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i ta l ia na
Narratori Giunti
Collana diretta da Benedetta Centovalli
1. Ermanno Rea, La comunista
2. Rosa Matteucci, Le donne perdonano tutto tranne il silenzio
3. Simona Baldelli, Evelina e le fate
4. Marco Archetti, Sette diavoli
5. Valerio Evangelisti, Day Hospital
6. Laura Pariani, Il piatto dell’angelo
7. Flavio Pagano, Perdutamente
8. Massimiliano Governi, Come vivevano i felici
9. Diego Agostini, La fabbrica dei cattivi
10. Marco Magini, Come fossi solo
11. Simona Baldelli, Il tempo bambino
12. Simonetta Agnello Hornby, La mia Londra
13. Walter Fontana, Splendido visto da qui
14. Domitilla Melloni, Forte e sottile è il mio canto. Storia di una
donna obesa
15. Grazia Verasani, Mare d’inverno
16. Simonetta Agnello Hornby, Il pranzo di Mosè
17. Paolo Maurensig, Amori miei e altri animali
18. Clara Sereni, Via Ripetta 155
19. Carmen Pellegrino, Cade la terra
20. Pier Franco Brandimarte, L’Amalassunta
21. Flavio Pagano, Senza paura
22. Paola Capriolo, Mi ricordo
23. Claudio Calzana, Lux
24. Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna
25. Guia Soncini, Qualunque cosa significhi amore
26. Chiara Moscardelli, Quando meno te lo aspetti
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Igiaba Scego
Adua
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Il contesto storico che fa da sfondo alla narrazione è stato ricostruito grazie a fonti
documentarie. Personaggi, vicende e situazioni sono invece frutto della fantasia
dell’autrice.
Adua
di Igiaba Scego
«Italiana» Giunti
© 2015 Igiaba Scego
Pubblicato in accordo con PNLA/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
http://narrativa.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: settembre 2015
Ristampa
Anno
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2019 2018 2017 2016 2015
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A Dorothy Jean Dandridge, Anna May Wong, Nina Mae McKinney,
Hattie McDaniel, Marilyn Monroe e tante altre che hanno tentato di far
cinema nonostante la gabbia che il sistema ha costruito loro addosso.
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She’s living the life just like a movie star.
Santana, Maria Maria
Ah sacré papa.
Dis-moi où es-tu caché?
Ça doit…
Faire au moins mille fois que j’ai
Compté mes doigts.
Où t’es? Papaoutai?
Stromae, Papaoutai
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Adua
Sono Adua, figlia di Zoppe. Oggi ho ritrovato l’atto di proprietà di Laabo dhegah, la nostra casa a Magalo, nella Somalia meridionale. Era nascosto in una vecchia valigia di
peltro che tenevo in magazzino, era in quel posto da secoli
e io non me ne ero mai accorta.
Ora sono in regola. Ora se voglio posso tornare anch’io
in Somalia.
Ho una casa e soprattutto un documento ufficiale dove c’è scritto che è appartenuta a mio padre Mohamed Ali
Zoppe, quindi è mia.
Finalmente potrò sgomberare gli abusivi che l’hanno
occupata in questi tristi anni di guerra.
Laabo dhegah, significa due pietre in italiano. Uno strano
nome per una casa, forse non tanto di buon auspicio. Ma
non me la sentirei di cambiarlo ora. Non avrebbe proprio
senso cambiarlo. Con quel nome è nata e con quel nome è
destinata a esistere.
La leggenda vuole che mio padre, Mohamed Ali Zoppe,
abbia detto: «Queste sono le due pietre, i laabo dhegah, su
cui costruirò il mio avvenire».
Chissà se l’ha detta veramente quella frase. Suona un
po’ biblica.
Sta di fatto che ormai la leggenda si è impiantata nei
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nostri cuori e, anche se a scapito della verità, devo dire che
le siamo affezionati in famiglia ormai.
Ogni notte prima di addormentarmi mi chiedo se potrò
pure io, come mio padre, costruire nella nostra terra il poco
di avvenire che mi è rimasto.
Ho detto a Lul se ci buttava un occhio a Laabo dhegah
visto che sarebbe partita subito da Roma.
Le ho detto: «Ti prego. Conto su di te, abaayo, per conoscere ogni minimo dettaglio della mia casa che fu».
