di terrore - LuBannaiuolu

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di terrore - LuBannaiuolu
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QUOTIDIANO DELL’IRPINIA A DIFFUSIONE REGIONALE ANNO XVI NUMERO 323 MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
Spedizione in abbonamento postale art. 2 c. 2O/B, legge 662/96. Filiale PP. TT. Avellino
23 NOVEMBRE 1980 - 23 NOVEMBRE 2010
di BRUNO GUERRIERO
Quel senso
di provvisorietà
idea è nata quasi
per caso, scrutando nei nostri archivi
personali,
riguardando le foto
un po' ingiallite del
terremoto, ripercorrendo mentalmente quelle dolorose
immagini. Ad ogni scadenza
naturale del sisma del 23
novembre dell'ottanta riaffiorano ricordi, storie e le sciagure
della nostra terra. Anche polemiche e veleni. Ma è un'impresa complessa, dopo tanti anni,
rivivere quelle paure e quelle
emozioni delle notti trascorse
nelle macchine o in ripari di
fortuna per i continui tremori
della terra o scavando tra le
macerie alla ricerca dei sopravvissuti. E' un'impresa, ripercorrere tutta la storia, per ritrovarsi un attimo prima del 23
novembre dell'ottanta, per
ricordare l'Irpinia intatta, prima
dei lutti. Una sorta di salto
indietro nel tempo, per inquadrare al meglio tutti gli effetti
devastanti del sisma sulla
nostra terra e sulla comunità
irpina. Rileggendo e sfogliando
i giornali dell'epoca ci siamo
resi conto del tempo trascorso.
Trent'anni. Quasi una vita.
Così, abbiamo deciso di realizzare un inserto speciale sul terremoto (lo troverete all'interno), per il trentennale, con la
stessa grafica, con la stessa
impaginazione dei quotidiani
dell'Ottanta. Quasi un fermo
immagine che rende ancora
più evidente il tempo trascorso. Trent'anni. Tanti, ma non
sufficienti per chiudere quella
triste pagina. Ancora oggi provoca divisioni la proposta lanciata proprio sul nostro giornale di immaginare un disegno
legge per scrivere la parola fine
sul terremoto. Per chiudere la
pratica ricostruzione. Non
come immaginano i leghisti,
arroganti e pretestuosi, frenando gli investimenti, bloccando i
fondi e lo sviluppo in una parte
d'Italia. Chiudere il capitolo terremoto in Irpinia perchè è giusto in un paese “civile”, moderno, avanzato, offrire certezze,
costruire dei percorsi e renderli transitabili nei tempi prestabiliti. Trent'anni dovevano
essere più che sufficienti per
archiviare la ricostruzione e
garantire quel piano di sviluppo immaginato in aree più o
meno depresse. Così non è
stato. Si doveva ricostruire fisicamente il territorio, ma si
doveva ricostruire anche un
tessuto sociale. All’epoca i politici hanno perso una occasione
storica per un reale sviluppo
della provincia e delle aree colpite dal sisma, ed oggi la politica non sembra all'altezza delle
nuove sfide. Delle nuove crisi.
Purtroppo, dei nuovi terremoti
che vive proprio la nostra
regione. A partire dall'emergenza rifiuti, dalla difesa dell'ambiente. Incapaci di programmare ed anche di garantire almeno la gestione ordinaria, riparandosi in continue, infinite,
gestioni straordinarie. Storie
senza fine. Proprio come il terremoto dell’80. Aumentando la
sfiducia nei cittadini e, naturalmente, quel senso di provvisorietà che opprime l'Irpinia,
Napoli, e, quindi, tutto il meridione.
’
L
Foto Amato De Napoli
LE MANIFESTAZIONI IN TUTTA L’IRPINIA PER IL TRENTENNALE
Terremoto,
il giorno
del ricordo
Napolitano: la memoria per evitare altre tragedie
S.Angelo dei Lombardi, tavole rotonde e cerimonie
La giornata a Lioni, Conza, Teora, Calitri e Avellino
Il sindaco Galasso: «Ora guardiamo al futuro»
GROTTAMINARDA
Omicidio
Pascucci,
condannati
i killer
Dura condanna per Giuseppe
Di Vito, 18 anni, e Giuseppe
Cilieggio, 16 anni, accusati di
aver ucciso la 38enne. Il Pm
aveva chiesto pene minori
red. cronaca a pagina 29
ALL’INTERNO L’INSERTO SPECIALE
2
PRIMO PIANO
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
QUEI 90diSECONDI
terrore
Ottopagine
Tanti eventi. Ieri, oggi e nei
giorni scorsi una miriade di
incontri sul sisma che 30
anni fa ha sconvolto la
nostra provincia
Occasione sprecata. Non
c’è ancora un percorso unitario che vede politici e
amministratori irpini tesi
verso un unico obiettivo
Trentennale a tappe forzate
E il futuro resta un miraggio
Tanti appuntamenti per ricordare, nessun momento di sintesi
ALESSANDRO CALABRESE
ma non deve essere uno sforzo
mnemonico fine a se stesso.
Ricordare serve a non fare più gli
errori del passato, migliorare e
migliorarsi, reagire in maniera
corretta alle situazioni, alle sfide,
alle avversità facendo tesoro dell'esperienza vissuta. Ma, soprattutto, ricordare significa superare
Avellino
«Il modo migliore di ricordare i
morti è quello di pensare ai vivi».
Si chiudeva così l'appello lanciato
trenta anni fa dal presidente della
Repubblica Sandro Pertini. Era il
26 novembre del 1980. A tre giorni
dal terremoto che aveva devastato una fetta importante d'Irpinia, i
soccorsi tardavano ancora a raggiungere i luoghi disastrati. E proprio il capo dello Stato, che nell'area del cratere giunse più volte, fu
il primo a denunciare quello
"scandalo". Lo fece a reti unificate
nel corso di un messaggio rivolto
a tutti gli italiani.
Forse fu quella la molla che fece
scattare una fitta rete di solidarietà, chi può dirlo... fatto sta che
da quel giorno le cose cambiarono. Iniziò una fase diversa. Da
quella dell'abbandono e dell'indifferenza, si passò al momento dell'azione. L'emergenza fu affrontata
in maniera complessiva. Tutti
uniti: forze dell'ordine, vigili del
fuoco, esercito, croce rossa e il
corpo di quella che poi sarebbe
diventata la protezione civile lavorarono all'unisono, fianco a fianco, insieme ai tantissimi volontari,
civili, accorsi da ogni parte d'Italia
per dare una mano.
La macchina degli aiuti, insomma,
dopo un po' di rodaggio, si mosse
coesa, compatta. Certo non senza
commettere errori materiali o di
valutazione... Ma, comunque,
come una squadra che aveva lo
stesso obiettivo.
Da allora, appunto, sono passati
30 anni ma sia le parole di Pertini,
sia lo spirito che animò gli uomini
e le donne che tanto fecero per i
sopravvissuti di quella catastrofe,
evidentemente, si sono persi nel
nulla. Non ce n'è traccia in quella
miriade di eventi organizzati in
tutta la provincia. Tanti appuntamenti, di sicuro ognuno con un
suo significato preciso ed un suo
scopo definito, ma senza alcun
legame l'uno con l'altro. Non ce
n'è traccia nei luoghi simbolo di
quella tragedia, dove amministratori vecchi e nuovi hanno fatto a
gara a chi avesse l'ospite d'onore
più importante, contendendosi
ministri e parlamentari ma,
soprattutto, il supercommissario
che coordinò i soccorsi, l'onorevole Giuseppe Zamberletti. Come
pure non ce n'è traccia nei discorsi dei nostri politici che, ancora
oggi, parlano di uno sviluppo
astratto e di posti di lavoro fantasma, senza rendersi conto, probabilmente, che ormai una preoccupante percentuale di giovani ha
deciso di emigrare e l'Irpinia
diventa, anagraficamente, sempre
più vecchia.
Una terra che non ha avuto risposte e che, quindi, non può assicurare un futuro ai suoi abitanti. Una
terra che proprio i fondi e le leggi
post terremoto, paradossalmente,
avrebbero dovuto elevare, inserendola in un sistema economico
moderno. Anche questo, però,
non è accaduto e il binomio finan-
SVILUPPO NEGATO
Una terra che non ha avuto
risposte non è in grado di
dare un futuro ai suoi giovani
ziamenti-normative è andato solo
a vantaggio di pochi "eletti".
Ecco, dunque, la cornice di un
trentennale che si presenta quan-
to mai avulso dalla realtà, dal contesto sociale in cui viviamo e dalle
possibili prospettive per le giovani generazioni. Ricordare va bene
quanto è successo e guardare
avanti, oltre.
Se il trentennale del terremoto
non diventa forum, cantiere di
idee, proposte, condivisione, confronto tra gli attori della nostra
provincia, laboratorio di iniziative
a carattere socio-culturale ed economico, tavolo di concertazione
per uno sviluppo concreto che
non sia uno slogan abusato o un
titolo su un comunicato stampa...
Beh, se non diventa tutto questo,
se non riesce ad avere un momento di sintesi e resta la solita passerella, sarà solo una ricorrenza per
onorare le vittime e raccontare i
fatti di quei giorni terribili. E così
30 anni saranno passati invano...
Su History channel
il documentario
“terremoto dell’Irpinia”
Questa sera il servizio in onda su Sky
Dati, testimonianze e cifre sulla tragedia
ALLE 22 SUL CANALE 407
ALCA
Avellino
Un report su ciò che accadde in
quel minuto e mezzo di terrore
e su quanto è stato fatto dopo
Ventitrè novembre 1980. Una scossa tellurica del nono grado della
scala Mercalli colpisce un’area di
circa 17mila chilometri quadrati
nell’Appennino meridionale. A
cavallo tra la Campania, la
Basilicata e la Puglia. Interi paesi
crollano su se stessi, lasciando alle
loro spalle una scia di morte.
L’epicentro in Alta Irpinia, tra i
comuni di Sant’Angelo dei
Lombardi, Conza, Teora, Calitri e
Lioni. Una vasta zona destinata a
diventare tristemente famosa come
area del cratere. A 30 anni da uno
degli eventi che ha sconvolto il
paese, segnandone la storia, il canale 407 di Sky, History channel, ricorda il terremoto.
Il documentario “Terremoto
dell’Irpinia” andrà in onda questa
sera alle 22.00. Tra gli intervistati
Paolo Cirino Pomicino, all’epoca
esponente di punta della Dc a
Napoli, Oscar Luigi Scalfaro, presi-
UNA FERITA APERTA
La ricostruzione rappresenta un
capitolo ancora da chiudere:
necessari 5 miliardi di euro
dente commissione parlamentare
d’inchiesta sulla ricostruzione
dell’Irpinia, Giulio Di Donato, consigliere, assessore e vicesindaco del
Comune di Napoli dal 1975 al 1983, e
Giuseppe Zamberletti, commissario
governativo incaricato del coordinamento dei soccorsi.
Nel corso del cortometraggio saranno ribaditi i numeri impietosi della
catastrofe: 2.914 morti; 10mila feriti;
460.878 sentatetto; 37 comuni disastrati, 314 gravemente danneggiati e
336 danneggiati (in Irpinia disastrati
18 comuni e 99 gravemente danneggiati); 77.272 abitazioni distrutte,
275.263 quelle gravemente danneggiate e 479.973 quelle lievemente
danneggiate; 6.082.874 abitanti coinvolti.
Per la ricostruzione abitativa, le
infrastrutture e altri interventi sono
stati stanziati quasi 58mila miliardi
di lire, pari a circa 30 miliardi di
euro. Ma, secondo le stime effettuate, per definire la realizzazione delle
opere programmate mancherebbero
ancora oltre 5 miliardi di euro.
Insomma a trent’anni dal sisma, sulla
ricostruzione, a causa della scarsa
oculatezza di chi ha gestito questi
fondi e dei tagli effettuati dal Cipe,
non si può ancora scrivere la parola
fine, chiudendo un capitolo doloroso
COMMISSIONE D’INCHIESTA
L’organismo parlamentare ha
evidenziato come tanti finanziamenti sono stati dilapidati
che, quindi, per qualcuno resta una
ferita aperta.
A questo proposito attentissima, tra
il 1989 e il 1992, era stata l’attività di
monitoraggio della commissione
parlamentare
d’inchiesta.
Organismo che aveva sottolineato
come la dilapidazione dei finanziamenti, con il coinvolgimento di centri per nulla danneggiati, aveva rallentato il processo di ripristino di
tanti paesi realmente disastrati che
si erano visti privare di risorse a loro
spettanti, a vantaggio di altri comuni
spesso neanche sfiorati dal sisma.
4
PRIMO PIANO
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
QUEI 90diSECONDI
terrore
Ottopagine
Sant’Angelo. Nel pomeriggio prevista la manifestazione all’istituto comprensivo
Criscuoli e al centro sismologico Cima
Conza. In mattinata
spettacolo del Teatro
dell’Osso, nel pomeriggio
la consegna delle medaglie
ai volontari
Il messaggio di speranza del vescovo Alfano
Trasmette un video messaggio S. E. Monsignor Francesco Alfano, in
occasione del trentennale del sisma del 1980, in cui invita a commemorare attraverso “la condivisione del silenzio”. Il silenzio protagonista dei
mille volti di chi nel corso di quella tragica sera ha perso i propri cari,
“ma anche di chi ascolta, e per alleviare il dolore. Il silenzio per cercare
un sentimento profondo come l’amicizia, e nel silenzio l’uomo può
costruire un futuro migliore”. Accenna anche alla ricostruzione, “avvenuta fra luci e ombre, ma senza perdere la tenacia per continuare il
cammino. Nel silenzio può rinascere la speranza”.
