di terrore - LuBannaiuolu
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OUTLET Abbigliamento GRANDI FIRME SCONTI FINO AL 60% SOLOFRA (Av) info: 0825.532373 Ottpagine o 0,50 QUOTIDIANO DELL’IRPINIA A DIFFUSIONE REGIONALE ANNO XVI NUMERO 323 MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 Spedizione in abbonamento postale art. 2 c. 2O/B, legge 662/96. Filiale PP. TT. Avellino 23 NOVEMBRE 1980 - 23 NOVEMBRE 2010 di BRUNO GUERRIERO Quel senso di provvisorietà idea è nata quasi per caso, scrutando nei nostri archivi personali, riguardando le foto un po' ingiallite del terremoto, ripercorrendo mentalmente quelle dolorose immagini. Ad ogni scadenza naturale del sisma del 23 novembre dell'ottanta riaffiorano ricordi, storie e le sciagure della nostra terra. Anche polemiche e veleni. Ma è un'impresa complessa, dopo tanti anni, rivivere quelle paure e quelle emozioni delle notti trascorse nelle macchine o in ripari di fortuna per i continui tremori della terra o scavando tra le macerie alla ricerca dei sopravvissuti. E' un'impresa, ripercorrere tutta la storia, per ritrovarsi un attimo prima del 23 novembre dell'ottanta, per ricordare l'Irpinia intatta, prima dei lutti. Una sorta di salto indietro nel tempo, per inquadrare al meglio tutti gli effetti devastanti del sisma sulla nostra terra e sulla comunità irpina. Rileggendo e sfogliando i giornali dell'epoca ci siamo resi conto del tempo trascorso. Trent'anni. Quasi una vita. Così, abbiamo deciso di realizzare un inserto speciale sul terremoto (lo troverete all'interno), per il trentennale, con la stessa grafica, con la stessa impaginazione dei quotidiani dell'Ottanta. Quasi un fermo immagine che rende ancora più evidente il tempo trascorso. Trent'anni. Tanti, ma non sufficienti per chiudere quella triste pagina. Ancora oggi provoca divisioni la proposta lanciata proprio sul nostro giornale di immaginare un disegno legge per scrivere la parola fine sul terremoto. Per chiudere la pratica ricostruzione. Non come immaginano i leghisti, arroganti e pretestuosi, frenando gli investimenti, bloccando i fondi e lo sviluppo in una parte d'Italia. Chiudere il capitolo terremoto in Irpinia perchè è giusto in un paese “civile”, moderno, avanzato, offrire certezze, costruire dei percorsi e renderli transitabili nei tempi prestabiliti. Trent'anni dovevano essere più che sufficienti per archiviare la ricostruzione e garantire quel piano di sviluppo immaginato in aree più o meno depresse. Così non è stato. Si doveva ricostruire fisicamente il territorio, ma si doveva ricostruire anche un tessuto sociale. All’epoca i politici hanno perso una occasione storica per un reale sviluppo della provincia e delle aree colpite dal sisma, ed oggi la politica non sembra all'altezza delle nuove sfide. Delle nuove crisi. Purtroppo, dei nuovi terremoti che vive proprio la nostra regione. A partire dall'emergenza rifiuti, dalla difesa dell'ambiente. Incapaci di programmare ed anche di garantire almeno la gestione ordinaria, riparandosi in continue, infinite, gestioni straordinarie. Storie senza fine. Proprio come il terremoto dell’80. Aumentando la sfiducia nei cittadini e, naturalmente, quel senso di provvisorietà che opprime l'Irpinia, Napoli, e, quindi, tutto il meridione. ’ L Foto Amato De Napoli LE MANIFESTAZIONI IN TUTTA L’IRPINIA PER IL TRENTENNALE Terremoto, il giorno del ricordo Napolitano: la memoria per evitare altre tragedie S.Angelo dei Lombardi, tavole rotonde e cerimonie La giornata a Lioni, Conza, Teora, Calitri e Avellino Il sindaco Galasso: «Ora guardiamo al futuro» GROTTAMINARDA Omicidio Pascucci, condannati i killer Dura condanna per Giuseppe Di Vito, 18 anni, e Giuseppe Cilieggio, 16 anni, accusati di aver ucciso la 38enne. Il Pm aveva chiesto pene minori red. cronaca a pagina 29 ALL’INTERNO L’INSERTO SPECIALE 2 PRIMO PIANO MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 QUEI 90diSECONDI terrore Ottopagine Tanti eventi. Ieri, oggi e nei giorni scorsi una miriade di incontri sul sisma che 30 anni fa ha sconvolto la nostra provincia Occasione sprecata. Non c’è ancora un percorso unitario che vede politici e amministratori irpini tesi verso un unico obiettivo Trentennale a tappe forzate E il futuro resta un miraggio Tanti appuntamenti per ricordare, nessun momento di sintesi ALESSANDRO CALABRESE ma non deve essere uno sforzo mnemonico fine a se stesso. Ricordare serve a non fare più gli errori del passato, migliorare e migliorarsi, reagire in maniera corretta alle situazioni, alle sfide, alle avversità facendo tesoro dell'esperienza vissuta. Ma, soprattutto, ricordare significa superare Avellino «Il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi». Si chiudeva così l'appello lanciato trenta anni fa dal presidente della Repubblica Sandro Pertini. Era il 26 novembre del 1980. A tre giorni dal terremoto che aveva devastato una fetta importante d'Irpinia, i soccorsi tardavano ancora a raggiungere i luoghi disastrati. E proprio il capo dello Stato, che nell'area del cratere giunse più volte, fu il primo a denunciare quello "scandalo". Lo fece a reti unificate nel corso di un messaggio rivolto a tutti gli italiani. Forse fu quella la molla che fece scattare una fitta rete di solidarietà, chi può dirlo... fatto sta che da quel giorno le cose cambiarono. Iniziò una fase diversa. Da quella dell'abbandono e dell'indifferenza, si passò al momento dell'azione. L'emergenza fu affrontata in maniera complessiva. Tutti uniti: forze dell'ordine, vigili del fuoco, esercito, croce rossa e il corpo di quella che poi sarebbe diventata la protezione civile lavorarono all'unisono, fianco a fianco, insieme ai tantissimi volontari, civili, accorsi da ogni parte d'Italia per dare una mano. La macchina degli aiuti, insomma, dopo un po' di rodaggio, si mosse coesa, compatta. Certo non senza commettere errori materiali o di valutazione... Ma, comunque, come una squadra che aveva lo stesso obiettivo. Da allora, appunto, sono passati 30 anni ma sia le parole di Pertini, sia lo spirito che animò gli uomini e le donne che tanto fecero per i sopravvissuti di quella catastrofe, evidentemente, si sono persi nel nulla. Non ce n'è traccia in quella miriade di eventi organizzati in tutta la provincia. Tanti appuntamenti, di sicuro ognuno con un suo significato preciso ed un suo scopo definito, ma senza alcun legame l'uno con l'altro. Non ce n'è traccia nei luoghi simbolo di quella tragedia, dove amministratori vecchi e nuovi hanno fatto a gara a chi avesse l'ospite d'onore più importante, contendendosi ministri e parlamentari ma, soprattutto, il supercommissario che coordinò i soccorsi, l'onorevole Giuseppe Zamberletti. Come pure non ce n'è traccia nei discorsi dei nostri politici che, ancora oggi, parlano di uno sviluppo astratto e di posti di lavoro fantasma, senza rendersi conto, probabilmente, che ormai una preoccupante percentuale di giovani ha deciso di emigrare e l'Irpinia diventa, anagraficamente, sempre più vecchia. Una terra che non ha avuto risposte e che, quindi, non può assicurare un futuro ai suoi abitanti. Una terra che proprio i fondi e le leggi post terremoto, paradossalmente, avrebbero dovuto elevare, inserendola in un sistema economico moderno. Anche questo, però, non è accaduto e il binomio finan- SVILUPPO NEGATO Una terra che non ha avuto risposte non è in grado di dare un futuro ai suoi giovani ziamenti-normative è andato solo a vantaggio di pochi "eletti". Ecco, dunque, la cornice di un trentennale che si presenta quan- to mai avulso dalla realtà, dal contesto sociale in cui viviamo e dalle possibili prospettive per le giovani generazioni. Ricordare va bene quanto è successo e guardare avanti, oltre. Se il trentennale del terremoto non diventa forum, cantiere di idee, proposte, condivisione, confronto tra gli attori della nostra provincia, laboratorio di iniziative a carattere socio-culturale ed economico, tavolo di concertazione per uno sviluppo concreto che non sia uno slogan abusato o un titolo su un comunicato stampa... Beh, se non diventa tutto questo, se non riesce ad avere un momento di sintesi e resta la solita passerella, sarà solo una ricorrenza per onorare le vittime e raccontare i fatti di quei giorni terribili. E così 30 anni saranno passati invano... Su History channel il documentario “terremoto dell’Irpinia” Questa sera il servizio in onda su Sky Dati, testimonianze e cifre sulla tragedia ALLE 22 SUL CANALE 407 ALCA Avellino Un report su ciò che accadde in quel minuto e mezzo di terrore e su quanto è stato fatto dopo Ventitrè novembre 1980. Una scossa tellurica del nono grado della scala Mercalli colpisce un’area di circa 17mila chilometri quadrati nell’Appennino meridionale. A cavallo tra la Campania, la Basilicata e la Puglia. Interi paesi crollano su se stessi, lasciando alle loro spalle una scia di morte. L’epicentro in Alta Irpinia, tra i comuni di Sant’Angelo dei Lombardi, Conza, Teora, Calitri e Lioni. Una vasta zona destinata a diventare tristemente famosa come area del cratere. A 30 anni da uno degli eventi che ha sconvolto il paese, segnandone la storia, il canale 407 di Sky, History channel, ricorda il terremoto. Il documentario “Terremoto dell’Irpinia” andrà in onda questa sera alle 22.00. Tra gli intervistati Paolo Cirino Pomicino, all’epoca esponente di punta della Dc a Napoli, Oscar Luigi Scalfaro, presi- UNA FERITA APERTA La ricostruzione rappresenta un capitolo ancora da chiudere: necessari 5 miliardi di euro dente commissione parlamentare d’inchiesta sulla ricostruzione dell’Irpinia, Giulio Di Donato, consigliere, assessore e vicesindaco del Comune di Napoli dal 1975 al 1983, e Giuseppe Zamberletti, commissario governativo incaricato del coordinamento dei soccorsi. Nel corso del cortometraggio saranno ribaditi i numeri impietosi della catastrofe: 2.914 morti; 10mila feriti; 460.878 sentatetto; 37 comuni disastrati, 314 gravemente danneggiati e 336 danneggiati (in Irpinia disastrati 18 comuni e 99 gravemente danneggiati); 77.272 abitazioni distrutte, 275.263 quelle gravemente danneggiate e 479.973 quelle lievemente danneggiate; 6.082.874 abitanti coinvolti. Per la ricostruzione abitativa, le infrastrutture e altri interventi sono stati stanziati quasi 58mila miliardi di lire, pari a circa 30 miliardi di euro. Ma, secondo le stime effettuate, per definire la realizzazione delle opere programmate mancherebbero ancora oltre 5 miliardi di euro. Insomma a trent’anni dal sisma, sulla ricostruzione, a causa della scarsa oculatezza di chi ha gestito questi fondi e dei tagli effettuati dal Cipe, non si può ancora scrivere la parola fine, chiudendo un capitolo doloroso COMMISSIONE D’INCHIESTA L’organismo parlamentare ha evidenziato come tanti finanziamenti sono stati dilapidati che, quindi, per qualcuno resta una ferita aperta. A questo proposito attentissima, tra il 1989 e il 1992, era stata l’attività di monitoraggio della commissione parlamentare d’inchiesta. Organismo che aveva sottolineato come la dilapidazione dei finanziamenti, con il coinvolgimento di centri per nulla danneggiati, aveva rallentato il processo di ripristino di tanti paesi realmente disastrati che si erano visti privare di risorse a loro spettanti, a vantaggio di altri comuni spesso neanche sfiorati dal sisma. 4 PRIMO PIANO MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 QUEI 90diSECONDI terrore Ottopagine Sant’Angelo. Nel pomeriggio prevista la manifestazione all’istituto comprensivo Criscuoli e al centro sismologico Cima Conza. In mattinata spettacolo del Teatro dell’Osso, nel pomeriggio la consegna delle medaglie ai volontari Il messaggio di speranza del vescovo Alfano Trasmette un video messaggio S. E. Monsignor Francesco Alfano, in occasione del trentennale del sisma del 1980, in cui invita a commemorare attraverso “la condivisione del silenzio”. Il silenzio protagonista dei mille volti di chi nel corso di quella tragica sera ha perso i propri cari, “ma anche di chi ascolta, e per alleviare il dolore. Il silenzio per cercare un sentimento profondo come l’amicizia, e nel silenzio l’uomo può costruire un futuro migliore”. Accenna anche alla ricostruzione, “avvenuta fra luci e ombre, ma senza perdere la tenacia per continuare il cammino. Nel silenzio può rinascere la speranza”. Così moriva una comunità Si attende ancora la rinascita Sant’Angelo dei Lombardi. Una giornata di riflessione e commemorazione MADDALENA VERDEROSA Sant’Angelo dei Lombardi Rimase in piedi una sola casa. Bastarono 90 secondi per radere al suolo un paese, non sono bastati trent'anni per ricostruirlo. Sant'Angelo dei Lombardi: da faro dell'Alta Irpinia a "capitale del terremoto" (come riporta l'articolo de La Repubblica del 17 novembre 2010, ndr). Dei 2914 morti, 480 soltanto a Sant'Angelo, 8850 i feriti e 280mila gli sfollati. Così è morta l’Irpinia. Per tre decenni abbiamo tutti sperato che per i sopravvissuti si trattasse soltanto di un letargo. Di un sonno voluto per provare a dimenticare, per tentare di ricominciare con la rassegnazione nel cuore ma con occhi nuovi. Un sonno che, anno dopo anno, speravamo potesse far filtrare dalle macerie un fascio di luce... principio di un futuro da ricostruire non soltanto riesumazione di quella vita fatta di passeggiate in piazza, circoli invasi da giovani che si avvicinavano alla politica, di impegno sociale e culturale. Di quella vitalità stroncata, rubata, non rimane che un ricordo. Accenni di rinascita di fronte a nuovi scippi, ad altre usurpazioni si vivono nella battaglia intrapresa contro i tagli alla sanità che hanno toccato anche l’ospedale Criscuoli. Cortei di giovani a cui si sono aggiunti anche gruppi di adulti, i ragazzi di trent’anni fa, hanno sfilato, protestato, urlato contro quella manovra vissuta come una profonda ingiustizia, a danno di un territorio che anni prima aveva, invece, rappresentato il luogo ideale ad ospitare una nuova ed attrezzata struttura sanitaria prima, ed un centro di riabilitazione poi. Un accenno di vitalità all’interno del quale, nonostante tutto, sono nati sottogruppi e dissapori. A dimostrazione del fatto che il tessuto sociale si è sgretolato come i muri delle case. Oggi, come allora, come quella prima sera sotto un cielo rosso, guardandoci intorno restano i sogni infranti. E le commemorazioni sparpagliate come tanti piccoli, inutili focolai di paglia. Senza cadere nella retorica spicciola, non li dimentica nessuno i ritardi dei soccorsi, i finanziamenti gonfiati che hanno fatto del sisma del 1980 la calamità più costosa d’Italia. Quella che si cita, dopo la tragedia dell’Aquila, come il peggiore esempio di ricostruzione postsisma e di gestione o “mala-gestione” dei fondi. Un’Irpinia infranta, circondata da colonne anemiche che in trent’anni hanno continuato a derubarla. Un’Irpinia nella quale, probabilmente, si è vista la più alta concentrazione di potere politico che, dopo trent’anni non è riuscito a presentare all’altare delle vittime che oggi saranno ricordate, una terra unita. Cosa resta, oltre l’Irpinia-gate, il business del terremoto, oltre la speculazione edilizia? Uno scandalo senza colpevoli? Di certo, restano le vittime sepolte, e quelle sopravvissute che possono ancora colmare la voragine culturale e sociale che si è aperta trent’anni fa. Perché a se stessi, almeno, lo si deve: il tentativo di non morire di solitudine. Nelle foto, immagini di repertorio che ritraggono Sant’Angelo dei Lombardi prima e dopo il terremoto del 23 novembre 1980 L’APPUNTAMENTO ALL’ISTITUTO COMPRENSIVO “CRISCUOLI” Questo pomeriggio, a partire dalle 15, presso l’Istituto Criscuoli, si terrà il convegno dal titolo “Dai lutti alle macerie, ad una moderna cultura della Protezione civile”. Modera il giornalista Franco Genzale. Partecipano il ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi, l’ambasciatore Usa Charles Gargano, l’ex Ministro Giuseppe Zamberletti e il nuovo capo della Protezione Civile, Franco Gabrielli. L’evento è stato promosso dal Comune di Sant’Angelo, dall’istituto comprensivo Criscuoli e dalla Pro loco Conza della Campania. Questa mattina il Teatro dell’Osso con “Il fulmine nella terra” Nel pomeriggio consegna delle medaglie ai volontari, presente il sindaco di Bari I NUMERI In Irpinia ci furono 2914 morti, soltanto a Sant’Angelo le vittime furono 480 I DANNI Un paese raso quasi completamente al suolo. Tessuto sociale ancora disgregato con il cemento. Ma niente è stato più come prima. Per chi racconta, a chi allora non c'era ancora o era soltanto un bambino, quello che si è perso sotto i cumuli di macerie è rimasto lì, sepolto nella terra. Nessuna Il comune di Conza ha deciso di far riprodurre la medaglia d’oro che ci fu consegnata dal presidente della Repubblica Ciampi e di donarla ai volontari e a tutte le persone che aiutarono la popolazione a rialzarsi in quei terribili giorni. Sarà presente, tra gli altri, il sindaco di Bari Michele Emiliano prestò servizio come volontario a Conza nei giorni successivi al sisma, anche lui avrà in regalo la medaglia d’oro. Arriverà pure una delegazione della Provincia di Bologna un sostegno fondamentale nella riorganizzazione dei servizi. Il sindaco Vito Farese ha fatto riprodurre le medaglie d’oro anche su migliaia di portachiavi, e ne spiega il motivo “Li doneremo ai cittadini perché oltre agli amministratori sono Cima, in attesa del convegno ecco le verità di Rai Tre stati loro a guadagnarsela grazie alla forza, alla dignità, al coraggio e all’orgoglio”. La sera del 23 novembre dell’80 sarà dedicata alla memoria dei 184 morti con il picchetto d’onore del Decimo Reggimento di Manovra di Persano. Ci sarà anche Zamberletti, il quale presenzierà ad una rappresentazione teatrale sul dramma del post terremoto portata in scena dai giovani della compagnia di Lioni di Milko Di Martino. Questa mattina, infatti, nella sala comunale di Conza, il Teatro dell’Osso porta in scena “Il fulmine nella terra” uno spettacolo che racconta i drammatici giorni del Terremoto in Irpinia del 1980. Il monologo, scritto e diretto da Di Martino e interpretato da Orazio Cerino con l'aiuto regia di Melissa Di Genova, è un’accurata ricostruzione dei giorni del sisma condotta su articoli, documenti e testimonianze dell’epoca, è un racconto di alcune delle tante storie della gente dei comuni colpiti, come Lioni, Teora, Conza, S.Angelo, Avellino e molti altri. Ma lo spettacolo, patrocinato dal Festival internazionale di Giffoni Valle Piana, è anche e soprattutto un bilancio dell'Irpinia a trent’anni di distanza. “Trent'anni - dice Di Martino - sono lo spazio che divide una generazione da un’altra, e trent'anni fa c’era una terra che oggi non c’è più”. Mave Pades Questa mattina decine di giornalisti della stampa nazionale saranno presenti in Alta Irpinia, che già da qualche settimana ha ripreso le sembianze della “terra del cratere”, raccontata e fotografata trent’anni fa. Una troupe della Rai è attesa a Sant’Angelo dei Lombardi questa mattina, per raccogliere le interviste ai nuovi e vecchi protagonisti della ricostruzione del post terremoto. Particolarmente seguito il viaggio percorso dal giornalista di Rai Tre Geo Nocchetti nei luoghi della ricostruzione, che ha ripercorso gli ultimi trent’anni di storia fino ad arrivare al presente, per parlare di costruzione adeguata alla normativa vigente. Dal suo reportage è emerso che l’80 per cento della ricostruzione del cratere non sarebbe più adeguata alle normative vigenti. Alle 15, invece, si terrà presso il centro sismologico Cima di Sant’Angelo dei Lombardi, il convegno: “Il grande terremoto dell’Irpinia 30 anni dopo – Emergenza e Ricostruzione”. Per l’occasione vi sarà un parterre d’eccezione e numerose autorità dell’Alta Irpinia, della provincia di Avellino e della Regione Campania. Ad organizzare l’evento sono stati i dirigenti del Centro regionale Gaetano Manfredi, Gianfranco Urciuoli e Paolo Gasparini. Tra gli invitati, il vicepresidente della Regione, Giuseppe De Mita. Previsti gli interventi di Edoardo Cosenza e del giornalista Generoso Picone. Nel corso dell’atteso appuntamento, saranno presenti numerosi amministratori dell’Alta Irpinia, autorità istituzionali, e associazioni di volontariato, della Protezione Civile e dell’associazionismo provinciale, regionale e nazionale. PRIMO PIANO Ottopagine Teora. Sarà inaugurato il monumento in memoria dei defunti. In programma la sfilata dei mezzi di soccorso del volontariato MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 Calitri. Gli esperti della Sigea spiegano l’importanza della mappatura della sismicità dividendo le aree a seconda del rischio 5 Q UEI 90 SECONDI di terrore Convivere con il rischio sismico si può,investendo nella prevenzione A Calitri il convegno degli studiosi della Sigea PAOLA DE STASIO Calitri Teora ricorda le vittime del sisma Questa mattina alle 10,30 celebrazione della Santa Messa in suffragio delle vittime del terremoto presso la Chiesa Madre “San Nicola di Mira”; alle 11,30 in via Monte, inaugurazione del monumento in memoria dei defunti del terremoto 1980 con la partecipazione dell’onorevole Giuseppe Zamberletti, già Commissario Straordinario per l’emergenza del Sisma del 23 novembre 1980; il vicepresidente della Regione, Giuseppe De Mita e il consigliere regionale Pietro Foglia. Alle 12 presso Cinema Sala - Teatro Europa: “Fate presto”, i volontari raccontano. Alle 16 raduno e sfilata dei mezzi di soccorso delle associazioni di volontariato. Alle 17 il convegno “Irpinia: 30 anni dopo, 23 novembre 1980 – 23 novembre 2010” con la partecipazione del presidente nazionale delle Misericordie d’Italia e autorità civili e militari. Sant’Angelo dei Lombardi. Un passo verso il futuro INAUGURATA “LA SCUOLA DEI PICCOLI” ELISA FORTE Sant’Angelo dei Lombardi Alla vigilia del trentennale del terremoto del 1980 a Sant’Angelo dei Lombardi si pensa al futuro. L’inaugurazione della scuola dei piccoli “Giovanni Gargano” e il riconoscimento di due figure emblematiche della storia della comunità come Francesco Quagliariello e Lorenzo De Vitto, sono il segno evidente della volontà di guardare al futuro. Due presenze illustri per il taglio del nastro al plesso scolastico di via Bartolomei: l’ambasciatore degli Stati Uniti Charles Gargano, già cittadino onorario e protagonista delle ricostruzione post sisma, che ha contribuito alla costruzione della nuova scuola, e il console statunitense di Napoli Mr Donald L. Moore, che hanno incarnato il sentimento di solidarietà ricevuta dall’America da parte degli emigranti. “Già 30 anni fa, l’ambasciatore Gargano si è preoccupato della ricostruzione, pensando prima agli anziani, con la costruzione della casa di riposo, poi ai bambini, con la costruzione dell’istituto comprensivo, e oggi la solidarietà continua, con l’inaugurazione della scuola dei piccoli” ha affermato la dirigente scolastica Rosanna Repole. Dopo il taglio del nastro e la benedizione di S. E. Franco Alfano, la manifestazione è proseguita alla sede centrale del Criscuoli, dove sono state celebrate due figure emblematiche della storia santangiolese, a cui sono stati intitolati due massi, come testimoni di grandezza e spessore morale. Memorie di Francesco Quaglieriello e Lorenzo De Vitto sono state celebrate dal sindaco Michele Forte, che evidenziando i due personaggi, ha richiamato l’attenzione sulla questione sanità: “Viviamo un momento grave, vale come un secondo terremoto perché a distanza di trent’anni dobbiamo ancora difenderci da atti di sciacallaggio ingiustificati. È lo stesso ospedale che Lorenzo e Ciccillo hanno difeso nel 1980, che ora rischiamo di perdere”. Parole di viva commozione anche per il Procuratore della Repubblica Antonio Guerriero, che incalza sul tema della programmazione per invertire il trend di spopolamento ed emigrazione. Presenti in sala i familiari di Quagliariello e De Vitto, che hanno richiamato alla memoria l’amore dei genitori per il paese e il fatidico 1970, quando da avversari politici furono eletti entrambi consiglieri regionali, e unirono la cittadinanza in un abbraccio sentito. Presente alla cerimonia anche Suor Lucia Lanzella, altra figura storica degli anni della ricostruzione. Entusiasta il console statunitense di Napoli Moore, che ha sottolineato il rapporto amichevole fra il sud Italia e gli Stati Uniti, consolidato anche dopo l’11 settembre. “I bambini di oggi saranno gli uomini di domani” ha affermato l’ambasciatore Gargano, che ha narrato del legame con suo padre e la stima nei confronti della dirigente Repole. Conclude S. E Alfano: “Due parole per ricordare: terremoto e amicizia;la terza la scriveremo insieme domani”. Si parte da un dato di fatto: l’Irpinia è una delle zone d’Italia che deve imparare a conviv e re c o n i l r i s c h i o sismico. Per attenuare gli effetti di un possibile terremoto c’è solo un modo: investire in prevenzione. Non esistono altri sistemi. Lo hanno dichiarato a chiare lettere autorevoli studiosi della Sigea (Società Italiana di Geologia Ambientale) p re s e n t e a l c o n v e g n o o rg a n i z z a t o p re s s o l a comunità montana “Alta Irpinia” con le rappresentanze delle sezioni di 3 regioni: Campania, Basilicata e Puglia. Lo strumento più efficace è la microzonizzazione, una mappa della sismicità che suddivide l e a re e a s e c o n d a d e l grado di rischio sismico e sulla base di questi studi si dovrebbero vinc o l a re g l i s t r u m e n t i urbanistici. “Una microzonizzazione – ha spiegato il sindaco di Calitri Giuseppe Di Milia – che davvero non sappiamo se la Regione Campania ha provveduto ad effettuare. Come mia esperienza posso s o l o c o n f e r m a re c o n dati scientifici alla mano che dopo gli interventi di consolidamento effettuati al movimento franoso che interessa Calitri abbiamo contenuto l’avanzata della frana, si è passati dall’avanzamento del fronte franoso di un c e n t i m e t ro e m e z z o all’anno degli 90 a meno di un centimetro dopo le opere di contenimento. Siamo l’esempio emblematico che quando i soldi vengono spesi in maniera oculata e mirata e sulla base di progetti validi i risultati si ottengono, il rischio si riduce”. Si è parlato molto di frane, i geologi hanno riferito che il terremoto del’30 ne scatenò 25 ed il sisma del 23 novembre dell’80 ne provocò una trentina, alcune di grandi dimensione come, per l’appunto, quella di Calitri che ha messo in movimento 28 miliardi di metri cubi di materiale. Il giudizio degli studiosi che h a n n o p re s o p a r t e a l convegno è stato unanime: in questi 30 anni molto è stato fatto, ma tanto ancora bisogna Il sindaco: «La prevenzione è possibile attraverso la microzonizzazione, ma non sappiamo se la Regione l’ha effettuata» Gli studiosi: «Serve una mappa della sismicità che divida le aree in base al grado di rischio e a questi vincolare gli strumenti urbanistici» fare. Una fotografia della situazione dinamica, non statica. Le conoscenze scientifiche in termini di prevenzione e di tecniche di costruzione sono di gran lunga superiori a quelle di 30 anni fa, di conseguenza molte strutture sia private e soprattutto quelle pubbliche vanno riviste, rafforzate sulla base dei nuovi strumenti di pianificazione finalizzati a mitigare il rischio sismico. “Siamo stati lieti di ospitare un convegno di così alto valore scientifico – GLI ESPERTI In trent’anni si è fatto molto ma bisogna fare ancora tanto GLI OSPITI Presenti gli amministratori altirpini, quelli lucani e del foggiano ha dichiarato Giuseppe Di Milia – abbiamo intenzione di fare altri incontri di questo tipo per sollecitare la politica e le istituzioni a recepire gli studi e gli strumenti messi a punto dalla Sigea e farli applicare sul territorio”. Sono intervenuti, t r a g l i a l t r i , M a rc e l l o Schiattarella (Università della Basilicata), Vi n c e n z o D e l G a u d i o (Università di Bari), Giuseppe Naso e Sergio C a s t e n e t t o ( D i p a r t i m e n t o Protezione Civile), Vito Savanella (Ufficio Tecnico per le Dighe) e A l f re d o P i t u l l i ( S i g e a P u g l i a ) . N u m e ro s i g l i amministratori presenti sia dell’Alta Irpinia che della Lucania e del foggiano. 