Era una giornata ventosa, i nostri foulard ballavano
sull’architettura di Roma Capitale.
Io l’ho abbracciata e le ho detto: «Non ti scordare di Laabo dhegah, non ti scordare di me, sorella».
Non ha fatto promesse solenni.
Lul è stata la prima delle mie amiche a tornare. Mi ha
chiamato dopo una settimana che stava a Mogadiscio, e mi
ha detto «l’aria odora di cipolla». Non mi ha detto molto
altro. Io le ho fatto domande su domande. Volevo sapere se
era davvero cambiato tanto il nostro paese e se noi che da
più di trent’anni viviamo fuori avremmo potuto legarci di
nuovo alla nuova, nuovissima Somalia della pace.
«Ci crollerà il sogno?» le chiedevo. «Ce la faremo a viverci?» la incalzavo.
Lul però non ha risposto. Al telefono ripeteva «business»,
«money». Continuava a dirmi che il tempo di fare affari era
ora, non domani. Ora il tempo dei denari. Ora il tempo dei
guadagni.
«È la pace, bellezza,» ha sogghignato «se ci tieni alle tue
due pietre, vieni.»
La pace. Prima di agosto credevo che la parola “pace”
fosse una parola bella.
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Nessuno mi aveva detto che “pace” è, di fatto, una parola
ambigua.
Nel 1991 è scoppiata la guerra civile nel mio paese. Nel
2013 sta scoppiando la pace.
Hip hip hurrà!
Business è diventata l’idea fissa di tutti i somali.
Di Lul…
Ma io sono ancora a Roma e da qui mi sembra tutto così
strano. Mi piace Roma d’estate, soprattutto la sua luce di
sera, sul far del tramonto, è calda, e anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli. Sono i padroni
delle piazze, ma qui ci sei tu, elefantino mio, e loro non si
azzardano. Via, state lontano da piazza Santa Maria sopra
Minerva! Mi sento protetta vicino a te. Qui sono a Magalo,
a casa. Anche mio padre aveva le orecchie grandi, ma lui
non mi ha mai saputo ascoltare, né io sono mai riuscita a
parlarci. Con te è diverso. Per questo ringrazio Bernini di
averti creato. Un piccolo elefante di marmo che sostiene
l’obelisco più piccolo del mondo. Uno stuzzicadenti. Non
offenderti se ti dico questo. Lo sai, io ho bisogno di te.
Lul è partita e non so ancora se la ritroverò. Ma tu me la
ricordi. Sai ascoltare. Ho bisogno di essere ascoltata, altrimenti le parole si sciolgono e si perdono.
«Guarda la negra, parla da sola» dicono i passanti e ci
indicano. Ma noi non badiamo a loro. Ci intendiamo a meraviglia io e te, dopotutto veniamo dall’Oceano Indiano. Il
nostro oceano di magia e profumi. Oceano di separazioni
e ricongiungimenti. Sei un errabondo, come me.
Ora è Lul a respirare il tanfo di tonno del nostro oceano.
A bere shai addes. A dare ordini trattando in malo modo
le persone pensando che tutti siano i suoi adon.
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La conosco Lul, è una brava ragazza e proprio per questo
è la più perfida delle streghe.
Lul è in cima ai miei pensieri. Che starà facendo ora la
mia amica in Somalia? In quale business si è ficcata alla fine?
E se la raggiungessi davvero? La valigia è pronta, non
l’ho mai disfatta.
È pronta dal 1976. Dovrei prenderla e poi caricare il mio
stanco corpo su un aereo per Ankara e da lì volare dritta
dritta verso Mogadiscio.
Ma sto sognando a occhi aperti.
Ieri ho incontrato sul tram una ragazza. Era nera, rasata e
con le cosce grosse. Eravamo sul 14, allo svincolo per Porta
Maggiore. Mi fissava fin dalla stazione Termini. Ero infastidita dal suo sguardo puntuto. Avrei voluto voltarmi e dirle
«Basta». Mischiare la lingua madre all’italiano di Dante e
fare una di quelle belle scenate che vivacizzano il viaggiare
sui mezzi pubblici a Roma. Avrei voluto essere volgare e
debordante. Mi andava una bella scenata, così non avrei più
pensato a Lul, a Laabo dhegah, alla strana pace somala. Ma
poi la ragazza è stata furba. Mi si è avvicinata lentamente e
senza quasi preavviso mi ha sparato la sua domanda: «Sei
Adua, vero? L’attrice? Io l’ho visto il tuo film». E poi dopo
una pausa di quelle studiate ha aggiunto: «Lo sai che fai
impressione?».