Così moriva una comunità
Si attende ancora la rinascita
Sant’Angelo dei Lombardi. Una giornata di riflessione e commemorazione
MADDALENA VERDEROSA
Sant’Angelo dei Lombardi
Rimase in piedi una sola casa.
Bastarono 90 secondi per radere
al suolo un paese, non sono bastati trent'anni per ricostruirlo.
Sant'Angelo dei Lombardi: da faro
dell'Alta Irpinia a "capitale del terremoto" (come riporta l'articolo
de La Repubblica del 17 novembre
2010, ndr). Dei 2914 morti, 480 soltanto a Sant'Angelo, 8850 i feriti e
280mila gli sfollati.
Così è morta l’Irpinia.
Per tre decenni abbiamo tutti sperato che per i sopravvissuti si trattasse soltanto di un letargo. Di un
sonno voluto per provare a dimenticare, per tentare di ricominciare
con la rassegnazione nel cuore ma
con occhi nuovi. Un sonno che,
anno dopo anno, speravamo
potesse far filtrare dalle macerie
un fascio di luce... principio di un
futuro da ricostruire non soltanto
riesumazione di quella vita fatta di
passeggiate in piazza, circoli invasi da giovani che si avvicinavano
alla politica, di impegno sociale e
culturale. Di quella vitalità stroncata, rubata, non rimane che un
ricordo.
Accenni di rinascita di fronte a
nuovi scippi, ad altre usurpazioni
si vivono nella battaglia intrapresa
contro i tagli alla sanità che hanno
toccato
anche
l’ospedale
Criscuoli. Cortei di giovani a cui si
sono aggiunti anche gruppi di
adulti, i ragazzi di trent’anni fa,
hanno sfilato, protestato, urlato
contro quella manovra vissuta
come una profonda ingiustizia, a
danno di un territorio che anni
prima aveva, invece, rappresentato il luogo ideale ad ospitare
una nuova ed attrezzata struttura
sanitaria prima, ed un centro di
riabilitazione poi. Un accenno di
vitalità all’interno del quale, nonostante tutto, sono nati sottogruppi
e dissapori. A dimostrazione del
fatto che il tessuto sociale si è
sgretolato come i muri delle case.
Oggi, come allora, come quella
prima sera sotto un cielo rosso,
guardandoci intorno restano i
sogni infranti.
E le commemorazioni sparpagliate
come tanti piccoli, inutili focolai di
paglia.
Senza cadere nella retorica spicciola, non li dimentica nessuno i
ritardi dei soccorsi, i finanziamenti
gonfiati che hanno fatto del sisma
del 1980 la calamità più costosa
d’Italia. Quella che si cita, dopo la
tragedia dell’Aquila, come il peggiore esempio di ricostruzione postsisma e di gestione o “mala-gestione” dei fondi.
Un’Irpinia infranta, circondata da
colonne anemiche che in trent’anni
hanno continuato a derubarla.
Un’Irpinia nella quale, probabilmente, si è vista la più alta concentrazione di potere politico che,
dopo trent’anni non è riuscito a
presentare all’altare delle vittime
che oggi saranno ricordate, una
terra unita. Cosa resta, oltre
l’Irpinia-gate, il business del terremoto, oltre la speculazione edilizia?
Uno scandalo senza colpevoli?
Di certo, restano le vittime sepolte,
e quelle sopravvissute che possono ancora colmare la voragine culturale e sociale che si è aperta
trent’anni fa.
Perché a se stessi, almeno, lo si
deve: il tentativo di non morire di
solitudine.
Nelle foto, immagini di repertorio che ritraggono Sant’Angelo dei Lombardi prima e dopo
il terremoto del 23 novembre 1980
L’APPUNTAMENTO ALL’ISTITUTO
COMPRENSIVO “CRISCUOLI”
Questo pomeriggio, a partire
dalle 15, presso l’Istituto
Criscuoli, si terrà il convegno
dal titolo “Dai lutti alle macerie, ad una moderna cultura
della Protezione civile”.
Modera il giornalista Franco
Genzale.
Partecipano il ministro per
l’Attuazione del programma
Gianfranco Rotondi, l’ambasciatore Usa Charles
Gargano, l’ex Ministro
Giuseppe Zamberletti e il
nuovo capo della Protezione
Civile, Franco Gabrielli.
L’evento è stato promosso
dal Comune di Sant’Angelo,
dall’istituto comprensivo
Criscuoli e dalla Pro loco
Conza della Campania. Questa mattina il Teatro dell’Osso con “Il fulmine nella terra”
Nel pomeriggio consegna delle medaglie ai volontari, presente il sindaco di Bari
I NUMERI
In Irpinia ci furono 2914 morti,
soltanto a Sant’Angelo
le vittime furono 480
I DANNI
Un paese raso quasi completamente al suolo. Tessuto
sociale ancora disgregato
con il cemento.
Ma niente è stato più come prima.
Per chi racconta, a chi allora non
c'era ancora o era soltanto un
bambino, quello che si è perso
sotto i cumuli di macerie è rimasto lì, sepolto nella terra. Nessuna
Il comune di Conza ha deciso di far
riprodurre la medaglia d’oro che ci fu
consegnata dal presidente della
Repubblica Ciampi e di donarla ai
volontari e a tutte le persone che
aiutarono la popolazione a rialzarsi in
quei terribili giorni. Sarà presente, tra
gli altri, il sindaco di Bari Michele
Emiliano prestò servizio come volontario a Conza nei giorni successivi al
sisma, anche lui avrà in regalo la
medaglia d’oro. Arriverà pure una
delegazione della Provincia di
Bologna un sostegno fondamentale
nella riorganizzazione dei servizi.
Il sindaco Vito Farese ha fatto riprodurre le medaglie d’oro anche su
migliaia di portachiavi, e ne spiega il
motivo “Li doneremo ai cittadini perché oltre agli amministratori sono
Cima, in attesa
del convegno ecco
le verità di Rai Tre
stati loro a guadagnarsela grazie alla
forza, alla dignità, al coraggio e all’orgoglio”. La sera del 23 novembre
dell’80 sarà dedicata alla memoria
dei 184 morti con il picchetto d’onore del Decimo Reggimento di
Manovra di Persano.
Ci sarà anche Zamberletti, il quale
presenzierà ad una rappresentazione
teatrale sul dramma del post terremoto portata in scena dai giovani
della compagnia di Lioni di Milko Di
Martino.
Questa mattina, infatti, nella sala
comunale di Conza, il Teatro
dell’Osso porta in scena “Il fulmine
nella terra” uno spettacolo che racconta i drammatici giorni del
Terremoto in Irpinia del 1980. Il
monologo, scritto e diretto da Di
Martino e interpretato da Orazio
Cerino con l'aiuto regia di Melissa Di
Genova, è un’accurata ricostruzione
dei giorni del sisma condotta su articoli, documenti e testimonianze dell’epoca, è un racconto di alcune
delle tante storie della gente dei
comuni colpiti, come Lioni, Teora,
Conza, S.Angelo, Avellino e molti
altri. Ma lo spettacolo, patrocinato
dal Festival internazionale di Giffoni
Valle Piana, è anche e soprattutto un
bilancio dell'Irpinia a trent’anni di
distanza.
“Trent'anni - dice Di Martino - sono lo
spazio che divide una generazione da
un’altra, e trent'anni fa c’era una
terra che oggi non c’è più”.
Mave
Pades
Questa mattina decine di giornalisti della stampa nazionale saranno
presenti in Alta Irpinia, che già da
qualche settimana ha ripreso le
sembianze della “terra del cratere”, raccontata e fotografata
trent’anni fa. Una troupe della Rai
è attesa a Sant’Angelo dei
Lombardi questa mattina, per raccogliere le interviste ai nuovi e
vecchi protagonisti della ricostruzione del post terremoto.
Particolarmente seguito il viaggio
percorso dal giornalista di Rai Tre
Geo Nocchetti nei luoghi della
ricostruzione, che ha ripercorso
gli ultimi trent’anni di storia fino
ad arrivare al presente, per parlare di costruzione adeguata alla
normativa vigente. Dal suo reportage è emerso che l’80 per cento
della ricostruzione del cratere non
sarebbe più adeguata alle normative vigenti.
Alle 15, invece, si terrà presso il
centro sismologico Cima di
Sant’Angelo dei Lombardi, il convegno: “Il grande terremoto
dell’Irpinia 30 anni dopo –
Emergenza e Ricostruzione”.
Per l’occasione vi sarà un parterre
d’eccezione e numerose autorità
dell’Alta Irpinia, della provincia di
Avellino e della Regione
Campania. Ad organizzare l’evento
sono stati i dirigenti del Centro
regionale Gaetano Manfredi,
Gianfranco Urciuoli e Paolo
Gasparini.
Tra gli invitati, il vicepresidente
della Regione, Giuseppe De Mita.
Previsti gli interventi di Edoardo
Cosenza e del giornalista
Generoso Picone. Nel corso dell’atteso appuntamento, saranno
presenti numerosi amministratori
dell’Alta Irpinia, autorità istituzionali, e associazioni di volontariato,
della Protezione Civile e dell’associazionismo provinciale, regionale
e nazionale.
PRIMO PIANO
Ottopagine
Teora. Sarà inaugurato il
monumento in memoria dei
defunti. In programma la sfilata dei mezzi di soccorso
del volontariato
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
Calitri. Gli esperti della
Sigea spiegano l’importanza
della mappatura della
sismicità dividendo le aree
a seconda del rischio
5
Q
UEI
90
SECONDI
di terrore
Convivere con il rischio
sismico si può,investendo
nella prevenzione
A Calitri il convegno degli studiosi della Sigea
PAOLA DE STASIO
Calitri
Teora ricorda le vittime del sisma
Questa mattina alle 10,30 celebrazione della Santa Messa in suffragio delle
vittime del terremoto presso la Chiesa Madre “San Nicola di Mira”; alle 11,30
in via Monte, inaugurazione del monumento in memoria dei defunti del terremoto 1980 con la partecipazione dell’onorevole Giuseppe Zamberletti, già
Commissario Straordinario per l’emergenza del Sisma del 23 novembre
1980; il vicepresidente della Regione, Giuseppe De Mita e il consigliere regionale Pietro Foglia. Alle 12 presso Cinema Sala - Teatro Europa: “Fate presto”, i
volontari raccontano. Alle 16 raduno e sfilata dei mezzi di soccorso delle
associazioni di volontariato. Alle 17 il convegno “Irpinia: 30 anni dopo, 23
novembre 1980 – 23 novembre 2010” con la partecipazione del presidente
nazionale delle Misericordie d’Italia e autorità civili e militari.
Sant’Angelo dei Lombardi. Un passo verso il futuro
INAUGURATA “LA SCUOLA DEI PICCOLI”
ELISA FORTE
Sant’Angelo dei Lombardi
Alla vigilia del trentennale del terremoto
del 1980 a Sant’Angelo dei Lombardi si
pensa al futuro. L’inaugurazione della
scuola dei piccoli “Giovanni Gargano” e il
riconoscimento di due figure emblematiche della storia della comunità come
Francesco Quagliariello e Lorenzo De
Vitto, sono il segno evidente della volontà
di guardare al futuro. Due presenze illustri
per il taglio del nastro al plesso scolastico
di via Bartolomei: l’ambasciatore degli
Stati Uniti Charles Gargano, già cittadino
onorario e protagonista delle ricostruzione
post sisma, che ha contribuito alla costruzione della nuova scuola, e il console statunitense di Napoli Mr Donald L. Moore,
che hanno incarnato il sentimento di solidarietà ricevuta dall’America da parte
degli emigranti. “Già 30 anni fa, l’ambasciatore Gargano si è preoccupato della ricostruzione, pensando prima agli anziani,
con la costruzione della casa di riposo, poi
ai bambini, con la costruzione dell’istituto
comprensivo, e oggi la solidarietà continua, con l’inaugurazione della scuola dei
piccoli” ha affermato la dirigente scolastica Rosanna Repole. Dopo il taglio del
nastro e la benedizione di S. E. Franco
Alfano, la manifestazione è proseguita alla
sede centrale del Criscuoli, dove sono
state celebrate due figure emblematiche
della storia santangiolese, a cui sono stati
intitolati due massi, come testimoni di
grandezza e spessore morale. Memorie di
Francesco Quaglieriello e Lorenzo De Vitto
sono state celebrate dal sindaco Michele
Forte, che evidenziando i due personaggi,
ha richiamato l’attenzione sulla questione
sanità: “Viviamo un momento grave, vale
come un secondo terremoto perché a
distanza di trent’anni dobbiamo ancora
difenderci da atti di sciacallaggio ingiustificati. È lo stesso ospedale che Lorenzo e
Ciccillo hanno difeso nel 1980, che ora
rischiamo di perdere”. Parole di viva commozione anche per il Procuratore della
Repubblica Antonio Guerriero, che incalza
sul tema della programmazione per invertire il trend di spopolamento ed emigrazione. Presenti in sala i familiari di
Quagliariello e De Vitto, che hanno richiamato alla memoria l’amore dei genitori per
il paese e il fatidico 1970, quando da avversari politici furono eletti entrambi consiglieri regionali, e unirono la cittadinanza in
un abbraccio sentito. Presente alla cerimonia anche Suor Lucia Lanzella, altra figura
storica degli anni della ricostruzione.
Entusiasta il console statunitense di Napoli
Moore, che ha sottolineato il rapporto amichevole fra il sud Italia e gli Stati Uniti, consolidato anche dopo l’11 settembre. “I
bambini di oggi saranno gli uomini di
domani” ha affermato l’ambasciatore
Gargano, che ha narrato del legame con
suo padre e la stima nei confronti della
dirigente Repole. Conclude S. E Alfano:
“Due parole per ricordare: terremoto e
amicizia;la terza la scriveremo insieme
domani”.