6 MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 QUEI 90diSECONDI terrore PRIMO PIANO Pd. Il senatore irpino: andare oltre il rituale delle celebrazioni Quella tragedia sia spinta per lo sviluppo dell’Irpinia Ottopagine Regione. Il presidente del consiglio Romano: lavorare perchè certe tragedie non si ripetano Il ricordo del senatore del Pd De Luca: «La politica faccia fronte comune per sostenere gli amministratori locali» «Terribile prova vinta dai cittadini» «E’ il momento di chiudere definitivamente il capitolo della ricostruzione» R ichiamare alla memoria il terremoto del 23 novembre 1980, i paesi rasi al suolo, i palazzi inghiottiti, rendere onore, nel ricordo, alle migliaia di morti e feriti, a trenta anni di distanza, ha un senso più compiuto se si compie il tentativo di spingersi oltre il cerimoniale delle commemorazioni. Al di là dei rituali, che anch'io, come tanti, potrei celebrare scorrendo l’album delle immagini indelebili che si presentarono agli occhi quando, due giorni dopo la terribile notte, visitai i paesi della provincia devastata dal sisma, vorrei provare a concentrare l'attenzione sull'insegnamento che quell'evento, e gli anni che seguirono, ci hanno lasciato. La disperazione dei primi tempi, il sentimento dominante che raccolsi in quel giro tra le macerie, compiuto con il segretario provinciale della Democrazia Cristiana - l’indimenticabile, per rigore morale e passione civile, Attilio Fierro - sfumò nella voglia di risollevarsi, nella caparbietà dei sopravvissuti che volevano ricostruire la propria terra, riannodare i fili delle proprie radici in alcuni casi recisi dalla furia del terremoto. Col trascorrere del tempo la dignità di una comunità che non si arrese e che trovò nella solidarietà la spinta principale per far fronte ad un futuro di sacrifici e incertezza prevalse e, alla lunga, ha finito con l'avere ragione. Se oggi l’Irpinia, nonostante frenate brusche e qualche intoppo, nonostante speculazioni che hanno portato molte risorse in aree molto meno colpite dal sisma, è in gran parte ricostruita, lo si deve soprattutto alla sua gente. Certo, anche la classe dirigente ha lavorato tanto e bene per raggiungere un traguardo che trenta anni fa era impossibile anche solo immaginare. Da dirigente provinciale della Dc ricordo le riunioni, la consapevolezza di dover far fronte ad una emergenza drammatica, la preoccupazione di rendere gli interventi quanto più tempestivi possibile. Si è lavorato giorno e notte, sul territorio e in Parlamento, e l'esempio irpino ha segnato un precedente nella storia del Paese. E allora il ricordo della tragedia deve costituire per tutti noi l'occasione per riflettere su valori e L’IMPEGNO «Si è lavorato giorno e notte sul territorio e in Parlamento» LA PROSPETTIVA «La logica degli interessi di parte e privati non deve mai prevalere» capacità smarrite, messe a dura prova da crisi e opportunismi cui la politica di oggi sembra declinata, pur troppo anche nella nostra provincia. Ma la storia dell'Irpinia, che nel terremoto ha, insieme, un momento cruciale e un esempio paradigmatico, è estranea a cer te dinamiche e sta a noi, comunità e classe dirigente, fare in modo che la logica degli interessi familistici e privatistici non permei anche il tessuto sociale della nostra provincia. La crisi attuale, e le conseguenze nefaste che potranno derivarne, chiede alla politica di sforzarsi per superare gli steccati di partito, per aprirsi al confronto e alla collaborazione su questioni che interessano la vita quotidiana della gente. Per farlo bisogna recuperare un rapporto di prossimità con le comunità e mettere da parte arrivismi e velleità carrieristiche, che mal si conciliano con la politica. Per quanto mi riguarda mi impegnerò per far sì che venga redatta, come chiedono molti amministratori del territorio, una apposita proposta di legge per chiu- dere definitivamente il capitolo della ricostruzione. Ma l’Irpinia, «RICORDO ricostruita nelle case e nei paesi, E ORGOGLIO» ha bisogno di riscoprire, sin «Il presidente d’ora, la sua vera anima, di riap- della propriarsi di un’identità fatta di Repubblica valori antichi e profondi come la Ciampi ha preterra, granitici come le monta- miato con la gne che ne definiscono l'orizzon- medaglia d’oro te. Da questo potrà ripartire un diciotto comu- IL RILANCIO Il riscatto passa dal recupero della nostra identità nuovo sviluppo, che può passare dalle tantissime risorse - per cominciare, la valorizzazione dell'ambiente anche in proiezione di “economia verde” e turismo sostenibile - ancora poco valorizzate. Ecco, a trent'anni dal terremoto la scommessa è questa. Ma a vincerla deve essere prima di tutto la politica. Enzo De Luca *senatore Partito Democratico ni». Il professore Vincenzo Martone di “Spazio Aperto” ricorda i giorni della soddisfazione, «un riconoscimento che portò luce, fece giustizia e finalmente pose la parola fine a tante false accuse. Noi comunque riteniamo che, fin quando dipenderemo da Napoli, prevarrà sempre la logica del pesce grande che mangia il pesce piccolo». Regione Romano: più cultura della prevenzione Il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Paolo Romano, che presenzierà oggi alla cerimonia di commemorazione del trentennale del sisma del 1980 organizzata dalla Prefettura di Napoli presso la Reale Arciconfraternita di San Ferdinando in Piazza Trieste e Trento a Napoli, ha espresso a nome dell’intera assemblea legislativa campana, “la più profonda espressione di commosso ricordo delle vittime del sisma che trent’anni fa sconvolse la Campania e la Basilicata”, sottolineando di far proprio “il monito del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla necessità ed il dovere di dare maggiore impulso alla cultura della previsione e della prevenzione”. “Se è vero, infatti, come è giusto e doveroso che sia, che lo Stato, in tutte le sue articolazioni nazionali e locali, sia in prima fila ad ispirare e ad incoraggiare la cultura della memoria per il profondo rispetto che si deve alle vittime delle tante calamità naturali che con significativa frequenza si abbattono sulle nostre comunità, – ha aggiunto il presidente Romano – è anche altrettanto giusto e doveroso che le istituzioni tutte assumano come prioritario l’impegno concreto e quotidiano perché certi fenomeni naturali, i cui esiti sono a volte prevedibili e a volte meno, non si traducano in vere e proprie tragedie”. PRIMO PIANO Ottopagine L’appello. Slow food: una giornata di silenzio in posta elettronica e su Facebook MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 La lettera. Il presidente della Repubblica scrive ai governatori di Puglia, Campania e Basilicata Mitrione: e ora vogliono cancellare anche la ferrovia Guarino: dalle macerie è nata una Solofra migliore Il 23 novembre ricorre il 30 anniversario del terremoto che tanti lutti e rovine causò all’Irpinia. Ancora oggi c’è tanto da fare ma quello che poteva essere e non è stato è impresso nella mente delle popolazioni colpite dal sisma dell’80. Si sperò nell’industrializzazione di quelle zone montane ed arrivarono gli affaristi, si immaginò che l’atavica disoccupazione cessasse ed invece i nostri paesi sono diventati più spopolati di allora. Un territorio quello dell’alta Irpinia popolato, ormai, solo da anziani, i giovani appena possono fuggono via. Quelli che dovevano diventare nuclei industriali, tranne pochissime eccezioni, sono diventati simboli di un fallimento nazionale. Eppure quell’eventò segnò un grande moto di solidarietà nazionale, l’ultimo, purtroppo. Fortunatamente sono state edificate le abitazioni, siamo quasi al 90/95 per cento della ricostruzione. Restano i problemi di un territorio, quello delle zone interne della Campania, abitato da appena il 20 per cento della popolazione campana a fronte di una vastità dello stesso dell’80 per cento, su cui si abbattono i cosiddetti “tagli lineari” della finanziaria o le famigerate “soglie minime” di fruibilità dei servizi pubblici. Di conseguenza si tagliano ospedali, trasporti, scuole etc. A distanza di 30 anni da quel triste sisma qualcuno ha anche deciso che l’unica ferrovia che attraversa tutta la zona del cratere debba essere chiusa definitivamente. Quella ferrovia, l’AvellinoRocchetta, è la stessa che vollero fortemente Francesco De Sanctis e Giustino Fortunato, illustri politici di quegli anni. “Si animi Monticchio, venga la ferrovia e in piccol numero di anni si farà il lavoro di secoli”, così profetizzava F. De Sanctis nel suo “Viaggio elettorale”, lo stesso che si battè perchè la scuola fosse pubblica. Oggi si chiudono, nel silenzio della politica e delle istituzioni, scuole, oggi si sopprimono ospedali, oggi si tagliano trasporti e domani che diventerà l’Irpinia? Forse stanno pensando di costruirci una megadiscarica regionale? Alla desolazione si aggiunge disperazione. Non pensavamo questo, noi irpini, 30 anni fa e nemmeno Francesco de Sanctis e Giustino Fortunato oltre centoventi anni fa, la loro era la lungimiranza di politici illuminati quelli che di cui oggi sentiamo drammaticamente la mancanza. Facciamo del 23 novembre 2010 un momento di riflessione collettiva, cerchiamo di andare oltre la retorica dell’occasione e ricordiamoci con il raccoglimento dovuto delle migliaia di persone che persero la vita in quella tristissima serata del 23 novembre 1980. Pietro Mitrione La città di Solofra ricorda le vittime del sisma del 23 novembre del 1980. Per ricordare le trenta vittime di quei terribili momenti il comune di Solofra, in collaborazione con Anspi circolo parrocchiale San Michele Arcangelo, sezione San Gerardo Maiella, ha promosso una cerimonia di commemorazione. Alle 18.00 a Palazzo Orsini è prevista la conferenza di presentazione del libro “Voci dalla macerie” ovverosia una raccolta di testimonianze dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime del terremoto. Alle 19 fiaccolata fino al Monumento ai Caduti in via Aldo Moro e la benedizione della lapide commemorativa in memoria delle vittime. Alle 19.30 presso la collegiata di San Michele Arcangelo la santa messa officiata dal parroco Monsignor Mario Pierro. «"Fate presto", titolava così un quotidiano campano nei giorni immediatamente successivi al sisma del 23 novembre del 1980. Una semplice frase - precisa il sindaco Antonio Guarino - nella quale si racchiudeva però il dramma che si stava consumando. La macchina dei soccorsi si mosse lentamente. La solidarietà umana però seppe sopperire a questi ritardi, a queste carenze. Io ho vissuto in prima persona quei giorni. Da amministratore sapevo che il nostro primo impegno doveva essere far ripartire le nostre aziende. Ci rimboccammo le maniche. Tutti. Insieme con gli operai e con gli imprenditori tornammo nelle fabbriche, riaccendemmo i macchinari e ricominciammo a lavorare e con il lavoro incominciammo quel lento cammino che ci avrebbe riportato alla normalità. Dalle macerie di quel sisma io ritengo che nacque una Italia, una Solofra migliore. Consapevole di avere in se stessa le forze per andare avanti e fronteggiare le emergenze. Quella lezione, da amministratore, ritengo che via ancora oggi e si manifesti quotidianamente nelle centinaia di associazioni di volontariato e di protezione civile che riescono ad arrivare là dove spesso la macchina amministrativa, afflitta da lungaggini e burocrazia, spesso non riesce ad arrivare. Nel giorno del trentennale del sisma del 1980 il ricordo di tutti noi deve andare alle vittime di quei novanta secondi di devastazione ma anche a quanti nei giorni immediatamente successivi si rimboccarono le maniche e si spesero per aiutare chi aveva perso tutto». «Anche Solofra - aggiunge l’assessore Orsola De Stefano - pagò un pesante tributo in termine di vite umane. Trenta persone persero la vita a seguito del sisma. Il sisma sfregiò il volto della Solofra che conoscevamo, famiglie spezzate, quartieri stravolti. Da quegli attimi di paura, che ancora sono vivi nella memoria di chi li ha vissuti, è venuta fuori una Solofra, una Italia differente. La macchina dei soccorsi si mosse lentamente. Ma a queste carenze seppe sopperire il cuore degli uomini. Nei giorni che seguirono a quell’evento catastrofico tutta l’Italia seppe reagire. Comunità distanti da noi centinaia di chilometri si mossero per dare aiuto ed assistenza a uomini e donne che mai avevano conosciuto prima. La devastazione che il terremoto aveva fatto piombare sulle nostre case e sui nostri cuori trovò sollievo nella disinteressata e spontanea generosità e disponibilità dell’uomo. Nel trentennale del sisma del 23 novembre del 1980 io ritengo che non ci sia modo migliore di ricordare quei fatti se non quello di tenere sempre viva la fiamma della solidarietà e dell’umana comprensione che in quei giorni arse in maniera possente». Conclude con una citazione del drammaturgo greco Sofocle: «L’opera umana più bella è di essere utile al prossimo». 7 Q UEI 90 SECONDI di terrore «Una grande pagina di solidarietà serve più controllo del territorio» Napolitano: la memoria per evitare altre tragedie Il ricordo del terremoto dell’Irpina del 23 novembre 1980 e «le sempre più frequenti calamità naturali, devono spingere a sviluppare la cultura della previsione e della prevenzione, nonchè un’azione di vigilanza e controllo del territorio e dell’ambiente». Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del trentennale del terremoto dell’Irpinia, in una lettera inviata ai Presidenti della Regione Campania, Stefano Caldoro, della Basilicata, Vito De Filippo, e della Puglia, Nichi Vendola, in cui chiede loro di rendersi interpreti del cordiale saluto agli Amministratori delle comunità colpite e a tutti coloro che prenderanno parte ai diversi momenti evocativi. «La memoria del catastrofico terremoto del 23 novembre 1980 che sconvolse vaste aree della Campania e della Basilicata, interessando anche alcuni Comuni della provincia di Foggia - scrive Napolitano suscita ancora profonda emozione per l’immane tragedia che segnò le popolazioni e stravolse l’assetto sociale ed urbanistico del territorio. Le manifestazioni organizzate nella ricorrenza del “trentennale”- prosegue la lettera - costituiscono una importante occasione per ricordare le «MOMENTO DI RIFLESSIONE» «Le manifestazioni organizzate nella ricorrenza del “trentennale”- si legge nella lettera di Napolitano- costituiscono una importante occasione per ricordare le quasi tremila vittime, le migliaia di feriti, le sofferenze e i gravi disagi, protrattisi nel tempo, per i circa trecentomila senzatetto». quasi tremila vittime, le migliaia di feriti, le sofferenze e i gravi disagi, protrattisi nel tempo, per i circa trecentomila senzatetto. La ricorrenza è anche occasione per ricordare l’opera di tutti coloro che accorsero, con straordinario slancio di solidarietà, da tutte le parti del paese, per prestare i primi soccorsi, affiancando lo sforzo dei Corpi dello Stato. Di fronte a quel drammatico evento si manifestò la generosa mobilitazione della Comunità internazionale, di Regioni, di Provincie e di Comuni che “adottarono” singole realtà L’allarme di Cisl e Ugl «Il riscatto è ancora lontano il futuro dell’Irpinia resta difficile» «In Irpinia la ricostruzione venne incentrata sul rilancio industriale: vennero stanziati circa 60.000 miliardi delle vecchie lire tra Campania e Basilicata, con un costo 12 volte superiore al previsto in provincia di Avellino. Ma quali furono i risultati? Imprese che fallivano appena intascati i contributi. A trent’anni da questa terribile tragedia cosa è cambiato?», si chiede il segretario della Cisl Mario Melchionna. «L’Irpinia è ancora una terra gravemente colpita da diversi problemi come quello dei rifiuti e della disoccupazione. In realtà sono ancora troppi gli interessi in gioco e nulla sarà più come prima, per le tante persone che hanno vissuto la tragedia del sisma. Ma tocca alla politica, alle istituzioni, la responsabilità di ricostruire ciò che andato via in soli 90 secondi e dare il diritto a questa terra di riscattarsi. Quale migliore occasione se non quella di offrire ai tanti giovani gli strumenti adatti per continuare a vivere nella loro terra d’origine, per continuare ad amare il loro territorio, arrestando così il continuo esodo verso le terre del Nord? Più di 6.000 sono i giovani che hanno lasciato l’Irpinia e hanno perso questa speranza. Occorre rilanciare il nostro territorio attraverso la realizzazione delle grandi opere, di infrastrutture, di investimenti. Tutto ciò significherebbe ricostruzione, ammodernamento, occupazione, in una parola, sviluppo. Mi rivolgo alla politica, senza alcuna distinzione , in un giorno triste “per non dimenticare”, che potrebbe rappresentare la svolta “per dimenticare” tanti altri problemi legati alla nostra terra». Il segretario dell’Ugl Costantino Vassiliadis si sofferma sulle parole del presidente della Repubblica Napolitano che, nella lettera invitata ai presidenti delle Regioni colpite, ha esortato a sviluppare la cultura della previsione e della prevenzione. «Oggi non dobbiamo e non possiamo dimenticare quel 23 novembre di 30 anni fa che seminò morte e dolore nella nostra Irpinia. A 30 anni di distanza quella ferita è ancora viva in tutti noi. Basti pensare a quelle famiglie che vivono ancora nei containers. In questi ultimi giorni di celebrazioni e commemorazioni, abbiamo rivissuto il terremoto che tra la Campania e la Basilicata colpì ben 280 comuni distruggendone 36. Quelle immagini di distruzione, dolore, paura, morte, vivono nella nostra memoria ma abbiamo il dovere di farle conoscere anche alle nuove generazioni perchè solo attraverso la conoscenza e nel ricordo doveroso e doloroso delle vittime del terremoto dell'80 possiamo far passare il messaggio di quanto sia importante la prevenzione così come oggi ha tenuto a sottolineare anche il Presidente della Repubblica». colpite per accompagnarle nel difficile percorso del recupero di condizioni di normalità. Le disastrose conseguenze degli eventi sismici e dei sempre più frequenti eventi calamitosi - conclude il Presidente della Repubblica impongono alle Istituzioni, nazionali e locali, e alla comunità scientifica di rinnovare il responsabile impegno a sviluppare la cultura della previsione e della prevenzione cui far corrispondere una costante e puntuale azione di vigilanza e controllo del territorio e dell’ambiente». Zecchino: la cultura faro delle nuove generazioni «La cultura e l’arte possono dare un contributo decisivo alla rilettura di un evento così drammaticamente sconvolgente come il terremoto». E’ l’input lanciato da Gesualdo dal Consigliere Regionale Ettore Zecchino, intervenuto, su invito di Giuseppe Mastronimico, per tracciare le conclusioni del convegno organizzato a Palazzo Pisapia dal centro Unla per riflettere a 30 anni dal sisma del 1980 nel quadro del ciclo di eventi “Voci d'Irpinia: percorsi di impegno civile”. Filo conduttore della serata sono state le poesie di Domenico Cipriano, autore di una raccolta dal titolo “Novembre” che, con struggente forza evocativa e respiro universale, ripercorre il viaggio nel baratro del dolore e tra le macerie che ancora pesano sulla memoria vivente dell'Irpinia. Un incontro speciale perché denso di testimonianze profonde come quella dei volontari dell’Anpas e di Rosanna Repore, il Sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi che divenne il simbolo dell’Alta Irpinia all’indomani della catastrofe naturale. Le immagini delle rovine e della disperazione di quei giorni si sono accompagnate al ritmo sferzante dei versi di Cipriano nel docufilmato di Anna Ebreo, Federico Iadarola, Enzo Marangelo e Vito Rago. Il Sindaco di Gesualdo ha sintetizzato i risultati della ricostruzione, sottolinendo come Palazzo Pisapia interamente recuperato ne sia il chiaro emblema. «Ma la sfida vera – precisa il consigliere regionale Zecchino, componente della commissione Cultura - è la fruizione intelligente dei beni. Dopo la ricostruzione, ora spetta a noi di rendere vivi e partecipati i beni». 8 PRIMO PIANO MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 QUEI 90diSECONDI terrore Ottopagine Le celebrazioni Da piazza XXIII Novembre al Duomo per la messa con il Vescovo, poi al Teatro con gli studenti e le autorità Il ricordo del primo cittadino di Avellino, allora giovane medico che prestava soccorso ai feriti, oggi amministratore con una eredità difficile Il sindaco invita a non cercare ancora i colpevol e rifugiarsi nelle polemiche sterili sullo sviluppo mancato «E ora guardiamo al futuro» Galasso: il capoluogo 30 anni dopo? Troppo facile dire che abbiamo sbagliato tutto ROSSELLA STRIANESE La mostra al Carcere Borbonico Avellino L'incrocio fra la potenza devastante del sisma e i nodi sociali della cosiddetta "questione meridionale" fanno del 23 novembre 1980 un crocevia decisivo nelle vicende politiche e sociali della Regione e dell'intero Paese. Quell’evento ha spolpato questa terra fino al midollo e ha continuato a farlo anche dopo. Soprattutto dopo. Quando la catastrofe ha assunto il volto dei senzatetto, della disoccupazione endemica, del sottosviluppo, del clientelismo, della speculazione e dello sfruttamento del territorio, delle opere faraoniche e mai concluse. Nelle ore seguenti al sisma anche gli apparati di potere e tante amministrazioni comunali, risultarono fisicamente terremotati e con l’arrivo di Zamberletti si aprì formalmente la pratica dei commissariamenti che andò a colmare il vuoto di potere in chiave autoritaria. Un dramma senza fine, che è continuato per anni. Gli affari, i soldi della ricostruzione. E poi gli arresti. E le prescrizioni. È lunga la storia del terremoto di quella domenica di novembre. E forse non è stata neanche ancora del tutto raccontata. Restano tanti testimoni di un fallimento, muti: c’è il Mercatone, il macello comunale, e i tanti “buchi” della ricostruzione e sei aree industriali fantasma. Dal bilancio di tre decenni il risultato, diciamolo, presenta un bel segno meno. «Ma bisogna sfuggire alla tentazione, benché fortissima, di cercare i colpevoli. Dopo trent’anni è facile, troppo facile, e anche ingeneroso, dire che abbiamo sbagliato tutto. Allora ero un giovane medico che si preoccupava di tenere in vita i sopravvissuti, di trovare un posto ai feriti lungo i corridoi dell’ospedale Moscati cercando di cacciare il dolore per le tante persone care scomparse sotto le macerie. Oggi, da sindaco della città capoluogo, so che le cose sono andate in un certo modo perché non poteva andare diversamente, date le condizioni in cui ci siamo trovati. Oggi abbiamo altri mezzi, nuove conoscenze. Allora non avevamo niente. La Protezione civile è nata col terremoto dell’Irpinia. La Misericordia e il volontariato così come lo conosciamo oggi sono nati quel 23 novembre. Le poltitiche di prevenzione e di difesa del territorio sono cominciate dopo il terremoto. Allora avevamo solo noi stessi, con i nostri mali endemici ma anche con le nostre immense risorse umane e culturali». Giuseppe Galasso questa mattina presenzierà alle cerimonie ufficiali del trentennale. Con quale spirito, è facile IL SUD DIMENTICATO «L’ultimo riparto Cipe è l’ennesimo tentativo di affossare un meridione già agonizzante» immaginarlo. «In fondo sono sereno, perché per natura mi piace guardare avanti, al futuro, a quello che sarà Avellino tra dieci anni. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per questo. Nel cuore però mi porto le domande di tutti gli irpini che speravano in una grande rinascita. Di occasioni ne abbiamo avute, è vero, e forse non siamo stati bravi a coglierle tutte. Ma è anche vero che questa terra è stata “derubata” del terremoto, più di quanto si pensi. E non parlo solo dei fondi. Anche se alla fine è con le cifre che bisogna fare i conti». E-ArtQuake, memoria e identità nell’era dell’arte digitale E a proposito di cifre. L’ultimo riparto del Cipe ci riserva poche briciole, quasi una punizione per l’Irpinia e l’intero Mezzogiorno. «Vogliono farla passare come una punizione. Ma destinare miliardi di euro al nord, e solo pochi miloni a tutto il sud mi sembra piuttosto una beffa. Non dimentichiamo che al Governo c’è la Lega con i suoi interessi miopi. Il punto è proprio questo. Investire adesso nel meridione significa dare una speranza a una terra altrimenti destinata alla morte. Oggi, che abbiamo i mezzi e l’esperienza per guidare il processo di sviluppo, ci tagliano le gambe. Vedi anche la vicenda dei fondi europei bloccati. E’ di questo che dovremmo indignarci». E’ uno dei momenti qualificanti delle celebrazioni per il trentennale del terremoto, la mostra interattiva EArtQuake (dal 23 al 27 novembre presso il carcere Borbonico di Avellino, evento gratuito, h. 18.00 – 22.00) una collettiva d’arte contemporanea che connette l’arte digitale e l’estetica delle nuove tecnologie con i temi della memoria, del trauma e della perdita di identità a causa del sisma. Gli allestimenti, con lavori inediti e dedicati, si snodano lungo un percorso formato da quattro sezioni: audio e audio/video, con ben 60 opere tutte della durata di 90 secondi, quanto la scossa di terremoto, sound art ed installazioni multimediali e interattive. Per realizzare quest’opera collettiva l’associazione culturale avellinese Magnitudo (già promotrice del festival internazionale di arte elettronica Flussi) ha bandito un concorso (call for partecipation) per artisti digitali (video-makers – sound-artists – interaction-designers) nazionali ed internazionali, invitati ad interpretare liberamente il tema del terremoto. Tre le opere che saranno poi premiate, più un lavoro fuori concorso. E-ArtQuake non vuole essere una semplice mostra commemorativa ma un’operazione estetica di rappresentazione e riflessione sulle implicazioni di un evento così traumatico per il territorio e la sua comunità. Una collettiva artistica di natura quasi “omeopatica”, per rielaborare e ridefinire il senso di un evento che ha condizionato la storia di una comunità e delle sue generazioni. Ogni lavoro, dalle rassegne video alle composizioni sonore sino alle installazioni multimediali che prevedono il coinvolgimento del pubblico, sono improntate a realizzare questa esigenza in forme inedite, affidando alle nuove tecnologie l’interpretazione del sisma del 1980. Oggi in città cinquecento angeli del terremoto Ci sarà anche il sindaco di Bari, Emiliano Si ricordano le vittime, poi tutti al Gesualdo IL PROGRAMMA AD AVELLINO ROSTRI Avellino Incerta la partecipazione del sindaco de L’Aquila Cialente che ha fatto pervenire il suo messaggio Cinquecento angeli del terremoto, tutti vigili del fuoco, arriveranno questa mattina in città con i loro mezzi e le divise, con i ricordi e le testimonianze. Un intero Paese porta nel cuore la straordinaria esperienza di solidarietà che di quei giorni terribili è stata l’inaspettato e meraviglioso frutto. Ne arrivarono ben trentamila, da tutta Italia. La rabbia per il ritardo dei soccorsi si unì alla solidarietà fra chi aveva perso tutto e chi invece aveva lasciato tutto per correre in aiuto delle popolazioni terremotate, dando vita fin dalle primissime ore a un nuovo modo di essere comunità. Tra i tanti volontari anche l’attuale sindaco di Bari, Michele Emiliano, che oggi sarà ad Avellino al fianco del primo citta- dino Galasso in Piazza del Popolo per depositare una corona davanti al monumento dedicato alle vittime del terremoto. Ancora incerta la partecipazione del sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, che ha dato la propria adesione e la disponibilità a prendere parte alle cerimonie del trentennale in nome di un terremoto che ha profondamente unito le due città capoluogo. Cialente, che è impegnato a Roma per impegni istituzionali, ha fatto pervenire al primo cittadino Galasso la sua personale gratitudine per la solidarietà mostrata dall’Irpinia alle popolazioni d’Abruzzo colpite dal terremoto nel 2009. Il programma messo a punto dall’amministrazione comunale comincerà alle 9,00 ed è diviso in due parti: la prima, istituzionale, prenderà il via dal Corso Vittorio Emanuele (altezza Villa Comunale) e prevede il trasferimento dei partecipanti e dei mezzi dei Vigili del Fuoco al centro storico di Avellino, dove sarà deposta una corona di allora al monumento delle vittime del sisma in Piazza XXIII novem- bre. A seguire, alle ore 10.15, nella chiesa cattedrale, monsignor Francesco Marino officerà la Santa Messa. La seconda parte del programma si svolgerà, contestualmente, al Teatro Comunale “Carlo Gesualdo”: a partire dalle 9.30, si terrà lo spettacolo teatrale, rivolto agli studenti delle scuole cittadine, “La Polvere e la Luna”, messo in scena dall’Associazione Xòana, composta da ragazzi della provincia di Avellino. La mattinata al “Gesualdo” proseguirà con un altro momento dedicato alla memoria, con le toccanti testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la tragedia del 23 novembre 1980. Alle ore 11.30 è previsto il saluto delle autorità alla platea del “Gesualdo” e il concerto della Banda del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Il tutto si concluderà con l’apertura, nel foyer del Teatro “Gesualdo”, della mostra fotografica “30° Anniversario Terremoto Irpinia, il ricordo dei Vigili del Fuoco”. Messa in sicurezza Sei milioni per le scuole Si è tenuta ieri in Prefettura una riunione relativa al programma straordinario stralcio di interventi urgenti sul patrimonio scolastico. Stanziati 6 milioni e 346mila euro finalizzati alla messa in sicurezza, alla prevenzione e riduzione rischio connesso alla vulnerabilità sismica degli elementi, anche non strutturali, degli edifici scolastici provinciali e comunali. L’incontro ha visto riuniti il Prefetto di Avellino, il Provveditore Interregionale per le Opere Pubbliche per la Campania e il Molise e il Dirigente dell’Ufficio Tecnico di Avellino, il Delegato della Provincia di Avellino per i comuni di Ariano Irpino, Avellino, Calitri, Cervinara, Sant’angelo dei Lombardi e Vallata e i Sindaci dei Comuni di Fontanarosa, Montefalcione, Monteforte Irpino, Montefredane, Prata Principato Ultra, per la stipula della convenzione e il concreto avvio dell’attività di progettazione degli interventi previsti. PRIMO PIANO Ottopagine Le iniziative. Su tutto il territorio manifestazioni organizzate dalle amministrazioni locali per non dimenticare quella terribile tragedia MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010 9 Q UEI 90 SECONDI di terrore TerraeMotus,tanti eventi nel segno della sicurezza A Grottaminarda incontro all’Istituto di Geofisica Gli altri appuntamenti di oggi Il ricordo delle vittime tra messe,riflessioni convegni e fiaccolate MIRABELLA ECLANO. Nel piazzale antistante la chiesetta di contrada San Pietro si accenderà un falò dei ricordi, alla presenza di tutta la contrada e di alcuni sopravvissuti che racconteranno minuto per minuto quell’indimenticabile notte. Sarà una rievocazione storica di un evento che ha lasciato un segno che la comunità locale vuole trasmettere ai giovani, per non dimenticare. Ai ragazzi presenti sarà dato in regalo il libro “Terremoto”, scritto da Joè Lo Pilato con le testimonianze di alcuni sopravvisuti. FRIGENTO. “Gestione delle emergenze e ruolo delle diverse istituzioni del territorrio”. Questo il tema della due giorni, iniziata ieri nella sala consiliare e che continuerà oggi nel comune frigentino. Lo sforzo di senibilizzazione sull'importanza della prevenzione prevede il coinvolgimento diretto delle scuole. Si comincerà con una serie di simulazioni di un intervento di protezione civile, presso piazza Municipio, a cura dei volontari della Pubblica Assistenza "Rocco Pascucci" di Frigento. La giornata proseguirà con la proiezione del film documentario di Gianni Amelio "La terra è fatta così", con la presenza di Michele Di Maio, dirigente regionale di Legambiente. Intanto, ieri mattina, intanto, si è svolto un incontro presso il Centro Studi EuroIrpinia per ricordare i trent’anni dal sisma del 1980. All’’incontro è intervenuto il parlamentare Marco Pugliese che oltre a riportare la sua testimonianza vissuta in quel tragico giorno ha anche parlato del suo recente impegno nella Legge di stabilità 2011 ex finanziaria appena passata in aula per l’Irpinia. CAPOSELE. L'amministrazione comunale vuole ricordare con una iniziativa volutamente intima, la ricorrenza dei 30 anni passati dal terremoto 1980. Sarà l'occasione per la comunità, di incontrarsi per riflettere insieme e condividere il ricordo dell'evento che ha cambiato in modo indelebile la storia e le sorti di Caposele... Con l'auspicio che sulle pietre della memoria si mantenga ancorata e salda la volontà di tutti i caposelesi di crescere e di affermarsi positivamente come comunità educante, votata verso un prossimo futuro che, alla luce delle esperienze passate, costruisca concretamente una migliore qualità della vita per il paese. Il programma: ore 10.30, auditorium Liceo scientifico San Gerardo, incontro con gli studenti dell'istituto comprensivo e del liceo, proiezioni e discussioni; ore 17.00, Sala Polifunzionale, proiezione del documentario "ricordi e pensieri" del 1980, testimonianze e racconti: "1980-2010, cosa ha cambiato il terremoto”; ore 19.15, piazza XXXIII novembre, deposizione di una corona sul monumento alle vittime del sisma; ore 19.30, piazza Dante, corteo per scoprire la lapide commemorativa; ore 19.50, chiesa madre, santa messa con la corale di San Lorenzo. MONTORO INFERIORE. Alle 10.00, il centro sociale sindacale “Salvatore Carratù” ospiterà la presentazione del cortometraggio dal titolo “I novanta secondi che cambiarono la storia” che servirà ad illustrare luoghi e avvenimenti della comunità prima, durante e dopo il terremoto. Previsti gli interventi di amministratori, dirigenti scolastici e volontari, protagonisti delle prime fasi di soccorso. La manifestazione proseguirà con la premiazione dei vincitori del concorso “Le storie spezzate”, concorso al quale hanno partecipato gli alunni delle classi terze della Scuola Secondaria e delle classi quinte della Scuola Primaria. Nel pomeriggio, alle ore 18.00, monsignor Donato De Mattia, celebrerà nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla frazione Preturo, una funzione religiosa in suffragio delle vittime del terremoto. Subito dopo la celebrazione religiosa, nella piazza 23 Novembre ci sarà la deposizione di una corona alle vittime del terremoto. SAN MICHELE DI SERINO. Alle 16.00 convegno e presentazione del libro del dott. F. Moscati "Ricordo" presso la Sala Consiliare; alle ore 18.30 Santa Messa; ore 19.30 fiaccolata per le strade del paese in ricordo delle vittime del terremoto; ore 21.00 apertura mostra fotografica presso la struttura polivalente nei pressi della scuola materna statale. MONTEFORTE IRPINO. L’amministrazione celebra il trentennale del terremoto con un convegno dal nome: “Irpinia 23 novembre, per non dimenticare”. L’incontro si terrà oggi presso la Casa della Cultura in piazza Umberto I alle 18.30. Al convegno interverranno l’assessore alla cultura Antonio Montuori, la sociologa Emanuela Scarano, la psicologa Loredana Gimmelli e il dirigente dell’ufficio tecnico del comune di Monteforte Salvatore De Maio. Nel corso della serata verrà presentato il progetto editoriale pubblicato in occasione del trentennale del terremoto dalla casa editrice “Il papavero”. ATRIPALDA. Nella città del Sabato si svolgerà una santa messa per ricordare le vittime irpine del terremoto di trent'anni fa. La celebrazione si terrà nella chiesa madre di Sant'Ippolisto alle ore 18.30. Prima della messa, il sindaco Aldo Laurenzano e i rappresentanti delle Soprintendenze di Avellino e Salerno proporranno un momento di riflessione comune sulle problematiche che il territorio dell'Irpinia sta ancora vivendo. Nel corso della cerimonia sarà rispettato un minuto di silenzio alle 19.35. ALESSANDRO CALABRESE AVELLINO, AUDITORIUM BANCA DELLA CAMPANIA Avellino Nell’ambito della rassegna “TerraeMotus”, oggi sono previsti tanti momenti commemorativi, di riflessione e di valutazione. Si inizia a Grottaminarda, presso la sede irpina dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, alle 9.30. Apertura alle scuole, alla presenza del presidente Enzo Boschi e del sindaco di Grottaminarda, Giovanni Ianniciello, del laboratorio didattico “La terra trema..io no!”