Ero sgomenta.
Il mio film? C’era davvero qualcuno che si ricordava ancora di quel film?
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Paternale
Stai composta, Adua. Togli quei gomiti dal tavolo. E asciugati quella bocca sudicia. La schiena dritta, per Dio. Perché
te ne stai tutta floscia? Hai le mani zozze, lavatele subito,
se no ti bastono. È questo il modo di guardare tuo padre,
Zoppe, screanzata? Sei come tua madre, Asha la Temeraria,
quella poco di buono. Tua madre, quella troia, che è morta
lasciandomi qui solo con il mio amore. Come si è permessa
di morire? Eh? Come si è permessa? Maledetta femmina! E
tu? Morirai pure tu? Hai gli stessi occhi suoi, non li sopporto! Ma vedi come ti aggiusto io. Con me non si scherza, si
riga dritto, ragazza. Ora la musica è cambiata, non è come
nella boscaglia, dove ti viziavano. E, se non ubbidisci, lo sai
cosa ti succede, sì? Ecco, allora stai dritta con quella schiena
e per carità non piagnucolare. Mi urti i timpani. Zitta. Ecco,
stai zitta!
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Zoppe
Quel giorno di febbraio del ’34, una polvere rosa ricopriva
i palazzi di Roma.
Erano in tre a picchiarlo. Uno lo teneva fermo, gli altri
lo riempivano di botte.
Il più giovane strinse Zoppe con tutta la forza. I picchiatori ridevano di quello zelo a buon mercato. «Bravo, Beppe!
Tienilo, stritolalo per bene questo bastardo di un negro.»
E Beppe ubbidiva.
Zoppe sentiva un fuoco divampare dalla sua pelle. E se
l’era fatta addosso come quando era bambino.
«Wa sku haare» disse biasimando se stesso. «Cagato…
io… perché.»
Le parole gli uscivano fuori con lentezza. Si sentiva umiliato, solo, un frutto avvizzito su una pianta ancora acerba.
«Oh madre mia, quando finirà questo strazio?»
La bocca nel frattempo aveva cominciato a gocciolare
sangue.
«Madre…» invocò.
Hooyooy ma’an…
«Parla da solo questo scemo di un negro.»
Hooyo…
«Camerati, lo scemo continua.»
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Hooyooy ma’an…
«Vuole farci proprio arrabbiare.»
Hooyo…
«Bruciamogli i piedi, ragazzi.»
Hooyooy ma’an…
«Caviamogli gli occhi.»
Hooyo…
«Rompiamogli il naso.»
Il naso no, il suo bel naso no. Con un calcio nel culo
Zoppe si ritrovò disteso sul pavimento.
«Lo sai che fai schifo, negretto?» lo apostrofò Beppe. «E
ora vuoi pure che puliamo la tua merda, eh signorino?»
«Leccala» replicò il compare. «Ripulisci questa merda.»
«Qui la festa è finita per te, pidocchio» aggiunsero i tre
in coro.
Zoppe vide le punte tonde degli stivali sulla sua testa e
chiuse gli occhi.
E si ricordò della bambina bionda e del suo gigantesco
papà.
*
Zoppe era ubriaco di paura. Ma a quella visione fremette
di gioia.
Il gigante e la sua bambina bionda.
Ah, quanto gli mancavano.
Wallahi, gli mancavano da morire.
Vederli in quella strana bruma di sogno fu per lui una
sorpresa inaspettata. Perché erano venuti? Avevano forse
colto il suo grido di aiuto?
«Uauarei, uauarei, uauarei, uauarei» aveva gridato.
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«Aiuto» aveva sussurrato mentre lo torturavano.
Il padre e la sua bambina…
Erano così belli insieme, allegri per le strade di Prati.
Da mesi li vedeva mano nella mano. Abitavano a pochi metri dalla casa dove soggiornava. Era stato inevitabile
guardarsi la prima volta. Lui guardava loro e loro guardavano lui. Senza quella curiosità maligna dei bianchi, quelle
mani fameliche dentro i suoi capelli ricci, quei commenti
velenosi sul colore della sua pelle. Il padre e la bambina lo
guardavano con occhi umani.
