisterebbe
nessuno, tra gli uomini, capace di benevolenza verso un suo simile, dati la costante attenzione al
profitto mostrata dagli altri e il loro scandaloso modo di vivere. Da questo ottenebramento della
mente (τοῦτο δὴ / ἐµποδὼν ἦν µοι, vv. 721-722) è stato – continua – liberato dal gesto di Gorgia,
costituente una prova del contrario. Il vecchio passa così ad esprimere giudizi di lode nei confronti
del figliastro soffermandosi sulla nobiltà del suo gesto (ἔργον ποήσας ἀνδρὸς εὐγενεστάτου, v.
723), la cui straordinarietà – spiega – è dovuta al fatto che il giovane non ha ricambiato l’ostilità da
lui sempre mostratagli non permettendogli di avvicinarsi alla sua porta, non aiutandolo sotto alcun
aspetto, non rivolgendogli il saluto né parlandogli mai piacevolmente90. Cnemone decide di
sottolineare il concetto appena espresso nel periodo successivo del discorso con altre parole:
immagina ciò che un altro (ἄλλος) avrebbe detto se si fosse trovato al posto di Gorgia in quel
86
La frase non ci è pervenuta per intero ma sul suo contenuto è d’accordo la maggioranza dei commentatori (cfr. ad es.
G-S ad v. 711, da cui viene intesa nel modo seguente: “I have not given up the way of life I have chosen – it might be
not have been right for me to do so – and none of you could make me change my mind”).
87
Webster 1974, 108-109 sottolinea la pesantezza dello stile adottato da Cnemone, che si realizza attraverso l’alternarsi
di periodi lunghi e di struttura complessa (dovuta alla presenza in essi di subordinate e parentetiche) con frasi brevi e
lapidarie (spesso collegati tra loro attraverso la particella δέ e la congiunzione ἀλλά).
88
Per la suddivisione del discorso in tre sezioni piuttosto ben definite cfr. Handley ad vv. 708-747, 729-739, G-S ad v.
740.
89
Che l’αὐτάρκεια fosse riconosciuta dalla mentalità greca come un ideale è testimoniato ad esempio da Aristot. EN. I,
5 1097b 6-sgg., Pol. I, 2 1253a 1-3, il quale tuttavia nega che sia raggiungibile dall’uomo singolo, “animale sociale” per
definizione (EN. I, 5 1097b 10-11), sostenendo che soltanto un’intera società possa essere auto-sufficiente.
90
Il graduale passaggio all’asindeto nella successione dei participi deriva secondo i commentatori (ad es. Handley ad
vv. 724-sgg.) dal progressivo irrompere dell’emozione del vecchio nel linguaggio.
322
momento (“οὐκ ἐᾶις µε προσιέναι·/ οὐ προσέρχοµ’· οὐδὲν ἡµῖν γέγονας αὐτὸς χρήσιµος·/ οὐδ’ ἐγὼ
σοὶ νῦν”, vv. 727-729).
È probabilmente91 un movimento di Gorgia, un suo tentativo di schermirsi rispetto a quanto
appena detto da Cnemone che induce questi ad interrompere il flusso dei suoi pensieri per
rivolgergli una domanda non avente valore interrogativo ma quello di lieve rimprovero
accompagnato dal suggerimento di restare tranquillo (τί δ’ ἐστί, µειράκιον;, v. 729). Dopo questa,
infatti, non si ha la cessione della parola, ma comincia la seconda sezione del discorso del vecchio,
contenente una serie di disposizioni per il futuro relative non soltanto a lui ma anche alla famiglia: il
vecchio adotta Gorgia come figlio rendendolo parte integrante del proprio oikos, e gli testimonia la
sua stima non soltanto affidandogli tutti i suoi averi ma anche rendendolo κύριος della sorella,
dunque trasmettendo a lui il compito di trovarle un marito (ammette infatti ai vv. 733-735 che egli
non ne sarebbe capace, dato che nessuno gli piacerebbe)92.