. Presentazione della docufiction “Non chiamarmi terremoto”, con Luciana Littizzetto, Mara Redeghieri e Ivano Marescotti. Nel pomeriggio la manifestazione si sposta ad Avellino, presso l’Auditorium della Banca della Campania. Con inizio alle 18.30. Evento commemorativo “Memoria e conoscenza”, presenta il giornalista Rai, Rino Genovese. Saluti istituzionali: Presidente Provincia, Cosimo Sibilia; il vescovo di Avellino, Francesco Marino; l’Assessore Provinciale alla Protezione Civile, Maurizio Petracca; l’Assessore Provinciale Cultura e Pubblica Istruzione, Giuseppe Del Mastro; il Direttore Generale Banca della Campania, Francesco Fornaro, il vice Presidente della Giunta Regionale, Giuseppe De Mita. Esibizione Coro di Voci Bianche e Coro Giovanile del Teatro Carlo Gesualdo. Per la Sezione dedicata alla Memoria: Filmato e lettura di un brano tratto da “Ultime voci dall’epicentro”, interviene Salvatore Biazzo. Alle 19.35, raccoglimento al suono della campane delle diocesi delle province dell’Irpinia. Intervento Direttore Generale dei Vigili del Fuoco, Guido Parisi Balletto “Post fata resurgam” a cura della scuola Danzarte Ballet di G. Alvino Per la sezione dedicata alla Conoscenza : Inter vento Direttore Centro Nazionale Terremoti INGV, Giulio Selvaggi e del sismologo INGV, Romano Camassi. Esibizione banda del corpo nazionale dei Vigili del Fuoco. Dalle 18 alle 22 mostra “TerraeMotus”, presso il Carcere Borbonico di Avellino. Sempre oggi, nella scuola di Senerchia alle 10.30, nella sala consiliare di Bonito alle 18.00 ed al Masà Dinner Club al corso Evento commemorativo “Memoria e conoscenza”, presenta il giornalista Rai, Rino Genovese. Saluti istituzionali: Presidente Provincia, Cosimo Sibilia; il vescovo di Avellino, Francesco Marino; l’Assessore Provinciale alla Protezione Civile, Maurizio Petracca; l’Assessore Provinciale Cultura e Pubblica Istruzione, Giuseppe Del Mastro; il Direttore Generale Banca della Campania, Francesco Fornaro, il vice Presidente della Giunta Regionale, Giuseppe De Mita. di Avellino alle 21.30, sarà proiettato il film documentario “Terre in Moto” di Michele Citoni, Angela Landini ed Ettore Siniscalchi (La proiezione ieri si è svolta a Bisaccia nel castello ducale nell'ambito dell'iniziativa “Né prima né dopo, Adesso. L'Irpinia che rivive 30 anni dopo”, organizzata dal locale Forum della Gioventù). A Calabritto il gemellaggio con Monterotondo Oggi quinto ed ultimo giorno di eventi per il trentennale del sisma a Calabritto, una delegazione del comune di Monterotondo sarà presente in paese. L'appuntamento è fissato alle 11 presso la palestra della scuola media comunale. Gli amministratori locali incontreranno i colleghi di Monterotondo insieme ad un gruppo di volontari che all'indomani del 23 novembre hanno partecipato alle operazioni di soccorso a Calabritto. Nell'occasione si rinnoverà il gemellaggio tra la cittadina alle porte di Roma e il comune altirpino. Nel pomeriggio alle 15 una rappresentativa di Monterotondo sfiderà la Polisportiva Calabritto in un amichevole di calcio presso il campo sportivo comunale. Alle 18 grande attesa per la santa messa in onore delle vittime del sisma presieduta dall'ex parroco Don Silvano Brambilla. Il prelato guiderà anche la processione - che avrà luogo dopo la messa presso il monumento alle vittime in piazza Matteotti. Lì si concluderà ufficialmente il cerimoniale del trentennale. Intanto ieri si è svolta la simulazione del terremoto presso l'istituto comprensivo di Calabritto, con l'evacuazione degli edifici scolastici e la sistemazione degli scolari presso la tenda campo allestita nel piazzale antistante la scuola elementare. A coordinare il piano di protezione civile è stata l'associazione di volontariato Pubblica Assistenza "Aurora". A Capriglia Irpina, invece, alle 19.15 in piazza Municipio l’appuntamento è con “Voce dal terremoto”, una performance tra musica, poesia ed immagini. Recital di Paolo De Vito con Gianluca Marino alla chitarra, Giuseppe Musto al pianoforte e violino, Salvatore Santaniello sax e flauti. Alle 19.35, poi, per non dimenticare” a cura di Felice Preziosi e le Foto di Aldo Marrone “Muta… menti. Irpinia al 2000”. A Solofra, alle 18.00, nei locali di Palazzo Orsini, sede del Municipio della città conciaria, si svolgerà l’incontro dal titolo “Voci dalle macerie”. Saranno presenti il sindaco Antonio Guarino, una delegazione degli amministratori comunali, oltre a diversi personaggi politici della zona. A Lioni la chiusura dei seminari del Gal Cisli Esperienze di sviluppo locale, le prospettive a 30 anni dal sisma Terminerà oggi, anniversario del sisma del 1980, il ciclo di seminari itineranti promossi dal Gal Cisli, dal titolo: “Esperienze di sviluppo locale nelle zone interne: problemi e prospettive a trent’anni dal terremoto del 1980”. Il seminario conclusivo del Gal Cisli si svolgerà a Lioni, a partire dalle 9.30, con il seguente programma: Saluti iniziali di Rodolfo Salzarulo, sindaco di Lioni; Ettore Mocella, Presidente Gal Cilsi; Giuseppe Di Milia, presidente Comunità Montana Alta Irpinia; Gaetano Calabrese e Stefano Farina, consiglieri provinciali. Tantissimi gli interventi previsti: Serafino Celano, Responsabile Sat/Gal Cilsi parlerà delle linee strategiche del Piano di Sviluppo di Sviluppo Locale Terre d’Irpinia; Lorenzo Barbera, del Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione, toccherà un altro tema “L’insegnamento del Belice e dell’Irpinia tra emergenza e programmazione”; Ornella Albolino dell’Università degli Studi di Napoli - l’Orientale parlerà di “Esperienze di sviluppo locale nelle aree interne”; Donato Tartaglia, responsabile tecnico del PIT Valle Ofanto, illustrerà l’esperienza del Progetto Integrato Territoriale, tra beni culturali e sviluppo; mentre Giuseppe Di Iorio, ASI Avellino, parlerà dell’industrializzazione nell’area del cratere. Le conclusioni saranno affidate ad Alfonso Tartaglia, Direttore Stapa CePica Avellino, alla consigliera regionale Rosetta D’Amelio, e al presidente della Provincia Cosimo Sibilia. Ieri, intanto, sempre nell’ambito degli incontri del Gal Cisli, a Lacedonia si è svolto il convegno "Nuova impresa e nuova economia: energia rinnovabile, ict e media. Tecnologie utili e sostenibili” a cura di Futuridea; mentre ad Aquilonia si è parlato di "Ict e nuovi media tra estetica, comunicazione, e design del territorio". Ottopagine Editore L'Approdo s.r.l. 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E che ruolo avrebbe avuto in quei giorni drammatici, segnati da una catastrofe che ha accelerato la definitiva trasformazione dell’Irpinia. Anche per questo, nel trentennale di quella tragedia, abbiamo scelto di realizzare un inserto che nella grafica ricordi i giornali dell’epoca. In queste pagine troverete contributi di straordinari inviati di quei giorni e analisi di oggi, su quello che è stato, su tutto quello che poteva essere e sull’Irpinia che non c’è più. Senza la ridondante retorica che da sempre inonda la commemorazione del 23 novembre. E, per una precisa scelta, senza le parole della politica: se ne sono sentite anche troppe in questi tre decenni. Di quei giorni vogliamo ricordare il ruolo chiave che ebbe l’informazione. A partire dalle radio locali, che fornirono per prime un quadro non generico della vastità del dramma. Con loro anche le emittenti televisive e naturalmente i giornali. Con “Il Mattino” in prima fila, che inviò decine di giornalisti per raccontare nei dettagli la tragedia e che ebbe il merito di realizzare una delle prime pagine più importanti della storia del giornalismo. Abbiamo sfogliato tanti quotidiani dell’epoca. E riletto la nostra storia con le parole di quei cronisti. Era un’Italia diversa, non solo l’Irpinia. Capace di slanci e solidarietà, ancora dentro gli anni ‘70 e non ancora corrosa dai fuochi fatui della Milano da bere e dalla tivvu spazzatura ormai alle porte. Un’Italia più ingenua, meno disincantanta. E sicuramente più innocennte. Nonostante, come scrive accanto Claudia Iandolo, quell’annus horribilis. Il 1980, appunto. Lo slancio straordinario del Paese per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto, ha rappresentato uno dei momenti più alti del nostro sentimento nazionale. Oggi temiamo che quello slancio sarebbe solo mediatico (come è accaduto in Abruzzo), e molto meno concreto, reale, sincero. Resta, il 23 novembre, lo spartiacque tra quello che è stato e quello che sarà. Su una cosa si è tutti d’accordo: l’Irpinia da quel giorno è cambiata per sempre. La ricostruzione doveva essere un nuovo inizio. Ed è stata una ripartenza. Ma non ha portato dove tutti speravano. La ricostruzione ha fallito. Non bastava edificare nuove case e sventolare l’illusione dell’industrializzazione. Bisognava, da quelle macerie, ricostruire - come si diceva una volta - anche quel tessuto sociale devastato dal sisma. Non è accaduto. E ora l’Irpinia vive un’eterna frammentazione. Non è più quella che era. E non sappiamo ancora cos’è. Una perfetta “terra di mezzo”, con poco futuro e un passato - seppur povero - che in molti non riescono a ricordare senza nostalgia. La frammentazione è evidente proprio in questo giorno. Il trentennale avrebbe dovuto unire, spingere i comuni ad organizzare una sola, importante commemorazione per quell’evento così doloroso. Una tragedia che ancora oggi trent’anni dopo - in tanti hanno difficoltà a ricordare senza commozione. E invece, niente. Ognuno per sè. In ordine sparso, nel nome del campanilismo più autodistruttivo. Si dirà, questo è il giorno del ricordo. Niente polemiche. Vero. Ma è anche giusto chiedersi cosa è accaduto in questi trent’anni. E perchè l’Irpinia “ricostruita”non ha ancora trovato la sua strada dopo quella interminabile scossa. Forse è giunto il momento di voltare per sempre pagina. Relegare quel 23 novembre nella storia di questa provincia e ripartire davvero. Oltre il terremoto, senza l’alibi di quel dolore collettivo. Anche perchè almeno un quinto degli irpini di oggi sono nati dopo quell’evento. Non conoscono quel passato, ma vorrebbero almeno capire questo presente e poter sperare in un possibile futuro. Qui, dove sono nati, e non altrove. Luciano Trapanese San Mango sul Calore. Macerie sul vuoto (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda) «Che non sia un altro Belice» Adesso niente corvi sul disastro immane Di deficienze e inefficienze ce ne saranno anche stavolta, anzi più di allora perché nel frattempo i servizi pubblici, lungi dal migliorare, sono peggiorati; perché la zona più colpita è più vasta e impervia del Friuli, di più difficile raggiungimento, di minori risorse anche umane, e perché i suoi centri abitati sono fungaie e termitai di costruzioni sconnesse e fria- Così ho visto morire il Sud Siamo a Sant’Angelo dei Lombardi, il paese che adesso tra un finimondo di automobili, di autoambulanze, di camion, di ruspe, per una folla di terremotati e di fotografi tutti con il bavaglino sulla bocca, cerchiamo di perlustrare. I tratti vuoti e puliti d’asfalto si alternano a frane oscene e macerie che fanno pensare a ventri squarciati da cui siano scivolati giù fino ai marciapiedi ed oltre le interiora. Ci inchiniamo a raccogliere sulle macerie un cassetto volato via da un comò è ancora pieno di fotografie di gente sorridente; notiamo automobili schiacciate, pestate, ridot- te a fisarmonica e sgangherate; seguiamo per un po’ la ricerca dei morti e dei vivi fatta coi cani-lupi tedeschi guidati da soccorritori con rauche voci tedesche; finalmente ci fermiamo di fronte ad una rientranza del monte di macerie, in fondo alla quale una ruspa avanza e indietreggia accanendosi, tra il polverone e la folla, ad addentrare il magma della rovina. La solita voce del coro spiega dimessa, familiare e spietata: «Con la pala sfilata della ruspa c’è chi dice che hanno tagliato in due già due sotterrati che forse erano vivi. Là dentro i morti, con rispetto parlando, sono come i canditi del panettone. Guardate, guardate, eccone uno». Sì, effettivamente, i morti stanno nella maceria come un orrendo condimento a una pasta dolce. Eccone uno: tra il polverone e la folla, distinguiamo a metà altezza una testa, mezza spalla, un braccio tutto pesto di un colore grigio-ghisa, che sporgono immobili e rigidi dal magma polveroso. Intanto il coro continua: «Ce ne sono tanti sotto terra che sono vivi come noi qui fuori, ma ancora per poco. Si lamentano, chiamano e poi, alla fine, non dicono più niente». Alberto Moravia (L’Espresso, 1980) bili. Quindi prepariamoci a ogni sorta di ritardi e sfasature, che noi ci riserviamo di segnalare e criticare. Ma senza rabbia. Perché di rabbia questo non è tempo. «Che non sia un altro Belice», ha scritto a botta calda un giornale. E noi siamo d’accordo. Ma non siamo d’accordo sul sottinteso polemico di queste parole perché dobbiamo affrettarci ad aggiungere che per non fare un altro Belice, lo Stato non basta. Oramai bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno. E le cose – per amaro che sia il doverlo riconoscere – stanno così. Lo Stato, è vero, non fece nel Belice tutto quello che poteva e doveva fare. Ma nemmeno la popolazione fece tutto quello che poteva e doveva fare. Preferì afflosciarsi nelle braccia dello Stato nella convinzione che toccasse solo allo Stato rifonderla, se non dei lutti, dei danni subiti. Non vogliamo provocare polemiche prima ancora di aver seppellito i nostri morti, che devono unirci, non dividerci. Contiamoli. Piangiamoli. Eppoi al lavoro: tutti, e senza rabbia. Indro Montanelli (“Il Giornale nuovo”, 25 novembre 1980) Dalle mie parti siamo tutti esperti di terremoto, almeno quelli che quando venne la scossa erano adulti: ventitré novembre 1980, le sette e mezza della sera, la terra fa tremare tutto l’Appennino meridionale, l’epicentro è tra le province di Avellino, Salerno e Potenza, una decina di paesi completamente distrutti (Conza, Laviano, San Mango, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, solo per ricordarne alcuni) altre centinaia danneggiati più o meno gravemente, tremila persone morte, schiacciate dal peso delle case rotte, adesso penso al fatto che non tutte sono morte subito, c’è chi sarà rimasto in agonia per qualche ora, chi avrà sentito i soccorritori che stavano per raggiungerlo e non ce l’hanno fatta a prendergli le mani, il terremoto dal punto di vista dei morti è una cosa fatta di travi sulla pancia, di buio, di gambe rotte, è un trovarsi nella spina della vita all’improvviso, sei con la bocca davanti alla maniglia della tua stanza, guardi un televisore spento, stavi vedendo la partita, tua moglie era in cucina che preparava la cena, giocavano la Juventus e l’Inter, ma non sai com’è andata a finire, sai che sta finendo la tua vita e ti fa rabbia che continua quella degli altri, ombre che staranno lì a spartirsi questo curioso bottino che è il tempo che passa, tu sei stato appena riportato tra loro, non puoi sapere che stanno polemizzando sui soccorsi che non sono arrivati, è arrivato il presidente della Repubblica e ha fatto una scenata alla classe politica, quella che ignorava che il cemento della tua casa era disarmato, quella che non si è preoccupata che la casa in cui è morta tua madre era fatiscente nonostante tu vivessi nel mondo che si dice progredito, il mondo che anche nel tuo paese aveva voltato le spalle alla civiltà contadina per sistemarsi nella modernità incivile, è in nome di questa modernità che cominciarono a ricostruire la tua casa e quella degli altri, pensarono perfino che non bastavano le case, ci volevano anche le industrie, ora molte di quelle case sono chiuse come la tua cassa da morto e lo stesso è avvenuto per quelle industrie, non sai che questo fatto a un certo punto è stato utilizzato per combattere quelli che comandavano in queste zone, non sai che le persone del nord Italia che vennero qui ad aiutare furono assai deluse dal sapere di tanti sprechi (si parla di una spesa di sessantamila miliardi di lire, ma i conteggi cambiano a seconda di chi li fa) e diedero credito a un partito che nasceva per dire basta con questa storia del sud, il problema siamo noi, i soldi che facciamo col nostro lavoro non ce li deve togliere nessuno, e infatti nessuno glieli ha tolti, come nessun scandalo a noi ci ha tolto quelli che comandavano e che comandano ancora e che adesso fanno coi fondi europei quello che fecero col terremoto, pure questa è una faccenda scandalosa, ma per ora non fa notizia, manca il detonatore della tragedia, intanto pure l’ingegnere che ha costruito la tua casa caduta non è andato in galera e neppure chi l’ha ricostruita in maniera piuttosto orrenda, il terremoto per te è finito con la fine della scossa, ma per gli altri è continuato molti anni ed è stato una corsa a fare soldi, in questa corsa non c’era tempo per pensare alla bellezza dei paesi, il problema era solo allargali, allungarli e l’opera è stata compiuta con genio e vi hanno partecipato un poco tutti, dal parlamentare che ha fatto la legge per cui si potevano aggiustare anche case che non si erano rotte, all’architetto che ha disegnato con la matita della venalità, al cittadino che si è messo in fila ad attendere quello che gli spettava e se possibile anche qualcosa di più, ora tutti si lamentano, tutti a dire che si stava meglio prima del terremoto, tutti a rimpiangere un tempo in cui si era più uniti e più buoni, a me pare di averla vista questa bontà e questa unione solo fino a quando è durata la paura, fino a quando la gente ha dormito nelle macchine, fino a quando abbiamo cercato di salvarti, poi è andata un po’ come ti ho detto. Franco Arminio Un annus horribilis Fu un annus horribilis sotto tutti i punti di vista. Una specie di ingorgo temporale nel quale molti fatti negativi si diedero appuntamento, per caso o per tragica fatalità. Un anno da “prima repubblica”. Formula mendace, che allude ad una seconda, (diversa e migliore) che molti di noi stentano a riconoscere. In economia il fenomeno si chiama stagflazione, complicazione imprevista, che significa presenza di inflazione e stagnazione, quindi aumento generale dei prezzi e mancanza di crescita dell’economia in termini reali. Il 1980 è l’anno, tra quelli di piombo, che registra il maggior numero di vittime, centoventicinque. Ci sono gli omicidi eccellenti, come quello, il giorno dell’epifania, di Mattarella, presidente della regione Sicilia, uomo “nuovo” della diccì. E come quello di Vittorio Bachelet, giurista, politico, dirigente dell’azione cattolica, freddato in febbraio, al termine di una lezione, alla Sapienza di Roma, mentre parla con Rosy Bindi, sua assistente. E ci sono le stragi. Ottantuno persone disintegrate nel cielo tra Ustica e Ponza il 27 giugno. Cedimento strutturale, missile, bomba a bordo, collisione o semicollisione in volo: il solito mistero italiano, destinato a rimanere tale, il solito deprimente strascico di morti sospette negli anni successivi. segue a pagina 2 Claudia Iandolo II Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 In quella pagina nera la luce dei volontari Arrivarono in migliaia per aiutare l’Irpinia La straordinaria storia degli angeli del terremoto - C’erano anche Vetere, Alemanno, Emiliano e Gasparetto, un giovane trevigiano, morto mentre era al lavoro nel campo a Sant’Angelo dei Lombardi Furono il faro nel buio della tragedia, l’unico punto di riferimento forte che si sostituì ad uno stato assente, inerme, incapace ed inadeguato ad affrontare un disastroso di simili dimensioni. La pagina più importante durante i giorni ed i mesi dell’emergenza, quella che non ha mai suscitato polemiche, controversie ma solo esempio, ammirazione e gratitudine l’hanno scritta sicuramente loro, i volontari, il mondo dell’associazionismo. L’indignazione davanti alle telecamere, circondato dalle macerie e dalle urla di disperazione della gente dell’amato presidente della Repubblica Pertini, il 26 novembre dell’80 “ Vergogna! non sono ancora arrivati i soccorsi” contribuì a scuotere le coscienze, centinaia di persone, uomini e donne, da ogni parte d’Italia partirono per l’Irpinia devastata senza pane e senza ruspe per scavare tra le rovine delle case. Vennero dalla tutta la penisola, ma anche dalla Francia, dalla Germania, dall’Olanda dal Belgio, dall’Austria, dall’ex Juguslavia. La definirono l’Italia del cuore, fu sicuramente l’ultimo grande atto di solidarietà nazionale. Fecero fronte all’emergenza e portarono per mano amministratori e popolazione verso la rinascita attraverso l’istituzione di servizi e l’impianto di strutture. Furono volontari tra le macerie dell’Irpinia, tra gli altri, l’allora sindaco di Roma Ugo Vetere, l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno, allora giovanissimo che arrivò a Sant’Angelo con altri ragazzi del Fronte della Gioventù, l’attuale primo cittadino di Bari Michele Emiliano che fu volontario a Conza della Campania, l’ex vice presidente del consiglio europeo Luisa Morgantini che a Teora fondò “L’altra metà del cielo, la prima cooperativa femminile nella storia dell’Alta Irpinia, il motto di quelle donne era “ Vogliamo viaggiare, non emigrare”. Era un giovane volontario veneto l’attuale parroco di Lioni, don Tarcisio Gambalonga che in questa terra è rimasto, ha scelto di continuare la sua missione pastorale e la sua vita, non si è fatto mai più prendere dalla nostalgia del suo ricco Nord Est. Potremmo citare centinaia di nomi e di storie nella storia, innumerevoli esempi di strutture donate dal mondo dall’associazionismo o ricordare l’ospedale da campo con 90 tra medici paramedici allestito dai tedeschi, un altro ospedale militare da campo impiantato dagli austriaci, l’equipe francese super specializzata nella ricerca dei superstiti. Potremmo menzionare che gli aiuti arrivano da ogni parte del mondo, i più copiosi dagli Stati Uniti, ma finanche l’Iraq e l’Algeria fecero delle donazioni in denaro. Oggi sull’ospedale di Sant’Angelo pende la spada di Damocle della chiusura, mentre nel 1982 la Croce Rossa francese e quella italiana donarono le strutture dell’o- spedale provvisorio. La Croce Rossa Italiana invio’ solo a Sant’Angelo dei Lombardi un gruppo di 48 esperti per le emergenze, ma anche infermieri volontari e soccorritore. Così come occorre dare rilievo anche al grande contributo dei Vigili del Fuoco, militari dell’Esercito Italiano, Caritas , Forze dell’Ordine e tutte le altre associazioni di volontariato. A Torella dei Lombardi, la Croce Rossa Svizzera donò una intera area di prefabbricati. A Lioni il primo consultorio familiare fu aperto il 20 dicembre dell’80 in una casetta di legno donata dai medici veneti. Lorenzo Barbieri, che veniva dall’esperienza del Belice, fondò sempre a Lioni il Cresm, un’associazione senza scopo di lucro che promuove e opera con progetti di sviluppo locale, di solidarietà e cooperazione con le fasce sociali e con i territori più svantaggiati. I centri sociali donati dal sindacato in tutti i comuni distrutti dal sisma diventarono centri di aggregazione. A Caposele il comune di Milano realizzò la piscina che fu il primo impianto natatorio dell’intera provincia. . Il comune di Teora ha giustamente voluto ricordare il sacrificio di un giovane volontario, non aveva neppure 30 anni quando morì folgorato nel paese altirpino. Arrivò in Irpinia durante le vacanze di Natale dell’80 per dare una mano, lui era un dipendente dell’Enel, Dio solo sa quanto ci fosse bisogno di aiuto a ripristinare l’elettricità in quei giorni. Fu folgorato mentre stava allacciando la luce negli spogliatoi del campo sportivo. Oggi a Teora c’è via Gasparetto, il nome di quel ragazzo di Povegliano in provincia di Treviso che rinunciò alle vacanze di Natale per aiutare i terremotati dell’Irpinia. L’eredità immateriale, se possibile, è Me lo scempio edilizio già c’è I paesi presepi fanno comodo I paesi-presepi: una delle espressioni più retoriche e mistificanti che siano venute fuori su questa grande tragedia del terremoto. Chi la legge o la sente non sa precisamente cosa vuol dire, ma intravede l’idillio, la serenità, la semplicità, la sicurezza dei rapporti umani, la genuinità delle cose oltre che degli uomini, il silenzio. Suggestionati dal fatto che la catastrofe è giunta improvvisa a cancellare tutto, si è quasi portati a credere che abbia cancellato quel particolare tipo di vita: la vita da presepe nei paesi-presepi. Ma basta un momento di distacco, di rifles- sione, per prendere coscienza che quel tipo di vita già da un pezzo era stato cancellato. Quelli che ora si chiamano paesi-presepi già rigurgitavano di automobili, di televisori, di elettrodomestici, di abusi e scempi edilizi, di fragori, di prodotti industriali di pane fatto con improbabile farina e di formaggi fatti con probabili veleni. Come ogni altro paese italiano grosso, piccolo o minimo. E – si capisce – di corruzione: come le grandi città, le regioni e l’intero Paese. Leonardo Sciascia (“Il Mattino”, 4 dicembre 1980) stata ancor più profonda, legami forti che il trascorrere degli anni non ha scalfito, insegnamenti di vita, esperienze, gemellaggi. Un altro effetto diretto di quel patrimonio lasciato in Irpinia dal volontariato è la nascita di varie associazioni in questo territorio, sono stati i tanti volontari irpini che a loro volta si sono recati a portare soccorso ed a mettere a disposizioni delle popolazioni colpite dal terremoto in Umbria e a L’Aquila la loro esperienze e le loro conoscenza soprattutto in campo tecnico di ricostruzione. A tutti i volontari , a tutte le associazioni, l’Irpinia dopo 30 anni non può che può far risuonare forte il suo: Grazie. Paola De Stasio La rinascita si è colorata di rosa con la coop “L’altra metà del cielo” Le ragazze partite per Milano - Tra il dolore e l’entusiasmo - Quei momenti di straordinaria solidarietà - I Comitati popolari e l’impegno di gran parte della popolazione - Un esempio contro l’egoismo di oggi “Vogliamo viaggiare non emigrare” lo abbiamo usato per la cooperativa delle donne “la metà del cielo” ma anche nelle manifestazioni per rivendicare, sviluppo, lavoro, ricostruzione, in quell’anno di tragedia che aveva colpito Teora , l’ Irpinia e la Campania. Lo slogan mi era venuto da un film interpretato di Troisi,- credo fosse “Ricomincio da tre” lui fa l’autostop, va verso il Nord, il signore che gli da un passaggio gli chiede: emigrante? E lui - no, voglio viaggiare. Era stato difficile convincere le famiglie a lasciare andare a Milano alcune delle dieci ragazze di Teora anche se per poche settimane, per imparare a dipingere su stoffa, e restare lì nella loro terra ed essere libere di lavorare e di lavorare insieme, in una cooperativa. Ma è stato un passo importante in cui famiglie e giovani sono cresciuti hanno insieme con il lavoro scoperto la loro libertà e la loro forza. Potevano farcela. Naturalmente noi ce l’abbiamo fatta grazie all’aiuto del Sindacato ma anche alla Comprensione che il Sindaco di Teora, diverso da me per idee politiche ma che ho davvero apprezzato per la sua umanità e i consiglieri compresero l’importanza di quel nostro volere un lavoro, di emanciparsi, per dirla con una vecchia e desueta parola e diedero il terreno per la costruzione del locale della cooperativa. Quanto allegria c’era fra noi, le giovani erano entusiaste, eravamo partite dal fatto che nel paese molte sapevano cucire, invece di farlo da solo avremmo potuto farlo insieme. L’idea era anche quella di uscire dalla tradizione ed imparare anche a disegnare. Alcune erano bravissime nel disegno, e ancora conservo, camicie da notte grembiuli da cucina, tovaglie. Perché poi bisognava vendere questi prodotti e per un po’ dopo che avevo lasciato Teora li vendevamo nelle fabbriche, durante le assemblee e i congressi dei Sindacati. Cercavamo di trasformare il circolo vizioso in circolo virtuoso, superare la tragedia per rinascere. Sono stati momenti straordinari in cui la solidarietà è stata grande, così come la creatività politica ricordi i Comitati Popolari, e l’impegno di grande parte della popolazione. Per me Teora e la sua gente, con le sue grandezze e debolezze è L’unico ricordo positivo: Pertini, il presidente più amato 1980, fu un annus horribilis Scandali, stragi e il 23 novembre segue dallaprima Ottantacinque vittime e duecento mutilati è il bilancio dell’attentato alla stazione di Bologna, sabato 2 agosto. Una strage per la quale esiste una verità giudiziaria, ma sulla quale aleggiano ancora fantasmi di complotti e depistaggi piduisti. A settembre cade il governo. Due democristiani vanno provvidenzialmente al gabinetto (nel senso di wc) e Cossiga va sotto per un voto. Lo scontro si gioca intorno al destino dell’Alfa Romeo che la Nissan intende rilevare, con una società mista. L’accordo non si farà. Il clima, non solo politico, è incandescente: la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. Cominciano scioperi ad oltranza. Enrico Berlinguer, Pci, annuncia che non farà mancare il proprio appoggio all’occupazione delle fabbriche. La rottura del dialogo con i sindacati culminerà in quella che è definita la “marcia dei quarantamila”, o dei “colletti bianchi”, o della “maggioranza silenziosa”. I “quadri” manifestano il 14 ottobre contro i picchettaggi degli operai che impediscono da trentacinque giorni l’accesso alle fabbriche. È l’inizio di una débâcle, l’annuncio di quello che sarà per gli anni a venire, e cioè una perdita lenta e inarrestabile del ruolo dei sindacati, e la progressiva, consequenziale erosione dei diritti dei lavoratori. Settembre, intanto, si è chiuso con la nascita di una nuova emittente televisiva. Si chiama Canale 5. Il proprietario è un imprenditore del nord: idee chiare ed amicizie politiche giuste. È solo l’avvento della Tv commerciale, e invece no, è anche l’inizio di qualcos’altro, ma è davvero difficile prevederlo. Del resto sono gli anni dello yuppismo, acronimo che sta per Young Urban Professional, e della “Milano da bere”, rampante, moderna e spregiudicata, negli affari come nello stile di vita, sotterrata nel giro di un decennio dalle inchieste di “mani pulite”. Il terremoto del 23 novembre si porterà dietro l’eco di uno scandalo, l’Irpiniagate. Sessanta miliardi di finanziamenti dispersi nei mille rivoli della clientela politica, sui quali non si è mai fatto chiarezza, il mistero del caso Cirillo, e l’incredibile assoluzione di un’intera classe politica, responsabile, quanto meno, di non aver saputo gestire uno sviluppo possibile. Quando Pertini, di fronte allo sfacelo, alla disorganizzazione e alla disperazione dei sopravvissuti s’indignò, pensammo in tanti, che un’altra politica fosse possibile, che un’altra Italia e un altro sud potessero nascere a partire da quei giorni in cui la solidarietà sembrò l’unica resistenza possibile