Fu così bello ritrovarli in quella nebbia fatta di rugiada.
La visione era piena di interferenze, ma loro due, il padre
e la bambina, si stagliavano nitidi in quel cielo gravido di
incertezze.
Avrebbe voluto dire loro: «Grazie di essere venuti a trovarmi in quest’ora così buia», ma si poteva dire grazie a
una visione? La bocca poi era troppo gonfia di sangue per
poterla usare. Riusciva solo a biascicare bestemmie e preghiere in ordine sparso.
In altre circostanze si sarebbe alzato e li avrebbe abbracciati. Quei due rimanevano sagome, proiezioni, visioni. Non
erano di carne, né tantomeno di ossa. Erano lì in piedi, a
preoccuparsi per lui. In ogni visione, questo glielo aveva insegnato il padre indovino, c’è sempre un fondo di verità, di
carnalità. Il padre e la bambina non erano lì per davvero, ma
forse stavano pensando a lui. Avevano intuito, visto qualcosa
nella foschia del pensiero. Padre e figlia non sapevano che lui
fosse in pericolo, ma le anime sensibili fiutano l’aria come i
facoceri. A loro non sfugge mai nulla, almeno questo sosteneva il suo vecchio. Ah, come sarebbe stato bello abbracciarli
per davvero, stritolarli di affetto, fondersi insieme alle loro
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preoccupazioni così dolci. Ma Zoppe non sapeva abbracciare
le persone. Nel suo villaggio in Somalia gli abbracci erano
per l’intimità di un talamo, per la complicità degli amanti.
Non era cosa da sprecare un abbraccio. Gli abbracci non
erano per gli amici o per chi si conosceva per caso.
Zoppe non sentì più i calci cattivi. Esistevano solo il padre e la bambina, mano nella mano, per le stradine scoscese
del quartiere Prati.
E poi il pensiero corse a sua sorella Ayan…
“Mi manchi…”
“Magalo è così lontana, sorellina mia. Magalo è così
distante da questa Roma dove sono finito. Sarai cresciuta
adesso, sarai una donna. Dimmi, Ayan, che stai facendo?
Ora, adesso, che stai facendo?”
Zoppe la cercava, ma lei non c’era. “Chissà se nostro padre ti ha insegnato a leggere gli astri.”
Aveva sete.
Tanta, tanta sete.
*
«Smettiamo, eh?» disse a un certo punto Beppe.
«Sì, se no così lo uccidiamo. Ci hanno detto di divertirci
un po’. Mica di ucciderlo. Dopotutto è uno che lavora per
noi, e di questi interpreti mica ce ne abbiamo a mucchi, il
mio superiore dice sempre che questi qui sono da trattare
con i guanti, la guerra contro il lurido abissino è vicina, ci
serviranno…»
«Ma se è un negro, a chi può servire un negro? Dai, su,
siamo seri.»
Zoppe quasi non ascoltava le parole. Potevano fare di lui
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quello che volevano. Ormai il suo destino era già scritto.
Era tutto maktub.
Si ricordò di quando il padre gli diceva: «Guarda le stelle e
poi guarda il loro riflesso nel catino. In quella luce ti troverai».
Da quanto non compiva i riti? Roma lo aveva così impigrito. Si
scordava di fare le cinque preghiere verso la Mecca, si scordava
di benedire gli antenati, si scordava delle du’a più elementari.
Suo padre lo avrebbe rimproverato e anche sua sorella
Ayan lo avrebbe guardato storto. Non lo avrebbero ascoltato
e forse non avrebbero creduto alle sue lamentele. «Non ci
sono stelle qui a Roma, non si vedono, si confondono.»
«Gli astri,» avrebbe detto suo padre «non stanno in cielo.
Non hai provato nemmeno a cercarli.»
Era vero. C’era tutto quel lavoro che lo assorbiva. Ogni
giorno doveva tradurre, tradurre, tradurre e tradurre. Parole
da decifrare ogni minuto, sospiri da segnalare ogni secondo,
e poi tutte quelle maledette virgole da analizzare. Era un interprete, un mago quasi. Un lavoro serio il suo, mica come
quegli ascari costretti a suonare la tromba e a rantolare nella
sabbia, carne da macello per il campo di battaglia. Lui era
sempre elegante nella sua divisa color cachi. Mai una piega
molesta a incasinargli la simmetria. Era uno dei migliori sulla
piazza. Era, a detta di tutti, il migliore. Unico nel suo genere.