Un ordine (questa volta non mitigato) rivolto alla figlia (ἀλλὰ κα]τάκλινόν µε, θύγατερ, v.
740) segna infine l’approssimarsi della conclusione del monologo, prima della quale – Cnemone
specifica – intende spiegare a Gorgia ancora qualcosa del suo carattere: afferma infatti che se tutti
fossero come lui93 non esisterebbero luoghi di contesa come i tribunali, non ci si manderebbe in
galera vicendevolmente e non ci sarebbe guerra, ma ognuno vivrebbe accontentandosi di poco (vv.
743-745). Ma – conclude con amara ironia – se gli altri ritengono queste cose più piacevoli, che
agiscano pure come sono abituati a fare (ἀλλ’ ἴσως ταῦτ’ ἐστ’ ἀρεστὰ µᾶλλον· οὕτω πράττετε, v.
746): egli, il vecchio scontroso e difficile, se ne andrà finalmente fuori dai piedi (ἐκποδὼν ὑµῖν <ὁ>
χαλεπὸς δύσκολός τ’ ἔσται γέρων, v. 747).
Tanto i modi comunicativi scelti dal personaggio, sui quali mi sono in parte già soffermata,
quanto i contenuti del suo monologo offrono numerose informazioni per comprendere se e come i
rapporti tra lui e gli altri siano stati modificati dall’esperienza dell’incidente.
Se è vero che dopo di essa il vecchio abbandona in modo esplicito l’ideologia che sosteneva
il suo modo di vivere, l’affermazione secondo la quale nessuno potrebbe convincerlo a cambiare
idea riguardo al suo stile di vita mentre tutti converranno con lui su di esso costituisce
un’importante spia del fatto che il vecchio non è intenzionato in alcun modo a ridiscutere questo
con i suoi familiari. Unitamente ad essa, diverse caratteristiche del suo discorso rendono
assolutamente evidente che Cnemone intende i familiari come semplici destinatari del discorso e
non come veri e propri interlocutori: dalla sua durata, del tutto sproporzionata per un turno
91
Cfr. supra, 249.
Per il background legale a queste decisioni cfr. Préaux 1959a, soprattutto 225-228 e Paoli 1961, 52-62.
93
Nonostante il supplemento dell’inizio di verso non sia sicuro (Handley e Sandbach inseriscono nel loro testo
τοιοῦτοι), è chiaro che Cnemone sta riferendosi ad ipotetiche persone simili a lui.
92
323
conversazionale, al fatto che li individua come destinatari singoli soltanto occasionalmente e in
funzione delle esigenze sue e del suo discorso (ad esempio per essere sollevato quando si accinge a
pronunciarlo o disteso quando sta per concludere, oppure nei momenti di transizione) e non
consente che partecipino attivamente alla sua riflessione o replichino alle osservazioni svolte.
Nei confronti di Gorgia Cnemone non si comporta molto diversamente, pur lodandolo più
volte e, in seguito, adottandolo come figlio. Lascia infatti che sia il suo gesto, evidentemente muto,
a parlare per il giovane e non gli cede la parola perché spieghi le convinzioni e i sentimenti che
hanno guidato la decisione di salvarlo.
Questa manchevolezza si esprime con straordinaria evidenza a mio parere attraverso il fatto
che Cnemone ai vv. 727-729 preferisce immaginare quello che un altro avrebbe potuto dire per
motivare il suo rifiuto di aiutarlo nel momento del pericolo, citando parole ipotetiche, anziché
sentire le motivazioni del gesto che, proprio perché differente dalle reazioni comuni, ha permesso di
valicare la situazione di stallo interazionale e relazionale in cui Cnemone si trovava da anni e che
provocava ai suoi familiari i problemi illustrati. Il fatto che Cnemone dia voce ad un immaginario
altro riproducendone l’eventuale reazione verbale ad una richiesta di aiuto è indice di quello che la
pragmatica della comunicazione ha chiamato “disconferma”, consistente non già nel rifiutare la
validità dei messaggi altrui sul piano relazionale ma nel negare all’altro lo status stesso di
interlocutore94.