di fronte alla precarietà dell’esistenza. La terra aveva tremato. Ma i terremoti, come tutte le altre catastrofi naturali, di fuoco, d’acqua e di vento, hanno questo di particolare: durano per gli anni a venire. Eravamo giovani, il presidente partigiano ci piaceva: burbero ed informale. Umorale ed emotivo. Lo abbiamo amato. Ed è l’unico ricordo positivo di quell’annus horribilis. Non lo sapevamo, ma lo avremmo imparato presto: il terremoto aveva solo accelerato un processo inevitabile, traghettandoci verso la modernità cattiva di un neoliberismo senza regole. Claudia Iandolo stato un momento straordinario della mia vita. Ho imparato molto, da tutti e sono stata accolta. Vorrei essere con voi, ma sono a Londra per il Tribunale Russell sulla Palestina, non potevo mancare, anche qui si vedono le responsabilità delle violazioni dei diritti umani e sociali e le complicità dei nostri paesi. Vorrei ascoltarvi ed imparare ancora una volta, ma cercherò di sentire da Stefano Ventura che conoscevo bimbo e che in questi anni si è dedicato alla ricerca e tiene viva insieme a tutte e tutti voi la memoria rendendola fertile perché non solo ci si interroga, ma si agisce perché un piccolo esempio di una cooperativa di donne possa essere di sprone per agire oggi affinchè il diritto al lavoro, diventi una realtà per tutte e tutti. Un abbraccio forte e mi prometto di tornare e di essere con voi nel vostro agire. Grazie, perdonate la fretta, ma sto scrivendo dimenticandomi che qui a Londra siamo ad un ora prima di voi e Marino freme per ricevere in tempo questo messaggio. A quel tempo a Teora dicevamo che la solidarietà è la tenerezza dei popoli, voi cercate di farla vivere in tempi n cui l’egoismo sembra far parte sempre di più della nostra società Grazie. Luisa Morgantini Ex vice presidente del Parlamento Europeo La lettera a Giovanni Pionati L’Avellino perduta e gli sconci edifici (…) Percorrendo la nuova Avellino, tu non mancasti di mostrarmi qualche bel quartiere, dove l’interesse privato una volta tanto non aveva prevaricato su quello pubblico. Ma lungo le vie del cemento ben rari spazi erano stati lasciati alla vecchia Avellino: pochi alberi di un lussureggiante parco, il “vasto Capozzi” e qualche rudere di tufi. Poi imboccammo la strada che Bernardo Tanucci lanciò da Napoli alla Puglia per i progressi civili del regno di Carlo III. Fra i tanti “concessionari” di auto e fra un supermarket e l’altro, a stento erano riconoscibili le taverne delle antiche “poste”. Si inseguivano i micrograttacieli e le variopinte insegne dove si esalta il consumismo e si sfoggia tutto l’extra-italiano che si può nella periferia dell’impero americano. Sui miseri vecchi relitti si sfogavano epigrafi sfregnanti. “Scriveteli addosso a noi i vostri sberleffi, noi cultori di ciò che è finito per sempre!” (avrei voluto gridare). Tornai a casa affranto. Non ne potevo più di andare in giro tra quegli sconci edifizi, dove sarebbe difficile valutare chi abbia prodotto più danni, se i bombardamenti a tappeto dei liberatori, o il terremoto, o le rifiorenti camorre dei ricostruttori. (…) (da L’erranza, Il Girasole edizioni, lettera a Giovanni Pionati) Carlo Muscetta Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 III Radio Alfa e Radio Irpinia nei giorni della catastrofe Gli aiuti viaggiano via etere Le notizie con i telegrammi Quei cento interminabili secondi - Il ruolo svolto dalle radio La roulotte nello spiazzale del Partenio - II messaggi dei terremotati - I nomi e le storie negli archivi delle trasmissioni Durò cento secondi la scossa di terremoto del 23 novembre 1980. Non avrei mai creduto che in poco più di un minuto e mezzo si potessero pensare tante cose. E a distanza di trent’anni li ricordo tutti quei pensieri, uno per uno. Una premessa: abitavo allora quasi all’inizio di via De Gasperi, la via della serie A. Lungo questa strada stavano sorgendo numerose palazzine e spesso i pesanti camion diretti ai cantieri, sobbalzando sulla strada sconnessa, facevano vibrare i vetri delle finestre. Al primo sobbalzo di quel 23 novembre pensai istintivamente che stesse passando il solito camion (come se fosse normale che alle sette e trentaquattro di una domenica sera fossero aperti i cantieri e ancora si lavorasse). Ma le vibrazioni, anzi il tremolio, continuava sempre più intenso: “Forse è una fila di camion. Non è possibile che passino tanti camion, e poi è domenica (ecco, me l’ero ricordato). E’ il terremoto. Ma non si ferma più. Finirà per crollare tutto. Non è possibile che il palazzo resista a una scossa così lunga. Prima di essere sepolto nel crollo forse è meglio lanciarsi dal balcone. Sto al terzo piano, con un po’ di fortuna me la cavo con una gamba rotta. Ma mia moglie è incinta di tre mesi, non posso mica buttarla dal balcone. Povero figlio mio, morirà prima di essere nato. Però le pareti reggono ancora, forse il palazzo non crollerà interamente. Forse spezzoni di muro, pezzi di pavimento resteranno sospesi nel vuoto e se siamo fortunati potremmo esserci noi su quei pezzi superstiti di cemento e calcestruzzo. E’ finito, è finito davvero. Siamo vivi. La casa ha retto.” Tutto in cento secondi. Radio Irpinia trasmetteva da Corso Europa. A quattro anni dalla nascita era ormai una realtà viva della città e della provincia. Insieme con Radio Alfa, che aveva iniziato le trasmissioni appena con qualche mese di anticipo erano le emittenti locali più seguite ed autorevoli, la prima leader nel settore dell’informazione, la seconda nel settore musicale e di intrattenimento. Dalla prima sede, all’ultimo piano di palazzo Scalona, all’angolo fra via Matteotti e corso Europa, Radio Irpinia si era da poco trasferita a una cinquantina di metri di distanza. Nel cortile dell’edificio di Corso Europa che ospita ancora oggi la redazione provinciale de “Il Mattino” avevamo ricavato degli uffici e, sotto al piano di calpestio, lo studio e la sala di trasmissione. Quel 23 novembre, alle 19.34, in attesa che arrivasse Tonino Carrino a leggere il radiogiornale delle 20.30 (già pronto), Carmine Ciccarone mandava in onda brani musicali del suo amato Lou Reed. Passerà quasi una settimana prima che riprendessimo possesso della nostra sede. C’era il rischio che la sala di trasmissione, ricavata in una specie di cantina si trasformasse in una trappola per topi, in caso di ulteriori scosse. Attendemmo che i tecnici effettuassero i sopralluoghi e ci tranquillizzassero. Nel 1980 non c’erano ancora i telefoni cellulari e neppure i computer. Esisteva soltanto la rete di telefonia fissa, che quasi ovunque il terremoto mandò fuori uso e in alcuni centri dell’Alta Irpinia ci vollero giorni perché fosse ripristinata. E del resto chi c’era nelle case a rispondere al telefono? In molti casi non c’erano più neppure le case. Apparve subito chiaro che l’unico mezzo efficiente di comunicazione era costituito dalle radio. La rete dei radioamatori rispose immediatamente e si rivelò di fondamentale importanza, soprattutto nelle prime ore dopo il sisma, per indirizzare i soccorsi e fare un quadro preciso della drammatica situazione, che, all’inizio, era stata sottostimata, proprio per le difficoltà nelle comunicazioni. E poi le radio private che divennero vere e proprie radio di servizio. Ad esse ci si rivolgeva da tutto il mondo per avere notizie dei parenti e degli amici irpini, esse divennero il megafono per lanciare appelli e pressanti richieste. Il direttore di Radio Irpinia, Peppino Impagliazzo, “requisì” al fratello, che viveva a Roma, una roulotte attrezzata per il campeggio invernale, con il riscaldamento interno assicurato da una bombola di gas. Perché il 23 novembre era una bella giornata autunnale, ma subito dopo vennero giorni freddi. La posizionammo nello spiazzale dello stadio Partenio. Lo stadio sembrava aver retto bene, e ci dava, in particolare, sicurezza la tribuna stampa, collocata all’epoca di fronte a quella attuale. Vi erano alcune utenze telefoniche a disposizione delle emittenti campane per le radiocronache delle partite interne dell’Avellino. Chiedemmo di poterle utilizzare, trasportammo lì il trasmettitore e riprendemmo a trasmettere. Per quasi una settimana facemmo come suol dirsi casa e…bottega. Dormivano nella roulotte e al mattino iniziavamo a trasmettere dalla tribuna stampa del Partenio. Radio Irpinia divenne, insieme a Radio Alfa e ad altre emittenti locali, un vero e proprio call center, un centro di smistamento di telefonate provenienti da ogni parte del mondo, parenti ed amici che si cercavano, notizie che si rincorrevano, ospitalità che venivano offerte: “Pino Bartoli, abitante in via Ammiraglio Ronca, è pregato di dare notizie di sé all’amico Vittorio Amendola, telefonando allo 06.…” “Il piccolo Luca Minicucci di 9 anni di S. Angelo dei Lombardi (del quale i familiari chiedevano notizie) risulta affidato ad una famiglia di Avellino. Un parente del ragazzo, Vittorio Martone, prega la famiglia che lo ha in custodia di mettersi in contatto con lui, telefonando al…..” “Padre Paolo Petrillo, del convento francescano di Montoro superiore, è pregato di telefonare, per dare notizie al nipote Gino, al seguente numero di telefono…” “Il signor Antonio Laverde, abitante in Avellino alla via Gramsci 20, è pregato di dare sue notizie alla signora Corvino di Napoli”. Ricordo le tante offerte di ospitalità, in una gara di solidarietà commovente: “ Coloro che volessero affidare temporaneamente i propri bambini a famiglie di Terni possono rivolgersi a Telecentritalia” “Nella città di Latina sono disponibili 800 posti letto per accogliere i sinistrati. Rivolgersi alla prefettura di Latina” “Alcune famiglie di Pesaro si sono dichiarate disponibili per ospitare bambini. Gli interessati possono rivolgersi a Radio Irpinia” “Sono disponibili ad Ischia 500 posti letto per bambini o adulti. Gli interessati possono far capo alla clinica Malzoni” “Mario Piras, un finanziere originario della Sardegna ma residente a Latina, è disposto ad ospitare nella propria abitazione due bambini e un adulto” E le radio furono anche il più immediato ed efficace strumento per lanciare appelli e chiedere soccorso: “Dalla roulotte segreteria della prima circoscrizione viene lanciato un appello affinchè venga- no recapitati con urgenza calzerotti, ginocchiere e pezze di lana” “La colonna di soccorso dell’Aci di Padova, giunta in Irpinia con roulotte è ferma presso l’azienda Seca-Sud di Serino perché ha perso i contatti col capocolonna, che ha con sé i documenti necessari per l’assegnazione delle roulotte ai sinistrati. Pertanto il capocolonna è pregato di mettersi in contatto con l’azienda SecaSud.” “Situazione critica a Rione Mazzini, sono giunte solo tre tende in una zona dove vi sono circa 120 famiglie.” “Vi è urgenza di una roulotte nel comune di Santa Lucia di Serino, per alloggiare una famiglia con un bimbo di un anno e mezzo in precarie condizioni di salute.” Addirittura le radio locali svolsero un’azione di collaborazione con volontari e autorità locali, per lo smistamento dei soccorsi “Le persone che sono fornite di auto con gancio a trazione sono pregate di portarsi presso l’entrata principale della caserma Berardi, in quanto vi sono numerose roulotte ferme. La destinazione già e stabilita.” E per venire incontro ai terremotati anche nelle loro esigenze pratiche: “Chiunque voglia inviare telegrammi in Italia e all’estero può telefonare alla nostra emittente per dettarne il testo. I nostri collaboratori provvederanno all’inoltro presso l’ufficio postale di via De Sanctis. Il servizio è gratuito”. Trent’anni fa non c’era la protezione civile. Fu organizzata -è storia nota- propria a partire dal terremoto dell’Irpinia. Ci furono però migliaia di volontari, di militari, di vigili del fuoco, di uomini delle forze di polizia, di giovani e meno giovani della nostra provincia, che accorsero a volte con pressappochismo e disorganizzazione, ma animati da tanta buona volontà ed altruismo. A mettere insieme le centinaia di fogli degli archivi di Radio Irpinia emergono nomi, volti, città, organizzazioni di volontariato che, messi uno accanto all’altro, compongono un gigantesco album dell’Italia del 1980, forse meno organizzata ed efficiente dell’Italia di oggi, ma anche tanto meno cinica ed egoista. Nunzio Cignarella Un cimitero nel cimitero Ci sono giorni in cui si muore in molti. Sono i giorni delle grandi sventure. Quel giorno in questa terra fu il ventitré novembre del 1980. Oggi è domenica, nel cimitero di Conza sono le undici del mattino. I morti del terremoto sono quasi tutti sulle stesse file, un piccolo cimitero dentro il cimitero. Facce di uomini e donne di ogni età. Facce e storie che non ho mai incrociato. Ora di ogni persona che vedo vorrei conoscere cosa diceva, cosa faceva. Dall'addobbo della lapide a volte si capisce che si tratta di persone di una stessa famiglia. Ecco Luisa Masini, nove anni, col gatto in braccio. Sotto di lei Valeria Masini, dodici anni, e poi Maria, quarantatre anni, la madre. Il pensiero va subito al padre, chissà dov'è nel mondo a trascinarsi con la sua pena. Più avanti un'altra famiglia: Gino Ciccone, quarantanove anni, e poi Michele di dieci e Alberto di ventuno. Quelli che sono qui certamente si conoscevano tutti. Era domenica pure allora, vissuta fino al tramonto nel più caldo sole novembrino. Qualcuno squadrò la pietra su cui ora mi allaccio le scarpe, l'eresse, l'imbiancò di calce. Dalla finestra dove un'erba verdemalva pende verso terra qualcuno aveva posto una fitta pianta di basilico. Ora questo paese è una teca di rovine. Ci sono solo tre famiglie. Tre case lontane tra loro. In una di quattro piani vive la famiglia Tufano. Quando ci fu il terremoto Il futuro comincia domani o mai più Se non si riprende Conza sarà subito vuota «Dice che un tempo lontano, noi conzani eravamo 60.000. Mi pare un’esagerazione. Oggi non arriviamo a 500 (s’intende, nelle casette del centro urbano provvisorio: e qui forse esagera un po’ lui, il professionista stempiato che mi sfoga le sue amarezze nell’ufficio tecnico del Comune: certo è che fra il ’51 e il ’79 Conza registra un saldo migratorio di 38,5%, appesantito poi molto dal terremoto, n.d.r.). e scenderemo ancora. Qua il reddito agricolo non è sufficiente per campare, ma necessario è. O si dà subito a queste persone che stanno a girarsi i pollici da un anno e dispari, gli si dà subito la possibilità di rifarsi una rimessa per il trattorino, una cantina, e subito si riavvia questo minimo di agricoltura con quel minimo di artigianato e commercio che alimenta, opportunamente con la primavera qua si chiude baracca: non saremo più abbastanza da permetterci manco un barbiere». «Allora, addio grandi programmi incrementizi; e addio anche a questo progetto di trasformare tutta Conza vecchia in un parco archeologico a strati, una specie di Troia dell’Irpinia che è un progetto anche ottimo, peccato che invece di concretizzarsi si moltiplica, e invece potrebbe infilzare Conza nell’asse turistico Monticchio-Laceno, e potrebbe smuovere il terziario, e potrebbe qualificare giovani del posto l’archeologia, è impressionante quanto affascina i ragazzi che stavo dicendo? Niente: addio Conza! La gente è delusa nel cuore e se ne va». Sperare è un vecchio vizio contadino. Ma ormai questi sono andati a lavorare in giro per mezzo mondo, e non si rassegnano più a fare dei propri figli «carne della speranza». Il futuro della minima ed antichissima comunità conzana o comincia domani mattina, o non comincia più. Vittorio Sermonti (“l’Unità”, 19 gennaio 1982) abitavano alla stazione di Conza, ma già si erano costruiti questa casa, perché la loro doveva lasciar posto alle acque della diga. La signora che mi sta raccontando queste cose è piccola e coi capelli bianchi, ma ha l'aria di chi trascorre il suo tempo in una sofferenza rassegnata. Lei è qui dall'ottanta. Occupa un appartamento. In un altro c'è la figlia, sposata con due figli. Attirato dalla nostra conversazione interviene il marito. Il suo tono è più animoso. Vive qui da quasi mezzo secolo, ma non ha dismesso nella voce l'accento napoletano. Viene da S. Gennaro. Suo padre, commerciante di stoffe, lasciò il paese vesuviano nel caos del primo dopoguerra e prese stabile dimora a Conza nel cinquantadue. Il signor Ciro ha proseguito il lavoro paterno. Ed ora ha questa grande casa che non vale niente. Quattro appartamenti: "uno per noi e gli altri per i tre figli". Ma oggi Ciro Tufano e la moglie Saveria di figli ne hanno solo due: uno morì la sera del terremoto. Si chiamava Ernesto e aveva dieci anni. Come molti morì scappando. Era nella casa di uno zio. Lì alla stazione di Conza ci furono molti morti, morì anche il capostazione. Adesso quella stazione non c'è più. Quando le acque della diga si abbassano spunta ancora la casa dei coniugi Tufano col tetto a due acque. Il signor Ciro è arrabbiato. Lui è venuto a vivere quassù perché la sua casa non era caduta. Fece qualche piccola sistemazione e si mise dentro, mentre tutti gli altri cominciavano la loro vita nella valle: prima nelle baracche della Ferrocementi (usate dagli operai durante la costruzione della diga) poi nelle roulotte, quindi nei prefabbricati leggeri e infine nelle sospirate case in muratura. Il piano di recupero di Conza prevedeva che dovessero rimanere in quella zona una cinquantina di abitazioni, ai margini del parco archeologico che comprende tutto il resto del paese e che ora stiamo percorrendo a piedi. Seguendo la via pila si arriva al ristorante "da Michelina". Il ristorante è chiuso. La signora lo aveva dato in gestione, e il gestore, a suo dire, non si è rivelato all'altezza. Ora altri vorrebbero rilevare il locale, ma la strada di accesso è chiusa. Le case che dovevano essere sistemate sono ancora lì, pericolanti. I proprietari sperano di poterle delocalizzare, aspettano che in misteriosi uffici venga approvata la variante al piano di recupero. Intanto vado a vedere il paese nuovo. Il paese certo doveva essere più bello sul plastico dell'architetto che non su questa piana paludosa. Il paese vecchio aveva un solo accesso, questo è aperto e può essere infilato da ogni lato. Vi arrivo con lo sguardo pronto a catturare ogni dettaglio. Ecco il piccolo monumento a ricordo della tragedia. C'è un ferro contorto, spunta dalla base di cemento armato che accoglie la lastra metallica con la lista dei morti: quattro file di quarantasei nomi, inutile fare la somma. Vado a cercare con gli occhi dove si trova Ernesto: era nato il venticinque aprile del settanta. Qui non c'è neppure il problema di parcheggiare la macchina. Mi fermo davanti a un bar posto in un prefabbricato. C'è una bandiera della Ferrari e qualche persona che discute. Al centro di un quadrivio un gruppo di persone adulte. Chiedo del sindaco. È proprio lì, al centro del gruppo e del quadrivio: qui ci sono tante strade, ma non c'è una piazza. Saluto il primo cittadino, gli spiego il motivo della mia visita e subito comincia a parlare. Chiedo spiegazione della strada chiusa al paese vecchio. Spiegazione lunga: ricorsi, normative e altre faccende. Poi gli chiedo chiarimenti sul fatto che il paese si allaga quando piove. Spiegazione lunga e complicata: fogne bianche e nere, relazioni geologiche, colpe di tecnici, interessi delle ditte, mancanze dei cittadini, un rosario di motivi, fatto sta che qualcuno ha sbagliato ed ora si espia in attesa di trovare un rimedio definitivo. Il sindaco comunque ha un’aria soddisfatta. Lui fa il chirurgo ad Avellino da più di vent'anni. È al suo primo mandato, a guida di una lista civica che mette insieme persone appartenenti a vari partiti, si definisce, un po' sommessamente, un popolare. A Conza lo stato ha speso finora quasi centoventi miliardi. Per completare la ricostruzione servono altri tredici miliardi. Sono state realizzate 700 abitazioni. Ne restano da realizzare un centinaio Non ho voglia di approfondire questi aspetti, parliamo d'altro. A Conza non c'è disoccupazione, qui ci sono quattro fabbriche che vanno molto bene, almeno per i loro padroni: come in tutte le fabbriche del cratere si lavora molto e si guadagna poco. Il sindaco continua a dissipare la mia tendenza a vedere ovunque mali e miserie: "qui non c'è il problema della droga e non ci sono furti. L'unico neo è la mancanza di iniziative di imprenditoria locale. Il paese ha interessanti prospettive turistiche, tra il parco archeologico e l'oasi naturalistica della diga sottostante ci sono tutte le premesse. Già adesso il comune fitta i prefabbricati leggeri dove c'era l'insediamento provvisorio a gente che vuole venire a trascorrere un po' di tempo a Conza, napoletani soprattutto." Il sindaco ha ragione, anche se mi riesce difficile immaginare come possa essere bello questo posto quando sarà pieno di gente. In Irpinia non abbiamo pezzi firmati. Le tracce dell'antica Compsa non sono la torre di Pisa e si possono vedere e ammirare al meglio in passeggiate silenziose e solitarie. La chiacchierata col sindaco è finita. In giro non c'è più nessuno. Anche la statale su cui viaggio verso casa è deserta: all'andata non ho incontrato neppure una macchina, ma una poiana quieta e immota su un palo della luce. Franco Arminio Conza, 8 ottobre 2000 IV Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 Pertini e la solidarietà di tutto il Paese «Quella disperazione vivrà nel mio animo» Il messaggio del Presidente - «I soccorsi non sono stati immediati» - Le lacrime di un’orfanella - «Speculatori in carcere» «Roma - Italiane e Italiani, sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catestrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo. La disperazione poi dei sopravvissuti vivrà nel mio animo. Sono arrivato in quei paesi subito dopo la notizia che mi è giunta a Roma della catastrofe, sono partito ieri sera. Ebbene, a distanza di 48 ore non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. È vero io sono stato avvicinato dagli abitanti delle zone terremotate che mi hanno manifestato la loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia. Non è vero, come ha scritto qualcuno, che si sono scagliati contro di me, anzi, io sono stato circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo non conta. Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che ci sarebbero dovuti essere. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. Ed i superstiti presi di rabbia mi dicevano: - Ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti. Io ricordo anche questa scena di una bambina che mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre ed i suoi fratelli. Una donna disperata e piangente che mi ha detto: - Ho perduto mio marito e i miei figli. - Ed i superstiti che lì vagavano fra queste rovine, impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi erano. Ebbene, io allora, in quel momento mi sono chiesto come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo. Se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate? Non bastano adesso... Vi è anche questo episodio che devo ricordare, che mette in evidenza la mancanza di aiuti immediati. Cittadini superstiti di un paese dell’Irpinia mi hanno avvicinato e mi hanno detto: - Vede, i soldati ed i carabinieri che si stanno prodigando in un modo ammirevole e commovente per aiutarci oggi ci hanno dato la loro razione di viveri perché noi non abbiamo di che mangiare. Non erano arrivate a quelle popolazioni razioni di viveri Quindi questi centri di soccorso immediato, se sono stati fatti, ripeto, non hanno funzionato. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato rimosso giustamente dalla sua carica. Adesso non si può pensare soltanto ad inviare tende in quelle zone. Sta piovendo, si avvicina l’inverno, e con l’inverno il freddo. E, quindi, è assurdo pensare di ricoverarli, pensando di far passare l’inverno ai superstiti sotto queste tende. Bisogna pensare a ricoverarli in alloggi questi superstiti. E poi bisogna pensare a una casa per loro. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo, che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche. Eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere? perché l’infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui. Quindi non si ripeta, per carità, quanto è avvenuto nel Belice, perché sarebbe un affronto non solo alle vittime di questo disastro sismico, ma sarebbe un’offesa che toccherebbe la coscienza di tutti gli italiani, della nazione intera e della mia prima di tutto... Quindi si provveda seriamente, si veda di dare a costoro al più presto, a tutte le famiglie, una casa. Perché un appello voglio rivolgere a voi italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal mio cuore, di un uomo che ha assistito a tante tragedie, a degli spettacoli che mai io dimenticherò di dolore e di disperazione in quei paesi. A tutte le italiane e italiani, qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi loro fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi». Sandro Pertini La storia dell’aretino Beppe Martini Il volontario toscano che oggi si sente irpino Beppe Martini era un assessore della provincia di Arezzo nel novembre dell’80, prese 4 mesi di congedo non pagati dalla scuola in cui insegnava e si trasferì nei paesi del cratere, coordinò gli aiuti della Regione Toscana. 30 anni dopo Beppe Martini è ritornato in Irpinia, lui ci ritorna spesso, infatti dice “ Mi sento irpino. Quella esperienza è stata la più forte e la più emozionante della mia vita. Ero un insegnante delle elementari, collaboravo con Gianni Rodari, il noto scrittore per bambini. Partimmo dalla Toscana dopo 3 giorni con una carovana. Tutto quello che noi oggi diamo per scontato, come cellulari e computer, 30 anni fa non c’erano. Il primo telefono fu ripristinato a Lioni in una segheria dopo 7 giorni. Il censimento si faceva in quei giorni come quando Giuseppe e Maria si recarono a Betlemme. Si chiamavano le persone che riferivano i nomi dei loro parenti scampati al terremoto, così si ricostruiva il patrimonio anagrafico. L’esperienza dell’Irpinia mi ha cambiato, ho mantenuto rapporti di amicizia forti e solidi, sono anche diventato il padrino di Battesimo di una ragazza nata dopo il terremoto, ho trovato empatia con questo popolo”. Paola De Stasio Appello di rabbia e speranza Quell’uomo in lutto che rappresenta una nazione - La capacità di ascoltare le vittime - Il senso di impotenza rispetto ai clamorosi ritardi nei soccorsi - Le parole sincere di fronte al dolore che commossero l’Italia - La rimozione del prefetto di Avellino - Le dimissioni del ministro Rognoni Ognuno di noi ha sedimentate nella memoria alcune immagini indelebili, che hanno fatto la storia della nostra Nazione. Alcuni di questi fotogrammi hanno per protagonista Sandro Pertini, in particolare due immagini, una di gioia spontanea, l’altra di dolore. Ha segnato la nostra vita la gioia espressa in modo irrefrenabile, con semplicità, spontaneità, verità, di fronte alla vittoria della nazionale di calcio agli indimenticabili mondiali di Spagna dell’82. In quel fotogramma, ci sentimmo tutti Nazione, non ci fu differenza tra ricchi e poveri, tra comunisti, socialisti o democristiani, tra nord e sud. L’altro fotogramma, che rese l’Italia unita furono quelle che passarono la sera del 26 novembre 1980, il discorso di Sandro Pertini alla Nazione dopo il suo ritorno dal cratere irpino. Aveva dichiarato ai giornalisti, quella mattina, che “qualsiasi parola è vuota retorica” di fronte al dramma cui aveva assistito. In alcune foto d’epoca, si vede un uomo in lutto, che rappresenta una Nazione intera in lutto, rigido, addolorato come di fronte al feretro della persona più cara, passare per le strade devastate di Sant’Angelo dei Lombardi, tra la folla silenziosa, con un giovane Gerardo Bianco cui il vecchio Presidente quasi si appoggia. C’era lo Stato, quel giorno, per le strade d’Irpinia, ed era uno degli uomini più degni a rappresentarlo. Dunque, il 25 novembre, nonostante il parere contrario del presidente del Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri, Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia, ritrovando l'allora Ministro degli Esteri, il potentino Emilio Colombo. Come sempre, il Presidente Pertini non rinunciò a dire la verità fino in fondo, lui che è sempre stato uomo di verità e di giustizia. Prima, confortò con la sua presenza, con abbracci da padre, orfani e vedove, ascoltò la disperazione di chi aveva scavato e ancora scavava a mani nude nella speranza di salvare un figlio, la moglie, un padre. E quindi chiese le ragioni, lui Stato allo Stato, degli inspiegabili ritardi, chiese le ragioni ai rappresentanti dello Stato, senza reticenze, senza nessuna scusante. Pertini aveva ascoltato, commosso, la disperazione dei superstiti, il dolore dei superstiti, ed aveva scoperto un senso di impotenza, che forse non aveva mai provato. Non avrà provato impotenza di fronte al fascismo e al nazismo, non avrà provato impotenza frustrante mai durante la lunga militanza politica, ne provava allora ed era dolorosa. Le Italiane e gli Italiani ascoltarono forse increduli queste parole, perché mai un Politico aveva parlato esprimendo il sentimento comune, il dolore comune, l’analisi spietata della realtà: “Io ricordo anche questa scena di una bambina che mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre ed i suoi fratelli. Una donna disperata e piangente che mi ha detto: - Ho perduto mio marito e i miei figli. - Ed i superstiti che lì vagavano fra queste rovine, impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi erano. Ebbene, io allora, in quel momento mi sono chiesto come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo. Se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate? Non bastano adesso...”. Ed ecco le domande: perché non sono stati attuati i “regolamenti di esecuzione” delle leggi riguardanti le calamità naturali? Perché i “centri di soccorso immediati” non hanno funzionato? “Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate?” Le parole di Pertini continuano in modo chiaro: “Quindi questi centri di soccorso immediato, se sono stati fatti, ripeto, non hanno funzionato. