voluzione della commedia da Aristofane a Menandro
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voluzione della commedia da Aristofane a Menandro
EVOLUZIONE DELLA COMMEDIA: DA ARISTOFANE A MENANDRO Differenze tra tragedia e commedia La parola «comico» ha in italiano due significati: «proprio della commedia» e «che fa ridere». Il secondo significato deriva dal primo e si spiega etimologicamente con il fatto che nell'antichità greca e romana il genere della commedia era caratterizzato dall'intenzione e dalla funzione di divertire il pubblico degli spettatori suscitandone il riso. La commedia, come la tragedia, era collegata, sia nelle sue origini sia nelle circostanze delle rappresentazioni, con feste e riti religiosi, e che si presentava come uno spettacolo misto di poesia, musica, canto e danza, eseguito da attori e da coreuti che portavano la maschera. La commedia si propone di divertire e rallegrare il pubblico, essa prevede sempre lo scioglimento felice del nodo drammatico, il superamento degli ostacoli e delle difficoltà nel lieto fine; la tragedia invece rappresenta azioni gravi, dolorose, spesso luttuose e con esito funesto. La commedia mette in scena per lo più personaggi di condizione sociale umile o media (piccoli proprietari terrieri, mercanti, artigiani, soldati mercenari, schiavi, cortigiane) e vicende della vita comune; i personaggi della tragedia, invece, sono di rango elevato (re e regine, divinità, eroi ed eroine) e le vicende sono tratte dalla storia e specialmente dal mito, utilizzato come repertorio da cui attingere simboli di valori e disvalori, che forniscono lo spunto per dibattere grandi temi morali, religiosi e politici. In accordo con la quotidianità dei personaggi e delle situazioni, lo stile della commedia è «umile», cioè semplice, piano; tende a riprodurre, stilizzandolo, il linguaggio della comunicazione ordinaria; la tragedia adotta invece lo stile grande, alto, sublime, fortemente differenziato, grazie all'elaborazione artistica, rispetto alla lingua d'uso. Etimologia del termine komodìa Quanto abbiamo detto finora vale per la forma del genere comico che conosciamo meglio: la commedia attica, che fiorì ad Atene a partire dall'inizio del V secolo a.C. Le sue origini remote (assai oscure) risalgono a feste agresti e ai riti dionisiaci della fertilità e della fecondità: l'ipotesi più probabile sull'etimologia del termine greco komodìa (da cui il latino comoedia) lo fa derivare da kòmos («corteo», «processione») e ode («canto»), cioè «canto del corteo dei devoti di Dioniso»: il coro sarebbe stato il nucleo originario di questa, come dell'altra forma teatrale, la tragedia. Il dramma dorico: Epicarmo Sulla formazione, in età storica, e sulla caratterizzazione della commedia attica esercitò un influsso sicuramente rilevante, anche se difficilmente valutabile per la scarsità della documentazione oggi disponibile, il genere parallelo del «dramma» dorico, il cui massimo rappresentate, Epicarmo di Siracusa, fu attivo in Sicilia molto prima (secondo la testimonianza di Aristotele nella Poetica) dei primi commediografi attici, cioè già nel VI secolo, oltre che nei primi decenni del V. Epicarmo - che fu molto apprezzato anche da Platone - scrisse dràmata (così li chiama Aristotele), commedie o farse in versi, di cui conserviamo solo titoli e frammenti. Vi aveva largo spazio, insieme alla rappresentazione realistica della vita quotidiana, anche la parodia mitologica, con una forte spiccata preferenza per i personaggi di Eracle (= Ercole) e di Odisseo (= Ulisse), protagonisti di avventure ispirate al mito, ma comicamente e grottescamente deformate: Eracle, per esempio, era presentato come un formidabile mangiatore e bevitore e dava spunto a iperboliche descrizioni e rappresentazioni di scorpacciate e di bisbocce. Caratteristica dei drammi epicarmei era anche la sentenziosità, tanto che furono compilate ben presto raccolte di gnòmai (= sentenze, massime di carattere generale) estrapolate dalle commedie e tramandate separatamente (lo stesso fenomeno si verificherà poi per le commedie di Menandro, anch'esse ricchissime di sentenze). La commedia attica I filologi di età ellenistica (III secolo a.C.) distinsero tre fasi o momenti successivi nella sua evoluzione: la commedia «antica» (greco: archàia), quella «di mezzo» o «mediana» (greco: mese) e la commedia «nuova» (greco: néa), rappresentate ciascuna da decine di autori, la cui imponente produzione è andata quasi completamente perduta. Gli antichi indicarono i massimi rappresentanti dell'archàia