Non è un caso, perciò, che non appena Gorgia, proprio dopo queste parole immaginate in
oratio recta, compie un gesto di protesta contro la descrizione che ne ha appena dato il vecchio,
Cnemone nota la sua reazione e, con una domanda non avente valore interrogativo, la blocca. Se,
dunque, a ragione alcuni commentatori ritengono che questa “apart from adding life and informality
to the long speech” serve a stabilire “a transition to Knemon’s next point”95, essa è anche indicativa
del suo mancato cambiamento nel modo di porsi verso gli altri.
Dopo di essa non si ha infatti la cessione della parola ma il passaggio alla parte centrale del
discorso, nella quale il vecchio si rivolge direttamente a Gorgia e realizza le proprie decisioni in
modi non molto diversi da quelli che sempre ha usato verso Simiche e sua figlia, ossia disponendo e
ordinando in modo autonomo ed unilaterale senza chiedere il consenso del destinatario96.
94
Per la nozione di “disconferma” cfr. supra, 34-35. L’occorrenza del fenomeno è stata osservata in Verg. Aen. IV,
369-370 e VI, 451-476 a proposito della comunicazione e del rapporto tra Didone ed Enea da Ricottilli 2000, 101-102 e
108-109: la studiosa si è soffermata su alcune delle manifestazioni comunicative del fenomeno, verbali e gestuali (come
ad esempio il passaggio dalla seconda alla terza persona nel dialogo nel primo dei passi citati, il distogliere lo sguardo
dall’interlocutore nel secondo, ecc.).
95
Handley ad v. 729.
96
Ho già sottolineato supra, 67 e 242, come la schiava Simiche sia soprattutto destinataria da parte del vecchio di ordini
non mitigati miranti nella maggior parte dei casi ad ottenere repliche non verbali. Quanto alla figlia, nonostante essa sia
indicata come si è visto supra, 315 come destinataria di una più ampia comunicazione da parte di Cnemone, non sembra
comunque mai avere acquisito davvero presso di lui dignità di interlocutrice (le promesse fattele dal padre non vengono
324
Certo, il riconoscimento degli errori commessi nella valutazione di se stesso e degli altri e
quello dell’incapacità di cambiare lo stile di vita che sente come più congeniale rendono possibile
queste decisioni di Cnemone, di rilievo centrale per il successivo sviluppo della vicenda e il destino
dei suoi familiari. È in questo modo, infatti, che scioglie, insieme con il grave paradosso insito nel
suo impegno ad occuparsi di sua figlia, la paralizzante situazione di doppio legame in cui si è finora
trovato Gorgia riguardo a sua sorella e, al tempo stesso, ricompone almeno dal punto di vista
strettamente materiale la propria famiglia, consentendo a Gorgia di disporre di metà del suo
patrimonio per dare da vivere anche alla moglie. Ciò a cui non si assiste è invece la scelta di
costruire con Gorgia, giovane che per la saggezza dimostrata nonostante l’età e per la vita frugale e
completamente dedita al lavoro e alla famiglia potrebbe senza dubbio piacere al vecchio, un
rapporto più intimo. Cnemone continua a ribadirgli la propria stima (al v. 736 motiva infatti la
scelta di affidargli la sorella con l’affermazione: νοῦν ἔχεις σὺν τοῖς θεοῖς), ma non mostra questa
disponibilità: la soglia massima alla quale si spinge nei confronti del figlio appena acquisito
(giustificandosi di dire qualcosa più di quello che secondo lui sarebbe necessario ai vv. 740-741) è
il volergli spiegare ancora qualcosa del suo carattere.