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato rimosso giustamente dalla sua carica”. Dunque, fu costretto alle dimissioni il prefetto Attilio Lobefalo come si dimise il Ministro degli Interni Virginio Rognoni. Mentre si preparava per il viaggio in Irpinia, Sandro Pertini sarà andato forse con la memoria a tanti anni prima, agli anni lontani della sua giovinezza quando aveva partecipato alla campagna elettorale per la Repubblica tra i paesi dell’Ufita, oppure avrà pensato all’amico Carlo Muscetta, con cui era stato detenuto a Regina Coeli nel 1943. Famosa è anche l’amabile querelle sull’intelligenza degli Irpini, che sarebbe superiore alla media per l’“innesto” di tribù liguri in età romana. Ma quello, che stava affrontando, non era un viaggio politico, non era neanche parte di una campagna elettorale seppure fondamentale per la storia d’Italia, era un pellegrinaggio di dolore, che aveva accomunato l’Italia tutta. Sandro Pertini riuscì a smuovere una solidarietà nazionale, che sarebbe stata unica nella storia nazionale: allora, grazie alle sue parole, a quel “Fate presto” riproposto a caratteri Finirà mai il terremoto in Irpinia? Tre decenni non bastano per cancellare quei ricordi Ogni anno la data del 23 novembre è nella mente e nel cuore di tutti coloro che hanno vissuto direttamente, o indirettamente, la tragedia del terremoto dell’Irpinia. Dopo trent’anni ancora il ricordo è indelebile, le paure, le disperazioni, le emozioni non si cancellano e negli occhi le immagini di quei momenti. I ricordi di Irpinia 80 hanno segnato un’epoca, la nostra epoca, la storia di ognuno di noi. L’Italia sognava in bianco e nero, la tv a colori era un privilegio ancora di pochi, la classe politica del Mezzogiorno a Roma contava, eccome se contava. Furono rasi al suolo “presepi dell’Appennino” e non tutti comprese- ro gli effetti provocati nelle coscienze delle popolazioni colpite. Il sisma del 1980 distrusse vite, alterò la geografia dei luoghi, stravolse modelli sociali, suscitò ingenue speranze, produsse laceranti delusioni. Di qui la domanda: il terremoto dell’Irpinia finirà prima o poi? L’auspicio è che la ricostruzione dei nostri paesi venga ultimata nel più breve tempo possibile e che la classe politica, interprete delle esigenze del popolo irpino, decida di non interrompere il flusso dei finanziamenti, indispensabili a completare la ricostruzione ed a promuovere un autonomo processo di sviluppo economico. Vito Iuni Sindaco di Guardia cubitali dai giornali dell’epoca, l’Italia si sentì unita. Per la prima volta, sugli schermi e sui quotidiani apparvero nomi prima sconosciuti: l’Irpinia non era semplicemente “vicino Napoli”, era un luogo preciso, il luogo del cratere, e con essa risuonarono comuni dai nomi esotici quali Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Conza della Campania, Teora, Torella, San Mango Sul Calore, e con essi Laviano, Balvano, Muro Lucano. L’Italia scoprì una terra sconosciuta, “Cristo” non si era più fermato ad Eboli, era andato sino al centro dell’Appennino. E oggi risuonano con eguale forza quelle parole: “Perché un appello voglio rivolgere a voi italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal mio cuore, di un uomo che ha assistito a tante tragedie, a degli spettacoli che mai io dimenticherò di dolore e di disperazione in quei paesi. A tutte le italiane e italiani, qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi loro fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. E così migliaia di giovani, provenienti da tutta Italia, arrivarono in Irpinia: giovani scout cattolici dell’AGESCI, la Caritas, i Sindacati, gli operai del Nord e del Centro, la Misericordia e la Pubblica Assistenza, studenti universitari, disoccupati, tutti insieme a sacerdoti, soldati, vigili del fuoco, carabinieri, forze di polizia, insieme ai superstiti e agli amministratori locali. Ma quella era un’altra Italia. Era ancora lontano l’odio tra Nord e Sud. C’era il razzismo e il leghismo strisciante, che dieci anni dopo si organizzerà politicamente. Ma erano ancora echi lontani. Bisognava fare presto, i fratelli stavano per morire, e altri fratelli correvano, guidati da un Padre, Sandro Pertini, che li guidava. Paolo Saggese Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 V L’ARCI E TANTI ARTISTI NEL TEATRO TENDA STEFANO VENTURA È NATO NEL 1980, È IL PRIMO STORICO DEL SISMA Portare cultura nella città crollata I giorni delle coop e lo sviluppo mancato Portare cultura e un momento di spensieratezza fra una cittadinanza in preda alla disperazione e con il morale sotto i tacchi. Fu questa la scommessa del gruppo di allora giovani responsabili dell’Arci avellinese, che pochi mesi dopo il 23 novembre riuscì a offrire alla città di Avellino, grazie alla collaborazione volontaria di artisti da tutta Italia. L’iniziativa fu denominata Centro di Iniziativa Culturale per la Ricostruzione ed ebbe il suo centro in un teatro tenda installato nel piazzale dello Stadio partenio, con eventi concentrati in gran parte nel mese di gennaio 1981. Importante fu la sensibilità e l’appoggio all’iniziativa dimostrati dall’allora Assessore Comunale alla Cultura, la repubblicana Armida Tino. Abbiamo parlato di questa vicenda con uno dei protagonisti di questa vicenda, Giuliana Freda, che allora assieme a Gaetano Vardaro e Giovanni De Luca fu tra i principali animatori dell’Arci nel capoluogo irpino. Nelle settimane successive al sisma si promosse , attraverso la stampa un accorato appello in cui si sostiene che : “è necessario che vengano ripristinate le condizioni che consentano la ripresa della vita civile e sociale delle popolazioni colpite”. In vista delle festività di natale e inizio anno si chiedeva : “a tutti gli artisti ad essere presenti nelle zone terremotate (…) al fine di favorire con la loro opera il raggiungimento di questo obiettivo”. Le risposte furono importanti. Vennero ad Avellino gratuitamente per offrire conforto e un sorriso alla popolazioni artisti del calibro di Vittorio Gassman, Gigi Proietti, Salvatore Accardo, Beppe Barra, Giovanna Marini, Nanni Moretti. La ‘ciliegina sulla torta’ fu il concerto di Claudio Abbado con l’orchestra dell’Orchestra Giovanile della Comunità Europea, che si tenne al teatro Partenio il due maggio dell’81. Ma accanto ai nomi importanti, si fu capaci anche di creare iniziative meno altisonanti, ma ugualmente efficace, come Teatro Quotidiano, che si svolgeva al mattino e si rivolgeva ai bambini, diretta da Raffaele Spagnuolo. “La risposta degli avellinesi fu buona. Noi all’inizio eravamo molto impauriti – ci racconta Giuliana Freda -. Temevamo le critiche, perché pensavamo che dopo eventi così drammatici e tanti lutti, la nostra proposta potesse essere giudicata fuori luogo. Noi credevamo che dopo il terremoto c’era la necessità di stare insieme, non solo per piangere. Alla fine venimmo compresi”. In verità l’iniziativa dell’Arci era una importante realtà per Avellino già da diversi anni. Solo nel mese di giugno prima della catastrofe del 23 novembre era toccata l’organizzazione di un impegnativissimo evento, il concerto di Lou Reed, dirottato all’ultimo momento da Napoli all’Irpinia. “La città prima del terremoto, offriva davvero poco ai ragazzi – continua la Freda -. Noi eravamo un gruppo di giovani già impegnati politicamente nel Partito Comunista Italiano, che però ci sentivamo molto incompresi. Ad Avellino si respirava un’aria cupa, chiusa. Noi avevamo voglia di fare qualcosa di concreto per gli altri. Partimmo dalla musica soprattutto, con un concerto degli Area nel 1975, presso il cinema Ideal di Atripalda. Iniziammo a spaziare nella musica classica contemporanea con Luigi Nono, passando poi per il teatro e il cinema e iniziandoci a porre il problema dell’utilizzo degli spazi in città, allora molto più scarsi di adesso”. La sezione Arci avellinese riuscì ad andare anche oltre le 100 adesioni. Nei mesi successivi al novembre 1980 riuscì ad avere anche una sede, in una roulotte presso il giardino della Biblioteca Provinciale. L’autentico vulcano di idee del gruppo era l’oggi compianto e futuro apprezzato giuslavorista, Gaeatano Vardaro. Ma le iniziative messe in campo permisero anche la nascita di eventi che negli anni sarebbero diventati appuntamenti fissi per il pubblico avellinese, come ‘Musica in Irpinia’, curata dal maestro Mario Cesa, che ebbe il suo antecedente nelle iniziative e nei concerti organizzati dall’Arci con ‘Musica-Incontro’. “Riuscimmo a realizzare tante cose su più fronti – ricorda con un misto di orgoglio e nostalgia Giuliana Freda -. Coinvolgendo tante persone, creando inediti momenti di confronto con l’esterno. E’ stata un’esperienza che penso valga ancora da esempio, su come impegnarsi in questa città e riuscire a fare qualcosa di concreto. Nonostante le tante difficoltà e le diffidenze, qualcosa si mosse. Potrà sembrare strano per un giovane, ma rispetto a trenta anni fa Avellino, nel suo piccolo, offre molte più possibilità e spazi”. Quello di Giuliana Freda non è affatto un invito a crogiolarsi sugli allori di una positiva esperienza del passato e fermarsi per guardarsi attorno soddisfatti; la lezione che ci sembra di cogliere è semmai quella di trarre degli stimoli per tener viva una città che troppo facilmente, sul piano socio-culturale, continua a intorpidirsi. Mar. Dep. L’analisi dell’autore del libro “Non sembrava novembre quella sera” - L’interpretazione storica del terremoto - La ricostruzione del primo anno dopo la tragedia - Il nuovo modello economico. Fallito Stefano Ventura è nato nel 1980 a Teora, ma non è solo uno dei primi componenti della generazione postsisma, da ormai diversi anni coltiva un ambizioso percorso formativo, quello di diventare il primo storico del sisma dell’80 in Irpinia. Alle spalle ha una tesi di laurea in storia contemporanea e un dottorato all’università di Siena incentrati sulla ricostruzione storica di quello che avvenne sui nostri territori a partire dalle 19e35 del 23 novembre di trenta anni fa, cui sono proseguiti ulteriori studi e pubblicazioni, la collaborazione con L’Osservatorio Permanente sul DoposismaFondazione MIdA, diretta dal giornalista de La Repubblica Antonello Caporale. Una settimana fa per i tipi di Mephite è uscito un suo libro dal titolo ‘Non sembrava novembre quella sera’ che rappresenta una prima sistematica sintesi degli studi compiuti finora. Per capire meglio cosa anima il lavoro di Stefano Ventura abbiamo pensato di porgli direttamente qualche domanda. Perché, dopo tre decenni, è giunto il momento di studiare il terremoto dell’Irpinia come una vicenda storica? “Il sisma del 1980 è una vicenda molto complessa, che finora è stata analizzata da molti studiosi sul piano dell’economia, delle relazioni tra politica e criminalità organizzata, dell’urbanistica. Io ho portato avanti un tentativo diverso, quello di dare un interpretazione storica dei fatti e delle tematiche di cambiamento. Un evento come il terremoto permette di vedere distintamente un prima e dopo, le continuità e le rotture del divenire storico”. Nel tuo lavoro ti sei concentrato soprattutto sull’evento sismico e nei mesi successivi…. “Trent’anni sono un tempo congruo per la memoria di questi fatti, per Della Terza a Sant’Angelo dei Lombardi Non sono rimaste tracce del passato Mi sono recato a Sant’Angelo nell’estate del 1981. Mi hanno detto: “Non andare al castello, la strada è ostruita l’edificio è pericolante”. L’ala del castello dov’era l’abitazione di Antonio si è accasciata su di lui sotto l’impeto della prima scossa sismica. Ciro, in un paese del potentino impiegato delle Imposte, A Sant’Angelo dei Lombardi, sette giorni dopo Quelle scarpette di vernice nera Dopo una settimana dal terremoto, se ben ricordo, andai col mio caro amico Gerardo Preziosi, ora affermato ristoratore in quel di Atripalda, a Sant’Angelo dei Lombardi a vedere come stavano le cose. Il tempo si era messo finalmente al bello. La strada era percorsa da mezzi militari che andavano e venivano. Arrivati sul posto c’erano tanti giovani militari di leva dall’aria spaesata armati di badile. Distruzioni varie. Parecchia confusione. Le vecchia case semidistrutte, un intero isolato di palazzine nuove completamente raso al suolo, così come il nuovo ospedale civile. Molti i volontari in gita. Gli accenti più vari, in maggioranza quelli del nord. Molti quelli accampati nel boschetto dalle parti del camposanto, tra le volute di fumo degli arrosti. Si era fatto ora di pranzo. L’odore delle grigliate si confondeva con quello dolciastro che veniva ancora fuori dalle macerie. Ma forse, nel- l’allegria del picnic, non ci facevano caso. Io non ho mangiato carne arrosto per mesi. Gironzolando, entriamo nel Camposanto. C’erano ossa sparse in giro, cadute da vecchie tombe. Un soccorritore con magnetofono registrava le antiche lamentazioni di una vecchia nerovestita. Essendo gli unici in circolazione veniamo subito ingaggiati dai vigili del fuoco. Preleviamo casse da morto da un enorme pila, le spacchettiamo del cellofan e le prepariamo. Sono casse da morto molto belle. Ogni tanto arrivano i vigili del fuoco con qualche corpo appena estratto dalle macerie. Non possiamo toccarli, sono passati giorni. Loro hanno tute, guanti e stivali di gomma, e mascherine. C’è il serio pericolo di infettarsi. I corpi sono racchiusi in sacchi di plastica, quelli che gli americani chiamano bodybag. Loro depongono i sacchi nelle bare e vanno via, noi poi provvediamo solo a ricostruire le vicende di questi giorni. Sul piano storico-politico la vicenda è più difficile da analizzare, in parte questa vicenda è ancora attualità. La classe dirigente di allora, a livello locale, in molti casi non è cambiata”. Una limitazione che ha caratterizzato la tua ricerca..a quanto ci è sembrato di leggere, giusto? “Si, ho dato una divisione in due fasi. La prima è la fase dell’emer- mettere il coperchio chiudendolo con le viti. La vecchia ha finito di lamentarsi, non c’è nessuno in giro. Un silenzio surreale. Quando le bare sono riempite, ne prepariamo delle altre. Ad un certo punto arrivano tutti insieme molti corpi. Ci dicono che avevano finalmente raggiunto il reparto pediatrico dell’Ospedale. Erano arrivati i bambini. Non li abbiamo visti. Dai sacchi colava un po’ di liquido verdognolo, o scuro, io ora lo ricordo verdognolo, maleodorante. Poco dopo venne un uomo. Aveva con sé un paio di scarpette di vernice nera. Nuove, appena comprate. Un uomo dignitoso e severo, come lo è la gente di quelle parti. Si avvicinò ad una bara e vi depose le scarpette. Quando fu chiusa se ne andò com’era venuto. Senza una parola. Ora in cielo c’è un angelo con un paio di scarpette di vernice nera. Edoardo Fiore non ha assistito alla fine del suo rivale di un tempo. Umberto, l’imperterrito galoppatore, è stato travolto dalle rovine delle sua stessa casa. Mio fratello, magistrato in un paese del Piemonte, è arrivato con una colonna di soccorso: non ha trovato più tracce del passato. Ricordo che quando c’era qualche piccola baruffa in famiglia, era proprio lui, mio fratello, che interveniva a mettere pace tra la mamma e la zia e chiedeva alla zia Giuseppina, per creare un’efficace diversione, quale fosse quel sogno così curioso che lei aveva fatto notti prima e che gli aveva raccontato, ma che lui non ricordava più. “Niente, cominciava lei col dire, mi trovavo a Napoli da ragazza e stavo insieme alla mia compagna Assuntulella per le strade della Vicaria”. Il racconto continuava così perdendosi nei meandri di inesplorabili labirinti. “Questa, sbottava mia madre, non le bastano le otto ore che dorme per sognare; continua a sognare da sveglia”. Io ho spesso riflettuto sul caratteristico intercalare della zia: su quel “niente” con cui dava inizio ad ogni racconto. Credo che nella sua mente fosse una figura di litote: “Tu mi dici che ti ho raccontato un sogno strano, rilevante, invece si tratta di poca cosa e io te lo ripeto così alla buona in quattro e quattr’otto”. O, anche “Io, vedi, non ho ragione alcuna per vantarmi dei sogni che faccio; sono una persona semplice. Che cosa t’aspetti mai da me, che ti racconti?”. Ma, ora il suo “niente” mi si complica nella mente assorta ed attonita, diventa una prolessi, si riversa sui contenuti stessi del racconto, li erode, li distrugge, li vanifica. Castello, amici, il paese tutto mi appaiono travolti in un sogno lancinante che tutti li convoglia in uno spazio di dolorose, implacabili attese. Dante Della Terza Dal libro Dagli Appennini alle Montagne Rocciose (e ritorno). Testimonianze e rimembranze per Dante Della Terza, a cura di Vittorio Russo, Bibliopolis, Napoli, 2000 genza, che va dal novembre dell’80 fino a metà maggio successiva, quando viene approvata la legge 219, che da il via alla seconda fase quella della ricostruzione. La mia ricostruzione si ferma al primo anno dopo il sisma. Naturalmente ho dovuto individuare i principali attori in campo in questa fase: i terremotati, le amministrazioni locali, l’esercito, i volontari, la protezione civile. Nella prima parte domina la cronaca dei fatti, nella seconda fase prende il sopravvento l’analisi a grandi linee, attorno tematiche principali”. Parliamo delle testimonianze che hai raccolto. Esistono dei tratti comuni? “Sono presenti molti tratti comuni tra le varie memorie. Innanzitutto dominano delle immagini ricorrenti come quello del caldo fuori stagione, da cui ho ricavato il titolo del libro, ma anche la luna grande e soprattutto la scossa che sconvolge e spezza la quotidianità e la spensieratezza di quella domenica sera. Tutti i testimoni intervistati raccontano il momento della scossa con un’estrema dovizia di particolari e sono tutti ricordi molto individuali, vale anche per chi, in quel momento aveva responsabilità più grandi, come sindaci e amministratori locali. Nei giorni successivi alla tragedia, inoltre, in tutte le comunità colpite è vivo il ricordo della grande solidarietà e spirito di unione. Un momento che si spezza con l’arrivo dei soccorsi da fuori e dei primi aiuti, che fanno riemergere l’individualismo delle persone”. Successivamente, nel libro, parli di una significativa esperienza di mobilitazione dal basso, rappresentata dai comitati, sorti in tutte le comunità più gravemente colpite dal sisma… “Sì, fu un’esperienza di risveglio di partecipazione da parte della popolazione, spinto dai tanti volontari giunti in Irpinia, che spesso erano attivisti politici e sindacali, e da giovani dei paesi già impegnati politicamente. Naturalmente da località a località il quadro cambiava. Spesso i comitati, per ragioni politico-ideologiche, entravano in contrasto con le amministrazioni locali, mentre altrove c’era il terreno per una fattiva collaborazione. E’ bene precisare che per i volontari venuti da altre regioni la priorità era dare una mano da un punto di vista materiale. I comitati nacquero dopo giornate di duro lavoro, in momenti di incontro e discussione serale, aperti a tutta la comunità”. Molte di queste esperienze di comitati di base sfociarono nella costituzione di piccole cooperative di giovani, che decisero di organizzarsi per crearsi da soli occasioni di lavoro. Un’esperienza di cui parli nel volume come un’occasione di sviluppo perduto. Probabilmente è l’unica sezione del libro in cui accanto al rigore del ricercatore, poni un velo di polemica rispetto alle successive scelte di industrializzazione e ai suoi costi… “Non ho voluto esprimere giudizi. Ho semplicemente analizzato l’evoluzione del contributo dei volontari e dei segni tangibili della loro presenza nelle aree più colpite. Fu il tentativo di portare un modello nuovo di sviluppo economico per le nostre zone. Si trattava di dare strumenti economici moderni ai giovani di questi territori, per renderli davvero protagonisti, nei settori chiave dell’economia provinciale, penso all’artigianato, all’agricoltura, ma anche della cultura. Furono le raccomandazioni fatte un anno dopo il terremoto da Manlio Rossi-Doria e dal suo gruppo di collaboratori, in uno studio appositamente realizzato sulle aree del cosiddetto ‘cratere’ ”. La risposta istituzionale, dopo qualche anno, però è stata l’industrializzazione, che come sottolinei, ha avuto costi stratosferici… “Il vero problema è stato, oltre quello dei costi, quello di una classe imprenditoriale locale che non si è sviluppata. Qui viene fuori il nodo segnalato da Rossi-Doria, cioè quello di proporre uno sviluppo a partire da una modernizzazione che si basasse sui settori economici tipici di un territorio”. In conclusione, per te che sei di Teora, nato nel 1980, non è stato difficile distanziarti dalla tematica studiata? “Ponendomi il problema, ho trovato anche la soluzione. Sulle vicende del dopo sisma ho totalmente escluso la mia comunità d’origine. Naturalmente mi sono dovuto basare in maniera ancora più forte sulle fonti. Ho cercato di limitare al massimo i miei giudizi e interpretazioni. Ho lasciato stare le polemiche, mi sono basato sui dati”. Ma a tuo avviso, quando arriverà il giorno in cui oltre i mesi successivi al sisma, uno storico potrà affrontare anche la ricostruzione? “Sarà possibile affrontarli quando ne si potrà parlare senza scadere nella polemica politica dell’attualità”. Mario De Prospo Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 VII Il terremoto e l’ondata antimeridionalista Due mesi dopo, «dannati terroni» Prima la grande commozione e la solidarietà, poi ritorna il vecchio pregiudizio di fronte alla brutale realtà del Sud - Uno dei guasti provocati dal 23 novembre - All’aumento della benzina per aiutare i terremotati, cortei di operai urlano: meridionali sanguisughe All’inizio la grande commozione, il brivido della morte in diretta, la curiosità un po’ morbosa di tutta la gente che andava scoprendo sul piccolo schermo di casa cosa può essere una catastrofe di massa. E le collette, le raccolte di vestiti e roulotte, le partenze improvvise e non sempre meditate per i paesi annientati dal terremoto. Ma a mano a mano che i giorni passavano da quel tragico 23 novembre, lo stato d’animo nazionale cominciava a cambiare. Non solo nelle cronache dei quotidiani d’informazione, dove le storie strazianti dei sepolti vivi e dei superstiti venivano sostituite da quelle, meno edificanti, dei piccoli accaparratori, degli sciacalli, dei notabili e dei camorristi. Anche nel Paese reale, nelle fabbriche di Torino come nei salotti di Milano o di Venezia si cominciava a parlare sempre meno in sordina di «meridionali buoni a niente», «lavativi», «piagnoni», fino a resuscitare il vecchio e mai dimenticato epiteto di «terroni». Non erano solo chiacchiere. A Genova un corteo spontaneo di 5 mila operai, usciti in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi della benzina a favore dei terremotati, scandiva slogan incredibili come: «Non vogliamo mantenerli» e «Meridionali sanguisughe». A Torino, alla Fiat, il 40 per cento degli operai si presentava all’ufficio personale a chiedere che non gli si trattenesse dalla busta paga le 4 ore che secondo il sindacato tutti avrebbero dovuto offrire. E mentre i proprietari delle seconde case sulla Domiziana si dicevano disposti a tutto pur di non dover ospitare i «contrabbandieri e le puttane del bassi napoletani», si abbatteva sulle città del Nord l’ondata di ritorno dei soccorritori delusi. Nei loro racconti c’era di tutto un po’. Risentimento: «Mentre lavoravamo a spalare, i ragazzi del paese si defilavano con i vestiti nuovi che gli avevamo portato. E quando una volta gli ho chiesto di aiutare mi hanno risposto: “Eh no, bella figa”» dice sconsolata Monica Craig, 17 anni, figlia dell’attore Mimmo. Indignazione: «Quando arrivavano i camion con i soccorsi la gente li assaltava. E poi spesso buttavano i vestiti o le provviste nel fango e si accaparravano la tenda anche se la casa gli era rimasta in piedi. “Magari viene buona per il mare” ho sentito dire più di una volta» riferisce Silvia, 19 anni, studentessa di Pallanza. Non tutti tornavano in queste condizioni, ma lo stato d’animo predominante fra i giovani che risalivano la penisola era comunque quello di stupore, per un mondo in cui erano piombati, e che spesso avevano immaginato come una specie di presepio immobile in cui andare a fare i benefattori. «Avevo viso al cinema Cristo si è fermato ad Eboli e credevo che i contadini fossero ancora così dignitosi e riservati. E invece la dignità ce l’hanno solo nei confronti della morte. Verso la ricchezza, verso il lavoro c’è solo l’arraffo» dice Liliana V., 20 anni, infermiera di Genova. E Roberto Sessa, 23 anni, studente milanese: «Andare per credere, è il succo della mia esperienza. La questione meridionale nessuno di noi si sogna neppure che cosa sia. Quello è un altro pianeta. Bisogna salvarlo, ma farne una specie di riserva indiana, perché è proprio inconciliabile con l’Italia dove viviamo noi». Più o meno le stesse scoperte, anche se senza la giustificazione della giovane età, le andavano facendo anche alcuni giornalisti scesi al Sud. Egisto Corradi, un inviato di lunga esperienza, tornava con le mani nei capelli dalla Valle del Sele, dove era andato per conto del Giornale di Montanelli, a cercare un paese «pulito» a cui versare i tre miliardi di sottoscrizione raccolti. «Dappertutto ho trovato camorra, violenza, insensibilità. Ho dovuto rincuorare un gruppo di brianzoli che erano andati giù con gli architetti e i muratori per costruire gratis le case e che erano stati minacciati da un sindaco. Ho dovuto consolare i ragazzi del battaglione Julia amareggiati perché dopo essersi alzati all’alba per portare il caffè caldo ai terremotati erano stati accolti al grido di “andatevene, lasciateci dormire”» si sfoga Corradi. E Indro Montanelli, che si era lanciato Rovine e morti nella nebbia Si sentono solo le urla, i pianti, i richiami. Salgono su dalla nebbia verso la strada piena di sole. Laggiù, invece, nella conca tra le montagne, è come se la notte non fosse ancora finita. Arrivo tra le prime case di Balvano e scendo dalla macchina. In mezzo alla strada massi, detriti, giornali, quaderni volati via dalle case. Poi l’orrore. Davanti alla scuola, su una specie di terrazzo rialzato, i corpi. Dieci, venti, trenta, cinquanta: povere donne con il volto tumefatto e la bocca piena di calcinacci, bambini con le gambe larghe e le mani coperte di sangue, appena nascosti da teli, coperte e stracci, uomini anziani e ragazzine nelle fosse orrende della morte. Ai piedi, un numero tracciato con il gessetto per l’identificazione. Un cordone di soldati blocca il passaggio e, intorno, aggrappati ad una lunga cancellata, gruppi di donne con lo scialle in testa, urlano e chiamano ininterrottamente. La nebbia che bagna tutto non accenna a sparire e Balvano non riesce ad uscire dalla notte. Wladimiro Settimelli (“l’Unità”, 25 novembre 1980) Solo all’alba si è capito il disastro E poi su Napoli è calato il silenzio Soltanto all’alba, al mattino, con i primi comunicati straordinari della radio e della televisione, con i primi giornali acquistati all’edicola appena aperta, con la premonizione di trovarvi terrificanti notizie, l’entità del disastro si rivelò nella sua agghiacciante realtà. I crolli, le vittime, i paesi distrutti, le regioni devastate, non avevano raggiunto, per incompletezza d’informazioni, le proporzioni spaventose che avrebbero assunto nelle ore e nei giorni immediatamente successivi, ma il loro numero era già talmente alto da far toccare con mano ad ognuno l’immensità della tragedia. La città capì subito d’essere stata colpita, e che il terremoto non aveva precedenti, nella sua storia. Anche il mare era cheto. Sotto un cielo bianchiccio che pareva cieco, dove ogni tanto un sole esangue cercava, senza troppo impegnarsi, di penetrare l’ingombro delle nuvole basse, il mare di via Partenope, di via Caracciolo e della rada di Mergellina, solitario e triste e oleoso, aveva appena, a pelo d’acqua, un leggerissimo movimento ondeggiante, come se a sua volta fermentasse sotto la sua superficie piatta una sconosciuta minaccia; ma presso le scogliere mancava l’abituale schiuma provocata dal frangersi delle onde anche in giorni di calma. Era un silenzio di partecipazione alla sciagura, un silenzio d’attesa, un silenzio di paura? Non lo sapremo mai. Era, in ogni caso, un silenzio quasi spettrale, che ci restituiva un volto di Napoli del tutto inedito: e lo ricorderemo per il resto della nostra vita con un sentimento d’inquietudine e di turbamento che, al di là dal dolore per le perdite umane, per le case crollate, per i muovi problemi economici che si aggiungono ai precedenti ancora irrisolti, porteremo dentro come l’emozione più sconvolgente di questa esperienza. Michele Prisco (Il Mattino illustrato, 6 dicembre 1980) sulle colonne del Giornale in attacchi moralistici al Meridionale: «Mi hanno dato del razzista per quel che ho scritto. E invece, proprio per non fomentare gli odii razziali, non ho pubblicato una sola delle moltissime lettere indignate che sono arrivate su quel che sta succedendo laggiù». In chi di colpo ha scoperto che a fianco dell’Italia del Nord, moderna e progredita, c’è un altro pezzo di Paese in cui succede di tutto, è immancabile il richiamo al terremoto del Friuli. Dove, come ricorda con nostalgia Corradi «tutti erano in piedi alle 4 di mattina a spazzare le strade e le donne pulivano i mattoni uno per uno tirandoli fuori dalle macerie». O, come afferma ancor più esplicitamente Giulia V., 24 anni, operaia «dove la gente era uguale a noi. Mentre questa volta siamo piombati nel Terzo Mondo». È un specie di rifiuto emotivo, privo di analisi e di conoscenze vere, che però anche ad altri livelli, come quello politico, salta fuori sempre più spesso. «Il terremoto ha scatenato un antimeridionalismo che in realtà era latente da tempo anche fra le forze più insospettabili» sostiene Giuseppe Galasso, docente di storia moderna a Napoli, uno dei fondatori di Nord e Sud, la rivista che negli anni ’60 era stata il portavoce laico e liberal-radicale delle idee meridionaliste. Secondo Galasso la spia di questo atteggiamento ostile era nella mancanza di progetti validi per il Mezzogiorno, considerato ormai apertamente una specie di palla al piede, di pozzo senza fondo in cui buttare miliardi a fondo perduto. E ancor oggi si stabiliranno cifre da capogiro per la ricostruzione (i 40mila miliardi da spendere in cinque anni) senza avere un censimento dei danni del terremoto e dei bisogni reali. Ancora più esplicito Francesco Rosi, il regista delle Mani sulla città e di Cristo si è fermato ad Eboli, che ha appena finito di girare un’altra storia sul Sud, Tre fratelli: «La prova del nove dell’antimeridionalismo di oggi è nel fatto che del Mezzogiorno ci si occupa esclusivamente nei momenti straordinari, sull’onda delle grandi emozioni: il colera a Napoli, il crollo di Agrigento, il terremoto. Ma appena i morti sono seppelliti si torna all’indifferenza, all’ignoranza delle realtà più elementari». Può così succedere che si scopra con stupore che mentre al Sud non è arrivato il lavoro, si è invece saldamente insediato il consumismo e la civiltà delle immagini legata alla Tv. E che quindi la gente è oggi ansiosa di accaparrarsi oggetti e vestiti proprio come succederebbe a Milano o a Torino. Si può scivolare in gaffe culturali come quella di Francesco Compagna, ministro e meridionalista, o di un giornalista progressista come Giorgio Bocca, secondo cui le distruzioni causate dal terremoto sarebbero l’occasione buona per abbandonare per sempre i paesi-presepio costruiti sui cocuzzoli e ricostruire gli insediamenti moderni a valle. «A parte il semplice dato di fatto che i paesi sulle come delle montagne sono ben pochi e che la maggioranza già si trova nel fondovalle, nessuno può pensare di sradicare impunemente le comunità senza alterarle o distruggerle» sostiene il sociologo napoletano Domenico De Masi. Sono tutte spie di una realtà estremamente complessa, dove l’indifferenza ai problemi dell’«altra Italia» si incrocia a una conoscenza sempre più precaria delle nuove realtà del Sud. E dove l’antimeridionalismo non è che la faccia più evidente della caduta del meridionalismo, dell’inaridirsi di quei vari filoni culturali che già all’indomani dell’unificazione d’Italia si erano posti il problema di come risolvere la questione meridionale. È una storia, quella del meridionalismo, che specie nel secondo dopoguerra si era articolata su due scuole distinte e in qualche modo contrapposte: il gruppo liberal-radicale dei Galasso e dei Francesco Compagna, che faceva capo alla rivista Nord e Sud, nata nel 1954 e grande sostenitrice di un Mezzogiorno dell’intervento speciale, dove i problemi si sarebbero risolti creando le sovrastrutture, modernizzando, in qualche misura anche non bloccando l’emigrazione. E il gruppo comunista di Cronache meridionali, nato nello stesso anno e tenuto in piedi da Giorgio La vita che riprende a Morra Nella piazzetta di De Sanctis tra quelle case sventrate La piazzetta dove De Sanctis ricordava nei suoi libri di aver giocato bambino è piena di macerie, ma davanti alla casa c’è uno spettacolo che sembra la ricostruzione di un museo etnografico o una casa di bambole e che invece è terribilmente vero. È caduta la facciata esterna di una casa e si può vedere lo spaccato