Si parte da un dato di
fatto: l’Irpinia è una
delle zone d’Italia che
deve imparare a conviv e re c o n i l r i s c h i o
sismico. Per attenuare
gli effetti di un possibile
terremoto c’è solo un
modo: investire in prevenzione.
Non esistono altri sistemi. Lo hanno dichiarato
a chiare lettere autorevoli studiosi della Sigea
(Società Italiana di
Geologia Ambientale)
p re s e n t e a l c o n v e g n o
o rg a n i z z a t o p re s s o l a
comunità montana “Alta
Irpinia” con le rappresentanze delle sezioni
di 3 regioni: Campania,
Basilicata e Puglia.
Lo strumento più efficace è la microzonizzazione, una mappa della
sismicità che suddivide
l e a re e a s e c o n d a d e l
grado di rischio sismico
e sulla base di questi
studi si dovrebbero vinc o l a re g l i s t r u m e n t i
urbanistici.
“Una microzonizzazione
– ha spiegato il sindaco
di Calitri Giuseppe Di
Milia – che davvero non
sappiamo se la Regione
Campania ha provveduto ad effettuare. Come
mia esperienza posso
s o l o c o n f e r m a re c o n
dati scientifici alla
mano che dopo gli
interventi di consolidamento effettuati al
movimento franoso che
interessa Calitri abbiamo contenuto l’avanzata della frana, si è passati dall’avanzamento
del fronte franoso di un
c e n t i m e t ro e m e z z o
all’anno degli 90 a meno
di un centimetro dopo
le opere di contenimento. Siamo l’esempio
emblematico che quando i soldi vengono spesi
in maniera oculata e
mirata e sulla base di
progetti validi i risultati
si ottengono, il rischio
si riduce”.
Si è parlato molto di
frane, i geologi hanno
riferito che il terremoto
del’30 ne scatenò 25 ed
il sisma del 23 novembre dell’80 ne provocò
una trentina, alcune di
grandi
dimensione
come, per l’appunto,
quella di Calitri che ha
messo in movimento 28
miliardi di metri cubi di
materiale. Il giudizio
degli
studiosi
che
h a n n o p re s o p a r t e a l
convegno è stato unanime: in questi 30 anni
molto è stato fatto, ma
tanto ancora bisogna
Il sindaco: «La prevenzione è possibile attraverso la microzonizzazione, ma non sappiamo se la Regione l’ha
effettuata»
Gli studiosi: «Serve una
mappa della sismicità
che divida le aree in
base al grado di rischio
e a questi vincolare gli
strumenti urbanistici»
fare. Una fotografia della
situazione dinamica, non
statica. Le conoscenze
scientifiche in termini di
prevenzione e di tecniche di costruzione sono
di gran lunga superiori a
quelle di 30 anni fa, di
conseguenza
molte
strutture sia private e
soprattutto quelle pubbliche vanno riviste,
rafforzate sulla base dei
nuovi strumenti di pianificazione finalizzati a
mitigare il rischio sismico.
“Siamo stati lieti di ospitare un convegno di così
alto valore scientifico –
GLI ESPERTI
In trent’anni si è fatto
molto ma bisogna fare
ancora tanto
GLI OSPITI
Presenti gli amministratori altirpini, quelli lucani
e del foggiano
ha dichiarato Giuseppe
Di Milia – abbiamo intenzione di fare altri incontri di questo tipo per
sollecitare la politica e le
istituzioni a recepire gli
studi e gli strumenti
messi a punto dalla Sigea
e farli applicare sul territorio”. Sono intervenuti,
t r a g l i a l t r i , M a rc e l l o
Schiattarella (Università
della
Basilicata),
Vi n c e n z o D e l G a u d i o
(Università di Bari),
Giuseppe Naso e Sergio
C a s t e n e t t o
( D i p a r t i m e n t o
Protezione Civile), Vito
Savanella
(Ufficio
Tecnico per le Dighe) e
A l f re d o P i t u l l i ( S i g e a
P u g l i a ) . N u m e ro s i g l i
amministratori presenti
sia dell’Alta Irpinia che
della Lucania e del foggiano.
6
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
QUEI 90diSECONDI
terrore
PRIMO PIANO
Pd. Il senatore irpino:
andare oltre
il rituale delle celebrazioni
Quella tragedia sia spinta
per lo sviluppo dell’Irpinia
Ottopagine
Regione. Il presidente
del consiglio Romano:
lavorare perchè
certe tragedie
non si ripetano
Il ricordo del senatore del Pd De Luca: «La politica faccia fronte comune per sostenere gli amministratori locali»
«Terribile prova vinta dai cittadini»
«E’ il momento di chiudere definitivamente il capitolo della ricostruzione»
R
ichiamare alla memoria il
terremoto del 23 novembre
1980, i paesi rasi al suolo, i
palazzi inghiottiti, rendere
onore, nel ricordo, alle migliaia
di morti e feriti, a trenta anni di
distanza, ha un senso più compiuto se si compie il tentativo di
spingersi oltre il cerimoniale
delle commemorazioni. Al di là
dei rituali, che anch'io, come
tanti, potrei celebrare scorrendo
l’album delle immagini indelebili
che si presentarono agli occhi
quando, due giorni dopo la terribile notte, visitai i paesi della
provincia devastata dal sisma,
vorrei provare a concentrare
l'attenzione sull'insegnamento
che quell'evento, e gli anni che
seguirono, ci hanno lasciato.
La disperazione dei primi tempi,
il sentimento dominante che raccolsi in quel giro tra le macerie,
compiuto con il segretario provinciale della Democrazia
Cristiana - l’indimenticabile, per
rigore morale e passione civile,
Attilio Fierro - sfumò nella voglia
di risollevarsi, nella caparbietà
dei sopravvissuti che volevano
ricostruire la propria terra, riannodare i fili delle proprie radici
in alcuni casi recisi dalla furia
del terremoto. Col trascorrere
del tempo la dignità di una
comunità che non si arrese e che
trovò nella solidarietà la spinta
principale per far fronte ad un
futuro di sacrifici e incertezza
prevalse e, alla lunga, ha finito
con l'avere ragione. Se oggi
l’Irpinia, nonostante frenate brusche e qualche intoppo, nonostante speculazioni che hanno
portato molte risorse in aree
molto meno colpite dal sisma, è
in gran parte ricostruita, lo si
deve soprattutto alla sua gente.
Certo, anche la classe dirigente
ha lavorato tanto e bene per raggiungere un traguardo che trenta
anni fa era impossibile anche
solo immaginare. Da dirigente
provinciale della Dc ricordo le
riunioni, la consapevolezza di
dover far fronte ad una emergenza drammatica, la preoccupazione di rendere gli interventi quanto più tempestivi possibile.
Si è lavorato giorno e notte, sul
territorio e in Parlamento, e l'esempio irpino ha segnato un precedente nella storia del Paese.
E allora il ricordo della tragedia
deve costituire per tutti noi l'occasione per riflettere su valori e
L’IMPEGNO
«Si è lavorato giorno
e notte sul territorio
e in Parlamento»
LA PROSPETTIVA
«La logica degli interessi
di parte e privati
non deve mai prevalere»
capacità smarrite, messe a dura
prova da crisi e opportunismi
cui la politica di oggi sembra
declinata, pur troppo anche
nella nostra provincia.
Ma la storia dell'Irpinia, che nel
terremoto ha, insieme, un
momento cruciale e un esempio
paradigmatico, è estranea a
cer te dinamiche e sta a noi,
comunità e classe dirigente, fare
in modo che la logica degli interessi familistici e privatistici non
permei anche il tessuto sociale
della nostra provincia.
La crisi attuale, e le conseguenze nefaste che potranno derivarne, chiede alla politica di sforzarsi per superare gli steccati di
partito, per aprirsi al confronto
e alla collaborazione su questioni che interessano la vita quotidiana della gente. Per farlo bisogna recuperare un rapporto di
prossimità con le comunità e
mettere da parte arrivismi e velleità carrieristiche, che mal si
conciliano con la politica.
Per quanto mi riguarda mi impegnerò per far sì che venga redatta, come chiedono molti amministratori del territorio, una apposita proposta di legge per chiu-
dere definitivamente il capitolo
della ricostruzione. Ma l’Irpinia, «RICORDO
ricostruita nelle case e nei paesi, E ORGOGLIO»
ha bisogno di riscoprire, sin «Il presidente
d’ora, la sua vera anima, di riap- della
propriarsi di un’identità fatta di Repubblica
valori antichi e profondi come la Ciampi ha preterra, granitici come le monta- miato con la
gne che ne definiscono l'orizzon- medaglia d’oro
te. Da questo potrà ripartire un diciotto comu-
IL RILANCIO
Il riscatto passa
dal recupero
della nostra identità
nuovo sviluppo, che può passare
dalle tantissime risorse - per
cominciare, la valorizzazione
dell'ambiente anche in proiezione di “economia verde” e turismo sostenibile - ancora poco
valorizzate. Ecco, a trent'anni
dal terremoto la scommessa è
questa. Ma a vincerla deve essere prima di tutto la politica.
Enzo De Luca
*senatore Partito Democratico
ni». Il professore Vincenzo
Martone di
“Spazio Aperto”
ricorda i giorni
della soddisfazione, «un riconoscimento che
portò luce, fece
giustizia e finalmente pose la
parola fine a
tante false
accuse. Noi
comunque riteniamo che, fin
quando dipenderemo da
Napoli, prevarrà
sempre la logica del pesce
grande che
mangia il pesce
piccolo».
Regione
Romano: più cultura
della prevenzione
Il Presidente del Consiglio Regionale della
Campania, Paolo Romano, che presenzierà oggi
alla cerimonia di commemorazione del trentennale del sisma del 1980 organizzata dalla
Prefettura di Napoli presso la Reale
Arciconfraternita di San Ferdinando in Piazza
Trieste e Trento a Napoli, ha espresso a nome
dell’intera assemblea legislativa campana, “la
più profonda espressione di commosso ricordo
delle vittime del sisma che trent’anni fa sconvolse la Campania e la Basilicata”, sottolineando di
far proprio “il monito del Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano sulla necessità ed
il dovere di dare maggiore impulso alla cultura
della previsione e della prevenzione”.
“Se è vero, infatti, come è giusto e doveroso
che sia, che lo Stato, in tutte le sue articolazioni
nazionali e locali, sia in prima fila ad ispirare e
ad incoraggiare la cultura della memoria per il
profondo rispetto che si deve alle vittime delle
tante calamità naturali che con significativa frequenza si abbattono sulle nostre comunità, – ha
aggiunto il presidente Romano – è anche altrettanto giusto e doveroso che le istituzioni tutte
assumano come prioritario l’impegno concreto e
quotidiano perché certi fenomeni naturali, i cui
esiti sono a volte prevedibili e a volte meno, non
si traducano in vere e proprie tragedie”.
PRIMO PIANO
Ottopagine
L’appello. Slow food:
una giornata
di silenzio
in posta elettronica
e su Facebook
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
La lettera. Il presidente
della Repubblica scrive
ai governatori
di Puglia, Campania
e Basilicata
Mitrione: e ora
vogliono cancellare
anche la ferrovia
Guarino: dalle macerie
è nata una Solofra
migliore
Il 23 novembre ricorre il 30 anniversario del terremoto che tanti
lutti e rovine causò all’Irpinia.
Ancora oggi c’è tanto da fare ma
quello che poteva essere e non è
stato è impresso nella mente delle
popolazioni colpite dal sisma
dell’80. Si sperò nell’industrializzazione di quelle zone montane
ed arrivarono gli affaristi, si
immaginò che l’atavica disoccupazione cessasse ed invece i
nostri paesi sono diventati più
spopolati di allora. Un territorio
quello dell’alta Irpinia popolato,
ormai, solo da anziani, i giovani
appena possono fuggono via.
Quelli che dovevano diventare
nuclei industriali, tranne pochissime eccezioni, sono diventati simboli di un fallimento nazionale.
Eppure quell’eventò segnò un
grande moto di solidarietà nazionale, l’ultimo, purtroppo.
Fortunatamente sono state edificate le abitazioni, siamo quasi al
90/95 per cento della ricostruzione. Restano i problemi di un territorio, quello delle zone interne
della Campania, abitato da appena il 20 per cento della popolazione campana a fronte di una
vastità dello stesso dell’80 per
cento, su cui si abbattono i cosiddetti “tagli lineari” della finanziaria o le famigerate “soglie minime” di fruibilità dei servizi pubblici. Di conseguenza si tagliano
ospedali, trasporti, scuole etc. A
distanza di 30 anni da quel triste
sisma qualcuno ha anche deciso
che l’unica ferrovia che attraversa tutta la zona del cratere debba
essere chiusa definitivamente.
Quella ferrovia, l’AvellinoRocchetta, è la stessa che vollero
fortemente Francesco De Sanctis
e Giustino Fortunato, illustri politici di quegli anni. “Si animi
Monticchio, venga la ferrovia e in
piccol numero di anni si farà il
lavoro di secoli”, così profetizzava F. De Sanctis nel suo “Viaggio
elettorale”, lo stesso che si battè
perchè la scuola fosse pubblica.
Oggi si chiudono, nel silenzio
della politica e delle istituzioni,
scuole, oggi si sopprimono ospedali, oggi si tagliano trasporti e
domani che diventerà l’Irpinia?
Forse stanno pensando di
costruirci una megadiscarica
regionale?
Alla desolazione si aggiunge
disperazione. Non pensavamo
questo, noi irpini, 30 anni fa e
nemmeno Francesco de Sanctis e
Giustino Fortunato oltre centoventi anni fa, la loro era la lungimiranza di politici illuminati quelli che di cui oggi sentiamo drammaticamente la mancanza.