Nell’ultima parte del discorso, quindi, Cnemone dice finalmente a Gorgia quello che, a
causa del suo ossessivo ‘comunicare il rifiuto di comunicare’, non era mai riuscito a far capire a
coloro con i quali fosse venuto in contatto: il fatto che nel suo animo non risiede alcuna malvagità e
che il suo ideale di vita non comprende il compiere azioni che siano di nocumento agli altri o alla
società intera, ma, al contrario, la semplicità e la rinuncia ad ambizioni smodate. Il modo in cui lo
comunica rispecchia tuttavia le tortuosità della sua mente. Come ho già ricordato osserva infatti che,
se tutti fossero come lui, non esisterebbero nella società relazioni ostili come le controversie e la
guerra, non rendendosi tuttavia conto della paradossalità della sua affermazione: a deplorare queste
relazioni è proprio colui che era solito aggredire indistintamente tutti coloro i quali gli rivolgevano
la parola!
La tensione tra vecchio e nuovo nella personalità del δύσκολος si fa dunque sempre più
evidente nel finale della ῥῆσις: nelle ultime frasi Cnemone traccia nuovamente una separazione tra
sé e chi è diverso da lui, non riuscendo a fare a meno di definirsi in antitesi agli altri. Ad accrescere
il distacco sono l’uso della deissi, dato che egli cessa di rivolgersi al solo Gorgia per riunire di
nuovo i destinatari in un insieme indistinto indicato da pronomi e forme verbali di seconda persona
plurale, nonché il compimento di atti come la citata critica del v. 746 e l’impegno a non intralciare
più la vita degli altri, che conclude il monologo al v. 747. L’enunciato da cui l’impegno è realizzato
infatti mai discusse dalla ragazza e la prima volta che essa compare in scena ai vv. 189-212 lo fa per obbedire ad un
ordine impartitole dal padre).
325
(ἐκποδὼν ὑµῖν <ὁ> χαλεπὸς δύσκολός τ’ ἔσται γέρων, v. 747) risulta particolarmente significativo.
Il fatto che questa frase conclusiva sia la ripetizione leggermente variata di una delle poche dirette a
Gorgia nel corso del dialogo precedente (vv. 692-694) mostra che le intenzioni comunicative del
vecchio sono rimaste da allora completamente invariate perché non esposte in alcun modo
all’influenza dei familiari, dato che il personaggio ha riservato a sé solo il diritto di parola su se
stesso e sugli altri. In ambedue le frasi il parlante si riferisce a se stesso in terza persona, il che
costituisce un segno del fatto che Cnemone compie il tentativo di estraniarsi dalla propria persona e
di assumere la prospettiva dei destinatari. Il tipo di impegno preso nei loro confronti, di tipo
negativo in quanto consistente nell’evitare alcuni comportamenti piuttosto che nell’adottarne degli
altri ed espresso nel lessico a lui consueto (comprendente le espressioni ἐνοχλεῖν prima ἐκποδὼν
εἶναι poi), si rivela tuttavia frutto esclusivo dei suoi parametri di ragionamento e di giudizio, che,
mutati solo parzialmente, vengono in questo caso da lui impropriamente attribuiti anche ai suoi
familiari.
Il monologo di Cnemone rappresenta la parziale e per certi aspetti provvisoria apertura del
δύσκολος ad interpretare la realtà in modo diverso da come fatto per la maggior parte della vita. Il
personaggio trova la forza di abbandonare certe deleterie convinzioni e sciogliere i problemi e le
contraddizioni più gravi provocati dal suo modo di essere, ma non si apre veramente agli altri
neppure in ambito familiare e, se riunisce finalmente la famiglia, esclude al contempo da questa se
stesso. In particolare nei confronti di Gorgia, il vecchio non mostra di volere stabilire un vero
rapporto padre-figlio, dato che non si preoccupa di chiedergli che cosa a sua volta si aspetti da lui
né di invitarlo ad una affettuosa e leale collaborazione nel gestire gli affari di famiglia, ma gli lascia
semplicemente un posto che non si sente più di occupare in casa.