di una cucina bellissima, con le pentole e i coperchi ben allineati su una parete, i mazzi di cipolle, i grappoli di uva nera, le collane di peperoncini che pendono da una trave, il calendario di frate Indovino sopra il camino, una fascina di legna e le molle per il fuoco lì accanto, una sedia che pare appena caduta e, sul tavolo, una zuppiera, dei piatti e un pacco di spaghetti, tutto lasciato in un limpido ordine, ultimo brandello di vita di quella sera domenicale. Vi abitava un bidello, Antonio Grippo, con la vecchia madre Giacomina: sono morti, sono riusciti a salvarsi, sono finiti chissà dove, eterni profughi di un terremoto che non uscirà mai più dalla memoria di questa gente? La vita a Morra, dove le strade erano dedicate al Croce, a Gramsci, a Dorso, riprende con infinita fatica tra difficoltà e contraddizioni: due tedeschi di Hannover, Kiepe e Schumacher, venuti con una cucina da campo capace di preparare 500 pasti caldi due volte al giorno, non sono stati messi in grado di essere utili e girano da un paese all’altro e adesso sono qui a offrire inutilmente il loro aiuto. Trentotto studenti dell’Istituto tecnico agrario Garibaldi di Roma, esperti in zootecnia, capaci di accudire alle bestie, dopo tre giorni di offerta senza risposta a Sant’Angelo dei Lombardi, a Lioni, Teora, hanno costruito una stalla per venti vacche e cercano anch’essi di poter lavorare. Corrado Stajano (da Giovanni Russo – Corrado Stajano, Terremoto, Garzanti) Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Rosario Villari: «Il nostro tema di fondo era la questione agraria, allora sottovalutata da tutti. Abbiamo criticato fin dai suoi primi passi la Cassa, ne abbiamo intuito la logica assistenziale, che avrebbe finito per svuotare di contenuti gli stessi gruppi di intellettuali che l’avevano voluta» dice Villari. E infatti a mano a mano che sorgono al Sud le cattedrali nel deserto, le grandi fabbriche isolate dal contesto della società, o che si procede negli elefantiaci e interminabili lavori di dighe e porti attorno a cui si scatena la mafia e l’accaparramento, Nord e Sud si disgrega e sparisce in pratica di scena (oggi è poco più di un’emanazione privata di Compagna). Ma anche Cronache meridionali finisce con l’esaurirsi e chiude «non per uno scontro politico come era successo al Politecnico di Vittorini, ma proprio per un calo di tensione, per un inaridirsi dei suoi temi» afferma Valentino Parlato, il direttore del Manifesto. Negli anni Settanta, per il Sud, è il vuoto dei grandi progetti, sia da parte moderata che da parte comunista (e la batosta elettorale alle ultime elezioni comincia a essere sempre più vista proprio come una conseguenza del fatto di aver smarrito negli anni una proposta chiara e unificante per il Mezzogiorno, com’è apparso anche all’ultimo comitato centrale dedicato al terremoto). Fra i pochi a studiare il Sud e la sua realtà ci sono oggi gruppi dell’ultima leva, quasi tutti meridionali, che usano la sociologia di tipo nord-americano, l’antropologia, l’economia comparata. Un punto di riferimento è la «scuola di Portici», vicino a Napoli, dove lavorano economisti come Augusto Graziani, uno degli studiosi più originali dell’economia meridionale. Ed è proprio una giovane ricercatrice uscita da quell’ambiente, Gabriella Gribaudi, che ha appena pubblicato un saggio sul sistema di potere al sud, Mediatori (ed. Rosemberg e Sellier), dove molto più che in tante colonne di piombo uscite in queste settimane, è possibile capire perché e i meccanismi di una classe politica locale, i mediatori appunto, che sarebbe stata delegata dal potere centrale a far da cerniera con le popolazioni, con tutti i guasti che ne sono derivati. «Sono studi di grande interesse, ma che purtroppo restano fini a se stessi, slegati da qualsiasi concreta proposta politica» afferma Carlo Donolo, un altro giovane studioso che agli inizi degli anni Settanta aveva pubblicato sui Quaderni piacentini un famoso saggio sullo «sviluppo ineguale» del Sud, paragonandolo a quello dell’America Latina. Ma che per lo meno hanno il vantaggio di cominciare a proporre, sia pure ancora per un pubblico di èlite, una visione non semplificata, distorta o addirittura grottesca del pianeta Mezzogiorno. Chiara Valentini (Ha collaborato Luca Rossi) Panorama, 5 gennaio 1981. L’Irpinia scompaginata e sconvolta Un giorno del non lontano novembre ci siamo svegliati ad una realtà che ci pareva e ci pare incredibile. Una cieca forza si era abbattuta su uomini e cose e tutta l’Irpinia ne era stata scompaginata e sconvolta. Noi che non abbiamo sofferto nella carne lo strazio che le popolazioni hanno patito perché le vicende della nostra vita ci hanno voluto tenere lontani, siamo stati anche noi chiamati a curare le nostre ferite, le lacerazioni apportate dalla ferocia dell’evento al tessuto dei nostri affetti. Oggi più che mai uniti con le popolazioni irpine alle quali abbiamo il doloroso orgoglio di appartenere, noi rivolgiamo commossi il nostro pensiero alla gente fraterna di S.Angelo, la città che ha aperto ospitale e materna le strade della vita alla nostra infanzia ed adolescenza, agli amici di Lioni, Teora, Torella, Guardia, Morra, ai nostri morti, così crudelmente sottratti al fervore delle loro attività, vivi per sempre nel nostro ricordo. Dante Della Terza (“Il domani”, giugno-luglio 1981 Molti pensano di partire, ma per dove? Una popolazione migrante non ha fiducia nello Stato Le ragioni per cui i contadini sono decisi a sfidare un inverno tremendo, piuttosto che “arretrare”, sono di carattere storico, psicologico, culturale, culturale, ma soprattutto economiche e sociali. E’ quasi ovvio che popolazioni emarginate da secoli, di cui l’unica prospettiva è stata l’emigrazione all’estero o al nord, non abbiamo fiducia in uno stato che le ha sempre ingannate. L’ultimo tradimento lo hanno ancora negli occhi e nell’anima come una ferita sanguinante: i loro cari lasciati morire per due giorni, senza adeguato aiuto, sotto le macerie. Poi c’è il modo come l’esodo viene progettato. Camioncini con altoparlanti girano per i paesi invitando a “salire” sugli autobus, pronti a partire. Ma per dove? Nessuno sa con certezza dove andrà, a chi sarà affidato, quali garanzie ha di rivedere i suoi cari e quando, chi custodirà e come la sua casa, il bestiame, la terra sia pure avara. Il parallelo con il Friuli è mistificante e improponibile. A parte la differenza di mentalità, di cultura, di storia, il Friuli aveva dietro di sé il nord industrializzato. Gli alberghi, dove vennero sfollati donne e bambini - ma ciò accadde solo quattro mesi dopo il terremoto, quando si verificò una seconda grande scossa, il 13 settembre 1976 - erano a trenta o quaranta chilometri di distanza e gli uomini rimasti sul posto avevano la certezza di un pendolarismo effettivo con una viabilità. Qui si vuole portarli nel Gargano o a Manfredonia, sulle coste calabresi o campane, a centinaia di chilometri di distanza. Non si pensa neppure a reperire possibilità di sistemazioni che tutti sanno esistenti in città e nei paesi limitrofi. Fondamentale è poi il problema economico. In Irpinia, come nell’alta valle del Sele e in Basilicata, si tratta di famiglie di medi e piccoli agricoltori e allevatori. La famiglia è un’entità economica per i lavori agricoli. Occorre quindi affrontare questo problema in una forma diversa. Bisogna raggruppare nelle masserie e nelle case intatte e non pericolose vari nuclei familiari, approntare prefabbricati per le stalle crollate, roulotte nelle frazioni sperdute. C’è chi irride a queste proposte, ma sono le uniche sensate. Corrado Stajano (da Giovanni Russo – Corrado Stajano, Terremoto, Garzanti, 1981) X Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 LE INFILTRAZIONI DEL DOPO TERREMOTO La camorra fiutò l’affare La malavita organizzata intendeva impossessarsi della grande torta degli appalti miliardari - L’attentato a Gagliardi - La prima volta delle cosche A trent’anni dal sisma è ancora viva la scia di dolore e morte lasciata dal terribile evento, ma questa ricorrenza è anche l’occasione per riflettere su quanto è avvenuto nei territori colpiti da allora ad oggi. La commozione mi assale nel ricordare quello che vidi quando con i primi soccorritori giunsi in Alta Irpinia. Evidenti all’istante le dimensioni immani della tragedia: migliaia di vittime, decine di paesi rasi al suolo e tanta, tantissima gente straziata tra le macerie. Invocavano tutti disperatamente aiuto. Solo a Sant’Angelo dei Lombardi il sisma aveva provocato la morte di quasi 500 persone, tra cui il Sindaco Avv. Guglielmo Castellano mentre giocava a carte con gli amici in un circolo; il Capitano dei Carabinieri Antonio Pecora che chiedeva ai soccorritori che lo estraevano dalle macerie di attivarsi per aiutare anche gli altri…mentre ovunque serpeggiava la morte unita alla disperazione. Ancora intatto sui suoi piedi di lamiera era rimasto soltanto il cartello d’ingresso al paese. Tutto era distrutto. Ogni cosa, in ogni dove. Vidi file di bare allineate in diversi luoghi, talvolta madri e figli collocati insieme all’interno di una sola. Ho ancora negli occhi la disperazione della gente di Lioni, Teora, Torella, Conza, Morra, Laviano, Calabritto, Senerchia e degli altri centri limitrofi. Notai da subito l’esiguità di soccorsi mal coordinati rispetto alla vastità della distruzione. E fu Pertini, il Presidente Pertini, a denunziare la mala gestione della catastrofe. Ricordo l’amico Franco Roberti visibilmente commosso nel raccontarmi la scena a cui aveva assistito: con alcuni camion, su disposizione dei Capi della Corte, furono spostati da Sant’Angelo gli arredi ed i documenti contenuti nel palazzo di Giustizia. Molte persone, appresa la notizia dell’arrivo dei veicoli e nel timore di uno spostamento definitivo del Tribunale, si stesero per terra innanzi agli autocarri. Non era protesta. Era difesa del territorio, difesa del loro mondo. E Roberti, avendo giustamente interpretato l’animus di questo gesto estremo, telefonò al Procuratore Generale che sospese il trasferimento. Fu in quell’occasione che l’amico Roberti guardandomi soggiunse: “il terremoto ha già tolto tutto a questa gente, non possiamo ora contribuire a sottrarre loro anche il Tribunale”. Con ammirazione vera ricordo l’opera di migliaia di volontari giunti da ogni parte del Paese e importanti aiuti umanitari da tutto il mondo. Nacque allora la Protezione Civile e tantissimi organismi di volontariato, dalla Caritas alla Croce Rossa, trovarono nuovo impulso e nuove motivazioni, così come un rilevante apporto lo diedero l’esercito, i carabinieri, la polizia, la guardia di finanza, il corpo forestale le polizie municipali e molte altre associazioni. Vidi la voglia di riscatto di un popo- lo che aveva sì subito un grave affronto dalla natura ma che ora si stava ribellando e che cercava di recuperare il senso della propria storia. Con dignità lavorava per ripulire i borghi dalle macerie, per ridare identità al territorio ed al suo patrimonio artistico ed ambientale. Da sempre questa terra è abituata a subire il ciclo vichiano della distruzione e della successiva resurrezione. Rinascere ogni volta dalla polvere del terremoto come la fenice. Non è retorica. La vera ricchezza dell’Irpinia è la sua gente. Questa è la terra di De Sanctis di Morra, che non esitò a farsi anni di galera per promuovere tra i suoi allievi gli ideali liberali; di Palatucci, giovane commissario a Fiume, originario di Montella, che si immolò nel lagher di Dachau per aver salvato migliaia di ebrei dai campi di sterminio. Questa è la patria di gente di montagna che custodisce ancora nei cuori valori che hanno consentito loro di superare le avversità della natura per avere, ogni volta, la forza di ricominciare. Il nostro Paese ha subito nel tempo numerosi terremoti drammatici descritti con notevole sensibilità da grandi narratori nel corso del Novecento. Tra le tante esperienze significativa è quella vissuta da Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola del 1883. Il grande intellettuale perse così all’età di diciassette anni i propri genitori e la sua unica sorella, rimanendo egli stesso sepolto sotto le macerie per diverse ore. L’evento sconvolse la sua vita e gli procurò un grave stato di depressione descritto solo nel 1915 in Contributo alla critica di me stesso : “Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino”. Ed ancora l’immane tragedia del terremoto del 28 dicembre 1908 nella zona dello Stretto di Messina vide, tra i più colpiti, Gaetano Salvemini: perse la moglie, cinque figli e una sorella. Si arrivò a temere per la sua ragione. Raramente Salvemini volle ricordare questa drammatica esperienza. Tra le poche testimonianze c’è una lettera inviata a Gentile in cui scriveva: “Ho qui nel mio tavolo un po’ di lettere della mia povera moglie, della mia sorella, dei bambini. Me le vado leggendo a poco a poco. Mi sembrano le loro voci. E dopo averne letta qualcuna devo smettere, perché un pianto disperato mi prende e vorrei morire”. Il terremoto del 1908 colpì anche Palmi. Lo racconta Leonida Rèpaci ne I fratelli Rupe in cui il sisma viene descritto come quel colpo di tosse della terra malata che scoppia come un melograno maturo, mentre la morte sembra camminare per le strade, far visita ad ogni famiglia, strappando in un attimo le loro vite, piccoli sogni, la loro debole ma al tempo stesso intensa felicità. Il terremoto, sostiene Rèpaci, è un gran livellatore di classi: “Il proprietario che ha sempre trattato il suo colono alla stregua di una bestia, ora gli struscia pavido e conciliante. Ed è anche la cassazione suprema che spalanca le porte del carcere che la giustizia degli uomini tiene sbarrata”. Qualcosa di simile è avvenuto a Sant’Angelo dei Lombardi durante il sisma dell’80. A seguito del crollo della Casa Circondariale i detenuti liberarono le guardie carcerarie rimaste intrappolate nelle macerie. Episodi che assurgono a metafora della vita ove solo circostanze eccezionali consentono un’inversione di ruoli sociali e da prigionieri si può diventare liberatori dei carcerieri. Il livellamento di cui parla Rèpaci finisce però per apparire non reale ma fittizio e provvisorio, così come il senso di umanità e la pietas sembrano inficiati dalle condotte precedenti e da quelle successive. In questa direzione si muove anche la testimonianza di Ignazio Silone, colpito gravemente nei suoi affetti dal terremoto della Marsica del 1915. In una intervista al Le figaro Littèraire Silone racconta un particolare aneddoto: un vecchio usuraio fu sorpreso a letto dal sisma e alle sue richieste di aiuto e di cibo, gli fu risposto dalla gente di nutrirsi delle sue cambiali!. Ed ancora narra del ritrovamento di sua madre tra le macerie: “era distesa presso il camino, senza ferite evidenti. Era morta. Non ho versato una lacrima. Qualcuno ha creduto che non avessi cuore. Ma quando il dolore supera ogni limite le lacrime sono stupide...”. L’esperienza del sisma lascerà forti tracce nell’opera di Silone. In Incontro con uno strano prete afferma che l’evento nello scoperchiare le abitazioni ha messo in luce cose che di solito rimangono nascoste, mettendo in mostra l’altra faccia della tragedia, ovvero l’occasione per l’arricchimento individuale e per l’azione di sciacallaggio da parte di quanti hanno partecipato all’assalto di danaro pubblico. Di esperienze simili il nostro Paese ne ha vissute tante fino a quelle ultime dell’Umbria, con il crollo della chiesa di San Francesco in Assisi, ed il terribile sisma dell’Abruzzo dell’aprile 2009 con la completa distruzione di un’importante città come l’Aquila, con decine di centri rasi al suolo ed alcune centinaia di vittime. Recentemente mi è giunta una bella lettera da parte di Antonio Gagliardi Procuratore della Repubblica di Avellino all’epoca del post-sisma. Mi informa che il Presidente della Repubblica gli ha concesso una medaglia per l’eccezionale impegno dimostrato come magistrato nella lotta alla mafia tanto da subire nel settembre 1982 un agguato ( in cui rimase gravemente ferito) ad opera di numerosi esponenti di rilievo della Nuova Camorra Organizzata. Ho ricordato così quegli anni quando giovane magistrato dovetti affrontare l’emergenza del post-terremoto ed il disegno apparve subito chiaro dalle indagini che sviluppai. La camorra intendeva impossessar- Antonio La Penna e il sisma del ‘30 E’ stata la tragedia meno imprevedibile Per chi è nato nell’alta Irpinia da oltre cinquant’anni, il terremoto è stato una tragedia meno imprevedibile. Da ragazzo sono passato attraverso il terremoto del 1930; anzi questo è uno dei ricordi meno stabili della mia infanzia. Più volte mi è tornata in mente la notte in cui mia madre, spaventata, mi avvolse precipitosamente in un materasso e mi portò a dormire sotto gli olmi. Eravamo in campagna, di luglio: questa volta si è aggiunto anche il gelo dell’inverno. Seguì un breve periodo passato sui prati, sotto le tende: un ricordo quasi idilliaco, diversissimo da quello che lascerà in tutti questa tragedia che ora E adesso ci sentiamo «più italiani in Italia» Caro Manzione, perché rischiare di deformare, corrompere un lavoro costato tanto dolore? Questo non è un libro che tolleri il sopruso di una prefazione. Non c’è niente da suggerire, aggiungere o interpretare in una cronaca così esemplare della nostra tragedia. Senza retorica né pregiudizi, senza vittimismo né presunzione, raccogliendo, per molti e molti mesi, immagini, avventure, voci e silenzi delle persone, e persino il respiro della natura nelle diverse stagio- Atripalda, via Roma (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda) ni, tu e i tuoi collaboratori rendete sacra e intoccabile testimonianza delle speranze e delle delusioni, della rassegnazione e del coraggio della gente coinvolta nella spaventosa sciagura, e date il resoconto imparziale e completo di quanto è stato fatto, si sarebbe dovuto fare e ancora si aspetta che venga realizzato. Dante Troisi (Prefazione al libro di Gaetano Manzione Dai paesi del batticuore, novembre 1982) pesa sulla Campania; ma, intendiamoci, c’era tragedia anche allora. A Bisaccia vidi qualche casa povera sventrata dalle cosse; solo più tardi capii quale disastro aveva schiacciato altri paesi, per es. la vecchia Carbonara, che il regime fascista aveva ribattezzato col nome di Aquilonia, forse per ricordare una celebre sconfitta dei Sanniti, schiacciati dalla potenza di Roma. A Sant’Angelo dei Lombardi compii i miei studi di base, dopo le elementari, cioè il vecchio ginnasio: pochi luoghi mi sono così cari nel ricordo. Capoluogo del circondario, sede di tribunale e di vescovado, la piccola Sant’Angelo era una metropoli per noi che non avevamo mai visto una città. Dopo la faticosa salita, dopo la svolta che era in cima alla salita, s’imboccava un corso arioso, quasi elegante, che costeggiava una larga piazza: questo piccolo centro colpiva per la sua civiltà dignitosa, per la sua signorilità. Il centro storico, castello, curia vescovile, ginnasio annesso alla curia, aveva, naturalmente, un aspetto più austero, a tratti quasi tetro. Credo che ora il vecchio e il nuovo siano confusi nel disastro e nelle macerie. Antonio La Penna (Istituto Gramsci, convegno del 15 e 16 gennaio 1981 ad Avellino, anche in “Password”, n.1, 1998) si della “grande torta” degli appalti miliardari per la ricostruzione e vedeva in Gagliardi un ostacolo al perseguimento di questo scopo. Successivamente lavorando presso la Dda di Napoli compresi che il sisma era diventato un’occasione di arricchimento per i sodalizi mafiosi dell’intera Campania e per tanti affaristi e faccendieri, anche in territori che nulla avevano a spartire con questo evento drammatico. Furono anni difficili ma entusiasmanti. Decine di rilevanti indagini squarciarono il velo su tantissime vicende importanti e ricevetti anche gravi minacce con rilevanti rischi per la mia incolumità. Ma la battaglia fu vinta. Grazie al grande impegno delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia,Guardia di Finanza. E grazie anche a quella parte del mondo politico che avvertì il pericolo della presenza delle cosche mafiose in contrade che non avevano mai conosciuto questo fenomeno. Dopo trent’anni dobbiamo chiederci cosa è rimasto dell’originario spirito di riscossa. Dopo la ricostruzione materiale occorreva recuperare l’identità storica, culturale e socio-economica di un territorio dissanguato anche dall’inarrestabile emorragia del flusso migratorio. I paesi dell’Alta Irpinia arroccati attorno ad un castello e ad una chiesa non difendono solo cose ma proteggono importanti valori comuni: la famiglia, i principi cristiani, la solidarietà nella sventura, il rispetto reciproco, la dignità del lavoro, le tradizioni, l’artigianato, l’amore per il territorio e per la comune cultura. Oltre alle case occorreva anche ricostruire un’identità culturale ed economica preservando questi valori e nel contempo aggiornarli sulla base delle nuove istanze provenienti dalla società. L’emigrazione ha invece continuato a desertificare queste terre tanto che negli ultimi trenta anni la popolazione dell’Alta Irpinia si è notevolmente ridotta facendo assumere ad alcuni paesi connotazioni spettrali fino ad annebbiare la storia di questi luoghi tramandata soprattutto per via orale. Quante volte ho dovuto leggere negli occhi degli emigranti la nostalgia per la terra natia, ho avvertito nei loro racconti la caparbia volontà di tramandare le antiche tradizioni ed riti religiosi costruendo chiese simili a quelle originarie di San Gerardo o della Madonna della Neve anche lì lontano dalla Patria perché ciò li faceva sentire meno soli ed il distacco diventava meno duro. Quei centri che nel noto Viaggio Elettorale di Francesco De Sanctis erano ancora pieni vita e di fermenti culturali, oggi si presentano spenti ed in preda ad una lenta agonia dovuta anche ad una continua emigrazione tesa a mortificare ed inselvatichire sempre più questi territori montuosi. Progressivamente si stanno riducendo tutti i centri di aggregazione costituiti da scuole, parrocchie, circoli culturali e politici e aumentano la depressione ed il “mal di vivere” di cui sono spia un crescente numero di suicidi tra gli anziani e di tossicodipendenze tra i giovani. Disagio che sarebbe stato ancora maggiore senza l’encomiabile ruolo svolto dal mondo del volontariato nel creare una “rete di solidarietà” nei confronti delle fasce deboli ( disabili, anziani, poveri, malati ). Nessuna altra area del Paese ha vissuto in questi ultimi trent’anni un tale fenomeno migratorio con la naturale conseguenza di un rapido invecchiamento della popolazione esistente ed una disgregazione dei nuclei familiari rendendo così calzante la definizione del Rossi-Doria per questi luoghi: “le terre dell’osso”. Ad un secolo e mezzo dall’unità d’Italia rimane ancora attuale il dramma vissuto da Pasquale Villari, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Benedetto Cairoli, Giustino Fortunato e da tanti altri intellettuali che all’unità politica non videro seguire anche una unità economica. Anzi appare ancora in atto un triste e rovinoso processo di allontanamento tra le due Italie. Ed accanto a questa separazione se ne è verificata un’altra altrettanto drammatica. Abbiamo aree costiere e collinari sovrappopolate e completamente cementificate mentre le zone interne si stanno sempre più spopolando. Vicende rilevanti come la devastazione del territorio, l’affare dei rifiuti, le condizioni di boschi, fiumi e delle aree interne dimostrano la necessità di risolvere questi problemi. Urge un riequilibrio per deflazionare alcuni territori e dare nuovo respiro ad altri. Urge investire risorse per potenziare il turismo, migliorare il commercio dei prodotti tipici di questi luoghi dal vino alle castagne, sostenere l’artigianato, sviluppare adeguatamente le aree industriali eliminando l’eccessivo peso della burocrazia e fornendo una giustizia di qualità al servizio dei cittadini. Occorre far si che l’Irpinia diventi un “distretto culturale” perché la formazione proficuamente indirizzata può costituire volano per lo sviluppo. In questi territori stanno sorgendo insediamenti industriali e commerciali ed un terziario avanzato che hanno bisogno di personale specializzato e di servizi adeguati per poter crescere. Occorre incentivare una progettualità realmente funzionale all’occupazione per non sprecare le poche risorse ancora disponibili. Non si intende, naturalmente, minimamente interferire nelle autonome scelte del mondo politico ma solo offrire una pacata testimonianza in quanto “la sensibilità all’interesse pubblico” è nel codice etico dei magistrati . Questa ricorrenza deve costituire non solo l’occasione per ricordare ma stimolo per una nuova riscossa, per un nuovo rinascimento di valori, per ridare nuova linfa all’economia di questi luoghi, deve servire ad unire le forze non a dividere. L’appello che rivolgo è lo stesso di Guido Dorso in La Rivoluzione Meridionale. Sia la rinnovata classe dirigente capace di farsi carico dei sogni di tantissimi giovani costretti a lasciare l’Irpinia e sia capace di costruire per loro, con passione e nuove idee, un futuro. Un futuro qui e non altrove. Dobbiamo credere nei sogni, anche quando i risultati non sono immediati e tutto sembra perduto, perché il seme della speranza una volta piantato germoglierà ed una nuova primavera subentrerà all’inverno di questi anni. Ci sono le condizioni per lavorare in questi centri appenninici per le infrastrutture realizzate, per il livello culturale e morale dei suoi abitanti, per l’amore di questi luoghi, per il diffuso senso di legalità esistente. Ci sono le condizioni per costruire insieme nuovi orizzonti per i nostri figli. Ci sono le condizioni per migliorare il nostro futuro. E’ giunto il momento che gli uomini di queste terre, molti ormai sparsi per il mondo, riannodino gli antichi legami e si facciano carico dello sviluppo socio-economico dei centri appenninici consentendo così alle aree interne di riconquistare la centralità perduta. All’ombra dell’Appennino lo sviluppo è possibile. Diamo a chi è capace ed ha buone idee l’opportunità di rimanere. Ed a chi è partito una buona ragione per tornare a casa. Perché ritrovare la propria terra è ritrovare se stessi. Antonio Guerriero Procuratore della Repubblica di Sant’Angelo dei Lombardi XII Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 IL DEGRADO SBRICIOLATO DAL TERREMOTO Avellino, la città dove il cieco guida Atripalda, via Roma (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda) Il centro storico non c’è più. Probabilmente anche premuto dalle ditte di appalti, il Comune ha demolito tutto, per far sorgere tutto dal nuovo. Mentre molto si poteva ristrutturare, salvando i valori ambientali e storici. È nota l’avversione dei politici per l’integrità dei centri storici e la loro insana predisposizione a considerarli inutili muffosi musei nel cuore di una città in pieno sviluppo. Da decenni, nonostante gli interventi della Sovrintendenza e le recriminazioni della sinistra, nel borgo antico (prima romano, poi longobardo, e avanti con i palazzi costruiti dai francesi, con quelli settecenteschi fatti erigere da Carlo III), non è mai stato fatto nulla, nessuna manutenzione, non un restauro, non parliamo di piano regolatore. Senza che le autorità preposte all’urbanistica si rendessero conto che recuperare e restaurare il vecchio costa molto meno che costruire il nuovo. Risanamento conservativo? Ah, ah, ah! Chissà come hanno riso, sentendo quest’espressione, gli avidi costruttori e i loro protettori politica che, lasciandolo deperire a quel modo, consideravano il Una storia del Sud Siamo noi infarinati come pagliacci di un circo equestre in più soltanto un filo di sangue dalla bocca. Avevamo tutti in mente un nome amato e invano, sul momento, qualcosa ce l’ha fatto dimenticare. Mia figlia stava tessendo pensando al marito in Germania. Mia nuora stava scrivendo a caratteri grandi l’amore per mio figlio finito a Digione. Avevo un nipotino sulle gambe pieno di riccioli e bizze, una pecora ai piedi e il cane appoggiato sulla sua lana; mentre io fumavo la pipa nell’alta sera Irpina. Sere di storie subite e rimaste impunite. sere di venti e tremiti d’animali nei pagliai, mescolate a magìe pagane o cristiane. Ma tutti avevamo fiducia nella forza dei cieli siderei, nell’osso che ci ha generati cui stavamo aggrappati come grappoli d’uva acerba, tra i sassi che ci riscaldavano insieme ai fagioli e ai ceci, miti cibi come mangimi. Poi c’è stato l’evento, nero furore profondo, tra l’ictus e l’infarto, un dubbio, come un peso di una bilancia impazzita. Ho sentito il passo di Pertini e quello felpato del Papa, ma né l’uno, né l’altro, umane creature, avevano unghie per scavarci. e così siamo morti da emarginati da antichi clandestini della storia. Domenico Rea (“Il Mattino illustrato”, 6 dicembre 1980) centro storico come terra di conquista. In alcune città, Bologna in testa, intorno al ’70, per scongiurare la distruzione di un patrimonio insostituibile e per evitare la trasformazione degli alloggi in uffici, si era arrivati a un restauro fisico a fini residenziali. Qui certo no. Si è lasciata degradare la parte vecchia collegata con vie ripide e strette all’imponente Duomo dalla facciata neoclassica e così le chiese, la fontana barocca, la più antica strada, quella del Seminario, la torre dell’Orologio, la piazza centrale di forma quasi triangolare in cui sboccavano cinque vie e anche il palazzo medievale della Dogana rifatto a metà Ottocento a cura di Marino Caracciolo e decorato da statue e busti di imperatori romani. Degradazione totale finché il terremoto mette a posto tutto, cioè sbriciola e ferisce (molto rovinate le case di tufo) e masse urlanti di cittadini del centro storico che hanno sofferto per anni in case cadenti e maleodoranti, senza apparecchiature igieniche, si precipitano per strada chiedendone la demolizione immediata e al loro posto case di cemento armato. Senza immaginare che sarebbero finiti chissà per quanto in campi di concentramento di periferia. Camilla Cederna (da Casa nostra, Rizzoli, 1983) Terremoto, quale ricostruzione I tragici fatti, in gran parte evitabili, del recente terremoto, dimostrano chiaramente l’elevato costo sociale che si è dovuto pagare per l’arrogante disprezzo nei confronti di tali competenze, per l’inettitudine e l’ottusità, per la torbida visione approssimativa nell’amministrazione delle cose. Viene alla mente la lettura di un’autorevole pubblicazione tedesca del 1909, nella quale si faceva una descrizione, minuziosamente commentata, dei fatti relativi al terremoto di Messina del 1908. In tale descrizione, se si cambiano ovviamente i nomi dei funzionari coinvolti, emerge una realtà poco (o per niente) diversa da quella che abbiamo vissuto nel recente terremoto. Se si pensa bene, nei settant’anni che ci separano dai fatti di Messina, non c’è stato in Italia un sostanziale progresso nel modo di misurarsi con la questione sismica. Modo di misurarsi che, oggi come ieri, procede a pari passo con un modo arretrato di governare. Solo così si spiega l’irresponsabile passività dello Stato, dei suoi apparati esecutivi e burocratici, nel campo della protezione civile. Nulla, ad esempio, è stato fatto per dare nascita ad una coscienza di massa, senza la quale, come è noto, ogni protezione civile è difficilmente praticabile. Tomàs Maldonado (“Casabella”, n. 470, giugno 1981) LA SOPRINTENDENZA AL LAVORO PER SALVARE LA STORIA La cultura e gli effetti della scossa Dopo il sisma catalogato un patrimonio sconosciuto - Ritrovati episodi di un mondo artistico ritenuto a torto minore - L’impegno