Persino qualche gerarca si era accorto di lui. Parlava l’arabo,
il somalo, il kiswahili, l’amarico, il tigrino e una montagna di
lingue piccole utili per la futura guerra. Questo dono lo aveva
preso da suo padre indovino. L’italiano, invece, gliel’avevano
insegnato i gesuiti. Era stato un attimo per Zoppe saltare in
groppa a quella lingua e farla sua. Gli era venuto in mente che
lavorare per i nuovi padroni del paese gli avrebbe fruttato un
po’ di quattrini. «Io non lo farei, ragazzo mio,» aveva detto
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il padre appena venuto a conoscenza delle sue intenzioni «le
stelle dicono…» Ma Zoppe l’aveva interrotto subito: «Basta
con queste stelle, la vita vera, padre, è fatta di quattrini, io
ne voglio abbastanza per vivere felice ed essere invidiato dal
mondo. Voglio che tutti si inginocchino ai miei piedi». Il padre l’aveva guardato come si guardano gli escrementi. Ma non
aveva detto nulla. Ognuno ha il suo cammino da seguire, i
baratri dove precipitare. Si era ammutolito e aveva smesso
di consigliare quello sgangherato figlio che gli era toccato in
destino. Zoppe fu contento di quel silenzio. Suo padre e tutta
la sua saggezza gli davano ai nervi. Era sempre troppo giusto,
troppo perfetto. «E fammi sbagliare in pace» urlava Zoppe
nei momenti in cui se ne stava solo.
«Sarai mica morto, negretto?» disse Beppe, strattonandolo.
Prima di quei pugni e di quegli insulti si era sentito per
un attimo appagato da tutto quel mondo variegato che lo lodava, da quella gente che lo lusingava. E poi c’era stata Roma
a soggiogarlo. Quando gli avevano comunicato che avrebbe passato qualche mese in Italia, nella città eterna, Zoppe
pensò a un miracolo. Un negro a Roma? Proprio lui? Roma
era il suo sogno, la conosceva ancor prima di conoscerla.
«Ti daremo da lavorare. Documenti da tradurre per lo più.»
Aveva preso quel trasferimento come un premio, un riconoscimento alla sua abnegazione, alla sua fedeltà. Il lavoro era
molto, ma soprattutto doloroso. Perché in quelle carte c’era
odore di tradimento. La guerra era vicina e qualcuno già si
affrettava a mettersi nelle accoglienti braccia dei vincitori.
Qualcuno avrebbe potuto dire la stessa cosa di lui, chiamarlo
persino collaborazionista. Ma lui non stava tradendo nessuno. Non avrebbe levato mai un’arma contro un suo vicino,
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un uomo con lo stesso suo colore di pelle. Lui traduceva e
basta. Era un ambasciatore della lingua, un mediatore, non
portava pena. Lui lavorava sul presente, sull’attimo che passa.
Magari ci poteva scappare una bella ricompensa. Un giorno
sarebbe tornato nella sua terra e avrebbe costruito una casa
grandissima. Lì avrebbe portato Asha, la figlia del vecchio
Said l’orbo, lì l’avrebbe posseduta, lì lei sarebbe diventata sua
moglie, lì lei avrebbe cresciuto la loro prole.
*
La visione era ancora lì a confortarlo.
Il padre e sua figlia…
Il quartiere…
Gli alberi…
La cupola di San Pietro…
Poi il glicine in fiore…
L’odore delle donne…
I sorbetti da passeggio…
Il passo marziale dei soldati…
Il fruscio delle gonne arcobaleno…
Le urla dei neonati in fasce…
Gli scarponi sui sampietrini sconnessi…
E di nuovo un padre…
E di nuovo una figlia…
Il contatto delle loro mani…
Il loro sorriso…
Le loro speranze dipinte di blu…
Zoppe fu confortato da quelle immagini opache e zigzaganti.
Da quelle visioni più soffici del vento.
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Si sorprese della sua memoria fotografica.