Il persistere di resistenze e insofferenze nel suo modo di fare, l’incapacità di autodefinirsi se
non negativamente e in antitesi agli altri, il conseguente riaffiorare, nel finale, di pezzi
dell’ideologia ormai palesemente invalidati dalle sue precedenti ammissioni di errore, indicano la
difficoltà, per lui, a staccarsi se non da un sistema di vita che almeno per quanto lo riguarda intende
in larga parte conservare almeno da un modo di fare che, tanto perché radicato nel modo di essere
quanto perché, per troppo tempo rimasto immutato, ha dato luogo a sedimenti e concrezioni difficili
da smantellare, conosce poche novità fatta eccezione per il tentativo, che vedremo attivo nel
seguente dialogo con Gorgia e nei successivi comportamenti del vecchio, di controllare comunque
certi inevitabili ritorni di natura istintiva ancor prima che razionale. I modi del suo linguaggio in
326
questo delicato momento sono fortemente indicativi della stridente coesistenza tra i tratti maniacali
del suo modo di fare e la mutazione del sistema ideologico che sino a poco prima li sosteneva97.
Se i più pesanti effetti legati al suo sistema di vita sono stati eliminati quantomeno nei
confronti dei familiari, il paradosso originario della δυσκολία, quello dell’ostinata ricerca della
solitudine, è dunque rimasto immutato o si è addirittura approfondito dopo l’abbandono della
sovrastruttura ideologica che l’aveva sostenuto: pur non odiando nessuno, con nessuno Cnemone
intende avere a che fare.
Ho già illustrato le modalità in cui Gorgia riesce a far sì che il monologo di Cnemone si
trasformi in un dialogo, conquistando il diritto di parola e sottoponendo al padre adottivo la
richiesta di collaborazione nel cercare un marito per la fanciulla, condotta in diversi spezzoni di
turno e con frasi sempre più brevi e progressivamente orientate verso la politeness negativa e l’off
recordness a causa delle resistenze del vecchio a ogni contatto con estranei98 Soltanto quando
Gorgia nomina Sostrato come “colui che ha collaborato al salvataggio” (v. 753) Cnemone accetta di
rivolgergli attenzione, mostrando una istintiva curiosità per chi senza conoscerlo gli ha fatto del
bene e ponendo perciò a Gorgia le prime due domande reali da lui pronunciate nell’intera
commedia, intese a sapere chi sia il giovane introdotto dal figlio (ὁ ποῖος;, v. 753) e se si tratti di un
contadino come lui, come sembra di potersi ricavare dall’‘abbronzatura’ che esibisce dopo aver
lavorato nei campi (ἐπικέκαυται µέν. γεωργός ἐστι;, v. 754). Alla seconda domanda è pressoché
sicuro, nonostante lo stato lacunoso del testo successivo al v. 755, che si rispondesse con una bugia.
Questa risposta, solitamente attribuita a Gorgia cui era stata rivolta la domanda99, non stupisce se si
considera come rinuncia del giovane a compiere nei confronti del padre adottivo un ulteriore FTA
consistente nel dargli una risposta a lui non gradita mettendo a repentaglio il progetto di nozze di
Sostrato. Egli ha voluto semplicemente far conoscere Sostrato a Cnemone come persona spinta da
benevolenza e generosità a salvare la vita al vecchio senza neanche conoscerlo, probabilmente per
prevenire il pericolo che questi sviluppi ostilità verso di lui: per il resto, come Gorgia stesso dirà
esplicitamente a Sostrato dopo l’uscita di Cnemone (vv. 764-770), il fatto che anche solo per un
97
Cfr. su questo in particolare le osservazioni di Paduano, 369-372 n. 75, da me in larga misura condivise. Che il
cambiamento di Cnemone sia stato soltanto parziale viene sostenuto, comunque, dalla maggioranza degli studiosi, tra
cui Schäfer 1965, 92-94, Sandbach (in G-S ad vv. 880-958), Goldberg 1980, 88-91 (ma lo studioso nega che quella di
Cnemone sia una personalità compiutamente sviluppata dal drammaturgo). Handley ad vv. 708-747 parla di “personal
crisis” di Cnemone anche se ammette che egli tenta di salvare alcune convinzioni alla base della sua scelta di vita.