Facciamo del 23 novembre 2010
un momento di riflessione collettiva, cerchiamo di andare oltre la
retorica dell’occasione e ricordiamoci con il raccoglimento dovuto
delle migliaia di persone che persero la vita in quella tristissima
serata del 23 novembre 1980.
Pietro Mitrione
La città di Solofra ricorda le vittime
del sisma del 23 novembre del 1980.
Per ricordare le trenta vittime di quei
terribili momenti il comune di Solofra,
in collaborazione con Anspi circolo
parrocchiale San Michele Arcangelo,
sezione San Gerardo Maiella, ha promosso una cerimonia di commemorazione. Alle 18.00 a Palazzo Orsini è
prevista la conferenza di presentazione del libro “Voci dalla macerie” ovverosia una raccolta di testimonianze
dei sopravvissuti e dei familiari delle
vittime del terremoto. Alle 19 fiaccolata fino al Monumento ai Caduti in via
Aldo Moro e la benedizione della lapide commemorativa in memoria delle
vittime. Alle 19.30 presso la collegiata
di San Michele Arcangelo la santa
messa officiata dal parroco
Monsignor Mario Pierro. «"Fate presto", titolava così un quotidiano campano nei giorni immediatamente successivi al sisma del 23 novembre del
1980. Una semplice frase - precisa il
sindaco Antonio Guarino - nella quale
si racchiudeva però il dramma che si
stava consumando. La macchina dei
soccorsi si mosse lentamente. La solidarietà umana però seppe sopperire
a questi ritardi, a queste carenze. Io
ho vissuto in prima persona quei giorni. Da amministratore sapevo che il
nostro primo impegno doveva essere
far ripartire le nostre aziende. Ci rimboccammo le maniche. Tutti. Insieme
con gli operai e con gli imprenditori
tornammo nelle fabbriche, riaccendemmo i macchinari e ricominciammo a lavorare e con il lavoro incominciammo quel lento cammino che ci
avrebbe riportato alla normalità.
Dalle macerie di quel sisma io ritengo
che nacque una Italia, una Solofra
migliore. Consapevole di avere in se
stessa le forze per andare avanti e
fronteggiare le emergenze. Quella
lezione, da amministratore, ritengo
che via ancora oggi e si manifesti quotidianamente nelle centinaia di associazioni di volontariato e di protezione civile che riescono ad arrivare là
dove spesso la macchina amministrativa, afflitta da lungaggini e burocrazia, spesso non riesce ad arrivare. Nel
giorno del trentennale del sisma del
1980 il ricordo di tutti noi deve andare
alle vittime di quei novanta secondi di
devastazione ma anche a quanti nei
giorni immediatamente successivi si
rimboccarono le maniche e si spesero per aiutare chi aveva perso tutto».
«Anche Solofra - aggiunge l’assessore
Orsola De Stefano - pagò un pesante
tributo in termine di vite umane.
Trenta persone persero la vita a
seguito del sisma. Il sisma sfregiò il
volto della Solofra che conoscevamo,
famiglie spezzate, quartieri stravolti.
Da quegli attimi di paura, che ancora
sono vivi nella memoria di chi li ha
vissuti, è venuta fuori una Solofra,
una Italia differente. La macchina dei
soccorsi si mosse lentamente. Ma a
queste carenze seppe sopperire il
cuore degli uomini. Nei giorni che
seguirono a quell’evento catastrofico
tutta l’Italia seppe reagire. Comunità
distanti da noi centinaia di chilometri
si mossero per dare aiuto ed assistenza a uomini e donne che mai avevano
conosciuto prima. La devastazione
che il terremoto aveva fatto piombare
sulle nostre case e sui nostri cuori
trovò sollievo nella disinteressata e
spontanea generosità e disponibilità
dell’uomo. Nel trentennale del sisma
del 23 novembre del 1980 io ritengo
che non ci sia modo migliore di ricordare quei fatti se non quello di tenere
sempre viva la fiamma della solidarietà e dell’umana comprensione che
in quei giorni arse in maniera possente». Conclude con una citazione del
drammaturgo greco Sofocle: «L’opera
umana più bella è di essere utile al
prossimo».
7
Q
UEI
90
SECONDI
di terrore
«Una grande pagina di solidarietà
serve più controllo del territorio»
Napolitano: la memoria per evitare altre tragedie
Il ricordo del terremoto
dell’Irpina del 23 novembre
1980 e «le sempre più frequenti
calamità naturali, devono spingere a sviluppare la cultura
della previsione e della prevenzione, nonchè un’azione di vigilanza e controllo del territorio e
dell’ambiente».
Così
il
Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, in occasione del trentennale del terremoto dell’Irpinia, in una lettera
inviata ai Presidenti della
Regione Campania, Stefano
Caldoro, della Basilicata, Vito
De Filippo, e della Puglia, Nichi
Vendola, in cui chiede loro di
rendersi interpreti del cordiale
saluto agli Amministratori delle
comunità colpite e a tutti coloro
che prenderanno parte ai diversi momenti evocativi. «La
memoria del catastrofico terremoto del 23 novembre 1980 che
sconvolse vaste aree della
Campania e della Basilicata,
interessando anche alcuni
Comuni della provincia di
Foggia - scrive Napolitano suscita ancora profonda emozione per l’immane tragedia che
segnò le popolazioni e stravolse
l’assetto sociale ed urbanistico
del territorio. Le manifestazioni
organizzate nella ricorrenza del
“trentennale”- prosegue la lettera - costituiscono una importante occasione per ricordare le
«MOMENTO
DI RIFLESSIONE»
«Le manifestazioni
organizzate nella
ricorrenza del “trentennale”- si legge
nella lettera di
Napolitano- costituiscono una importante occasione per
ricordare le quasi
tremila vittime, le
migliaia di feriti, le
sofferenze e i gravi
disagi, protrattisi nel
tempo, per i circa
trecentomila senzatetto».
quasi tremila vittime, le migliaia di
feriti, le sofferenze e i gravi disagi,
protrattisi nel tempo, per i circa
trecentomila senzatetto. La ricorrenza è anche occasione per ricordare l’opera di tutti coloro che
accorsero, con straordinario slancio di solidarietà, da tutte le parti
del paese, per prestare i primi
soccorsi, affiancando lo sforzo dei
Corpi dello Stato. Di fronte a quel
drammatico evento si manifestò
la generosa mobilitazione della
Comunità internazionale, di
Regioni, di Provincie e di Comuni
che “adottarono” singole realtà
L’allarme di Cisl e Ugl
«Il riscatto è ancora lontano
il futuro dell’Irpinia resta difficile»
«In Irpinia la ricostruzione venne incentrata sul rilancio industriale: vennero stanziati circa 60.000 miliardi delle vecchie lire tra Campania e
Basilicata, con un costo 12 volte superiore al previsto in provincia di
Avellino. Ma quali furono i risultati? Imprese che fallivano appena intascati i contributi. A trent’anni da questa terribile tragedia cosa è cambiato?», si chiede il segretario della Cisl Mario Melchionna. «L’Irpinia è
ancora una terra gravemente colpita da diversi problemi come quello
dei rifiuti e della disoccupazione. In realtà sono ancora troppi gli interessi in gioco e nulla sarà più come prima, per le tante persone che
hanno vissuto la tragedia del sisma. Ma tocca alla politica, alle istituzioni, la responsabilità di ricostruire ciò che andato via in soli 90 secondi e
dare il diritto a questa terra di riscattarsi. Quale migliore occasione se
non quella di offrire ai tanti giovani gli strumenti adatti per continuare a
vivere nella loro terra d’origine, per continuare ad amare il loro territorio, arrestando così il continuo esodo verso le terre del Nord? Più di
6.000 sono i giovani che hanno lasciato l’Irpinia e hanno perso questa
speranza. Occorre rilanciare il nostro territorio attraverso la realizzazione delle grandi opere, di infrastrutture, di investimenti. Tutto ciò
significherebbe ricostruzione, ammodernamento, occupazione, in una
parola, sviluppo. Mi rivolgo alla politica, senza alcuna distinzione , in un
giorno triste “per non dimenticare”, che potrebbe rappresentare la
svolta “per dimenticare” tanti altri problemi legati alla nostra terra». Il
segretario dell’Ugl Costantino Vassiliadis si sofferma sulle parole del
presidente della Repubblica Napolitano che, nella lettera invitata ai presidenti delle Regioni colpite, ha esortato a sviluppare la cultura della
previsione e della prevenzione. «Oggi non dobbiamo e non possiamo
dimenticare quel 23 novembre di 30 anni fa che seminò morte e dolore
nella nostra Irpinia. A 30 anni di distanza quella ferita è ancora viva in
tutti noi. Basti pensare a quelle famiglie che vivono ancora nei containers. In questi ultimi giorni di celebrazioni e commemorazioni, abbiamo rivissuto il terremoto che tra la Campania e la Basilicata colpì ben
280 comuni distruggendone 36. Quelle immagini di distruzione, dolore,
paura, morte, vivono nella nostra memoria ma abbiamo il dovere di
farle conoscere anche alle nuove generazioni perchè solo attraverso la
conoscenza e nel ricordo doveroso e doloroso delle vittime del terremoto dell'80 possiamo far passare il messaggio di quanto sia importante la prevenzione così come oggi ha tenuto a sottolineare anche il
Presidente della Repubblica».
colpite per accompagnarle nel difficile percorso del recupero di
condizioni di normalità. Le disastrose conseguenze degli eventi
sismici e dei sempre più frequenti
eventi calamitosi - conclude il
Presidente della Repubblica impongono alle Istituzioni, nazionali e locali, e alla comunità scientifica di rinnovare il responsabile
impegno a sviluppare la cultura
della previsione e della prevenzione cui far corrispondere una
costante e puntuale azione di vigilanza e controllo del territorio e
dell’ambiente».
Zecchino: la cultura
faro delle nuove
generazioni
«La cultura e l’arte possono dare un contributo decisivo alla rilettura di un evento
così drammaticamente sconvolgente
come il terremoto». E’ l’input lanciato da
Gesualdo dal Consigliere Regionale
Ettore Zecchino, intervenuto, su invito
di Giuseppe Mastronimico, per tracciare
le conclusioni del convegno organizzato a
Palazzo Pisapia dal centro Unla per riflettere a 30 anni dal sisma del 1980 nel
quadro del ciclo di eventi “Voci d'Irpinia:
percorsi di impegno civile”. Filo conduttore della serata sono state le poesie di
Domenico Cipriano, autore di una raccolta dal titolo “Novembre” che, con
struggente forza evocativa e respiro universale, ripercorre il viaggio nel baratro del
dolore e tra le macerie che ancora pesano sulla memoria vivente dell'Irpinia. Un
incontro speciale perché denso di testimonianze profonde come quella dei
volontari dell’Anpas e di Rosanna
Repore, il Sindaco di Sant’Angelo dei
Lombardi che divenne il simbolo dell’Alta
Irpinia all’indomani della catastrofe naturale. Le immagini delle rovine e della
disperazione di quei giorni si sono
accompagnate al ritmo sferzante dei versi
di Cipriano nel docufilmato di Anna
Ebreo, Federico Iadarola, Enzo Marangelo
e Vito Rago. Il Sindaco di Gesualdo ha
sintetizzato i risultati della ricostruzione,
sottolinendo come Palazzo Pisapia interamente recuperato ne sia il chiaro emblema. «Ma la sfida vera – precisa il consigliere regionale Zecchino, componente
della commissione Cultura - è la fruizione
intelligente dei beni. Dopo la ricostruzione, ora spetta a noi di rendere vivi e partecipati i beni».
8
PRIMO PIANO
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
QUEI 90diSECONDI
terrore
Ottopagine
Le celebrazioni Da piazza
XXIII Novembre al Duomo
per la messa con il
Vescovo, poi al Teatro con
gli studenti e le autorità
Il ricordo del primo cittadino
di Avellino, allora giovane
medico che prestava soccorso ai feriti, oggi amministratore con una eredità difficile
Il sindaco invita a non cercare ancora i colpevol e rifugiarsi nelle polemiche sterili sullo sviluppo mancato
«E ora guardiamo al futuro»
Galasso: il capoluogo 30 anni dopo? Troppo facile dire che abbiamo sbagliato tutto
ROSSELLA STRIANESE
La mostra al Carcere Borbonico
Avellino
L'incrocio fra la potenza devastante del
sisma e i nodi sociali della cosiddetta
"questione meridionale" fanno del 23
novembre 1980 un crocevia decisivo
nelle vicende politiche e sociali della
Regione e dell'intero Paese.
Quell’evento ha spolpato questa terra
fino al midollo e ha continuato a farlo
anche dopo. Soprattutto dopo.
Quando la catastrofe ha assunto il
volto dei senzatetto, della disoccupazione endemica, del sottosviluppo, del
clientelismo, della speculazione e dello
sfruttamento del territorio, delle opere
faraoniche e mai concluse. Nelle ore
seguenti al sisma anche gli apparati di
potere e tante amministrazioni comunali, risultarono fisicamente terremotati e con l’arrivo di Zamberletti si aprì
formalmente la pratica dei commissariamenti che andò a colmare il vuoto di
potere in chiave autoritaria.
Un dramma senza fine, che è continuato per anni. Gli affari, i soldi della ricostruzione. E poi gli arresti. E le prescrizioni. È lunga la storia del terremoto di
quella domenica di novembre. E forse
non è stata neanche ancora del tutto
raccontata. Restano tanti testimoni di
un fallimento, muti: c’è il Mercatone, il
macello comunale, e i tanti “buchi”
della ricostruzione e sei aree industriali
fantasma. Dal bilancio di tre decenni il
risultato, diciamolo, presenta un bel
segno meno.