Aveva conservato ogni dettaglio, ogni piccola sfumatura
di quel suo passato così recente.
Ricordava soprattutto la bambina.
Il suo vestitino a fiori, il cappottino beige, i guanti rossi
e quel cappellino di feltro a forma di campana.
Che bella testolina aveva. Una testolina ovale che affondava tutta quanta in quel minuscolo cappellino antico.
Come gli ricordava sua sorella Ayan.
Anche Ayan aveva una bella testolina. Ma Ayan non aveva quel cappellino così carino.
«Se esco vivo da qui,» balbettò «gliene comprerò uno
uguale.»
I calci avevano sostituito i pugni. Colpivano forte, colpivano duro. Zoppe si strinse alla visione per non cedere
alla morte.
Aveva ombre davanti a sé, ma era a loro che affidava la
sua anima.
La bambina sorrise. Zoppe notò con tenerezza che stava
perdendo i denti da latte.
“Se questi energumeni mi spaccano, il naso la bambina
non mi riconoscerà” il pensiero di cambiare faccia terrorizzava Zoppe.
“Spero che il papà la porti lontano. Il più lontano possibile.”
“Sì… il più lontano possibile da qui.”
*
Zoppe si ricordava ancora di quando era andato a pranzo a
casa dell’uomo e della sua bambina tre mesi prima.
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Era mercoledì e il quartiere viveva una strana atmosfera
di attesa.
Nell’aria profumi di campagna si fondevano in un’intensa melodia alle fragranze acri della città. Ed è così che il
pelo del cavallo, la rosa selvatica, il fieno lavorato si amalgamavano complici con i motori a scoppio delle automobili
e i gas di scarico delle motorette.
«Perché non vieni a pranzare a casa nostra?» gli chiese
la bambina.
Zoppe, che era vestito con la sua solita divisa color cachi,
fu colto alla sprovvista da quella richiesta bizzarra.
Era fermo sul ciglio della strada, pronto ad attraversare
e spiccare il volo verso la sua vita di quel giorno, verso altre
parole da tradurre. Era ferma pure la bambina sullo stesso
marciapiede. E il padre gigantesco a pochi metri a proteggerla dal vento e dalla disperazione.
«Comunque io mi chiamo Emanuela con la E, mi raccomando. Non mi piace quando mi chiamano Manuela con
la M,» e poi riprendendo fiato aggiunse «e questo è il mio
papà. Si chiama Davide. Stringetevi la mano adesso. Bene
così, da amici.»
E si strinsero le mani. Tutti e tre.
La bambina aveva un tono saputello. Quasi fastidioso.
Le piaceva dare ordini.
Si vedeva che era molto viziata dai genitori, l’unica cocca
della casa.
Le mancava disciplina.
Ma c’era lo stesso qualcosa che a Zoppe piaceva da
matti.
Il somalo allungò il suo braccio destro e allargò la palma
della mano per accogliere Davide.
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Zoppe notò che aveva una stretta forte e poderosa. Una
stretta che ti metteva a tuo agio e ti dava fiducia.
«Allora vieni da noi?» lo incalzò la bambina con quel
suo tono martellante.
Li aveva osservati a lungo da lontano. Il padre e la sua
bambina. La bambina e suo padre.
Stesso sguardo attento. Stessa fronte corrugata.
A occhio la bambina aveva otto, forse nove anni.
La stessa età di Ayan.
E anche lei aveva due occhi che brillavano al sole come
smeraldi.
«Allora vieni?» chiese la bambina.
Cosa rispondere?
Lui era in quella terra straniera ormai da mesi e la bambina con il suo grosso padre erano gli unici che accennassero
con il capo un segno di saluto. Solo loro in quei luridi e
lunghissimi mesi. In questo Roma era stata avara con lui.
E pensare che aveva immaginato belle donne bionde a sua
disposizione e tanti amici con cui giocare a biliardo. Ma
aveva presto scoperto che un negro a Roma doveva far bene attenzione. «Se possibile,» gli aveva detto uno dei capi
«dovresti far di tutto per sparire.»
Lui Roma se l’era immaginata una reggia a cielo aperto, invece ci pisciavano cani e umani. E a volte il puzzo di
latrina gli faceva venire il voltastomaco. Ma mai quanto la
tristezza di vedere quanto poco era amato dalla popolazione. A volte il disgusto nei suoi confronti si palesava in sputi
improvvisi che lui schivava con gran maestria.