per salvare dalle ruspe castelli, palazzi storici, antiche dimore - Tanti gli edifici crollati o seriamente lesionati - Strutture che in molti casi erano state quasi dimenticate Domenica 23 novembre 1980, ore 19,35: una violenta “interminabile” scossa sismica sconvolge la Campania e la Basilicata, lasciando dietro di sé distruzione e morte. Ma i danni di un terremoto così grave, pur nel rispetto del dolore e della sofferenza abbattutisi su quelle popolazioni, non si possono calcolare soltanto sulla base del numero dei morti e della percentuale di edifici crollati o resi inagibili. Un evento di così drammatiche proporzioni finisce inevitabilmente con lo sconvolgere le stesse condizioni di vita di genti già colpite negli affetti e nei beni, distogliendole anche dalle attività lavorative e intaccandone quindi l’economia e la gestione dei mezzi di sopravvivenza. E non risparmia purtroppo neanche il patrimonio culturale di una collettività, al quale è tacitamente affidato il compito di trasmettere alle generazioni future la coscienza della propria storia, il retaggio delle tradizioni, l’attaccamento alle proprie radici. Ma non è neanche facile far comprendere a popolazioni tanto provate l’importanza di certi valori. Gli effetti di un sisma così violento sono perciò catastrofici. All’indomani della scossa sismica di novembre e a quella successiva, non meno grave, di febbraio, fu necessario perlustrare tutto il territorio per individuare e catalogare un patrimonio culturale semisconosciuto. Entrando con non pochi rischi in chiese e conventi si cercò di tirar fuori un pò alla volta statue, tele, tavole dipinte, pezzi di altari ...; insomma quello che non rappresentava più semplicemente un oggetto di culto o uno strumento della liturgia o una testimonianza della devozione di un popolo, ma diventava un “bene culturale” da recuperare, catalogare, restaurare e restituire appena possibile alla comunità cui apparteneva. Accanto alle sculture di Cosimo Fanzago, agli edifici monumentali del Vaccaro e ai dipinti di Andrea da Salerno, di Marco Pino da Siena, di Francesco Guarini o dei Solimena e del Ricciardi, vennero alla luce tanti episodi di un mondo artistico considerato minore, ma certamente significativo rispetto al contesto socio-culturale nel quale si era sviluppato nel tempo. Via via che si percorrevano le strade del “disastro”, capitava assai spesso di ritrovarsi inaspettatamente in chiostri affrescati, cripte ancora pervase del misticismo e della spiritualità del cristianesimo San Marciano, quel che resta (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda) medioevale, cappelle rupestri dove sembrava ancora aleggiare la presenza dei santi-eremiti che le eressero per isolarsi dal mondo e vivere nella preghiera e nella povertà. Nel frattempo si cercava di salvare dalle ruspe, favorendone poi il ripristino, antiche dimore signorili, importanti palazzi pubblici e castelli: pagine di una storia che non ci viene raccontata nei libri scolastici, ma che è possibile leggere soltanto attraverso le visibili testimonianze del passato e ricostruire sulla base di uno studio attento e approfondito di documenti archivistici, peraltro assai spesso scarsi. Le ferite più profonde e più evidenti si contavano soprattutto nei centri storici, generalmente già deboli a causa di un degrado conseguente ad uno sviluppo urbano naturalmente e progressivamente eccentrico e a tutta una serie di valutazioni, principalmente economiche, errate. E, in modo particolare, negli edifici più antichi e nei complessi monumentali. Il patrimonio monumentale irpino si pre- senta, dunque, come un insieme di edifici di rilevanza artistica minore, tra i quali però emergono alcuni esempi di architettura colta, degni di attenzione: la tardocinquecentesca Collegiata di Solofra, ricca delle migliori opere di Francesco Guarini e dei Solimena; il settecentesco Palazzo Abbaziale di Loreto a Mercogliano, iniziato nel 1734 da Domenico Antonio Vaccaro, ma terminato nella seconda metà del secolo dall’architetto della corte borbonica Michelangelo De Blasio; L’Abbazia di S. Guglielmo al Goleto a Sant’Angelo de’ Lombardi, dove si sono conservate meglio le costruzioni più antiche rispetto alla chiesa del Vaccaro; La Basilica paleocristiana e le contigue catacombe di Prata. L’architettura cosiddetta minore comprende edifici pubblici e privati. La categoria più ampia è rappresentata dalle chiese, da quelle di maggiori dimensioni, come S. Ippolisto ad Atripalda o la Cattedrale di Conza, a quelle di proporzioni più modeste. Molte Ora uno dei mali peggiori è l’assuefazione al peggio Dopo due anni di lotte dure tra rassegnazione e realismo Sono passati due anni da quel tragico ventitrè novembre 1980. Sono stati due anni di lotte dure, per i comitati dei terremotati, per i lavoratori delle fabbriche danneggiate dal terremoto, per i giovani due anni in cui non ha cessato di farsi sentire il peso dell’incapacità, delle lotte intestine, dei giochi di potere del governo centrale, ma anche dell’inadeguatezza, della pasticciona faciloneria del governo regionale, inadempiente cronico riguardo alle sue stesse promesse (formulate sempre con incredibile facilità). Ma questi due anni sono stati anche quelli in cui a livello del governo regionale, come del potere degli enti locali, a cominciare proprio dalla partita della ricostruzione, del dopoterremoto, la camorra i suoi “imprenditori”, i suoi “uomini d’oro” hanno fatto sentire il loro peso. Abbiamo sentito qualcuno, anche qualche magistrato, affannarsi a dire che, tutto sommato, si poteva ritenere ancora salva dalle manovre camorristiche il mercato dell’edilizia e quindi della ricostruzione. Assurdo. Ma se numerose inchieste, condotte proprio dalla magistratura salernitana e anche napoletana, dimostrano il contrario? Ma se proprio “Dossier”, in una inchiesta dedicata ai ‘monopoli della mafia’, svelò i giochi esistenti tra il boss della camorra Rosanova ed alcuni comuni del nocerino sulla costruzione di alloggi per i terremotati (da pagare a peso d’oro?). Ecco. A due anni di distanza dal sisma che provocò devastazioni in Alta Irpinia ed in Alto Sele, come del resto nelle province di Salerno e di Avellino, forse, possiamo dire che uno dei mali, dei guasti peggiori è l’assuefazione, la convinzione che le cose devono andare avanti così; male, per forza e ineludibilmente. È la cultura della rassegnazione che tanto assomiglia a quella omertà, e ne diventa parente stretta, fino ad indurre, anche chi ha intelligenza per capire e occhi per vedere, a dire che ‘no, certe cose non esistono’, anche se esistono, sono ‘immaginazione’ pur essendo cruda realtà, sono ‘di la da venire’, pur essendo in atto da tempo. Giuseppe Marrazzo (“Dossier Sud”, 19 novembre 1982) hanno un impianto antico, ma quasi tutte hanno in comune una ristrutturazione settecentesca, per lo più a seguito di eventi sismici, tra i quali in particolare quello del 1732. Lo schema planimetrico più ricorrente è quello longitudinale a navata unica con cappelle laterali; ma non mancano esempi di chiese a tre navate: S. Giovanni del Vaglio a Montefusco, l’exCattedrale di Frigento, S. Maria delle Grazie ad Atripalda, l’Assunta a Lioni. La navata unica assai spesso presenta un soffitto piano con tavolato dipinto, decorazione tipica della seconda metà del secolo XVIII e molto diffusa in Irpinia perché più economica e più facile da realizzare rispetto agli affreschi. Come corpo a parte, ma sempre a completamento della chiesa e adiacente ad essa, si presenta di solito la torre campanaria, costruzione massiccia generalmente a pianta quadrata e con il basamento rivestito in conci squadrati. Un’altra categoria ampiamente rappresentata è quella dei “palazzi”, che comprende complessi conventuali, edifici signorili, castelli. I primi, caratterizzati generalmente dalla presenza di più corpi di fabbrica intorno ad un chiostro, spesso rimaneggiati e posti su diversi livelli, dopo un terremoto così violento non potevano non presentare cedimenti.: potremmo citare, come esempi, il complesso di S. Marco a Sant’Angelo de’ Lombardi o il convento dei Francescani di Serino. Un caso non raro è quello rappresentato dai palazzi cosiddetti “civili” derivanti dalla trasformazione di ex-conventi, come il palazzo civico di Atripalda e il Seminario Arcivescovile di Montefalcione; o dalla trasformazione di castelli medievali, come il palazzo baronale di Prata o l’Episcopio di S. Andrea di Conza. Elementi di riferimento importanti nel tessuto urbano dei centri storici sono, poi, gli edifici signorili, caratterizzati da corpi edilizi a corte, con facciate arricchite da elementi decorativi a stucco e in pietra e da portali importanti, come i palazzi Caracciolo di Avellino e di Atripalda o il palazzo Orsini di Solofra, il palazzo Alvares di Avella, il palazzo Del Balzo di Cervinara, i palazzi Greco e Festa nel centro storico di Avellino. Non mancano esempi, inoltre, di una tipologia molto particolare, che è quella rappresentata da due edifici ottocenteschi, nati con una funzione specifica ormai cessata: l’ex-Carcere Borbonico di Avellino a pianta poligonale, progettato da Luigi Oberty e realizzato da Giuliano De Fazio; e la Dogana dei grani di Atripalda, interessante esempio di archeologia industriale. Undici, infine, in Irpinia, i castelli censiti dopo il terremoto: ad Ariano, Avella, Calitri, Chianche, Forino, Grottaminarda, Manocalzati, Monteforte Irpino, Montella, Montemiletto, Sant’Angelo de’ Lombardi. L’analisi dei danni evidenzia un’alta incidenza dei crolli, soprattutto delle strutture verticali e di copertura; ma anche fenomeni di distacco, prevalentemente nelle chiese, poi nei palazzi, infine in campanili e castelli in pari misura. Un dato emerge con certezza: il terremoto ha infierito su strutture già indebolite da anni, forse secoli, da una scarsa conoscenza, da poca attenzione e da ancora minore interesse ad una adeguata manutenzione. Maria Grazia Cataldi Funzionaria del Ministero Beni Culturali presso la Soprintendenza mista di Salerno e Avellino Quel colpo nello stomaco sferrato ad un popolo che si piegò in ginocchio Quella sera, alle 19.34, una zappata di buio si abbatté sulle terre dell’Irpinia e ne dissestò le antiche e le nuove geometrie. Un grappolo di speranze, di tenere consuetudini, di fatiche in parte concluse, in parte avviate, fu strappato, buttato a terra, calpestato. A tradimento, mentre veniva dalla gente gustata la pigra dolcezza serale di un mite giorno di festa d’autunno. Proditoriamente fu sferrato un colpo nello stomaco e un popolo intero si piegò, cadde in ginocchio. Di fronte, tra i tenui veli brutalmente squarciati di quella sera, che sembrava indugiare a cedere alla notte, l’orrore mostrò il suo volto ostile e insieme demente. Il grido di chi vide si rivoltò all’interno e cadde lungo i dirupi della paura: implose, si perse, affondò nel silenzio. Ci volle poi l’infinita eternità di alcuni attimi per riprendere fiato a chi l’avesse. Per lamentarsi, per farsi ascoltare, quando l’irreparabile era accaduto, quando le pareti si erano crepate e i morti giacevano con mucchi di macerie sopra il cuore. Ugo Piscopo, Irpinia sette universi cento campanili. Percorsi e spaccati, ESI, Napoli, 1998. Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 XIII Le riflessioni sul dopo terremoto di Rossi-Doria e Prodi Lo sviluppo fantasma La pubblicazione un mese dopo il sisma dello studio «Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980» - Si consiglia la delimitazione dell’area colpita: solo così saranno possibili ricostruzione e rilancio economico - Gli studiosi auspicavano la ristrutturazione e il potenziamento dell’agricoltura e la creazione di alcuni nuclei industriali - Non è andata così A trent’anni dal terremoto, occorre guardare avanti, al futuro, bisogna affrontare con grinta, con determinazione, con energia rinnovata e nuova, anche con un certo ottimismo, tutte le sfide, che sono davanti a noi, le sfide, che l’Italia, il Mezzogiorno, la Campania e l’Irpinia dovranno affrontare per dare risposte convincenti e vincenti ad una crisi economica, che si profila come strutturale e ad una situazione - quella irpina -, che risente non poco della crisi generale del nostro Paese. Evidentemente, questo è il modo migliore, sensato e giusto, per guardare al futuro, e tuttavia volgere la nostra attenzione al passato è non meno preziosa cosa, non tanto per lasciarci prendere da rimpianti e nostalgie, quanto per compiere la necessaria ammissione, che non tutto ha funzionato nel modo migliore. Del resto, le testimonianze che le televisioni, e i giornali stanno fornendo dell’Irpinia a trent’anni dal terremoto, presentano una terra tra luci e ombre. Se da un lato, la ricostruzione è avvenuta in modo quasi completo, e talvolta in modo accurato, se non eccellente, dall’altro lo spopolamento di La ricostruzione cancella l’antica miseria Con riferimento all’unica grande unità irpina che comprende l’alta Valle dell’Ofanto, la zona del Terminio e l’alta Valle del Sele per oltre novantamila ettari, occorre sin dall’inizio affrontare i problemi in modo diverso a seconda che ci si riferisca ai comuni distrutti e gravemente disastrati (nei quali ricade il novanta per cento delle vittime totali) o a quelli meno colpiti o quasi intatti. Nei primi, la popolazione, falcidiata dalla morte ha una vita tanto sconvolta da rendere indispensabile per molti mesi il prevalente intervento esterno sia pubblico, che privato. Nei secondi, all’inverso, si può e si deve sin da ora fare prevalente assegnamento sulle forze locali e su di una parte degli emigrati che volontariamente accettino di ritornare e partecipare alla ripresa. Nell’uno e nell’altro caso, gli aiuti esterni dovranno attuarsi in modo che i superstiti primi e durevoli della realizzazione, dopo la sciagura, del nuovo possibile migliore assetto economico, residenziale e civile. Ciò richiede però che l’aiuto esterno abbia carattere di continuità, sia realizzato con l’opera di gruppi organizzati di volontari civili delle altre regioni d’Italia; che i soccorsi siano adeguati, adatti, continuativi e distribuiti con rigorosa equità sotto il pubblico controllo; che l’azione dello Stato e della Regione nei campi di loro diretta competenza sia pronta, non burocratica e affidata a funzionari onesti e efficienti. Ciò potrà essere, in particolare, possibile se i mezzi finanziari destinati al soddisfacimento della fondamentale esigenza la ricostruzione e la riparazione delle case saranno con procedure semplici messi direttamente a disposizione degli interessati, i quali possono essere i migliori, più rapidi e più economici costruttori e riparatori, senza l’interferenza dei meccanismi burocratici e clientelari, evitando la piaga dei grossi appalti edilizi che in questo caso sarebbero del tutto fuori luogo ed assurdi. Manlio Rossi-Doria (“Corriere della sera”, 30 novembre 1980) questi luoghi restituiti agli uomini risulta evidente a tutti. L’Irpinia è una delle province più vecchie d’Italia, ed è una delle zone con il minor numero di giovani. Inoltre, la fuga dei giovani, anche di diplomati e laureati, sembra essere una emorragia, che continuerà per molto tempo. Analizzare questi problemi, e soprattutto tentare di fornire qualche soluzione minima e credibile, è compito arduo, e che non compete certo a chi scrive. Piuttosto, posso segnalare a chi è deputato a questi compiti uno scritto importante, noto soprattutto tra gli addetti ai lavori, e che l’Università degli Studi di Napoli, segnatamente il Centro di specializzazione e ricerche economiche-agrarie per il Mezzogiorno di Portici, sotto la guida di Manlio Rossi-Doria, realizzò ad un mese dal disastroso sisma dell’Irpinia: “Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980”, Einaudi, 1981. Dietro queste riflessioni, vi è certamente la figura di Rossi-Doria, che da anni, ben prima del terremoto, almeno a partire dai famosi interventi per l’Irpinia del 1968, del 1969 e del 1971, e segnatamente nell’ultimo di questi, “L’Irpinia e le zone interne nello sviluppo regionale”, aveva focalizzato la sua attenzione su quei problemi riproposti poi dall’Università di Portici sul finire del 1980. Tuttavia, il lavoro di questa “Memoria” è in un certo senso collettivo, ossia riguardò un numero imprecisato di giovani e meno giovani ricercatori, coordinati dal Maestro: pertanto, in questo saggio non voluminoso, di poco meno di cento pagine, gli autori si firmano genericamente “gli estensori di questa Memoria”, “Il centro di Portici” e similia. Tutto, comunque, rimanda a RossiDoria: i caratteri di delimitazione del territorio, e la conoscenza approfondita della realtà sociale, culturale ed economica dell’Alta Irpinia, della zona del Terminio, dell’Alto Sele e del Tanagro, della Basilicata: il grande meridionalista, infatti, sin dal 1944/1946, aveva studiato questa zona interna del meridione, quella terra dell’osso, il cui amore lo legava inscindibilmente a uomini quali Guido Dorso, Rocco Scotellaro e Carlo Levi. Sin dalla prima pagina, si evidenzia come un presupposto fondamentale per la riuscita della ricostruzione e dello sviluppo economico sia la chiara delimitazione del territorio colpito più gravemente dall’evento. E così, già a pagina 9, si trova scritto: “Per affrontare razionalmente i problemi della prima sistemazione, della ricostruzione e dello sviluppo economico delle zone più duramente colpite è, quindi, opportuno delimitare chiaramente il territorio investito, in base non soltanto alla gravità dei danni subiti, ma anche ai confini naturali delle unità idrografiche ed economiche, nelle quali rientrano i comuni maggiormente distrutti o sconvolti. Questo, anzitutto, si è proposto di fare il “Centro” di Portici, che, a tal fine, ha tracciato, e oggi propone al Governo, i confini del comprensorio da considerare, ai fini di un’organica ricostruzione e di un razionale sviluppo economico e civile, limitando l’attenzione alle aree non metropolitane. Quello delimitato è un territorio, senza soluzione di continuità di quasi 300.000 ettari, con una popolazione di oltre 230.000 abitanti; ricade nelle tre province di Avellino, Salerno e Potenza e investe 71 comuni così ripartiti”: 40 per la provincia di Avellino, 16 per Salerno, 15 per Potenza. Questo concetto è subito ribadito nelle pagine successive. Al proposito, è necessario riportare una larga citazione, per comprendere quanto fossero chiare le idee agli estensori della “Memoria”: “È convinzione degli estensori di questa ‘Memoria’ che ricostruzione e sviluppo saranno possibili solo a condizione di tenere chiaramente e rigidamente separati nella legge, nella struttura organizzativa e specialmente nei finanziamenti quel che riguarda l’area ‘epicentrica’ più duramente colpita Conza della Campania (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda) dalle altre. Se, infatti, il rimanente vastissimo territorio investito dagli effetti del terremoto e i grandi addensamenti urbani più o meno gravemente danneggiati richiedono finanziamenti cospicui, i problemi che si devono affrontare sono di natura obiettivamente diversa da quelli dell’area epicentrica”. E concludono: “La ricostruzione e lo sviluppo di questa [area epicentrica] debbono essere avviati subito e portati avanti, con particolare energia e rapidità, come azione a sé, non è escluso, tra l’altro, che in tal modo essi possano servire da modello e da banco di prova per quanto potrà essere fatto in seguito in altre zone interne del Mezzogiorno”. Quindi, prima regola: delimitare il territorio dell’area epicentrica e per questa attuare leggi speciali per la ricostruzione e lo sviluppo. Questa zona comprende sinteticamente l’alta valle dell’Ofanto e l’alta Irpinia, la zona montana e pedemontana del Terminio, l’alta valle del Calore, l’alta e media valle del Sele e della connessa media valle del Tanagro, i comuni appartenenti alle Comunità montane del MarmoPlatano e del Melandro. Come siano realmente andate le cose e come l’area terremotata si sia poi espansa sino ad interessare tre Regioni, è un interrogativo la cui risposta lascio ad altri. Nella “Memoria” si passa quindi ad analizzare la realtà preesistente al terremoto, l’emigrazione, la struttura sociale ed economica, la ricostruzione e lo sviluppo. L’analisi presenta luci e ombre. Infatti, i ricercatori di Portici restano stupiti, quasi ammirati, dal fatto che la nostra terra non appaia ad un mese dal terremoto una terra in estinzione: i cittadini vogliono caparbiamente restare e vivere qui. Inoltre, vedono la presenza di infrastrutture sufficienti, sebbene siano necessari dei potenziamenti e dei miglioramenti anche notevoli. Tuttavia, un punto di debolezza consiste nel fatto che la maggior parte degli uomini atti al lavoro, tra i 18 e i 40 anni, viva lontano, in Italia del Nord o all’estero, per ovvie ragioni di sopravvivenza. Occorrerebbe, pertanto, incentivare in qualche modo il ritorno di questa forza lavoro, necessaria per una rinascita, anzi per il pieno sviluppo del territorio. Venendo al problema focale, “le linee del possibile sviluppo prevedono sia una ristrutturazione e un potenziamento dell’agricoltura, sia la creazione di alcuni nuclei industriali, localizzati in modo da poter essere facilmente raggiunti da un certo numero di comuni, la cui popolazione potrebbe così trovare sul posto quella integrazione ai redditi agricoli, che sinora è stata costretta a ricercare lontano con l’emigrazione”. In buona parte, come si può comprendere facilmente, questi concetti sintetizzano le posizioni teoriche sostenute da Rossi-Doria da più di dieci anni, quali, ad esempio, la politica dei nuclei industriali, l’ammodernamento dell’agricoltura, la politica per il ritorno degli emigrati. Del resto, questi stessi concetti furono espressi anche da Romano Prodi, che in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 dicembre 1980, scriveva a proposito delle zone terremotate: “Tutta l’Italia industriale deve prendere in cura la creazione di alcune zone industriali moderne, cercando di utilizzare le risorse umane di molti emigrati che, a diversi livelli, posseggono una propria capacità professionale nel campo dell’industria e dell’artigianato. Non mi illudo che questo sia facile, ma credo che senza il ritorno, anche per mezzo di forti incentivi finanziari, di parecchie centinaia di uomini di questo tipo, sia ben difficile costruire un tessuto industriale robusto e moderno”. Venendo alle aree industriali, nella “Memoria” si ipotizza la realizzazione di cinque grandi nuclei: uno nella zona Flumeri / Grottaminarda, un altro in territorio di Lioni (“nel mezzo della valle dell’Ofanto”), quindi tra Montella e Nusco, in località Ponteromito, un altro in prossimità delle confluenze tra il Sele e il Tanagro, ed infine nei pressi del Calaggio. Sul tipo di industria, ovviamente, gli studiosi non si sbilanciano. Ma Manlio Rossi-Doria nel suo intervento già ricordato del 1971 raccomandava di creare una relazione stretta tra le risorse alimentari del territorio e gli insediamenti produttivi, almeno quando era possibile. A questo punto, nel concludere, preferirei più che chiosare questa indagine porre delle domande. Innanzi tutto, cosa è stato fatto di concreto, soprattutto tra il 1980 e il 1995, a favore dell’agricoltura delle zone interne? Solo di recente - forse troppo tardi? - l’agricoltura innovativa è stata percepita come strumento di sviluppo, di occupazione qualificata, di benessere. D’altra parte, nelle aree industriali realizzate nel dopo-terremoto si sono insediate tutte attività produttive floride, solide, legate alle risorse materiali del territorio, oppure, accanto a queste, anche molte attività produttive poco solide, interessate più ai contributi dello Stato che a realizzare azien- de durature ed efficienti? Forse i nuclei industriali poi realizzati erano troppi e rispondevano più a interessi localistici che a funzionalità di concreto sviluppo? Come, d’altra parte, si è pensato di completare questo piano di sviluppo, basato sull’agricoltura e sull’industria, con altri settori strategici come l’artigianato e il turismo (altro auspicio di RossiDoria)? Quanto questo progetto di sviluppo si è basato su solide, robuste risorse locali, umane e intellettuali, e quanto, invece, su individui provenienti da fuori, attenti forse soprattutto a “raccogliere” e a partire per altre mete? Quali politiche, in fine, sono state attuate a favore del ritorno degli emigranti magari per mettere a frutto le competenze acquisite in campo lavorativo e imprenditoriale nella loro terra d’origine? Non diamo risposte, ma piuttosto una constatazione, ossia che senza il concorso massiccio delle forze locali uno sviluppo dell’Irpinia non sarà mai possibile. Ma questo la politica sembra lontana dal comprenderlo. Paolo Saggese Una prova terribile per tutti Giustificato lo sdegno, comprensibile la rabbia, necessaria la giustizia, ma ora guai a fermarsi Una prova terribile per la gente del Sud che rinnova le piaghe ancora non rimarginate dell’antico dolore. Ma ormai non è più il tempo delle parole che possono parere consunte anche quando dicono sinceramente pietà e amicizia. E in queste settimane ne sono state macinate, quante ne sono state macinate! Ma ora sappiamo che sono buona farina solo quelle che hanno lasciato in ognuno di noi la consapevolezza che la tragedia ci riguarda tutti. Giusto lo sdegno, con irrefrenabili lacrime, di chi ha sentito nella propria carne lo strappo delle persone care; comprensibile la rabbia delle polemiche, a costo che non siano un alibi (della strumentalizzazione, se c’è stata e continua, è moralità non parlarne; non prenderne neppure atto per non condividere la vergogna); necessaria la giustizia contro chi è stato svelato e riconosciuto nei propri loschi mestieri dalla violenza naturale. Ma guai a tutti se ci si fermasse a questo, se con questo diversivo si dimenticasse che la tragedia continua nella lentezza dei giorni, che per migliaia e migliaia di persone non saranno più quelli di prima. Ferita la terra e feriti a morte i paesi di cui, per la gran parte, ignoravamo l’identità e che abbiamo conosciuto nell’ultimo atto della loro esistenza. Saranno più gravi i giorni della tragedia che sono ancora da vivere se la memoria rimarginerà le ferite prima che gli squarci delle famiglie disperse, di quelle che si preparano a cominciare daccapo, se l’isolamento di chi è solo sarà considerato un affare amministrativo o solo amministrativo e politico. Poiché è dalla volontà e dal sacrificio di tutti – quello che si misura nei fatti, non labile partecipazione sentimentale – che dipende il futuro e la conclusione storica dell’apocalittico evento. Se non si uscirà da questo terribile catalizzatore migliorati nello spirito comunitario e nella coscienza civile, se il terremoto non ha scosso anche certe incrostazioni di costume e di comportamento di tutta la comunità nazionale avremo una colpa imperdonabile in più di fronte a coloro che debbono ancora nascere; e di fronte a Dio, cui chiediamo aiuto per scamparci dalla miseria dell’indifferenza. La sventura è anche l’ora della conoscenza di noi stessi: atroce e impietosa, non può che spingerci ad alimentare la speranza che si costruisce nel sacrificio creativo per gli altri: anche quando ci sembrerà di non udire più il loro grido. Valerio Volpini “L’Osservatore Romano” dicembre 1980 La sfiducia di fronte allo Stato E ora via i Borboni ritorni Garibaldi Il grande momento della solidarietà nazionale passerà presto, ma gli effetti di questo terremoto no, non passeranno. Effetti economici, effetti politici, effetti morali. Ci sono due ragioni prostrate, paesi rasi al suolo, una città enorme come Napoli che sembra tornata ai tempi del dopoguerra, altre, come Potenza e Avellino, colpite nelle loro più vitali radici, risorse distrutte per migliaia di miliardi. Quando la notte di domenica arrivarono le prime terribili notizie e i giornali fecero partire gli inviati, il commento che ci scambiammo a caldo fu: lo scandalo dei petroli scomparirà dalle prime pagine. Ma non si era capito che lì, quella notte, si apriva un processo di dimensioni infinitamente più grandi, che coinvolgeva la responsabilità di tutti, della classe dirigente nel suo insieme, politici, amministratori, imprenditori, intellettuali, ma che tuttavia avevano un soggetto bene individuato: e cioè il gruppo che guida da trentacinque anni il paese e le clientele che nel Sud l’hanno rappresentato. Sono ormai dieci giorni che questo processo si sta svolgendo sotto l’occhio impietoso della televisione e sulle pagine dei giornali, dinanzi a trenta milioni di italiani. In questi dieci giorni abbiamo imparato o ricordato più cose che se avessimo letto una biblioteca intera. Abbiamo visto come non ha funzionato lo Stato centrale e come si siano dissolti nel nulla i suoi organi periferici. Abbiamo visto inoltre i prefetti sostituiti dai generali; gli organi di rappresentanza regionale incapaci non solo di attuare ma addirittura di concepire un piano d’emergenza; abbiamo visto il cemento delle case armato non di tondino ma di sottile fil di ferro. Ma quel ch’è peggio, abbiamo visto la sfiducia profondissima, invincibile, delle popolazioni di fronte allo Stato. Eugenio Scalfari (“la Repubblica”, 2 dicembre 1980) XIV Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 La lettera agli irpini di Cesare Zavattini «Sento il dovere di esservi vicino» «Nei giorni del Festival sarò ad Avellino e mi renderò conto della vostra civiltà contadina» Lioni, due giorni dopo Sento il dovere di esservi ancora di più vicino con la mia modesta persona in questa situazione, che sinora segna il passo con una interminabile messe di parole e con una legge della ricostruzione di là da venire, la quale continua ad essere il buscherio di quelle forze politiche per cui tanto facile è stata ed è la costante elargizione di promesse verso il Mezzogiorno. Nei giorni del Festival sarò ad Avellino e mi impegnerò a rendermi maggiormente conto di quella civiltà contadina che i neorealisti di “Cinemasud”, contro tutte le mode dell’epoca, difesero sin dagli anni ’60, quando elementi economici e sociali prendevano il sopravvento in modo corporativo anche tra la stessa classe operaia limitandone l’azione di solidarietà e di sostegno alle masse più povere del Mezzogiorno con una sorta di generici appelli all’unità tra i lavoratori. Oggi la civiltà contadina non può restare reclusa nelle carte e nei libri dei politici e degli storici, deve tornare senz’altro ad essere la voce del Sud, la cui coerente difesa fatta nel passato con encomiabile spirito di sacrificio da parte dei miei amici in Avellino – tramite il Festival del Cinema Neorealistico – è un esempio di quanto voglia e sappia produrre una onestà intellettuale intesa come bene supremo degli uomini migliori e di buona volontà. Perciò v’è tanta certezza in me che la battaglia civile e democratica condotta anche da tutti noi con la rivista “Cinemasud” non è stata inutile nè di facile dimensione. Anzi, Avellino, come città e provincia, deve ora molto della propria notorietà in campo internazionale al Festival, la cui politica cinematografica non ha mai abbandonato i sentimenti di pace e di fratellanza in ogni momento della sua storia più che ventennale. Ed oggi, più che mai, il Cinema da noi difeso e propagandato non può restare sordo all’angoscia delle popolazioni irpine, alle quali il mio doveroso saluto di amicizia e di amore risulta essere innanzitutto un impegno umano e morale di partecipazione alla loro volontà liberatoria da qualsiasi vincolo che ne fermi e tronchi il processo di evoluzione verso nuovi traguardi. Questa ricostruzione abbia soprattutto e sempre le