«Ma bisogna sfuggire alla tentazione,
benché fortissima, di cercare i colpevoli. Dopo trent’anni è facile, troppo
facile, e anche ingeneroso, dire che
abbiamo sbagliato tutto. Allora ero un
giovane medico che si preoccupava di
tenere in vita i sopravvissuti, di trovare
un posto ai feriti lungo i corridoi dell’ospedale Moscati cercando di cacciare il
dolore per le tante persone care scomparse sotto le macerie. Oggi, da sindaco della città capoluogo, so che le cose
sono andate in un certo modo perché
non poteva andare diversamente, date
le condizioni in cui ci siamo trovati.
Oggi abbiamo altri mezzi, nuove conoscenze. Allora non avevamo niente. La
Protezione civile è nata col terremoto
dell’Irpinia. La Misericordia e il volontariato così come lo conosciamo oggi
sono nati quel 23 novembre. Le poltitiche di prevenzione e di difesa del territorio sono cominciate dopo il terremoto. Allora avevamo solo noi stessi, con
i nostri mali endemici ma anche con le
nostre immense risorse umane e culturali».
Giuseppe Galasso questa mattina presenzierà alle cerimonie ufficiali del
trentennale. Con quale spirito, è facile
IL SUD DIMENTICATO
«L’ultimo riparto Cipe è l’ennesimo tentativo di affossare un
meridione già agonizzante»
immaginarlo.
«In fondo sono sereno, perché per
natura mi piace guardare avanti, al
futuro, a quello che sarà Avellino tra
dieci anni. Abbiamo lavorato e stiamo
lavorando per questo. Nel cuore però
mi porto le domande di tutti gli irpini
che speravano in una grande rinascita.
Di occasioni ne abbiamo avute, è vero,
e forse non siamo stati bravi a coglierle
tutte. Ma è anche vero che questa terra
è stata “derubata” del terremoto, più di
quanto si pensi. E non parlo solo dei
fondi. Anche se alla fine è con le cifre
che bisogna fare i conti».
E-ArtQuake, memoria e identità
nell’era dell’arte digitale
E a proposito di cifre. L’ultimo riparto
del Cipe ci riserva poche briciole, quasi
una punizione per l’Irpinia e l’intero
Mezzogiorno.
«Vogliono farla passare come una punizione. Ma destinare miliardi di euro al
nord, e solo pochi miloni a tutto il sud
mi sembra piuttosto una beffa. Non
dimentichiamo che al Governo c’è la
Lega con i suoi interessi miopi. Il punto è
proprio questo. Investire adesso nel meridione significa dare una speranza a una
terra altrimenti destinata alla morte. Oggi,
che abbiamo i mezzi e l’esperienza per guidare il processo di sviluppo, ci tagliano le
gambe. Vedi anche la vicenda dei fondi
europei bloccati. E’ di questo che dovremmo indignarci».
E’ uno dei momenti qualificanti delle
celebrazioni per il trentennale del terremoto, la mostra interattiva EArtQuake (dal 23 al 27 novembre
presso il carcere Borbonico di
Avellino, evento gratuito, h. 18.00 –
22.00) una collettiva d’arte contemporanea che connette l’arte digitale e
l’estetica delle nuove tecnologie con i
temi della memoria, del trauma e
della perdita di identità a causa del
sisma. Gli allestimenti, con lavori inediti e dedicati, si snodano lungo un
percorso formato da quattro sezioni:
audio e audio/video, con ben 60
opere tutte della durata di 90 secondi, quanto la scossa di terremoto,
sound art ed installazioni multimediali
e interattive.
Per realizzare quest’opera collettiva
l’associazione culturale avellinese
Magnitudo (già promotrice del festival
internazionale di arte elettronica
Flussi) ha bandito un concorso (call
for partecipation) per artisti digitali
(video-makers – sound-artists – interaction-designers) nazionali ed internazionali, invitati ad interpretare liberamente il tema del terremoto. Tre le
opere che saranno poi premiate, più
un lavoro fuori concorso.
E-ArtQuake non vuole essere una
semplice mostra commemorativa
ma un’operazione estetica di rappresentazione e riflessione sulle implicazioni di un evento così traumatico per
il territorio e la sua comunità. Una
collettiva artistica di natura quasi
“omeopatica”, per rielaborare e ridefinire il senso di un evento che ha
condizionato la storia di una comunità e delle sue generazioni.
Ogni lavoro, dalle rassegne video alle
composizioni sonore sino alle installazioni multimediali che prevedono il
coinvolgimento del pubblico, sono
improntate a realizzare questa esigenza in forme inedite, affidando alle
nuove tecnologie l’interpretazione del
sisma del 1980.
Oggi in città
cinquecento angeli
del terremoto
Ci sarà anche il sindaco di Bari, Emiliano
Si ricordano le vittime, poi tutti al Gesualdo
IL PROGRAMMA AD AVELLINO
ROSTRI
Avellino
Incerta la partecipazione del sindaco de L’Aquila Cialente che ha
fatto pervenire il suo messaggio
Cinquecento angeli del terremoto,
tutti vigili del fuoco, arriveranno
questa mattina in città con i loro
mezzi e le divise, con i ricordi e le
testimonianze. Un intero Paese
porta nel cuore la straordinaria
esperienza di solidarietà che di
quei giorni terribili è stata l’inaspettato e meraviglioso frutto. Ne
arrivarono ben trentamila, da
tutta Italia. La rabbia per il ritardo
dei soccorsi si unì alla solidarietà
fra chi aveva perso tutto e chi
invece aveva lasciato tutto per
correre in aiuto delle popolazioni
terremotate, dando vita fin dalle
primissime ore a un nuovo modo
di essere comunità.
Tra i tanti volontari anche l’attuale sindaco di Bari, Michele
Emiliano, che oggi sarà ad
Avellino al fianco del primo citta-
dino Galasso in Piazza del Popolo
per depositare una corona davanti
al monumento dedicato alle vittime del terremoto.
Ancora incerta la partecipazione
del sindaco de L’Aquila, Massimo
Cialente, che ha dato la propria
adesione e la disponibilità a prendere parte alle cerimonie del trentennale in nome di un terremoto
che ha profondamente unito le due
città capoluogo. Cialente, che è
impegnato a Roma per impegni
istituzionali, ha fatto pervenire al
primo cittadino Galasso la sua personale gratitudine per la solidarietà mostrata dall’Irpinia alle
popolazioni d’Abruzzo colpite dal
terremoto nel 2009.
Il programma messo a punto dall’amministrazione
comunale
comincerà alle 9,00 ed è diviso in
due parti: la prima, istituzionale,
prenderà il via dal Corso Vittorio
Emanuele (altezza Villa Comunale)
e prevede il trasferimento dei partecipanti e dei mezzi dei Vigili del
Fuoco al centro storico di Avellino,
dove sarà deposta una corona di
allora al monumento delle vittime
del sisma in Piazza XXIII novem-
bre. A seguire, alle ore 10.15,
nella chiesa cattedrale, monsignor Francesco Marino officerà la
Santa Messa.
La seconda parte del programma
si svolgerà, contestualmente, al
Teatro
Comunale
“Carlo
Gesualdo”: a partire dalle 9.30, si
terrà lo spettacolo teatrale, rivolto agli studenti delle scuole cittadine, “La Polvere e la Luna”,
messo in scena dall’Associazione
Xòana, composta da ragazzi della
provincia di Avellino.
La mattinata al “Gesualdo” proseguirà con un altro momento dedicato alla memoria, con le toccanti
testimonianze di chi ha vissuto in
prima persona la tragedia del 23
novembre 1980.
Alle ore 11.30 è previsto il saluto
delle autorità alla platea del
“Gesualdo” e il concerto della
Banda del Corpo Nazionale dei
Vigili del Fuoco.
Il tutto si concluderà con l’apertura, nel foyer del Teatro
“Gesualdo”, della mostra fotografica “30° Anniversario Terremoto
Irpinia, il ricordo dei Vigili del
Fuoco”.
Messa in sicurezza
Sei milioni
per le scuole
Si è tenuta ieri in Prefettura una riunione
relativa al programma straordinario stralcio
di interventi urgenti sul patrimonio scolastico. Stanziati 6 milioni e 346mila euro finalizzati alla messa in sicurezza, alla prevenzione
e riduzione rischio connesso alla vulnerabilità
sismica degli elementi, anche non strutturali, degli edifici scolastici provinciali e comunali. L’incontro ha visto riuniti il Prefetto di
Avellino, il Provveditore Interregionale per le
Opere Pubbliche per la Campania e il Molise
e il Dirigente dell’Ufficio Tecnico di Avellino, il
Delegato della Provincia di Avellino per i
comuni di Ariano Irpino, Avellino, Calitri,
Cervinara, Sant’angelo dei Lombardi e
Vallata e i Sindaci dei Comuni di
Fontanarosa, Montefalcione, Monteforte
Irpino, Montefredane, Prata Principato Ultra,
per la stipula della convenzione e il concreto
avvio dell’attività di progettazione degli interventi previsti.
PRIMO PIANO
Ottopagine
Le iniziative. Su tutto il territorio manifestazioni organizzate dalle amministrazioni locali per non dimenticare quella terribile tragedia
MARTEDÌ 23 NOVEMBRE 2010
9
Q
UEI
90
SECONDI
di terrore
TerraeMotus,tanti eventi
nel segno della sicurezza
A Grottaminarda incontro all’Istituto di Geofisica
Gli altri appuntamenti di oggi
Il ricordo delle vittime
tra messe,riflessioni
convegni e fiaccolate
MIRABELLA ECLANO. Nel piazzale antistante la chiesetta di contrada San Pietro si accenderà un falò dei ricordi, alla presenza di tutta la contrada e di alcuni sopravvissuti che racconteranno minuto per minuto quell’indimenticabile notte. Sarà una rievocazione storica di un evento che ha
lasciato un segno che la comunità locale vuole trasmettere ai giovani, per
non dimenticare. Ai ragazzi presenti sarà dato in regalo il libro “Terremoto”,
scritto da Joè Lo Pilato con le testimonianze di alcuni sopravvisuti.
FRIGENTO. “Gestione delle emergenze e ruolo delle diverse istituzioni del territorrio”. Questo il tema della due giorni, iniziata ieri nella sala consiliare e che continuerà oggi nel comune frigentino. Lo sforzo di senibilizzazione sull'importanza della prevenzione prevede il coinvolgimento diretto delle
scuole. Si comincerà con una serie di simulazioni di un intervento di protezione civile, presso piazza Municipio, a cura dei volontari della Pubblica
Assistenza "Rocco Pascucci" di Frigento. La giornata proseguirà con la proiezione del film documentario di Gianni Amelio "La terra è fatta così", con la
presenza di Michele Di Maio, dirigente regionale di Legambiente. Intanto, ieri
mattina, intanto, si è svolto un incontro presso il Centro Studi EuroIrpinia
per ricordare i trent’anni dal sisma del 1980. All’’incontro è intervenuto il
parlamentare Marco Pugliese che oltre a riportare la sua testimonianza vissuta in quel tragico giorno ha anche parlato del suo recente impegno nella
Legge di stabilità 2011 ex finanziaria appena passata in aula per l’Irpinia.
CAPOSELE. L'amministrazione comunale vuole ricordare con una
iniziativa volutamente intima, la ricorrenza dei 30 anni passati dal terremoto
1980. Sarà l'occasione per la comunità, di incontrarsi per riflettere insieme
e condividere il ricordo dell'evento che ha cambiato in modo indelebile la
storia e le sorti di Caposele... Con l'auspicio che sulle pietre della memoria si
mantenga ancorata e salda la volontà di tutti i caposelesi di crescere e di
affermarsi positivamente come comunità educante, votata verso un prossimo futuro che, alla luce delle esperienze passate, costruisca concretamente
una migliore qualità della vita per il paese. Il programma: ore 10.30, auditorium Liceo scientifico San Gerardo, incontro con gli studenti dell'istituto comprensivo e del liceo, proiezioni e discussioni; ore 17.00, Sala Polifunzionale,
proiezione del documentario "ricordi e pensieri" del 1980, testimonianze e
racconti: "1980-2010, cosa ha cambiato il terremoto”; ore 19.15, piazza
XXXIII novembre, deposizione di una corona sul monumento alle vittime del
sisma; ore 19.30, piazza Dante, corteo per scoprire la lapide commemorativa; ore 19.50, chiesa madre, santa messa con la corale di San Lorenzo.
MONTORO INFERIORE. Alle 10.00, il centro sociale sindacale
“Salvatore Carratù” ospiterà la presentazione del cortometraggio dal titolo “I
novanta secondi che cambiarono la storia” che servirà ad illustrare luoghi e
avvenimenti della comunità prima, durante e dopo il terremoto. Previsti gli
interventi di amministratori, dirigenti scolastici e volontari, protagonisti delle
prime fasi di soccorso. La manifestazione proseguirà con la premiazione dei
vincitori del concorso “Le storie spezzate”, concorso al quale hanno partecipato gli alunni delle classi terze della Scuola Secondaria e delle classi quinte
della Scuola Primaria. Nel pomeriggio, alle ore 18.00, monsignor Donato
De Mattia, celebrerà nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla frazione
Preturo, una funzione religiosa in suffragio delle vittime del terremoto. Subito
dopo la celebrazione religiosa, nella piazza 23 Novembre ci sarà la deposizione di una corona alle vittime del terremoto.
SAN MICHELE DI SERINO. Alle 16.00 convegno e presentazione
del libro del dott. F. Moscati "Ricordo" presso la Sala Consiliare; alle ore
18.30 Santa Messa; ore 19.30 fiaccolata per le strade del paese in ricordo
delle vittime del terremoto; ore 21.00 apertura mostra fotografica presso la
struttura polivalente nei pressi della scuola materna statale.