Barigazzi 1959, 184-195 attribuisce a Cnemone un profondo e radicale mutamento spirituale, sottovalutando le
resistenze al contatto che manifesta anche dopo il lungo discorso ai familiari (parla infatti di “riconquista di Cnemone
alla società” a 193). Infine Lossau 1986, 93-103, secondo cui Cnemone nel IV atto rinuncia all’autosufficienza e nel V,
dopo la beffa, alla misantropia, mi sembra avere una visione troppo schematica della vicenda del δύσκολος.
98
Cfr. supra, 213-214 e 250.
99
L’attribuzione non è affatto certa, dato lo stato lacunoso del testo in questo punto: Handley ad vv. 754-sg., osserva
che potrebbe essere anche Sostrato a dare la risposta intromettendosi. In questo caso, tuttavia, mi riesce difficile
immaginare che Cnemone non protestasse in qualche modo.
327
giorno abbia accettato di lavorare la terra per amore della fanciulla lo rende valido al pari di un
contadino.
A causa dello stato del testo non si è sicuri di come terminasse il dialogo: ho già detto che
dai resti dei suoi ultimi versi (Cnemone usciva quasi sicuramente tra il v. 758 e il v. 759 sorretto
dalla figlia e dalla moglie) si desume in generale che egli non entrasse in dialogo con Sostrato ma
che confermasse l’incarico dato a Gorgia lasciandogli la facoltà di decidere se concedere la sorella.
Lo sviluppo dello scambio verbale immediatamente successivo tra Cnemone e Gorgia non
può che confermare che tra i due personaggi non si è instaurato né è possibile che si instauri in
futuro, nonostante le ripetute dichiarazioni di stima rivolte dal primo al secondo e i tentativi di
quest’ultimo di avvicinamento al padre adottivo, un rapporto di intimità e di complicità quale
spesso si trova tra un genitore e un figlio ormai adulto100.
Quello che Cnemone non è stato in grado di colmare è il bisogno di mutua solidarietà e
collaborazione che Gorgia ha mostrato di avvertire profondamente già al suo primo apparire101.
Attraverso la breve ma intensa riflessione successiva dall’incidente, il vecchio si è reso conto che il
suo stile di vita è stato un impedimento per gli altri membri della famiglia, ma la sua comprensione
non si è spinta fino ad includere le esigenze ‘positive’ che Gorgia cerca di comunicargli nella
richiesta immediatamente successiva alla fine del monologo, dato che non ammette che il figlio
parli oltre (anzi, gli ha consentito a stento di completare il suo atto). Cnemone rinuncia a cogliere
questa occasione per la costruzione di un rapporto nuovo con i suoi familiari e in particolare con
Gorgia e lascia che ogni responsabilità familiare ricada sulle spalle di questi fidando nella sua
assennatezza.
Le modalità in cui Cnemone si è opposto alla richiesta di collaborazione per trovare uno
sposo alla figlia e la frettolosa conclusione del dialogo faticosamente ‘conquistato’ da Gorgia, che
non dura più di dieci versi anche se vi si includono le battute con cui il vecchio tenta disperatamente
di evitarlo (vv. 748-758), lasciano pochi dubbi riguardo all’irrevocabilità della sua decisione. Pur
non volendo più fare del male ad alcuno Cnemone non si rende conto che, lasciando prevalere
ancora una volta le involuzioni del suo carattere sulle concrete esigenze affettive delle persone a lui
più vicine, condiziona comunque la vita di queste ultime. L’invalicabilità delle barriere che lo
separano dagli altri si è tradotta anche questa volta in un modo di fare che, per quanto, in seguito
alle ragioni indicate, più controllato rispetto al solito, si rivela completamente inadeguato alla
costruzione di ponti tra lui e qualunque altra persona.