radici nella grande tradizione democratica del Mezzogiorno, di cui le masse contadine sono avanguardia e supporto per gli anni futuri. Perciò la ripresa del Festival, in aprile, è ancora una volta un atto di fiducia e di ferma decisione da parte di tutti gli operatori culturali per non indugiare nella nostalgia dei sentimenti e per andare avanti con concretezza e fedeltà alla causa della cultura neorealistica e nazionale. Sia la nostra forza morale, altrimenti, invito e monito a quanti, afflitti e consunti da meschini interessi di parte, si trincerano dietro la vaga astrattezza e la falsa elaborazione di princìpi. Cesare Zavattini (“Il Paese”, 12 aprile 1981) Letteratura, cinema e giornalismo: intervista a Paolo Speranza Il terremoto raccontato Il trionfo delle stereotipo e l’indignazione per l’arretratezza del Sud - I fenomeni sismici e le trasformazioni economiche e sociali - La fase della partecipazione e quella dell’oblio - L’ultima stagione della cultura meridionalista - I film sulla catastrofe - Le parole di Carmelo Bene - I giovani Il terremoto come specchio dell’Irpinia nell’immaginario collettivo: è questo il filo conduttore della ricerca che si concretizzerà, a partire da domani, in una mostra fotografica sui terremoti del ‘900 in provincia di Avellino, promossa dalla Cgil e dall’Archivio Storico della Cgil irpina e da “Quaderni di Cinemasud”, a cura di Paolo Speranza e Olivo Scibelli. Un percorso che il curatore scientifico della mostra, Paolo Speranza, conduce da anni sul tema, attraverso la letteratura, il cinema, il giornalismo. “Avellino e l'Irpinia, nel corso del Novecento, hanno conquistato la ribalta della stampa nazionale per i personaggi e le vicende della cronaca nera, per storie di emigrazione e miseria, per i suoi politici di primo piano, nell'ultimo scorcio del secolo anche per lo sport e, più raramente, per iniziative culturali. Più di tutto questo, tuttavia, la provincia di Avellino al pari di tante realtà del Sud - ha ottenuto attenzione e visibilità per effetto delle catastrofi naturali, in particolare i terremoti, che si sono abbattute sulla nostra terra e sul nostro popolo, a più riprese, nel corso del "secolo breve"”. Dall’esame dei reportage della stampa nazionale come esce l’Irpinia? “In occasione di ciascuna catastrofe, e ovviamente in modo particolare per il terremoto del 23 novembre, la chiave di lettura e di interpretazione della realtà irpina, da parte di commentatori e reporter, è stata sostanzialmente di duplice segno: da un lato il trionfo degli stereotipi, di luoghi comuni spacciati per analisi sociologiche (o, peggio ancora, per "meridionalismo"), non di rado anche di cripto-razzismo; dall'altro, lo sforzo generoso di documentare le tragedie e le contraddizioni di una comunità isolata ed economicamente depressa, l'indignazione civile per l'arretratezza di strutture e servizi, e anche un concreto contributo di solidarietà, peraltro non sempre compreso ed apprezzato dalla popolazione locale, spesso più incline ad attendere dai soccorritori e dalla politica il "miracolo" o la "raccomandazione" anzichè attivarsi per una collaborazione reciproca ed attiva”. Perché per questa mostra, che sarà inaugurata domani da Guglielmo Epifani all’ex asilo “Patria e Lavoro” di Avellino, è stato scelto il titolo “L’emergenza infinita”? “Perché dalle immagini e dai titoli dei giornali, molti dei quali rarissimi, i fenomeni sismici si caratterizzano come filo conduttore del Novecento in Irpinia, delle sue trasformazioni economiche, sociali e di costume, delle sue emergenze mai definitivamente risolte, della sua immagine al cospetto dell'opinione pubblica italiana ed internazionale. Nel trentennale del 23 novembre abbiamo voluto in questo modo sottrarci al periodico diluvio di retorica e affidarci ad iniziative concrete ed alla forza delle immagini: per approfondire la conoscenza del nostro passato; per riflettere sugli errori commessi e sui progressi compiuti; per svi- «La storia italiana è cambiata brutalmente quel 23 novembre» La nottata deve passare Quando saranno passati i giorni della morte e dell’espiazione, annunciata come una catarsi dal presidente Pertini nel suo lacerante messaggio televisivo di mercoledì, torneranno i giorni della vita. Di questo bisogna essere convinti. Noi non accettiamo l’idea che il cuore del Sud si sia veramente fermato insieme con quelli delle migliaia di suoi figli, uccisi dal terremoto, dall’inefficienza e dell’indifferenza. Il Paese tutto intero non può accettare l’idea che la calamità naturale e il cinismo di troppi esponenti della classe dirigente risultino alla distanza più forti della volontà di resurrezione, che oggi viene espressa dai giovani accorsi spontaneamente da ogni angolo della Penisola sui luoghi della catastrofe, dai ragazzi in uniforme che compiono umilmente il loro duro servizio, dagli uomini e dalle donne di ogni ceto sociale che in ogni regione stanno facendo a gara per offrire un segno tangibile della loro solidarietà, dagli emigranti che sono tornati precipitosamente a casa per seppellire i morti e rianimare i superstiti. Quando le povere vittime saranno sepolte e i colpevoli avranno pagato, il problema delle terre straziate nel triangolo Napoli-Avellino-Potenza e del Mezzogiorno nel suo complesso rimarrà per lungo tempo all’ordine del giorno della nazione. Alle 19.34 del 23 novembre, la terra non ha tremato soltanto per i derelitti abitanti della Campania e della Lucania. La terra ha tremato, e continuerà a tremare, per tutti noi, governanti e governati, ladri ed onesti. La storia italiana è cambiata radicalmente, brutalmente la sera del 23: più presto ce ne persuadiamo, meno alto e doloroso sarà il prezzo che pagheremo. Da domenica sera, la gente del Sud ha perduto la pazienza. Fosse eredità di una saggezza millenaria o retaggio di millenaria servitù, il fatto è che laggiù non c’è più rassegnazione. La celebre invocazione di Eduardo (“Adda passà ‘a nuttata”), che fu eliminata polemicamente e profeticamente tre anni fa nella riedizione di Napoli milionaria a Spoleto, torna valida oggi, ma come una rabbiosa indignazione. “Adda passà ‘a nuttata” questa volta significa che la notte deve passare; che non ci saranno più benessere e democrazia in Italia se il capitolo del terremoto nel Mezzogiorno tornerà a chiudersi, come i cento capitoli drammatici che lo hanno preceduto, con una alzata di spalle. Se non si capisce questo, non si è capito nulla di quanto sta accadendo a sud del Garigliano, e si preparano al Paese giorni assai più amari di quelli finora vissuti. Per placare questa collera, ciò che si chiede, ciò che si pretende dalla classe politica – opposizione e sindacati compresi – è un grandioso sforzo di volontà, di fantasia, di concretezza. La notte del Sud può passare soltanto se la tragedia del terremoto viene assunta come una piattaforma di lancio per un progetto di ricostruzione di ampio respiro. Lasciamo stare il Belice, il cui ricordo pure noi abbiamo evocato per primi. A questo punto, non basta più neppure evitare che quell’infamia si ripeta; procurare semplicemente che i soccorsi immediati e gli stanziamenti futuri si inquadrino in un serio piano di ricostruzione, confluendo esclusivamente nelle zone e a vantaggio dei terremotati. A questo punto, siffatta elementare esigenza di correttezza non può essere più considerata sufficiente. Il Sud esige un programma globale, vasto, profondo e di esecuzione rapida, per restituire non solo case e lavoro a chi ne è rimasto privo, ma una ragione di esistenza attiva e partecipe di tutte le regioni meridionali. Il segnale di questo programma deve essere forte, deve essere avvertito chiaramente, deve recuperare la fiducia e l’entusiasmo di quelle popolazioni, non importa quali e quanti sacrifici possa comportare per il resto del Paese. Antonio Ghirelli “Corriere della sera”, 30 novembre 1980 luppare la cultura della protezione civile e della solidarietà; per riprendere il confronto e l'iniziativa per un futuro migliore - più giusto e sicuro - per la provincia di Avellino, il Sud, l'Italia”. Quale è il legame tra la nuova mostra fotografica e la ricerca sul terremoto dell’80 nel giornalismo e nella letteratura che, nel 2006, si è concretizzata nel il libro “19.35: scritti dalle macerie”, edito nel 2006 da Laceno? “Lo spirito e l’obiettivo sono analoghi: raccogliere e salvare documenti, spesso rari e preziosi, per farne elementi di conoscenza per i più giovani e di rinnovata riflessione per chi il 23 novembre l’ha vissuto”. Perché un’antologia come “19.35”, con tanti testi d’autore (Moravia, Sermonti, Rea, Pomilio, Scalari, Stajano, Montanelli, Della Terza, La Penna ecc.), è uscita solo venticinque anni dopo il sisma? “La risposta è semplice: prima abbiamo vissuto in tanti, a vario titolo, la fase della “partecipazione” (nel mio caso, ad esem- pio, con un impegno giornalistico costante), poi della “rimozione”. Ritengo che un quarto di secolo, o un trentennio, il tempo di una generazione, sia un arco cronologico sufficiente per cominciare a riflettere con distacco e senso della prospettiva storica su un evento - il sisma del 23 novembre '80 - che ha segnato in misura decisiva la parabola discendente della Prima Repubblica e, più in generale, la storia recente d'Italia. Per una riflessione collettiva di elevato profilo, allora, occorre ripartire dalle origini, da quella luminosa e poi tragica sera di novembre. E dai resoconti e dalle analisi "a caldo" che nei giorni dell'emergenza - e delle scelte per la ricostruzione - ci hanno consegnato alcuni dei maggiori intellettuali e scrittori, in uno slancio di mobilitazione e di impegno mai più eguagliato, forse, dal giornalismo italiano”. Quale è il valore, politico e letterario, di questi testi, trent’anni dopo? “Molti di questi interventi, a rileggerli oggi, conservano intatta la loro forza di denuncia e insieme di proposta, prefigurando altresì, non di rado, gli scenari futuri. Neppure agli osservatori più critici, tuttavia, riuscì allora di immaginare il livello di corruzione e di malgoverno, di sperperi e di scempi ambientali, perpetrati negli anni ’80 da politici del Sud e imprenditori del Nord, da costruttori d’assalto e tecnici rapaci. Anche per questo, la mobilitazione collettiva degli scrittori ed artisti italiani in favore delle popolazioni dell’Irpinia, dell’Alto Sele e della Basilicata finisce per caratterizzarsi come l’ultima grande stagione della cultura meridionalista in Italia”. Dalla letteratura al cinema. Tu sei stato il primo ad analizzare l’eco dei terremoti, soprattutto del 23 novembre ’80, nel cinema italiano, a cui è dedicata una sezione del convegno nazionale dell’Airsc (associazione italiana per le ricerche di storia del cinema), giunto alla nona edizione, che si è aperto lunedì all’Accademia di Belle Arti a Napoli e si concluderà venerdì 26. “Quaderni di Cinemasud” è uno dei partner dell’Airsc e tu uno dei componenti del comitato scientifico: quali novità e “scoperte” ti aspetti da queste giornate di studio? “Ci saranno relazioni di importanti storici di cinema e proiezioni di film rarissimi, ad esempio sul terremoto di Messina. Agli incontri di Napoli abbiamo inoltre invitato due autori di rilievo nazionale con origini irpine. Oggi alle 15.00, nella ricorrenza del trentennale del sisma, il regista Michele Schiavino, originario di Calabritto, presenterà due titoli apprezzati dalla critica: Cratere, un corto del 2000 con musiche di Paolo Fresu, e A piena voce, basato su un’intervista esclusiva a Carmelo Bene in occasione della sua Lectura Dantis a Salerno, nei giorni dell’emergenza, in segno di solidarietà alle popolazioni terremotate. E mercoledì 23, alle 16.00, Franco Arminio presenterà in anteprima Giobbe a Teora, un video di 18 minuti su una delle vicende umane più struggenti ed emblematiche del 23 novembre ’80. Ed è interessante notare il ritorno di tanti giovani documentaristi nelle zone del cratere. Accanto ad altri filoni di ricerca (il nuovo cinema italiano, gli autori dei Paesi in via di sviluppo, la storia del Neorealismo, gli scrittori e il cinema) il discorso su cinema e terremoto vede impegnato da tempo gli studiosi e i collaboratori di “Quaderni di Cinemasud”, e contiamo di approfondirlo in un numero speciale, con interventi di critici autorevoli e di giovani studiosi, all’inizio del 2011”. Paolo Speranza Cinque anni dopo, l’inaugurazione del nuovo impianto Uno stadio grande come la città E tutt’intorno i prefabbricati Tutto è pronto per la grande festa. Oggi ad Avellino si inaugura lo stadio «dei cinquantamila» ottenuto con l’ampliamento del vecchio Partenio. La premiata ditta del cavalier Rozzi, specialista in campi sportivi (ora lo attende San Siro: tutta un’altra impresa) ha fatto le cose in grande, lavorando giorno e notte per dare all’Irpinia uno stadio internazionale. Lo stadio è davvero bello, con la nuova tribuna stampa, la pista di atletica, l’impianto di illuminazione e diecimila posti in più nella curva nord. È forse, per densità di popolazione, lo stadio più grande del mondo: può contenere quasi tutta la popolazione della città e un decimo di quella della provincia. Col nuovo stadio, Avellino sarà una delle sedi dei mondiali del 1990, e ospiterà forse una delle prossime amichevoli della Nazionale: un risultato fortemente voluto dalla Dc di De Mita. Il primo cittadino, il democristiano Enzo Venezia, demitiano «doc» che ama definirsi «il sindaco-tifoso», ha vegliato con impegno certosino sull’esecuzione dei lavori, consapevole che in città il calcio, sul piano elettorale, conta più del buon governo. Lo spettacolo del nuovo Partenio è una contraddizione stridente, fisica: a due passi dallo stadio, su due lati, è in scena da cinque anni uno spettacolo diverso, quello dei prefabbricati leggeri dove abitano le famiglie dei senzatetto dal terremoto dell’80. Molti nuclei familiari di quattro o cinque persone vivono ancora in alloggi (si fa per dire) di diciotto metri quadrati. Sono 460 baracche per tremila persone, alcuni abusivi, altri terremotati dal 1980, tutti in attesa di una casa. Cinque amministrazioni a guida Dc non sono riuscite a portare a termine il piano della prefabbricazione pesante, affidato alle ditte Feal e Volani. Dei mille alloggi da consegnare entro il 1983 neppure la metà è abitata, gli altri non saranno completati che entro la fine del 1986, in alcuni quartieri i lavori non hanno neppure avuto inizio. Sono le cifre di un fallimento politico e amministrativo, che si è intrecciato a gravi episodi di speculazione. Un incredibile gioco di coincidenze vuole che, in concomitanza con l’inaugurazione dello stadio e alla vigilia del quinto «anniversario» del terremoto, si celebri in questi giorni il processo di appello a politici, tecnici e costruttori condannati per lo scandalo dei prefabbricati pesanti, con in testa l’ex sindaco e segretario provinciale (demitiano anche lui). E fra qualche mese il pro- cesso sul caso Cirillo potrà forse rivelare le responsabilità politiche al livello più elevato, che secondo i magistrati avellinesi sono ancora tutte da chiarire. I soldi della ricostruzione sono serviti per nuovi progetti nell’ordine di miliardi: lo stadio, il palasport, l’autostazione. Non parte invece l’opera di recupero e risanamento delle zone colpite dal sisma, il centro storico e il corso Vittorio Emanuele. (…) In questa situazione la Dc conserva il potere più per debolezza degli altri partiti che per capacità proprie. La maggioranza di pentapartito (l’unica in provincia) è sempre sul punto di sfasciarsi: non c’è seduta consiliare che non registri momenti di tensione fra la Dc e il Psi e il Psdi, afflitti a loro volta da problemi interni. (…) Gli anni dell’attesa stanno però per finire. Avellino è chiamata in questi mesi a scelte decisive alle quali non può sottrarsi. Ma i suoi governanti intanto addormentano il gioco, per dirla nel gergo del pallone. E domani saranno tutti in prima fila, sugli spalti, a raccogliere la propria razione di applausi: il sindaco-tifoso Venezia, il capogruppo senatore Mancino, Ciriaco De Mita… Paolo Speranza Da “l’Unità”, 27 ottobre 1985, pag.3 Ottopagine Martedì 23 novembre 2010 XV GLI EFFETTI DELLA RICOSTRUZIONE E DELLO “SPAESAMENTO” IN UNA RICERCA ANTROPOLOGICA Nuova Bisaccia è un altro paese Nelle interviste ai residenti il disagio per un posto che non riconoscono - «Io quando esco vado sempre al vero paese» - La contesa per le feste di Sant’Antonio e del Corpus Domini Nel 1999, quando ero ancora studente di sociologia all’Università degli studi di Salerno, ricevetti la proposta di partecipare ad un progetto di ricerca di taglio socio-antropologico sull’Irpinia, denominato HIRPUS (Hiht Integration Research Project for Unfolding Societies), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Il programma di indagine si sviluppò nell’arco di tre anni seguendo due macro direttrici: la prima fu costituita dal progetto “Middletow” che si proponeva di analizzare gli effetti del sisma dell’80 e dei successivi interventi di ricostruzione sulla società irpina, la seconda macro-direttrice invece, intitolata reti della “memoria”, consisteva in un progetto articolato in due distinte sezioni “Mnemosyne” e “Clio” che intendevano concentrare l’attenzione sulle componenti culturali del territorio irpino e delle identità comunitarie e sociali che lo caratterizzavano. Presi parte ad entrambi i programmi di ricerca entrando nell’equipe coordinata dall’antropologo Marino Niola, con l’incarico di rilevatore dati quantitativi-qualitativi. Insieme ad Ilaria Di Gaeta, concentrammo la nostra attenzione sul paese di Bisaccia, al quale rimasi molto legato anche dopo il periodo di ricerca con il centro Guido Dorso. Continuai per altri tre anni i miei sopralluoghi poiché dall’esperienza di “campo” emersero interessanti spunti di riflessione sugli effetti del terremoto nelle comunità irpine. Bisaccia catturò il mio interesse in quanto poteva ben rappresentare la portata di un evento sociale così drammatico che rappresenta allo stesso tempo un fatto naturale e culturale. Per una serie di motivi di ordine geologico, non fu possibile procedere ad una ricostruzione del paese, né tantomeno legare il nuovo impianto abitativo al vecchio insediamento, e così fu ampliata una zona agricola, a circa 1,5 km dal vecchio paese, già interessata da una riconversione urbana durante il regime fascista, a seguito sempre di un altro sisma avvenuto negli anni ‘30. Alla mia curiosità si presentava un paese diviso in due insediamenti abitativi e già nei primi sopralluoghi rimasi molto colpito da alcuni aspetti linguistici che la popolazione utilizzava rispetto alla delocalizzazione del paese. Da una parte infatti, il paese “vecchio” veniva chiamato Bisaccia, e dall’altro il nuovo insediamento, a sud delle Colline Serroni, chiamato invece “piano”. Gli abitanti di Bisaccia utilizzavano il termine lu chiano per indicare il nuovo contesto abitativo, impiegando talvolta la variante “piano regolatore”, una zona che fu costruita, come ho già detto nel 1930. Per gli scienziati sociali, ed in particolar modo per gli antropologi, la scienza del linguaggio e le riflessioni dei linguisti, hanno costituito un campo d’interesse, un luogo privilegiato dello scambio e del confronto tra le due discipline. La costruzione retorica dei sistemi linguistici esprime, oltre alla disposizione sistematica di elementi, anche una componente semantica dei processi cognitivi. In questo dibattito, l’antropologia e la linguistica riflettono sui rapporti tra lingua e pensiero, lingua e cultura, lingua e società. Le abitudini linguistiche allora, hanno una certa influenza sulla percezione e sulla costruzione sociale del modo esterno. In questo senso le formule linguistiche adottate per denominare il paese nuovo sono una sorta di sintesi complessa che, nel combinare e nel comprendere gli elementi spaziali, attribuiscono ai termini linguistici una densità simbolica, rappresentano dei commenti, delle interpretazioni in cui si articolano i discorsi “parlati” sullo spazio. Nello spazio vengono lanciati degli indizi che richiamano per analogie, una mappa più ampia che permette agli individui di fare “mente locale” (F. La Cecla, 1995), utilizzando termini tecnici sedimentatisi lungo tutto il periodo della ricostruzione. A determinare ancora di più la mia riflessione lungo questo percorso furono una serie di fattori emersi durante gli anni di ricerca. Di seguito proverò ad argomentarli ovviamente non potendo dare conto in questa sede, dell’ampia problematicità di tale fenomeno e delle conclusioni più generali, dunque circoscriverò le mie riflessioni ad alcuni aspetti emersi durante la ricerca empirica. Il mestiere dell’antropologo, prima di tradursi in un sapere che fonda teorie e modelli, consiste innanzitutto nell’osservazione particolareggiata dei luoghi e dei soggetti “oggetti” della propria indagine. Volendo richiamare la riflessione, del grande antropologo del novecento Cluaude Lévi-Strauss, sulla esperienza a Campos Novos e sulle implicazioni della ricerca etnografica (benché oggi ci sia un grosso dibattito interno alla disciplina sulle ben più vaste implicazioni di questa pratica), gli antropologi devono “alzarsi all’alba, restare svegli finchè l’ultimo indigeno non si (sia) addormentato e anche, a volte, spiare il suo sonno; fare il possibile per passare inosservato essendo sempre presente; tutto vedere; tutto ricordare; tutto notare, fare uso di una discrezione umiliante, mendicare le informazioni (…), tenersi pronto per approfittare di un istante di compiacenza o di trascuratezza; oppure per giorni interi saper frenare ogni curiosità e appartarsi nella riservatezza imposta da un cambiamento di umore della tribù (…). Nella speranza di ritrovare un contatto così duramente guadagnato, aspettiamo, passeggiamo, giriamo a vuoto; rileggia- mo le vecchie note, le ricomponiamo, le interpretiamo, oppure ancora ci imponiamo un compito minuzioso e vano, vera caricatura del mestiere, come quello di misurare la distanza fra i focolari e catalogare uno per uno i rami adoperati per la costruzione delle capanne”(C. Lévi-Strauss, 1960). L’antropologo prima di osservare strutture politiche, economiche e sociali, interagisce con le persone, le segue, le guarda a distanza, la ricerca sul “campo” è prima di tutto un’esperienza sinestetica nel quale vengono coinvolti tutti e cinque i sensi, egli oltre a guardare, ascolta, annusa, degusta, tocca. Il ricercatore allora deve fare i conti con uomini e donne “reali” che fanno cose “reali” come: parlare, pregare, mangiare, incontrarsi, camminare, ridere, piangere, organizzarsi, costruire e produrre cose. Quando arrivai a Bisaccia notai, all’ingresso del paese nuovo, lu chiano, una insegna luminosa di un bar che divenne in seguito per me motivo di riflessione più ampia. Il testo dell’insegna recitava così “Bar Nuova Bisaccia”. Questo elemento entrava in diretta relazione con i dati e le osservazioni che andavo accumulando durante i mie soggiorni. Infatti la scelta del gestore di denominare così il bar, per quanto poteva essere addebitata ad una preferenza di tipo casuale, non lo era invece rispetto alle logiche che mi ero prefissato di indagare. La formula utilizzata “Nuova Bisaccia” implicava una sottile ed al tempo stesso sofisticata valutazione linguistica e culturale. La composizione della frase “Nuova Bisaccia” è diversa dalla formula “Bisaccia Nuova”. Invertendo i valori della sintassi s’introduce un cambiamento semantico della proposizione. “Bisaccia Nuova” infatti suggerisce la rifondazione di Bisaccia nello stesso luogo, nello stesso posto, nel senso che al vecchio si sovrappone un ex-novo, mentre “Nuova Bisaccia” sottolinea, lo spostamento in un altro sito, suggerisce l’idea di una Bisaccia ricostruita ma, spostata in un altro luogo, per l’appunto delocalizzata. La denominazione del bar con l’inversione del sostantivo e dell’aggettivo mi permetteva di leggere la storia degli spazi urbani e di come questi venivano percepiti dai bisaccesi. “…il nostro intelletto è idoneo ad avere a che fare, in primo luogo, con lo spazio e si muove con estrema facilità in questo mezzo. Da qui viene che il linguaggio stesso diventa spazializzato e poiché la realtà è rappresentata da un linguaggio, la realtà tende ad essere spazializzata” (G. Miller, 1976). Le mappe mentali degli abitanti di Bisaccia sembravano contese tra una famiglia di spazi irrimediabilmente separati. Questa condizione emerge chiaramente anche tra le interviste compiute in paese: “Io personalmente qua la uso (la casa) come un dormitorio, se devo uscire sul piano regolatore no! Faccio la spesa e poi rientro, fare la passeggiata non mi va, voglio andare giù al paese vecchio” ed ancora “Qua (al “piano regolatore”) abbiamo preso l’abitudine d’incontrarci quattro cinque ragazze e scendere con un genitore, o a passaggio. Ci mettiamo al bar dopo l’ITIS, lungo quella strada e aspettiamo qualcuno che conosciamo”. “Il pomeriggio, alle sei, dopo studiato scendo al paese vecchio, in piazza Duomo, perché lì ci sta l’incontro di tutti i ragazzi”. Il “piano regolatore” non riesce ad avere un suo centro, per tutti il centro è “giù nel paese”. Lu chiano è considerato dai bisaccesi come l’antitesi di Bisaccia, il paese vecchio viene indicato come il “vero paese”. A confermare questa percezione dualistica sono le informazioni che affiorarono dalle interviste relative alle feste religiose del paese, dalle quali emerse un’interessante contesa che divenne il nucleo d’interesse della ricerca, tanto che negli anni successivi mi organizzai per seguire con la telecamera questi eventi religiosi. Le festività che destarono la mia curiosità scientifica furono la festa di S. Antonio e quella del Corpus Domini. Dai questionari e dalle interviste risultò che la festa più sentita in paese era quella di S. Antonio, tutti gli intervistati facevano riferimento ad essa quando gli si richiedeva di indicare la festa religiosa più importante. Queste due feste si sono sempre svolte nel paese vecchio e per questa ragione, il parroco del “piano” col tempo sottolineò la necessità di celebrare alcuni culti religiosi anche nel nuovo paese, evitando di concentrarli nel paese vecchio, per giunta in buona parte disabitato. La contesa aprì un grosso dibattito tra le due parrocchie e tra i membri della congrega di S. Antonio. Inoltre il prete del “piano” mosse alcune critiche riguardanti le modalità dei festeggiamenti per il Santo patrono mettendo in discussione alcuni aspetti del rituale “…lui dice che sono feste pagane, sta insistendo con il vescovo perché dice che non c’è bisogno di portare la statuina in giro e di offrire l’oro, tutte queste devozioni a che servo?”. “Praticamente vogliono far morire questo paese, questo prete sta lottando per portare pure Sant’ Antonio qua ma, la confraternita si è ribellata, e per quest’anno i festeggiamenti si sono tenuti ancora nel paese vecchio. Poi non lo so che succederà il prossimo anno”. Per approfondire questa vicenda incontrai i membri della confraternita, i quali smentirono le voci di un eventuale spostamento della festa del Santo sul “piano”, sostenendo che il luogo dei festeggiamenti “non può assolutamente essere messo in discussione”. Confermarono però l’accordo raggiunto tra le due parrocchie sui festeggiamenti del Corpus Domini, che prevedeva lo svolgimento a rotazione della processione, un anno si sarebbe svolta al paese vecchio e quello successivo al “piano”. Il sentimento religioso comune riscontrato tra i bisaccesi era tutto rivolto al Santo patrono. “Sant’Antonio è Sant’Antonio ma, il Corpus Domini è pure una grande festa” ripetevano. Il culto del Santo resta, in questa prospettiva, più importante del Corpus Domini, mentre la festa più importante della Chiesa, perché festa del dogma, resta sullo sfondo “…è pure una grande festa”. Difatti se è stato possibile spostare la processione del Corpus Domini ogni due anni al “piano”, per la festa di S. Antonio l’intenzione è quella di lasciarla al paese vecchio. Il dato più interessante di questo spostamento annuale furono le modifiche che il prete del “piano” introdusse nella funzione. In particolare la sostituzione di alcuni canti, le modalità di procedere in processione dei fedeli, l’abolizione dell’accompagnamento musicale della banda, il divieto per i membri della confraternita di S. Antonio di indossare e portare simboli della associazione religiosa. Pertanto, negli anni in cui ho seguito le processioni del Corpus Domini a Bisaccia, ho assistito a due modi di concepire ed eseguire la funzione processuale, dove il cambiamento di location della processione implicava il cambiamento dell’impianto normativo e prescrittivo della processione stessa. Mentre nel paese vecchio il corteo religioso era caratterizzato da una serie di elementi quali, la forma binaria assunta dai fedeli che costituivano due lunghe fila all’estremità della strada e la presenza della banda che accompagnava la processione, “al piano regolatore” invece la cerimonia muo- veva senza la banda, il corteo procedeva compatto “come una unica famiglia”, le autorità civili a differenza della processione nel centro storico, dove occupavano un posto ben preciso nella gerarchia del corteo, qui si confondevano tra la “folla in cammino”. Mentre nella processione che si svolgeva giù, al paese vecchio, la congrega di S. Antonio formava con tutti i suoi membri un ordinato spezzone, al piano regolatore procedevano invece senza le tuniche e senza gonfaloni. Al “piano” non si cantava la canzone “ti adoriamo ostia divina”, mentre al paese vecchio erano i versi più intonati durante la cerimonia. Questa connessione dinamica tra senso, spazi e poetiche sociali permetteva agli stessi attori “festivi” di essere i protagonisti di due diverse performance religiose, lo spostamento spaziale della processione era accompagnato da una ridefinizione delle pratiche. Le modifiche riportate alla processione del “piano” propongono un superamento ed uno snellimento delle pratiche devozionali, introducendo un’organizzazione intorno al sacro depurata ed alleggerita dai sincretismi che molto spesso il rito cristiano incorpora. Negli anni in cui svolsi l’indagine etnografica non mi limitai a frequentare Bisaccia nei soli giorni delle processioni bensì, instaurai un rapporto con il mio “campo di ricerca” continuato e reiterato nel tempo, mi interessò riflettere sul sistema festivo, nel suo complesso dispiegarsi tra i gruppi e gli individui che partecipavano alle costruzioni di una serie di significati e proiezioni simboliche. Ho avuto modo di assistere a diversi funerali dove osservai la “messa in scena” dello stesso meccanismo oppositivo utilizzato nelle occasioni della festa del Corpus Domini. Quando moriva un membro della congrega di S. Antonio ed abitava nel centro storico, il corteo funebre era aperto dai fratelli della congrega. L’associazione religiosa era ufficialmente presente con gli abiti ed i simboli del gruppo. Quando invece il defunto abitava sul “piano regolatore” al funerale la confraternita si presentava in via ufficiosa, senza i simboli di appartenenza del gruppo religioso del paese. In questo senso “da bsazza a lu chiano, da lu chiano a bsazza” è la strada percorsa, in questo pezzo d’Irpinia dal progetto della modernità, una strada a doppio senso in cui si danno la spola i caratteri del cambiamento sociale e le modalità in cui Bisaccia ed i suoi abitanti sono coinvolti nell’incessante rapporto tra tradizione e modernità, tra continuità e mutamento. Ricordo con grande affetto e con un certo debito critico e riflessivo un SMS inviatomi da un mio informatore “Ciao, che fai oggi, vieni a Bis?”. Carlo Preziosi antropologo