MONTEFORTE IRPINO. L’amministrazione celebra il trentennale del
terremoto con un convegno dal nome: “Irpinia 23 novembre, per non
dimenticare”. L’incontro si terrà oggi presso la Casa della Cultura in piazza
Umberto I alle 18.30. Al convegno interverranno l’assessore alla cultura
Antonio Montuori, la sociologa Emanuela Scarano, la psicologa Loredana
Gimmelli e il dirigente dell’ufficio tecnico del comune di Monteforte Salvatore
De Maio. Nel corso della serata verrà presentato il progetto editoriale pubblicato in occasione del trentennale del terremoto dalla casa editrice “Il papavero”.
ATRIPALDA. Nella città del Sabato si svolgerà una santa messa per
ricordare le vittime irpine del terremoto di trent'anni fa. La celebrazione si
terrà nella chiesa madre di Sant'Ippolisto alle ore 18.30. Prima della messa,
il sindaco Aldo Laurenzano e i rappresentanti delle Soprintendenze di
Avellino e Salerno proporranno un momento di riflessione comune sulle problematiche che il territorio dell'Irpinia sta ancora vivendo. Nel corso della cerimonia sarà rispettato un minuto di silenzio alle 19.35.
ALESSANDRO CALABRESE
AVELLINO, AUDITORIUM
BANCA DELLA CAMPANIA
Avellino
Nell’ambito della rassegna
“TerraeMotus”, oggi sono
previsti tanti momenti
commemorativi, di riflessione e di valutazione. Si
inizia a Grottaminarda,
presso la sede irpina
dell’Istituto Nazionale di
Geofisica e Vulcanologia,
alle 9.30. Apertura alle
scuole, alla presenza del
presidente Enzo Boschi e
del
sindaco
di
Grottaminarda, Giovanni
Ianniciello, del laboratorio
didattico
“La
terra
trema..io
no!”.
Presentazione della docufiction “Non chiamarmi
terremoto”, con Luciana
Littizzetto,
Mara
Redeghieri
e
Ivano
Marescotti.
Nel pomeriggio la manifestazione si sposta ad
Avellino,
presso
l’Auditorium della Banca
della Campania. Con inizio
alle 18.30. Evento commemorativo “Memoria e
conoscenza”, presenta il
giornalista Rai, Rino
Genovese. Saluti istituzionali: Presidente Provincia,
Cosimo Sibilia; il vescovo
di Avellino, Francesco
Marino;
l’Assessore
Provinciale
alla
Protezione
Civile,
Maurizio
Petracca;
l’Assessore Provinciale
Cultura
e
Pubblica
Istruzione, Giuseppe Del
Mastro; il Direttore
Generale Banca della
Campania, Francesco
Fornaro, il vice Presidente
della Giunta Regionale,
Giuseppe De Mita.
Esibizione Coro di Voci
Bianche e Coro Giovanile
del
Teatro
Carlo
Gesualdo. Per la Sezione
dedicata alla Memoria:
Filmato e lettura di un
brano tratto da “Ultime
voci dall’epicentro”, interviene Salvatore Biazzo.
Alle 19.35, raccoglimento
al suono della campane
delle diocesi delle province dell’Irpinia. Intervento
Direttore Generale dei
Vigili del Fuoco, Guido
Parisi Balletto “Post fata
resurgam” a cura della
scuola Danzarte Ballet di
G. Alvino
Per la sezione dedicata
alla
Conoscenza
:
Inter vento
Direttore
Centro
Nazionale
Terremoti INGV, Giulio
Selvaggi e del sismologo
INGV, Romano Camassi.
Esibizione banda del
corpo nazionale dei Vigili
del Fuoco. Dalle 18 alle 22
mostra “TerraeMotus”,
presso
il
Carcere
Borbonico di Avellino.
Sempre oggi, nella scuola
di Senerchia alle 10.30,
nella sala consiliare di
Bonito alle 18.00 ed al
Masà Dinner Club al corso
Evento commemorativo
“Memoria e conoscenza”, presenta il giornalista Rai, Rino Genovese.
Saluti istituzionali:
Presidente Provincia,
Cosimo Sibilia; il vescovo di Avellino, Francesco
Marino; l’Assessore
Provinciale alla
Protezione Civile,
Maurizio Petracca;
l’Assessore Provinciale
Cultura e Pubblica
Istruzione, Giuseppe Del
Mastro; il Direttore
Generale Banca della
Campania, Francesco
Fornaro, il vice
Presidente della Giunta
Regionale, Giuseppe De
Mita.
di
Avellino
alle
21.30, sarà proiettato il
film documentario “Terre
in Moto” di Michele Citoni,
Angela Landini ed Ettore
Siniscalchi (La proiezione
ieri si è svolta a Bisaccia
nel castello ducale nell'ambito dell'iniziativa “Né
prima né dopo, Adesso.
L'Irpinia che rivive 30 anni
dopo”, organizzata dal
locale
Forum
della
Gioventù).
A Calabritto
il gemellaggio
con Monterotondo
Oggi quinto ed ultimo giorno di
eventi per il trentennale del sisma a
Calabritto, una delegazione del
comune di Monterotondo sarà presente in paese. L'appuntamento è
fissato alle 11 presso la palestra
della scuola media comunale. Gli
amministratori locali incontreranno i
colleghi di Monterotondo insieme ad
un gruppo di volontari che all'indomani del 23 novembre hanno partecipato alle operazioni di soccorso a
Calabritto. Nell'occasione si rinnoverà il gemellaggio tra la cittadina
alle porte di Roma e il comune altirpino.
Nel pomeriggio alle 15 una rappresentativa di Monterotondo sfiderà la
Polisportiva Calabritto in un amichevole di calcio presso il campo sportivo comunale. Alle 18 grande attesa
per la santa messa in onore delle
vittime del sisma presieduta dall'ex
parroco Don Silvano Brambilla. Il
prelato guiderà anche la processione - che avrà luogo dopo la messa presso il monumento alle vittime in
piazza Matteotti. Lì si concluderà
ufficialmente il cerimoniale del trentennale.
Intanto ieri si è svolta la simulazione
del terremoto presso l'istituto comprensivo di Calabritto, con l'evacuazione degli edifici scolastici e la sistemazione degli scolari presso la
tenda campo allestita nel piazzale
antistante la scuola elementare. A
coordinare il piano di protezione civile è stata l'associazione di volontariato Pubblica Assistenza "Aurora".
A Capriglia Irpina, invece,
alle 19.15
in
piazza
Municipio l’appuntamento
è con “Voce dal terremoto”, una performance tra
musica, poesia ed immagini. Recital di Paolo De Vito
con Gianluca Marino alla
chitarra, Giuseppe Musto
al pianoforte e violino,
Salvatore Santaniello sax e
flauti. Alle 19.35, poi, per
non dimenticare” a cura di
Felice Preziosi e le Foto di
Aldo Marrone “Muta…
menti. Irpinia al 2000”.
A Solofra, alle 18.00, nei
locali di Palazzo Orsini,
sede del Municipio della
città conciaria, si svolgerà
l’incontro dal titolo “Voci
dalle macerie”. Saranno
presenti
il
sindaco
Antonio Guarino, una delegazione degli amministratori comunali, oltre a
diversi personaggi politici
della zona.
A Lioni la chiusura dei seminari del Gal Cisli
Esperienze di sviluppo locale,
le prospettive a 30 anni dal sisma
Terminerà oggi, anniversario del sisma del 1980, il
ciclo di seminari itineranti
promossi dal Gal Cisli, dal
titolo: “Esperienze di sviluppo locale nelle zone
interne: problemi e prospettive a trent’anni dal
terremoto del 1980”. Il
seminario conclusivo del
Gal Cisli si svolgerà a
Lioni, a partire dalle 9.30,
con il seguente programma:
Saluti iniziali di Rodolfo
Salzarulo, sindaco di
Lioni; Ettore Mocella,
Presidente Gal Cilsi;
Giuseppe Di Milia, presidente Comunità Montana
Alta Irpinia; Gaetano
Calabrese e Stefano
Farina, consiglieri provinciali.
Tantissimi gli interventi
previsti: Serafino Celano,
Responsabile Sat/Gal Cilsi
parlerà delle linee strategiche del Piano di
Sviluppo di Sviluppo
Locale Terre d’Irpinia;
Lorenzo Barbera, del
Centro
di
Ricerche
Economiche e Sociali per
il Meridione, toccherà un
altro
tema
“L’insegnamento
del
Belice e dell’Irpinia tra
emergenza e programmazione”; Ornella Albolino
dell’Università degli Studi
di Napoli - l’Orientale parlerà di “Esperienze di sviluppo locale nelle aree
interne”;
Donato
Tartaglia, responsabile
tecnico del PIT Valle
Ofanto, illustrerà l’esperienza del Progetto
Integrato Territoriale, tra
beni culturali e sviluppo;
mentre Giuseppe Di Iorio,
ASI Avellino, parlerà dell’industrializzazione nell’area del cratere.
Le conclusioni saranno
affidate ad Alfonso
Tartaglia, Direttore Stapa
CePica Avellino, alla consigliera regionale Rosetta
D’Amelio, e al presidente
della Provincia Cosimo
Sibilia.
Ieri, intanto, sempre nell’ambito degli incontri del
Gal Cisli, a Lacedonia si è
svolto il convegno "Nuova
impresa e nuova economia: energia rinnovabile,
ict e media. Tecnologie
utili e sostenibili” a cura
di Futuridea; mentre ad
Aquilonia si è parlato di
"Ict e nuovi media tra
estetica, comunicazione, e
design del territorio".
Ottopagine
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A tre decenni dal terremoto, tra i ricordi di quella tragedia e leanalisi di quello che è seguito
Trent’anni dopo
Viaggio nel cratere nell’anniversario della catastrofe del 23 novembre - Gli articoli degli inviati dell’epoca - La rabbia
e la commozione di Pertini - I giorni della solidarietà e della speranza - L’opera degli angeli del terremoto - Il fuoco
antimeridionalista qualche mese dopo - Manlio Rossi Doria, consigli per la rinascita - Gli errori dello sviluppo mancato
- Il sisma raccontato nei film e nei libri - Le infiltrazioni della camorra negli appalti miliardari per la ricostruzione Il ruolo dell’informazione - I messaggi nelle radio locali - I paesi traslocati e le identità strappate - Le opere d’arte distrutte
Il terremoto
delle vittime
Come i giornali d’allora
Ce lo siamo chiesti spesso come
sarebbe stato Ottopagine se quel
23 novembre del 1980 il giornale
fosse già stato nelle edicole. E che
ruolo avrebbe avuto in quei giorni
drammatici, segnati da una catastrofe che ha accelerato la definitiva trasformazione dell’Irpinia.
Anche per questo, nel trentennale
di quella tragedia, abbiamo scelto
di realizzare un inserto che nella
grafica ricordi i giornali dell’epoca.
In queste pagine troverete contributi di straordinari inviati di quei
giorni e analisi di oggi, su quello
che è stato, su tutto quello che
poteva essere e sull’Irpinia che non
c’è più. Senza la ridondante retorica che da sempre inonda la commemorazione del 23 novembre. E,
per una precisa scelta, senza le
parole della politica: se ne sono
sentite anche troppe in questi tre
decenni.
Di quei giorni vogliamo ricordare
il ruolo chiave che ebbe l’informazione. A partire dalle radio locali,
che fornirono per prime un quadro
non generico della vastità del
dramma. Con loro anche le emittenti televisive e naturalmente i
giornali. Con “Il Mattino” in
prima fila, che inviò decine di giornalisti per raccontare nei dettagli
la tragedia e che ebbe il merito di
realizzare una delle prime pagine
più importanti della storia del giornalismo.
Abbiamo sfogliato tanti quotidiani
dell’epoca. E riletto la nostra storia con le parole di quei cronisti.
Era un’Italia diversa, non solo
l’Irpinia. Capace di slanci e solidarietà, ancora dentro gli anni ‘70 e
non ancora corrosa dai fuochi fatui
della Milano da bere e dalla tivvu
spazzatura ormai alle porte.
Un’Italia più ingenua, meno disincantanta. E sicuramente più innocennte. Nonostante, come scrive
accanto Claudia Iandolo, quell’annus horribilis. Il 1980, appunto.
Lo slancio straordinario del Paese
per aiutare le popolazioni colpite
dal terremoto, ha rappresentato
uno dei momenti più alti del nostro
sentimento nazionale. Oggi temiamo che quello slancio sarebbe solo
mediatico (come è accaduto in
Abruzzo), e molto meno concreto,
reale, sincero.
Resta, il 23 novembre, lo spartiacque tra quello che è stato e quello
che sarà. Su una cosa si è tutti
d’accordo: l’Irpinia da quel giorno
è cambiata per sempre. La ricostruzione doveva essere un nuovo
inizio. Ed è stata una ripartenza.
Ma non ha portato dove tutti speravano. La ricostruzione ha fallito.
Non bastava edificare nuove case e
sventolare l’illusione dell’industrializzazione. Bisognava, da quelle macerie, ricostruire - come si
diceva una volta - anche quel tessuto sociale devastato dal sisma.
Non è accaduto. E ora l’Irpinia
vive un’eterna frammentazione.
Non è più quella che era. E non
sappiamo ancora cos’è. Una perfetta “terra di mezzo”, con poco
futuro e un passato - seppur povero
- che in molti non riescono a ricordare senza nostalgia.
La frammentazione è evidente proprio in questo giorno. Il trentennale
avrebbe dovuto unire, spingere i
comuni ad organizzare una sola,
importante commemorazione per
quell’evento così doloroso. Una
tragedia che ancora oggi trent’anni dopo - in tanti hanno difficoltà a ricordare senza commozione. E invece, niente. Ognuno per
sè. In ordine sparso, nel nome del
campanilismo più autodistruttivo.