e della néa in due triadi di poeti: per la commedia antica Cràtino, Èupoli, Aristófane (attivi ad Atene nella seconda metà del V secolo a. C.), per la commedia nuova Filèmone, Dífiio, Menandro (IV-III secolo a. C.). Gli unici commediografi greci di cui possiamo leggere oggi opere intere sono i due massimi esponenti, rispettivamente, dell'archàia e della nèa: Aristofane e Mlenandro; mentre degli altri si conservano soltanto frammenti, abbastanza numerosi ma per io più di breve o brevissima estensione. Aristofane Di Aristofane (445-385 circa a.C.) ci sono state tramandate undici commedie (Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Lisistrata, Tesmoforiazùse, Rane, Ecclesiazùse, Pluto), i cui argomenti sono strettamente connessi con l'attualità politica ateniese. Al centro degli interessi del poeta e del suo pubblico sono infatti le vicende ed i problemi dell'Atene contemporanea: la guerra del Peloponneso, che contrappose Atene a Sparta per quasi trent'anni (431-402 a. C.: appunto in questo periodo fu rappresentata la maggior parte delle commedie di Aristofane che conserviamo); gli scontri fra il partito della guerra e quello della pace; i mali e i pericoli della demagogia; la corruzione e il malcostume dominanti nella vita politica e giudiziaria; i rischi di degenerazione morale insiti nel nuovo programma educativo proposto dal movimento sofistico (e che il commediografo nelle Nuvole attribuisce a Socrate), ecc. La potente carica fantastica ed espressiva di Aristofane è al servizio del suo impegno civile che si manifesta - secondo i moduli propri del genere comico - nella ridicolizzazione degli avversari (gruppi di potere, correnti d'opinione, singoli individui), attaccati con tutte le armi dell'aggressione comica: la satira pungente, la caricatura grottesca, il sarcasmo feroce, la beffa, l'invettiva, il dileggio e anche l'insulto personale: l'abitudine di attaccare violentemente e direttamente singole persone, chiamandole per nome, era tipica, appunto, della commedia antica; Aristofane segue questo uso, così come ricorre volentieri al turpiloquio, allo scherzo becero, al doppio senso osceno. La commedia nuova: Menandro Diversissima dalla commedia antica, nei temi e nello stile, è la néa che - dopo la parentesi della mése, di cui sappiamo molto poco - tocca il suo culmine con Menandro (342-291 a.C.), quasi un secolo dopo Aristofane. Nacque ad Atene e ad Atene morì ancora giovane nel 291. Amò la sua città che non lasciò neppure quando ricevette da Tolomeo l'invito a recarsi alla corte di Alessandria, il più prestigioso centro culturale del tempo. Ma, forse, non fu solo l'amore per la patria a tenerlo ad Atene; la naturale inclinazione a un'esistenza appartata e molle lo allontanò da tutto ciò che potesse turbare la sua libertà interiore e la dolcezza dei suoi amori con la cortigiana Glicera. Menandro preferì dedicarsi alla poesia e alla meditazione filosofica nello spirito del "vivi stando nascosto" che Epicuro in quegli anni andava proclamando e che sarebbe diventato emblema di un'epoca rivolta al privato e all'interiorità dell'uomo. Di Menandro si conservavano, sino alla fine dell'Ottocento, solo brevi frammenti citati in altri autori antichi e una raccolta di «sentenze». Fortunati ritrovamenti di papiri ci permettono oggi di leggere una commedia intera (Dyskolos: «misantropo») e spezzoni abbastanza ampi di una decina di altre commedie (fra cui ricordiamo L'arbitrato, La donna di Samo, La donna tosata, Lo scudo). La produzione di Menandro rispecchia un contesto storico, politico e culturale profondamente mutato rispetto all'Atene di Aristofane: in seguito al declino delle strutture e della pòlis, dopo la conquista della Grecia da parte di Alessandro Magno, la politica non appassiona più il pubblico ateniese; e il dibattilo intellettuale - di cui la commedia continua a farsi tramite, essendo in Grecia istituzionalmente e tradizionalmente assegnata al teatro la funzione non solo di intrattenere e divertire, ma anche di ammaestrare ed educare il pubblico - si sposta su temi psicologici e morali, sui problemi della vita quotidiana, specialmente per ciò che concerne le relazioni degli individui con l'ambiente famigliare e sociale. Vengono alla ribalta vicende di giovani innamorati ostacolati nei loro amori dalla severità di padri autoritari e avari; tensioni e turbamenti fra giovani coniugi causati dalla gelosia, da incomprensioni o da equivoci; storie complicate di fanciulle «esposte» (cioè abbandonate subito dono la nascita, secondo una pratica