100
L’esempio più vicino è senz’altro quello del rapporto tra Sostrato e suo padre Callippide, che, sia pure con pochi
tratti, verrà presentato (non a caso) tra la fine di quest’atto e l’inizio del successivo (vv. 784-860; cfr. anche v. 761).
101
Soprattutto ai vv. 239-245 sui quali Paduano, 357 n. 26 scrive: “le parole di Gorgia lasciano quindi intravvedere una
concezione del nucleo familiare come unità serrata e solidale … resa compatta dalla comune pena dell’esistenza
disagiata, e forse anche paradossalmente dallo stato di separazione e di alienazione”.
328
Se questo è già sufficientemente chiaro nel momento in cui si manifesta, acquista a mio
parere maggiore risalto in una scena dell’atto successivo che corre parallelamente a questa nella
stessa direzione ma secondo un andamento conversazionale radicalmente diverso. Si tratta di quella,
che si sviluppa ai vv. 821-855, del confronto tra Sostrato, Gorgia e Callippide riguardo al
matrimonio del giovane contadino con la sorella di Sostrato, che, proposto da quest’ultimo, era stato
nella scena precedente accettato dopo qualche resistenza da Callippide102.
Il parallelismo tra le due scene deriva dal fatto che entrambe hanno come protagonisti i due
giovani e un vecchio imparentato con uno di loro (nel primo caso Cnemone, nel secondo
Callippide) cui viene chiesto di concedere la propria figlia in sposa all’altro dei due e che ambedue
si concludono con l’accordo tra i tre cui segue l’ἐγγύησις con la fanciulla.
La dinamica conversazionale da cui la seconda è caratterizzata la pone invece in totale
antitesi rispetto alla scena appena esaminata: nell’assistere alla discussione tra Sostrato e Gorgia
nata dal rifiuto opposto da quest’ultimo all’idea del primo (vv. 822-834), Callippide, che si è
convinto a dare il proprio assenso al matrimonio per consentire al figlio di assicurarsi l’amicizia del
sincero e leale Gorgia (vv. 815-816), prende la parola mediante autoselezione al v. 835 quando il
confronto tra i due giovani sembra giunto ad un momento di stallo: egli si rivolge a Gorgia
prorompendo in un’esclamazione di critica esplicita anche se mitigata103, in cui mostra di
apprezzare la sua nobiltà d’animo ma di ritenerla paradossale, eccessiva o fuori luogo
(dell’aggettivo esprimente la critica non è possibile dire molto dato che ne è conservata soltanto la
parte finale104) al momento presente. E, se Gorgia resta stupito da questa critica e trova soltanto il
coraggio di chiederne la ragione (nella domanda di forma ICTS πῶς; del v. 836), Callippide gli
risponde fornendogli spiegazione per quanto ha detto e probabilmente invitandolo ad accettare
l’offerta, per lui vantaggiosa e presentata da loro volentieri.
Nonostante i problemi testuali presentati dal passo105, non è difficile cogliere il suo sviluppo:
il vecchio Callippide, opposto a Cnemone sin dal suo primo apparire per il comportamento che gli
viene attribuito da Sostrato e quello che egli stesso dispiega ma probabilmente anche in ragione del
costume e della maschera indossati106, riesce con i suoi ripetuti interventi ad imprimere allo
102
Vv. 785-820.
Cfr. supra, 224.
104
Sul problema testuale scrivo supra, 224 n. 367.
105
In particolare non si sa se Gorgia prendesse la parola dopo Callippide tra il v. 838 e il v. 840 (in cui probabilmente si
affermava che è doppiamente sofferente, sia per le condizioni economiche sia per quelle mentali, chi rifiuta una persona
che gli mostra una via di salvezza); dopo il secondo dei due versi si ha una battuta da attribuire necessariamente a
Sostrato o Callippide.