Ecco perché doveva sparire, rendersi invisibile.
Per strada correva sempre. Voleva essere scambiato per
un’illusione ottica, non per un negro.
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Era diventato una saetta ad attraversare Roma.
Nessuno ormai lo notava più. Era troppo veloce da acchiappare.
Gli mancava Magalo e la lentezza bovina di quella città
oceanica. Lì era importante, a tutte le ore del giorno e della
notte. Nessuna donna lo schifava o lo scansava. E poi di
donne quante ne voleva.
«Se io mi chiamo Emanuela, tu come ti chiami, signore?»
chiese la bambina.
«Io mi chiamo Mohamed Ali, ma la gente mi chiama
Zoppe.»
«Perché zoppichi?» chiese la bambina.
«Sì, perché zoppico. Da piccolo ho avuto una brutta malattia, ma poi mi sono salvato.»
«È stato fortunato» intervenne Davide.
«Fortunato… be’ sì» replicò Zoppe.
«È da un po’ che ti vediamo io e papà, sai?» disse la bambina.
“Dopotutto anch’io vi guardo” avrebbe voluto rispondere
Zoppe, ma non disse nulla. Aspettò che quella strana coppia
a passeggio aggiungesse altri dettagli.
«Allora ci vieni da noi? Eh? Ci vieni?»
«Non so. Non ero preparato ad andare a pranzo fuori»
rispose Zoppe pieno di vergogna.
«Mica devi prepararti, signore.»
«Non essere scortese, Emanuela» la ammonì il padre.
«Non si preoccupi,» intervenne Zoppe «è una bambina.
Anch’io da piccolo parlavo così. È il bello di quest’età, non
le pare?»
«E da bambino eri così tanto marrone come sei adesso?»
chiese lei.
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Il padre divenne livido e rosso.
«Emanuela, non mettere in imbarazzo il signore.»
«Nessun imbarazzo, davvero,» replicò Zoppe divertito
«e risponderò a sua figlia. Sì, marrone anche da ragazzino.
Come tu sei rosa io ero marroncino e lo sono ancora, come
vedi.»
«Nella tua città ci sono i feroci leoni? Li ho visti sul libro
di scuola.»
«Sì, e anche le zebre» rispose Zoppe.
«E i rinoceronti? Li hai visti i rinoceronti?»
«Ti dirò di più. Ci sono le antilopi, le iene, le giraffe e
un giorno ho visto una mandria di gnu pronti a inseguire
un sogno.»
«Cosa sono gli gnu? Non ci sono nel mio libro. Com’è
fatto uno gnu?»
«È una vacca, un po’ grossa, gobbosa e decisamente pelosa.»
«E si mangia?»
«Non l’ho mai assaggiata.»
La bambina lo guardava con meraviglia. E anche Davide,
suo padre, aveva gli occhi pieni di curiosità.
«È la prima volta che viene a pranzo da noi un uomo
marrone. E poi sei fortunato, oggi mamma ha fatto i carciofi
nella pentola grande e la crostata con le visciole.»
«Sembra buono. Ma ecco, io non ho niente da portarvi.
Fatemi comprare le pastarelle, almeno.»
«Sei nostro ospite oggi,» disse Davide «per noi oggi sei
sacro. Domani se vuoi compra pure le pastarelle.»
Zoppe sorrise, non era più abituato al calore.
«E poi anch’io sono curioso» aggiunse. «Io non sono mai
stato in una casa cattolica. Avete il crocefisso?»
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La bambina guardò il padre.
Zoppe sentì che qualcosa si era rotto nell’atmosfera gaia
di un minuto prima.
«Noi siamo diversi» sussurrò il padre.
«A scuola i compagni mi chiamano “assassina”. Dicono
che ho ammazzato Dio e che la mia famiglia va in giro a
rubare i bambini. Ieri Graziella, quella grassa che non sa
ancora l’alfabeto, mi ha tirato i capelli e mi ha chiamata
“mangiaoche”. Mi sono messa a piangere, perché ha tirato
molto forte.»
Zoppe non capiva, confuso da parole troppo veloci.
«Emanuela,» intervenne il padre «sta tentando di dirle
che noi siamo ebrei. Per lei è un problema questo?»
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