frequente nell'antichità) o rapite dai pirati e vendute a lenoni (=mercanti e sfruttatori di prostitute) che, dopo una serie di vicissitudini, ritrovano i genitori e possono sposare i giovani che le amano. Le trame e il messaggio morale Le trame sono molto complicate ma anche molto ripetitive; potremmo definirle romanzesche per gli elementi avventurosi, le peripezie, i colpi di scena, costituiti specialmente dai «riconoscimenti» inaspettati e risolutori (del resto il genere del romanzo è strettamente imparentato con la commedia). Su tutto domina la Fortuna: ad essa si deve, di regola, lo scioglimento felice, immancabile in un genere che ha la funzione di rasserenare il pubblico, trasmettendogli un messaggio ottimistico e consolatorio, facendolo evadere, sia pure solo per breve tempo, in una dimensione nella quale il piacere trionfa sulla realtà. Ma la commedia menandrea convoglia anche un chiaro, pur se spesso implicito, messaggio morale: il lieto fine appare come la meritata ricompensa di comportamenti mirati alla ragionevolezza, al senso della misura, ai buoni sentimenti; al di là dei casi fortuiti, che non dipendono dall'uomo, e nonostante gli inevitabili errori in cui chiunque può incorrere, le difficoltà si superano - dice o suggerisce il commediografo -, i contrasti si appianano e l'armonia famigliare viene ricomposta, se ciascuno è disposto a riconoscere i propri limiti, ad ammettere i propri torti e a dimostrare comprensione e indulgenza verso le debolezze e le colpe altrui: la vita può essere più piacevole e serena grazie alla «filantropia» (=disposizione benevola verso il prossimo), all'amicizia, alla solidarietà e alla tolleranza reciproche. Coerentemente con l'intento moralistico ed edificante, la comicità menandrea è misurata e pacata, non oltrepassa mai i limiti della decenza e del buon gusto. All'aggressività graffiante e corrosiva, alla violenza verbale della commedia antica subentrano un umorismo sorridente e mai volgare, l'arguzia bonaria, l'ironia sottile. I personaggi Per quanto riguarda i personaggi, essi sono il risultato di un processo di tipizzazione iniziato già con l'archaia e che porta al formarsi di caratteri convenzionali, dotati di tratti costanti (che Menandro peraltro interpreta con duttilità e con spiccata tendenza all'approfondimento psicologico): il vecchio padre severo e attaccato al denaro; il giovane perdutamente innamorato e sprovveduto, oppure scapestrato e senza mezzi, e dunque sempre bisognoso dell'aiuto di amici comprensivi e di servi astuti; la cortigiana avida e sfacciata, capace però anche di buoni sentimenti e di generosità; il soldato rozzo, prepotente e spaccone; lo schiavo pigro e pauroso, ma al tempo stesso intelligente e scaltro, che trama ai danni del padrone vecchio per aiutare il padroncino; il lenone empio e crudele; oltre a vere e proprie «macchiette» con funzione esclusivamente comica, come il cuoco spavaldo e gradasso, o il parassita adulatore e ingordo. Differenze rispetto alla commedia antica Rispetto all’archaia, gli intrecci sono costruiti con maggior cura e con maggior preoccupazione per la verosimiglianza. Scompaiono gli elementi fantastici, paradossali, surreali, che abbondavano in Aristofane (dove, per esempio, il coro di alcune commedie è costituito da vespe, uccelli, rane, nuvole). La commedia di Menandro è definita dagli antichi "imitazione perfetta della vita comune". Non è certo una definizione da prendere alla lettera. Anche nella commedia nuova permane una serie di convenzioni tipicamente teatrali, impensabili al di fuori della finzione scenica e dello speciale rapporto che s'instaura fra il palcoscenico e gli spettatori: i monologhi, le battute «a parte» (che un personaggio pronuncia ad alta voce senza essere sentito dagli altri personaggi presenti sulla scena), l'apostrofe rivolta direttamente al pubblico specialmente - ma non soltanto - nei prologhi e negli epiloghi, ecc. Ma è evidente l'aspirazione alla verosimiglianza, oltre che nello stile pianamente colloquiale, anche nella ricerca della naturalezza sul piano della caratterizzazione psicologica, e della coerenza su quello della costruzione e articolazione dell'intreccio. Nella stessa direzione porta la drastica riduzione, fino all'eliminazione quasi totale, dell'elemento lirico-musicale, legato in Aristofane soprattutto alla presenza del coro. Quest'ultimo, nella néa, praticamente scompare; i canti corali - che erano nella commedia antica le parti più impegnate ideologicamente, più esplicitamente e scopertamente politiche - si