Si dirà, questo è il giorno del ricordo. Niente polemiche. Vero. Ma è
anche giusto chiedersi cosa è accaduto in questi trent’anni. E perchè
l’Irpinia “ricostruita”non ha ancora trovato la sua strada dopo quella interminabile scossa. Forse è
giunto il momento di voltare per
sempre pagina. Relegare quel 23
novembre nella storia di questa
provincia e ripartire davvero. Oltre
il terremoto, senza l’alibi di quel
dolore collettivo. Anche perchè
almeno un quinto degli irpini di
oggi sono nati dopo quell’evento.
Non conoscono quel passato, ma
vorrebbero almeno capire questo
presente e poter sperare in un possibile futuro. Qui, dove sono nati, e
non altrove.
Luciano Trapanese
San Mango sul Calore. Macerie sul vuoto (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda)
«Che non sia un altro Belice»
Adesso niente corvi
sul disastro immane
Di deficienze e inefficienze ce
ne saranno anche stavolta, anzi
più di allora perché nel frattempo i servizi pubblici, lungi
dal migliorare, sono peggiorati; perché la zona più colpita è
più vasta e impervia del Friuli,
di più difficile raggiungimento, di minori risorse anche
umane, e perché i suoi centri
abitati sono fungaie e termitai
di costruzioni sconnesse e fria-
Così ho visto morire il Sud
Siamo a Sant’Angelo dei
Lombardi, il paese che adesso
tra un finimondo di automobili, di autoambulanze, di
camion, di ruspe, per una
folla di terremotati e di fotografi tutti con il bavaglino
sulla bocca, cerchiamo di perlustrare. I tratti vuoti e puliti
d’asfalto si alternano a frane
oscene e macerie che fanno
pensare a ventri squarciati da
cui siano scivolati giù fino ai
marciapiedi ed oltre le interiora.
Ci inchiniamo a raccogliere
sulle macerie un cassetto volato via da un comò è ancora
pieno di fotografie di gente
sorridente; notiamo automobili schiacciate, pestate, ridot-
te a fisarmonica e sgangherate; seguiamo per un po’ la
ricerca dei morti e dei vivi
fatta coi cani-lupi tedeschi
guidati da soccorritori con
rauche voci tedesche; finalmente ci fermiamo di fronte
ad una rientranza del monte
di macerie, in fondo alla
quale una ruspa avanza e
indietreggia accanendosi, tra
il polverone e la folla, ad
addentrare il magma della
rovina. La solita voce del coro
spiega dimessa, familiare e
spietata: «Con la pala sfilata
della ruspa c’è chi dice che
hanno tagliato in due già due
sotterrati che forse erano
vivi. Là dentro i morti, con
rispetto parlando, sono come
i canditi del panettone.
Guardate, guardate, eccone
uno». Sì, effettivamente, i
morti stanno nella maceria
come un orrendo condimento
a una pasta dolce. Eccone
uno: tra il polverone e la folla,
distinguiamo a metà altezza
una testa, mezza spalla, un
braccio tutto pesto di un colore grigio-ghisa, che sporgono
immobili e rigidi dal magma
polveroso. Intanto il coro continua: «Ce ne sono tanti sotto
terra che sono vivi come noi
qui fuori, ma ancora per poco.
Si lamentano, chiamano e poi,
alla fine, non dicono più niente».
Alberto Moravia
(L’Espresso, 1980)
bili. Quindi prepariamoci a
ogni sorta di ritardi e sfasature, che noi ci riserviamo di
segnalare e criticare. Ma senza
rabbia. Perché di rabbia questo
non è tempo.
«Che non sia un altro Belice»,
ha scritto a botta calda un
giornale. E noi siamo d’accordo. Ma non siamo d’accordo
sul sottinteso polemico di queste parole perché dobbiamo
affrettarci ad aggiungere che
per non fare un altro Belice, lo
Stato non basta. Oramai bisogna avere il coraggio di dire le
cose come stanno. E le cose –
per amaro che sia il doverlo
riconoscere – stanno così. Lo
Stato, è vero, non fece nel
Belice tutto quello che poteva
e doveva fare. Ma nemmeno la
popolazione fece tutto quello
che poteva e doveva fare.
Preferì afflosciarsi nelle braccia dello Stato nella convinzione che toccasse solo allo
Stato rifonderla, se non dei
lutti, dei danni subiti.
Non vogliamo provocare polemiche prima ancora di aver
seppellito i nostri morti, che
devono unirci, non dividerci.
Contiamoli. Piangiamoli.
Eppoi al lavoro: tutti, e senza
rabbia.
Indro Montanelli
(“Il Giornale nuovo”,
25 novembre 1980)
Dalle mie parti siamo tutti esperti di terremoto, almeno quelli che
quando venne la scossa erano adulti: ventitré novembre 1980, le sette
e mezza della sera, la terra fa tremare tutto l’Appennino meridionale,
l’epicentro è tra le province di Avellino, Salerno e Potenza, una decina
di paesi completamente distrutti (Conza, Laviano, San Mango,
Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, solo per ricordarne alcuni) altre
centinaia danneggiati più o meno gravemente, tremila persone morte,
schiacciate dal peso delle case rotte, adesso penso al fatto che non
tutte sono morte subito, c’è chi sarà rimasto in agonia per qualche ora,
chi avrà sentito i soccorritori che stavano per raggiungerlo e non ce
l’hanno fatta a prendergli le mani, il terremoto dal punto di vista dei
morti è una cosa fatta di travi sulla pancia, di buio, di gambe rotte, è
un trovarsi nella spina della vita all’improvviso, sei con la bocca
davanti alla maniglia della tua stanza, guardi un televisore spento,
stavi vedendo la partita, tua moglie era in cucina che preparava la
cena, giocavano la Juventus e l’Inter, ma non sai com’è andata a finire, sai che sta finendo la tua vita e ti fa rabbia che continua quella
degli altri, ombre che staranno lì a spartirsi questo curioso bottino che
è il tempo che passa, tu sei stato appena riportato tra loro, non puoi
sapere che stanno polemizzando sui soccorsi che non sono arrivati, è
arrivato il presidente della Repubblica e ha fatto una scenata alla classe politica, quella che ignorava che il cemento della tua casa era disarmato, quella che non si è preoccupata che la casa in cui è morta tua
madre era fatiscente nonostante tu vivessi nel mondo che si dice progredito, il mondo che anche nel tuo paese aveva voltato le spalle alla
civiltà contadina per sistemarsi nella modernità incivile, è in nome di
questa modernità che cominciarono a ricostruire la tua casa e quella
degli altri, pensarono perfino che non bastavano le case, ci volevano
anche le industrie, ora molte di quelle case sono chiuse come la tua
cassa da morto e lo stesso è avvenuto per quelle industrie, non sai che
questo fatto a un certo punto è stato utilizzato per combattere quelli
che comandavano in queste zone, non sai che le persone del nord
Italia che vennero qui ad aiutare furono assai deluse dal sapere di tanti
sprechi (si parla di una spesa di sessantamila miliardi di lire, ma i conteggi cambiano a seconda di chi li fa) e diedero credito a un partito
che nasceva per dire basta con questa storia del sud, il problema
siamo noi, i soldi che facciamo col nostro lavoro non ce li deve togliere nessuno, e infatti nessuno glieli ha tolti, come nessun scandalo a noi
ci ha tolto quelli che comandavano e che comandano ancora e che
adesso fanno coi fondi europei quello che fecero col terremoto, pure
questa è una faccenda scandalosa, ma per ora non fa notizia, manca il
detonatore della tragedia, intanto pure l’ingegnere che ha costruito la
tua casa caduta non è andato in galera e neppure chi l’ha ricostruita in
maniera piuttosto orrenda, il terremoto per te è finito con la fine della
scossa, ma per gli altri è continuato molti anni ed è stato una corsa a
fare soldi, in questa corsa non c’era tempo per pensare alla bellezza
dei paesi, il problema era solo allargali, allungarli e l’opera è stata
compiuta con genio e vi hanno partecipato un poco tutti, dal parlamentare che ha fatto la legge per cui si potevano aggiustare anche
case che non si erano rotte, all’architetto che ha disegnato con la matita della venalità, al cittadino che si è messo in fila ad attendere quello
che gli spettava e se possibile anche qualcosa di più, ora tutti si lamentano, tutti a dire che si stava meglio prima del terremoto, tutti a rimpiangere un tempo in cui si era più uniti e più buoni, a me pare di
averla vista questa bontà e questa unione solo fino a quando è durata
la paura, fino a quando la gente ha dormito nelle macchine, fino a
quando abbiamo cercato di salvarti, poi è andata un po’ come ti ho
detto.
Franco Arminio
Un annus horribilis
Fu un annus horribilis sotto tutti i punti
di vista. Una specie di ingorgo temporale nel quale molti fatti negativi si diedero appuntamento, per caso o per tragica fatalità. Un anno da “prima repubblica”. Formula mendace, che allude
ad una seconda, (diversa e migliore)
che molti di noi stentano a riconoscere.
In economia il fenomeno si chiama
stagflazione, complicazione imprevista,
che significa presenza di inflazione e
stagnazione, quindi aumento generale
dei prezzi e mancanza di crescita dell’economia in termini reali.
Il 1980 è l’anno, tra quelli di piombo,
che registra il maggior numero di vittime, centoventicinque.
Ci sono gli omicidi eccellenti, come
quello, il giorno dell’epifania, di
Mattarella, presidente della regione
Sicilia, uomo “nuovo” della diccì. E
come quello di Vittorio Bachelet, giurista, politico, dirigente dell’azione cattolica, freddato in febbraio, al termine di
una lezione, alla Sapienza di Roma,
mentre parla con Rosy Bindi, sua assistente. E ci sono le stragi. Ottantuno
persone disintegrate nel cielo tra Ustica
e Ponza il 27 giugno. Cedimento strutturale, missile, bomba a bordo, collisione o semicollisione in volo: il solito
mistero italiano, destinato a rimanere
tale, il solito deprimente strascico di
morti sospette negli anni successivi.
segue a pagina 2
Claudia Iandolo
II
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
In quella pagina nera la luce dei volontari
Arrivarono in migliaia
per aiutare l’Irpinia
La straordinaria storia degli angeli del terremoto - C’erano anche
Vetere, Alemanno, Emiliano e Gasparetto, un giovane trevigiano,
morto mentre era al lavoro nel campo a Sant’Angelo dei Lombardi
Furono il faro nel buio della tragedia,
l’unico punto di riferimento forte che
si sostituì ad uno stato assente, inerme, incapace ed inadeguato ad
affrontare un disastroso di simili
dimensioni. La pagina più importante
durante i giorni ed i mesi dell’emergenza, quella che non ha mai suscitato polemiche, controversie ma solo
esempio, ammirazione e gratitudine
l’hanno scritta sicuramente loro, i
volontari, il mondo dell’associazionismo.
L’indignazione davanti alle telecamere, circondato dalle macerie e dalle
urla di disperazione della gente dell’amato presidente della Repubblica
Pertini, il 26 novembre dell’80 “
Vergogna! non sono ancora arrivati i
soccorsi” contribuì a scuotere le
coscienze, centinaia di persone,
uomini e donne, da ogni parte d’Italia
partirono per l’Irpinia devastata senza
pane e senza ruspe per scavare tra le
rovine delle case.
Vennero dalla tutta la penisola, ma
anche dalla Francia, dalla Germania,
dall’Olanda dal Belgio, dall’Austria,
dall’ex Juguslavia.
La definirono l’Italia del cuore, fu
sicuramente l’ultimo grande atto di
solidarietà nazionale. Fecero fronte
all’emergenza e portarono per mano
amministratori e popolazione verso la
rinascita attraverso l’istituzione di servizi e l’impianto di strutture. Furono
volontari tra le macerie dell’Irpinia,
tra gli altri, l’allora sindaco di Roma
Ugo Vetere, l’attuale sindaco di
Roma Gianni Alemanno, allora giovanissimo che arrivò a Sant’Angelo
con altri ragazzi del Fronte della
Gioventù, l’attuale primo cittadino di
Bari Michele Emiliano che fu volontario a Conza della Campania, l’ex
vice presidente del consiglio europeo
Luisa Morgantini che a Teora fondò
“L’altra metà del cielo, la prima cooperativa femminile nella storia
dell’Alta Irpinia, il motto di quelle
donne era “ Vogliamo viaggiare, non
emigrare”. Era un giovane volontario
veneto l’attuale parroco di Lioni, don
Tarcisio Gambalonga che in questa
terra è rimasto, ha scelto di continuare
la sua missione pastorale e la sua vita,
non si è fatto mai più prendere dalla
nostalgia del suo ricco Nord Est.
Potremmo citare centinaia di nomi e
di storie nella storia, innumerevoli
esempi di strutture donate dal mondo
dall’associazionismo o ricordare l’ospedale da campo con 90 tra medici
paramedici allestito dai tedeschi, un
altro ospedale militare da campo
impiantato dagli austriaci, l’equipe
francese super specializzata nella
ricerca dei superstiti. Potremmo menzionare che gli aiuti arrivano da ogni
parte del mondo, i più copiosi dagli
Stati Uniti, ma finanche l’Iraq e
l’Algeria fecero delle donazioni in
denaro. Oggi sull’ospedale di
Sant’Angelo pende la spada di
Damocle della chiusura, mentre nel
1982 la Croce Rossa francese e quella
italiana donarono le strutture dell’o-
spedale provvisorio. La Croce Rossa
Italiana invio’ solo a Sant’Angelo dei
Lombardi un gruppo di 48 esperti per
le emergenze, ma anche infermieri
volontari e soccorritore. Così come
occorre dare rilievo anche al grande
contributo dei Vigili del Fuoco, militari dell’Esercito Italiano, Caritas ,
Forze dell’Ordine e tutte le altre associazioni di volontariato. A Torella dei
Lombardi, la Croce Rossa Svizzera
donò una intera area di prefabbricati.