106
La diversità di Callippide rispetto a Cnemone, anticipata già dalle osservazioni di Sostrato sull’apertura mentale e
sulla tolleranza verso il figlio che lo caratterizzano (v. 761), è visibile al suo primo apparire, quando il vecchio,
affamato, smania di unirsi al resto della famiglia per partecipare al banchetto sacrificale (vv. 776-777 e 779-780). Non
va trascurato inoltre il fatto che probabilmente il personaggio veniva contrapposto a Cnemone dalla maschera indossata.
Secondo Wiles 1991, 74-90, le maschere della Nea sono infatti organizzate secondo un sistema di opposizioni in cui
103
329
scambio verbale un andamento completamente diverso rispetto a quello del dialogo che aveva avuto
come (riluttante) protagonista Cnemone.
Il padre di Sostrato prende la parola autonomamente pur senza essere stato coinvolto da
nessuno nella discussione e, rivolgendosi direttamente a Gorgia, in termini diretti anche se mitigati
e scambiando con il giovane più di una battuta riesce a portare il confronto fuori dalla situazione di
stallo in cui era giunto e ad ottenere il consenso del giovane contadino alle nozze. In seguito
accoglie senza battere ciglio la richiesta indiretta di Sostrato di pronunciare la formula di
fidanzamento (vv. 842-844) e, all’affermazione con cui Gorgia cerca di ricambiare la dote ricevuta
attribuendo un talento alla sorella, rifiuta la sua offerta ancora in modo esplicito ma mostrando
premura nei confronti dell’interlocutore e passa con disinvoltura a parlare della festa ordinando al
futuro genero di andare a prendere la madre e la sorella per farle unire a loro (vv. 847-849)107.
Questo comportamento si colloca agli antipodi di quello di Cnemone, il quale si era opposto
disperatamente a collaborare con il figlio nella ricerca di un genero, aveva ripetutamente cercato di
sottrarsi all’incontro con Sostrato interrompendo più volte con espressioni di diniego i turni con cui
Gorgia esprimeva la sua insistenza nella richiesta, poi, quando aveva accettato di vederlo non gli
aveva rivolto la parola limitandosi a chiedere di lui a Gorgia e probabilmente (lo stato del testo non
ci consente di esserne certi) non aveva scambiato con lui neanche una parola, evitando non soltanto
di pronunciare la formula di fidanzamento (che infatti toccherà a Gorgia pronunciare) ma forse
anche di dare il proprio assenso ad esso ripetendo che la decisione spettava a ormai al nuovo κύριος
della ragazza.
La così evidente diversità tra l’atteggiamento interattivo di Callippide e quello di Cnemone
nelle due scene analoghe rende evidente che Menandro si serve di comportamenti conversazionali
diversi, come la presa di parola (per il padre di Sostrato spontanea e finalizzata a dare inizio a
coppie di adiacenza mentre nel caso di Cnemone intesa a chiudere una coppia di adiacenza aperta
dall’interlocutore e impedire l’apertura di coppie successive), la selezione del destinatario (che
Callippide individua immediatamente nel giovane cui darà in sposa la figlia senza parlare per
interposta persona come ha fatto Cnemone), l’uso dei vocativi (che per Cnemone si limitano
all’impaziente e freddo οὗτος rivolto a Gorgia al v. 750, mentre nel caso di Callippide passano dal
rispettoso ma ancora generico µειράκιον che pure personalizza la rigida formula di fidanzamento ai
vv. 842-844 al vocativo del nome proprio Γοργία presente al v. 847), gli espedienti di politeness
ognuna acquista significato soltanto in seguito al confronto con almeno un’altra raffigurante un tipo della stessa età o
della stessa condizione. Egli nota come tanto nel catalogo di Polluce (IV, 143-154) quanto in diverse testimonianze
pittoriche compaiano vecchi dal volto aperto e rilassato e vecchi dall’espressione più tesa e aggressiva e ne conclude
che i due vecchi di questa commedia, di carattere, temperamento e condizione diversi, potevano essere posti in antitesi
già attraverso le maschere indossate. La discussione sul potere cara