trasformano in semplici intermezzi (o interludi) fra un atto e l'altro, puri riempitivi senza rapporto con l'azione scenica (tanto che il testo dei canti corali non viene neppure riportato dai papiri che conservano le commedie menandree). Il metro di gran lunga dominante è il trimetro giambico, cioè il verso tipicamente dialogico, proprio delle parti semplicemente recitate, senza accompagnamento musicale. Le opere Il Misantropo Fra le commedie giovanili di Menandro bisogna ricordare il Duscolos, cioè il Misantropo, nella quale troviamo tutti gli aspetti della véa: l'assenza di ogni denuncia politica e sociale e l'attenzione tutta volta a scavare l'intimo e assurdo dramma di un vecchio in disarmonia con gli uomini e con la vita. Il suo carattere è subito delineato nel prologo dal dio Pan: ...un uomo che fa specie a sé, Estraneo e chiuso a quanto al mondo è umano. Selvatico con tutti, odia la folla. La scena si apre con al centro sul fondo un ninfeo; alla sua destra il podere e la casa di Cnemone, alla sinistra la casa di Gorgia. Dall'antro avanza Pan recitando il prologo, che alla maniera euripidea, ci presenta l'antefatto della vicenda. Cnemone vive da tempo solo con la figlia, passando i giorni a dissodare il suo podere che non produce nulla di buono. La moglie, incapace di sopportare la sua selvatichezza, è andata ad abitare insieme a Gorgia, il figlio avuto dal primo marito ormai morto. Durante una battuta di caccia un giovane ricco di città, Sostrato, scorge la figlia di Cnemone in atto di offrire corone alle ninfe e se ne innamora perdutamente. Ne parla all'amico Cherea, in attesa che giunga il servo Pirria inviato presso il vecchio a esplorare il terreno. Cnemone mette n fuga Pirria e giunge sulla scena sbraitando: come ossessionato da un incubo, egli vede fantasmi che penetrano nella sua solitudine, gli danno la caccia, gli parlano; sente che una folla si pigia intorno, lo soffoca; e sogna di essere Perseo per uscirne fuori e insieme prendersi una rivincita. Sostrato non si dà per vinto e cerca l'alleanza di Gorgia, che, dopo i primi sospetti, gli diventa sinceramente amico: per intenerire il terribile vecchio, Gorgia gli consiglia di farsi contadino; e l'aristocratico non esita ad andare a vangare, per amore, sotto gli occhi di Cnemone, nella speranza di stabilire con lui un contatto, di parlargli. Ma la soluzione viene da un caso inaspettato: la serva di Cnemone, per recuperare il suo secchio, ha lasciato cadere la zappa del padrone nel pozzo ed egli, che è corso infuriato sul posto, nel tentativo di estrarla vi cade dentro. Mentre c'è chi gode della disgrazia toccata al vecchio, Gorgia accompagnato da Sostrato, accorre immediatamente, scende nel pozzo e lo porta in salvo. Solo allora, davanti all'aiuto generoso del figliastro da lui bistrattato, Cnemone apre gli occhi e confessa il suo errore: In una cosa mi sono sbagliato, forse, nel credere che al mondo ero l'uomo a cui fosse possibile dire: - basto a me stesso, e mai non verrà il giorno ch'io abbia da chiedere nulla a nessuno. A questo punto Cnemone, rivolgendosi a Gorgia, proclama che l'adotta come figlio, gli cede i suoi beni e, prima di tutto, gli affida la figlia perché le trovi un marito. A questo punto il matrimonio di Sostrato non conosce più ostacoli; anzi, nell'euforia generale, se ne combina all'istante un altro, tra Gorgia e la sorella di Sostrato. Il padre non vorrebbe: non si sente di prendere in casa non uno, ma due poveracci. Sostrato però supera le sue riluttante e i suoi pregiudizi con un nobile discorso sul valore contingente e strumentale della ricchezza: La ricchezza! Parli di questo! E' cosa che non sta ferma. Se sai che resterà con te sempre per tutti i giorni della tua vita, tienila sotto chiave e non dar niente a nessuno. Ma se non ne sei tu il padrone, e quello che tu hai, non lo hai come tuo, ma è della Fortuna, non ne essere avaro, o padre. ... Vale di più, e quanto, un amico che hai davanti agli occhi, che non una ricchezza che rimane nascosta e che tu tieni sotterrata e sepolta. Così in un gran finale, si celebrano le nozze incrociate. Ci sono tutti, anche Cnemone, che dopo l'improvvisa conversione è ritornato misantropo e non vorrebbe prendervi parte, ma viene trascinato a viva forza tra l'ilarità generale. Cnemone è il centro attorno al quale nasce, si sviluppa e trova lo scioglimento la vicenda, ma appare anche l'unica figura indagata nelle profondità dei sui modi istintivi, delle sue reazioni abnormi e allucinate, della sua pervicacia autolesionista. Non è di per sé un avaro, non è neppure condizionato da pregiudizi sociali, è piuttosto un misantropo che si è isolato dal mondo e il mondo a sua volta ha respinto da sé. Il vecchio dal canto suo non fa altro che rimasticare ogni giorno la sua solitudine. Per un nonnulla s'adombra, si infuria, farnetica; vede dovunque fantasmi che gli danno la caccia. Ma Cnemone non è un malvagio; è un infelice, vittima di quello stesso sistema di vita di cui fa l'elogio e che, invece, lo rode internamente, gettandolo, nella più nera solitudine e impotenza. Questo è il significato della commedia: nessuno può vivere dal solo, nessuno può bastare a se stesso. Di fronte ai casi imprevedibili del destino, di fronte al dolore l'unico rimedio è l'apertura confidente con gli altri, è la solidarietà in nome di quella filantropia che è già di per sé liberante. Non è vero che l'uomo nel suo agire sia guidato solamente dall'interesse e dal guadagno; egli sa anche voler bene disinteressatamente, come Gorgia. Ci saranno sempre i ricchi e i poveri. Più importante, sostiene Sostrato, è capire che la ricchezza non è un feticcio, ma un mezzo; chi ce l'ha, deve soccorrere chi si trova nel bisogno; un giorno, con il mutare della fortuna, riavrà ciò che ha dato. Dalla commedia prende forma così, un mondo nuovo, cioè, in cui ci si conosce e ci si ama e in cui, se non è possibile evitare il dolore, è possibile almeno ridere della solitudine e della sofferenza. Il vecchio dopo aver preso coscienza dei suoi errori, non sa uscire dalle sue abitudini e ritorna all'antica misantropia: lo scarto generazionale, sembra riconoscere Menandro, è incolmabile. ma c'è posto per i giovani, come Sostrato e Gorgia, che vi entrano trionfalmente e diventano l'ottimistico simbolo di un avvenire migliore. La donna di Samo Anche La donna di Samo sembra opera del primo Menandro. Protagonista tuttavia non è Criside, la bella etera originaria di Samo, alla quale si rifà il titolo della commedia, ma Demea, l'uomo non più giovane che si è sinceramente innamorato di lei, tanto da portarsela in casa e trattarla come una moglie. Demea ha pure un altro amore, Moschione, il figlio che ha adottato e che ricopre di attenzioni e di tenerezze più che se fosse frutto del suo sangue. È appunto Moschione che recita il prologo: enumera i meriti del padre, ma si cruccia di un proprio errore che teme possa essere interpretato male da lui. Una notte, infatti, partecipando a una festa in casa di un amico del padre, mette incinta la figlia. Moschione, preso da timore e vergogna, non osa rivelare l'accaduto al padre, il quale parte con un amico, anch'egli all'oscuro di tutto per un viaggio. Durante la lunga assenza nasce il bambino e i due giovani, temendo le ire dei padri, decidono, con un intrigo ben congegnato, di farlo passare per il figlio di Demea e Criside. Mentre tutto sembra filare liscio e gli stessi padri, finalmente ritornati, si accordano sul matrimonio dei figli, scoppia improvviso il dramma: Demea racconta come è venuto a conoscenza della probabile paternità del bimbo e del dubbio che lo attraversa. Era capitato per caso nella dispensa a cercare qualcosa. Non lontano riposava il bambino, che, a un certo punto, abbandonato da tutti, si era messo a piangere. La vecchia nutrice di Moschione, avendolo sentito, era corsa giù e, senza sapere che c'era Demea, consolando il bambino aveva detto tra sé: "Sembra ieri quando Moschione era così e io lo vezzeggiavo, e ora gli è nato un bambino". Demea non vuole credere. Il pensiero che il figlio l'abbia tradito con Criside, che le due persone più care abbiano mancato alla sua fiducia, lo tortura e lo sconvolge. Dinanzi ai chiari segni che li accusano, cerca allora di salvare, con ragioni buone solo per un cuore accecato, il figlio e punta invece il dito impietoso contro l'etera. Finalmente il tragico equivoco si scioglie e Demea riacquista la sua pace. Non finiscono però né i contrasti né l'altalena dei sentimenti. Moschione, offeso dagli ingiusti sospetti del padre, gioca a far la vittima e decide di partire come soldato mercenario per terre lontane. Non è un proposito serio, anzi è una finzione; ma Demea è costretto ancora una volta a temere di soffrire, così si scusa con il figlio, ammettendo si avere sbagliato e di aver agito come un pazzo. E Moschione non si fa pregare due volte per ubbidire. Si celebra senza indugio, il matrimonio. La commedia risponde a una sorta di copione, ricorrente in Menandro, imperniato su un equivoco, con i conseguenti drammi intimi e le loro improvvise soluzioni. Qui il dramma è scandito prima di tutto dal rapporto tra padre e figlio e in subordine, da quello tra uomo e donna e passa, quasi per intero, attraverso il cuore di Demea. Lo provano i suoi monologhi: quasi nulla però in essi è gridato ed esasperato; quasi tutto si consuma nell'intimità dell'animo, dove i contrasti si caricano di problematicità. Così la reazione di Demea, quando pensa di essere stato tradito, non appare né violenta né irosa, ma sconsolata, poi dubbiosa e persino incredula, tanto che egli giunge ad imputare a sé la responsabilità delle colpe di cui si siano macchiati Moschione e Criside. Poi, nell'illusione di salvare almeno qualcosa dei suoi affetti, butta a mare la donna amata e s'aggrappa al figlio. Ma anche questo viene fatto con discrezione, preferendo piuttosto soffrire lui che umiliare le persone care. E se la disgrazia non può rimanere interamente sepolta in fondo al proprio cuore, bisogna fare di tutto per non metterla in piazza. Emergono dalla commedia alcuni valori tipici della nuova società "borghese" che si va affermando: il dominio dei sentimenti, il senso della misura, il decoro. Quest'ultimo, che non dovrebbe essere altro che l'espressione dell'equilibrio interiore, diventa spesso semplice attaccamento alle convenzioni sociali o, addirittura, perbenismo ipocrita. Arbitrato Struttura non molto diversa hanno gli Epitrépontes, cioè "coloro che si rivolgono" a un arbitro o più semplicemente l'Arbitrato. Il giovane Carisio durante una festa notturna seduce una ragazza, Panfila, che poco dopo sposa senza riconoscere e senza essere riconosciuto. Mentre Carisio è in viaggio, Panfila dà alla luce il bambino concepito quella notte e, credendolo figlio di uno sconosciuto, lo fa esporre in un bosco con i soliti oggetti di riconoscimento, tra i quali un anello che ha strappato al seduttore. Carisio, di ritorno, apprende la notizia e, irritato, abbandona la moglie andando a vivere con l'etera Abrotono. Intanto il bimbo viene trovato dal pastore Davo, che dopo essersi impossessato dei gioielli, lo affida al carbonaio Sirisco; ma questi, appresa l'esistenza della dote del piccolo, ne rivendica la proprietà e nasce tra i due una lite. Smicrine, che è anche il padre di Panfila, sentite le lagnanze dell'uno e dell'altro, senza incertezze dà ragione al carbonaio. A questo punto la vicenda subisce una svolta. Prima Onesimo, servo di Carisio, e poi Abrotono vengono a conoscenza del ritrovamento del bimbo e intuiscono subito la verità. Allora Abrotono, ricordandosi di essere stata presente alla festa notturna, pensa di spacciarsi per la madre del bambino e di ottenere, così, da Carisio la libertà; quando però scopre che la vera madre è Panfila, prova pietà per questa donna tanto innamorata e vi rinuncia. Smicrine, intanto, venuto a conoscenza del ripudio della figlia, vorrebbe riportarla a casa con sé per salvaguardarne la dote, ma essa oppone un netto rifiuto. Carisio, che ha sentito il dialogo tra padre e figlia, si pente della sua durezza, mentre Abrotono, dal canto suo si presenta a confessare tutto. La vicenda si conclude felicemente con il riconoscimento ufficiale della legittimità del bambino. Con la sua carrellata di personaggi la commedia riesce a darci un quadro della società del tempo visto da diverse angolature. Ecco allora il pastore Davo, egoista e pronto al litigio; il carbonaio Sirisco, moderato ma anche attento curatore dei suoi interessi; il servo Onesimo, archetipo del servus currens di Plauto, importuno eppure a suo modo devoto al padrone; Smicrine, che da buon padre sa quali decisioni deve prendere, nonostante l'ostinata resistenza della figlia. Tutte queste figure non impersonano più le macchiette o i tipi fissi della tradizione comica, ma, pur restando fedeli a certi moduli affermati, assumono anche caratteri propri, personali. Il oro atteggiamento e il loro modo di agire non appaiono stravolti come in Aristofane; ogni figura interpreta un uomo reale, preso dalla vita di tutti i giorni, con le sue gioie e le sue disillusioni. Questo emerge con maggior evidenza nella rappresentazione dei tre protagonisti: Carisio, Panfila e Abrotono. Carisio dapprima appare superficiale e del tutto irretito nei lacci delle convenzioni sociali. Ferito nel suo orgoglio di uomo, reagisce con durezza: abbandona la moglie e va a vivere con Abrotono; spera così di premurarsi contro le chiacchiere della gente e di infliggere un'esemplare lezione alla donna. Ma si rende conto che l'amore è più forte dell'orgoglio ferito, che la colpa della moglie non è diversa dalla sua, che è lui il disgraziato e il crudele che non sa perdonare chi l'ama tanto da non abbandonarlo neppure quando è ripudiata. Carisio così si riscatta e resta agli occhi dello spettatore una figura molto umana. Panfila, dal canto suo, è ben conscia del suo sbaglio, ma intuisce anche che il marito le vuole bene e che la fuga presso l'etera nasconde più il disappunto e il desiderio di rivalsa che la fine di un amore; sfidando, perciò, le consuetudini della "buona società", rifiuta gli inviti del padre che vorrebbe fare di lei nuovamente una donna felicemente sposata con un altro buon partito e rimane fedele. Abrotono, infine, che non ha quasi nulla del tradizionale carattere corrotto e avido dell'etera, è il personaggio più nuovo e commovente. Certo, ella ha dapprima un momento d indecisione. Pensa cioè di approfittare della situazione che e si offre per far divorziare Carisio, sposarselo e diventare libera; ma non riesce ad attuare il suo disegno. Il suo animo si ribella e, davanti a quel bambino, sente rinascere in sé qualcosa di profondamente umano, che ci rivela a sua natura essenzialmente buona e generosa. Mondo "borghese" e limiti del realismo menandreo Nell'Arbitrato come in altre commedie si affaccia sulla scena una folla di personaggi veri, che per un verso esprimono la loro irripetibile fisionomia, per un altro verso si inseriscono perfettamente della società del tempo e ne diventano specchio fedele. Gli stereotipi della commedia di mezzo, figli giovani e impazienti, padri avari e tradizionalisti, mercanti senza scrupoli, servi astuti, mogli un po' trascurate, etere sempre in primo piano, sono non di rado trascurati. Ecco allora che un padre può diventare dolce e generoso, come Demea; un figlio paziente e laborioso, come Sostrato; un'etera delicata e dimentica di sé, come Abrotono. Tutti però fanno parte di un mondo che ha smarrito la dimensione pubblica del vivere e, di conseguenza, ha enfatizzato quella privata. Mentre la politica e le tematiche etico-religiose erano al centro delle tragedie e della commedia antica, qui acquistano una rilevanza insolita le preoccupazioni domestiche, le attività quotidiane, i sentimenti, le passioni, di cui si scandagliano le reazioni più sottili, si colgono i risvolti meno evidenti, le contraddizioni più nascoste. Privilegiata, in questo campo, è la passione amorosa. Non c'è commedia che non sia scandita da una relazione sentimentale più o meno contrastata, destinata a concludersi con il matrimonio e, comunque, con il consolidamento della relazione stessa; e l'adozione di questo schema scaturisce anche dall'osservazione attenta dell'uomo, che di amore vive e nell'amore si realizza proprio come uomo. In un frammento che è giunto fino a noi Menandro afferma che cosa vuol dire per lui "essere uomo": accettare la propria condizione con la coscienza della sua validità, anche nei suoi limiti, perché essa è umana. In questo contesto non è difficile per lo spettatore ateniese identificarsi con i personaggi di Menandro e per i critici definire l'arte del commediografo come imitazione della vita. A una osservazione più attenta, però, il cosiddetto realismo menandreo subisce drastiche riduzioni. La costante del lieto fine, per esempio, rappresenta una concessione al gusto e al sentimento ottimistico del pubblico, che assai raramente ha qualcosa a che vedere con la realtà. Nasce dal desiderio profondo di ciascuno di vedere il cattivo punito e il buono premiato e interpreta uno dei tratti peculiari della società "borghese", che s'appaga di buoni sentimenti e volentieri esorcizza a parole quei comportamenti che segretamente intende perpetuare. La rappresentazione teatrale subisce trasformazioni nella struttura, nei temi, nella composizione del pubblico. L'abolizione del theorikòn (il denaro che Pericle aveva assegnato ai poveri perché potessero pagarsi il teatro) probabilmente allontana dal teatro gli strati più poveri della popolazione. Il venir meno della partecipazione alla vita pubblica tarpa le ali alla satira politica, lasciando ampio spazio ai problemi dell'uomo privato. Equivoci, avventure, crisi sentimentali, riconoscimenti, riappacificazioni sono gli ingredienti che ormai il pubblico cerca e che il commediografo elargisce a piene mani, in tutte le combinazioni e le varianti. L'evento teatrale perde, così la sua originaria funzione paideutica, per acquistarne un'altra puramente spettacolare e ludica: la gratificazione del pubblico è assicurata, ma lo scarto dalla realtà concreta cresce. Nella stessa definizione dei caratteri, accanto a una componente individualizzante, è possibile riconoscerne un'altra che tende alla tipizzazione tradizionale, attiva soprattutto nelle figure minori. Non è difficile cogliere la tendenza a privilegiare i sentimenti migliori, i valori più nobili, i rapporti che non debordano da una certa norma e da un certo decoro. L'amore che riempie di sé tutte le commedie, naturalmente è tratteggiato con una grande varietà di registri; eppure, qualunque siano le sfumature, si presenta sempre come un sentimento naturale e umanissimo. Esso non è più la forza oscura che invade l'uomo con violenza, ma un carattere intimo che si rivela con semplicità, e con semplicità s'insinua nella trama della vita. L'amore di Menandro è l'alleato naturale della gentilezza e della bontà. Una nota di bontà e di umanità il poeta sa scoprirla anche là dove meno la si attenderebbe, negli esseri socialmente inferiori, negli infelici. Per quel che riguarda poi il linguaggio, in Aristofane, il piglio fantastico, l'esplosione pirotecnica delle iperboli e delle metafore, l'insistenza sulla parola corposa e oscena rappresentavano la dimensione naturale del suo stile. Menandro, invece, adegua i sui trimetri giambici al linguaggio del parlato, senza impennate metaforiche o lessicali, cercando di realizzare quelle doti di ordine e di chiarezza che rappresentano i valori cardini della mentalità borghese. Per quel che riguarda lo stile, accanto alla componente mimetica è operante una tendenza alla stilizzazione e alla selezione dei moduli verbali, tale da assicurare al discorso, nel suo insieme, decoro e misura. La comicità ha un carattere tutto suo, non comparabile con l'estroversione e la chiassosità di Aristofane. Essa nasce dai sottili equivoci degli intrighi, dall'analisi interiore dei personaggi, dal distacco ironico che il commediografo assume nei confronti del debordare dei sentimenti. Quello di Menandro, più che un riso fragoroso, è, insieme, sorriso sui bizzarri casi del destino e comprensione del vano agitarsi degli uomini sulla scena della vita. La rappresentazione teatrale dell'età ellenistica cessa di avere una finalità politica, etica, religiosa, per diventare spettacolo e divertimento. Essa, tuttavia, non si risolve in una realtà puramente evasiva; è sempre testimonianza di un'età, reca sempre implicita una visione della vita. I problemi agitati da Menandro si collocano all'interno del sistema socio-politico espresso dalla società borghese e con la stessa concezione del mondo rispondono alla nuova visione individualistica dell'uomo subentrata alla caduta delle poleis. È un mondo chiuso e aristocratico: chiuso perché, conseguiti determinati privilegi, ci si arrocca nella loro difesa, aristocratico perché fondato sui valori di dignità e decoro, anche esteriore, ereditati dall'antica nobiltà. Bisogna tener conto del distacco critico che Menandro assume nei confronti della sua materia. A un primo livello abbiamo l'aspirazione dei diseredati, degli esclusi a far parte di questa condizione eletta, a cui essi sentono di aver diritto, per vivere una esistenza meno penosa; è l'ipotesi di un nuovo modo di vivere e di interpretare il rapporto tra gli uomini, fondandolo soprattutto sulla solidarietà e sulla rinuncia all'egoismo. Ma è anche visto attraverso un riflesso in negativo che si specchia negli atteggiamenti della stessa élite, il senso di una fondamentale insicurezza. La crisi coinvolge tutti i personaggi della commedia menandrea, ma soprattutto i giovani. Il gigantismo dei nuovi sistemi minaccia di soffocare l'individuo, di qui il sentimento di impotenza di chi si confronta con il nuovo corso della storia; e preferisce rinchiudersi nella cura del proprio orticello, piccolo o grande che sia, scegliendo la posizione dello spettatore. Menandro ci dice che l'uomo è "buono", ma è anche vulnerabile, fragile effimero. L'uomo sa governare secondo la propria mente e il proprio carattere; eppure il suo destino, ineluttabile e misterioso, appare in balia della Fortuna. Il significato esistenziale ultimo della commedia di Menandro è che l'individuo, abbandonato dagli dei, vive in un mondo che gli è incomprensibile, per cui deve trovare negli altri e a vicenda offrire loro speranza per resistere alla vita. Ancora una volta, come nell'immancabile lieto fine, fa capolino l'ottimismo menandreo; senonché il suo carattere volontaristico e sentimentale allontana la commedia della realtà, storica o esistenziale che sia, e la situa in gran parte, non diversamente da Aristofane, nell'utopia.