A Lioni il primo consultorio familiare
fu aperto il 20 dicembre dell’80 in
una casetta di legno donata dai medici veneti. Lorenzo Barbieri, che veniva dall’esperienza del Belice, fondò
sempre a Lioni il Cresm, un’associazione senza scopo di lucro che promuove e opera con progetti di sviluppo locale, di solidarietà e cooperazione con le fasce sociali e con i territori
più svantaggiati. I centri sociali donati
dal sindacato in tutti i comuni distrutti
dal sisma diventarono centri di aggregazione. A Caposele il comune di
Milano realizzò la piscina che fu il
primo impianto natatorio dell’intera
provincia. . Il comune di Teora ha
giustamente voluto ricordare il sacrificio di un giovane volontario, non
aveva neppure 30 anni quando morì
folgorato nel paese altirpino. Arrivò
in Irpinia durante le vacanze di
Natale dell’80 per dare una mano, lui
era un dipendente dell’Enel, Dio solo
sa quanto ci fosse bisogno di aiuto a
ripristinare l’elettricità in quei giorni.
Fu folgorato mentre stava allacciando
la luce negli spogliatoi del campo
sportivo. Oggi a Teora c’è via
Gasparetto, il nome di quel ragazzo
di Povegliano in provincia di Treviso
che rinunciò alle vacanze di Natale
per aiutare i terremotati dell’Irpinia.
L’eredità immateriale, se possibile, è
Me lo scempio edilizio già c’è
I paesi presepi
fanno comodo
I paesi-presepi: una delle
espressioni più retoriche e
mistificanti che siano venute
fuori su questa grande tragedia
del terremoto. Chi la legge o la
sente non sa precisamente cosa
vuol dire, ma intravede l’idillio, la serenità, la semplicità, la
sicurezza dei rapporti umani, la
genuinità delle cose oltre che
degli uomini, il silenzio.
Suggestionati dal fatto che la
catastrofe è giunta improvvisa
a cancellare tutto, si è quasi
portati a credere che abbia cancellato quel particolare tipo di
vita: la vita da presepe nei
paesi-presepi. Ma basta un
momento di distacco, di rifles-
sione, per prendere coscienza
che quel tipo di vita già da un
pezzo era stato cancellato.
Quelli che ora si chiamano
paesi-presepi già rigurgitavano
di automobili, di televisori, di
elettrodomestici, di abusi e
scempi edilizi, di fragori, di
prodotti industriali di pane fatto
con improbabile farina e di formaggi fatti con probabili veleni. Come ogni altro paese italiano grosso, piccolo o minimo.
E – si capisce – di corruzione:
come le grandi città, le regioni
e l’intero Paese.
Leonardo Sciascia
(“Il Mattino”,
4 dicembre 1980)
stata ancor più profonda, legami forti
che il trascorrere degli anni non ha
scalfito, insegnamenti di vita, esperienze, gemellaggi. Un altro effetto
diretto di quel patrimonio lasciato in
Irpinia dal volontariato è la nascita di
varie associazioni in questo territorio,
sono stati i tanti volontari irpini che a
loro volta si sono recati a portare soccorso ed a mettere a disposizioni delle
popolazioni colpite dal terremoto in
Umbria e a L’Aquila la loro esperienze e le loro conoscenza soprattutto in
campo tecnico di ricostruzione.
A tutti i volontari , a tutte le associazioni, l’Irpinia dopo 30 anni non può
che può far risuonare forte il suo:
Grazie.
Paola De Stasio
La rinascita si è colorata di rosa
con la coop “L’altra metà del cielo”
Le ragazze partite per Milano - Tra il dolore e l’entusiasmo - Quei
momenti di straordinaria solidarietà - I Comitati popolari e l’impegno
di gran parte della popolazione - Un esempio contro l’egoismo di oggi
“Vogliamo viaggiare non emigrare” lo abbiamo usato per la
cooperativa delle donne “la metà
del cielo” ma anche nelle manifestazioni per rivendicare, sviluppo, lavoro, ricostruzione, in
quell’anno di tragedia che aveva
colpito Teora , l’ Irpinia e la
Campania. Lo slogan mi era
venuto da un film interpretato di
Troisi,- credo fosse “Ricomincio
da tre” lui fa l’autostop, va
verso il Nord, il signore che gli
da un passaggio gli chiede: emigrante? E lui - no, voglio viaggiare.
Era stato difficile convincere le
famiglie a lasciare andare a
Milano alcune delle dieci ragazze di Teora anche se per poche
settimane, per imparare a dipingere su stoffa, e restare lì nella
loro terra ed essere libere di
lavorare e di lavorare insieme, in
una cooperativa. Ma è stato un
passo importante in cui famiglie
e giovani sono cresciuti hanno
insieme con il lavoro scoperto la
loro libertà e la loro forza.
Potevano farcela. Naturalmente
noi ce l’abbiamo fatta grazie
all’aiuto del Sindacato ma anche
alla Comprensione che il
Sindaco di Teora, diverso da me
per idee politiche ma che ho
davvero apprezzato per la sua
umanità e i consiglieri compresero l’importanza di quel nostro
volere un lavoro, di emanciparsi,
per dirla con una vecchia e
desueta parola e diedero il terreno per la costruzione del locale
della cooperativa.
Quanto allegria c’era fra noi, le
giovani erano entusiaste,
eravamo partite dal fatto che nel
paese molte sapevano cucire,
invece di farlo da solo avremmo
potuto farlo insieme. L’idea era
anche quella di uscire dalla tradizione ed imparare anche a disegnare. Alcune erano bravissime
nel disegno, e ancora conservo,
camicie da notte grembiuli da
cucina, tovaglie. Perché poi bisognava vendere questi prodotti e
per un po’ dopo che avevo
lasciato Teora li vendevamo
nelle fabbriche, durante le
assemblee e i congressi dei
Sindacati.
Cercavamo di trasformare il circolo vizioso in circolo virtuoso,
superare la tragedia per rinascere. Sono stati momenti straordinari in cui la solidarietà è stata
grande, così come la creatività
politica ricordi i Comitati
Popolari, e l’impegno di grande
parte della popolazione.
Per me Teora e la sua gente, con
le sue grandezze e debolezze è
L’unico ricordo positivo: Pertini, il presidente più amato
1980, fu un annus horribilis
Scandali, stragi e il 23 novembre
segue dallaprima
Ottantacinque vittime e duecento mutilati è il bilancio dell’attentato alla stazione di Bologna,
sabato 2 agosto. Una strage per
la quale esiste una verità giudiziaria, ma sulla quale aleggiano
ancora fantasmi di complotti e
depistaggi piduisti. A settembre
cade il governo. Due democristiani vanno provvidenzialmente
al gabinetto (nel senso di wc) e
Cossiga va sotto per un voto. Lo
scontro si gioca intorno al destino dell’Alfa Romeo che la
Nissan intende rilevare, con una
società mista. L’accordo non si
farà. Il clima, non solo politico,
è incandescente: la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti.
Cominciano scioperi ad oltranza. Enrico Berlinguer, Pci,
annuncia che non farà mancare
il proprio appoggio all’occupazione delle fabbriche. La rottura
del dialogo con i sindacati culminerà in quella che è definita la
“marcia dei quarantamila”, o dei
“colletti bianchi”, o della “maggioranza silenziosa”.
I “quadri” manifestano il 14
ottobre contro i picchettaggi
degli operai che impediscono da
trentacinque giorni l’accesso
alle fabbriche. È l’inizio di una
débâcle, l’annuncio di quello
che sarà per gli anni a venire, e
cioè una perdita lenta e inarrestabile del ruolo dei sindacati, e
la progressiva, consequenziale
erosione dei diritti dei lavoratori. Settembre, intanto, si è chiuso
con la nascita di una nuova
emittente televisiva. Si chiama
Canale 5. Il proprietario è un
imprenditore del nord: idee
chiare ed amicizie politiche giuste. È solo l’avvento della Tv
commerciale, e invece no, è
anche l’inizio di qualcos’altro,
ma è davvero difficile prevederlo. Del resto sono gli anni dello
yuppismo, acronimo che sta per
Young Urban Professional, e
della “Milano da bere”, rampante, moderna e spregiudicata,
negli affari come nello stile di
vita, sotterrata nel giro di un
decennio dalle inchieste di
“mani pulite”. Il terremoto del
23 novembre si porterà dietro
l’eco di uno scandalo,
l’Irpiniagate. Sessanta miliardi
di finanziamenti dispersi nei
mille rivoli della clientela politica, sui quali non si è mai fatto
chiarezza, il mistero del caso
Cirillo, e l’incredibile assoluzione di un’intera classe politica,
responsabile, quanto meno, di
non aver saputo gestire uno sviluppo possibile.
Quando Pertini, di fronte allo
sfacelo, alla disorganizzazione e
alla disperazione dei sopravvissuti s’indignò, pensammo in
tanti, che un’altra politica fosse
possibile, che un’altra Italia e
un altro sud potessero nascere a
partire da quei giorni in cui la
solidarietà sembrò l’unica resistenza possibile di fronte alla
precarietà dell’esistenza.
La terra aveva tremato. Ma i terremoti, come tutte le altre catastrofi naturali, di fuoco, d’acqua
e di vento, hanno questo di particolare: durano per gli anni a
venire. Eravamo giovani, il presidente partigiano ci piaceva:
burbero ed informale. Umorale
ed emotivo. Lo abbiamo amato.
Ed è l’unico ricordo positivo di
quell’annus horribilis.
Non lo sapevamo, ma lo avremmo imparato presto: il terremoto
aveva solo accelerato un processo inevitabile, traghettandoci
verso la modernità cattiva di un
neoliberismo senza regole.
Claudia Iandolo
stato un momento straordinario
della mia vita. Ho imparato
molto, da tutti e sono stata accolta. Vorrei essere con voi, ma
sono a Londra per il Tribunale
Russell sulla Palestina, non potevo mancare, anche qui si vedono
le responsabilità delle violazioni
dei diritti umani e sociali e le
complicità dei nostri paesi.
Vorrei ascoltarvi ed imparare
ancora una volta, ma cercherò di
sentire da Stefano Ventura che
conoscevo bimbo e che in questi
anni si è dedicato alla ricerca e
tiene viva insieme a tutte e tutti
voi la memoria rendendola fertile
perché non solo ci si interroga,
ma si agisce perché un piccolo
esempio di una cooperativa di
donne possa essere di sprone per
agire oggi affinchè il diritto al
lavoro, diventi una realtà per
tutte e tutti.
Un abbraccio forte e mi prometto
di tornare e di essere con voi nel
vostro agire. Grazie, perdonate la
fretta, ma sto scrivendo dimenticandomi che qui a Londra siamo
ad un ora prima di voi e Marino
freme per ricevere in tempo
questo messaggio.
A quel tempo a Teora dicevamo
che la solidarietà è la tenerezza
dei popoli, voi cercate di farla
vivere in tempi n cui l’egoismo
sembra far parte sempre di più
della nostra società
Grazie.
Luisa Morgantini
Ex vice presidente
del Parlamento Europeo
La lettera a Giovanni Pionati
L’Avellino perduta
e gli sconci edifici
(…) Percorrendo la nuova
Avellino, tu non mancasti di
mostrarmi qualche bel quartiere, dove l’interesse privato una
volta tanto non aveva prevaricato su quello pubblico. Ma
lungo le vie del cemento ben
rari spazi erano stati lasciati
alla vecchia Avellino: pochi
alberi di un lussureggiante
parco, il “vasto Capozzi” e
qualche rudere di tufi.
Poi imboccammo la strada che
Bernardo Tanucci lanciò da
Napoli alla Puglia per i progressi civili del regno di Carlo
III.
Fra i tanti “concessionari” di
auto e fra un supermarket e l’altro, a stento erano riconoscibili
le taverne delle antiche “poste”.
Si inseguivano i micrograttacieli e le variopinte insegne dove
si esalta il consumismo e si
sfoggia tutto l’extra-italiano
che si può nella periferia dell’impero americano.
Sui miseri vecchi relitti si sfogavano epigrafi sfregnanti.
“Scriveteli addosso a noi i
vostri sberleffi, noi cultori di
ciò che è finito per sempre!”
(avrei voluto gridare).
Tornai a casa affranto. Non ne
potevo più di andare in giro tra
quegli sconci edifizi, dove
sarebbe difficile valutare chi
abbia prodotto più danni, se i
bombardamenti a tappeto dei
liberatori, o il terremoto, o le
rifiorenti camorre dei ricostruttori. (…)
(da L’erranza, Il Girasole edizioni, lettera a Giovanni
Pionati)
Carlo Muscetta
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
III
Radio Alfa e Radio Irpinia nei giorni della catastrofe
Gli aiuti viaggiano via etere
Le notizie con i telegrammi
Quei cento interminabili secondi - Il ruolo svolto dalle radio La roulotte nello spiazzale del Partenio - II messaggi dei
terremotati - I nomi e le storie negli archivi delle trasmissioni
Durò cento secondi la scossa di
terremoto del 23 novembre 1980.
Non avrei mai creduto che in
poco più di un minuto e mezzo si
potessero pensare tante cose. E a
distanza di trent’anni li ricordo
tutti quei pensieri, uno per uno.
Una premessa: abitavo allora
quasi all’inizio di via De Gasperi,
la via della serie A. Lungo questa
strada stavano sorgendo numerose palazzine e spesso i pesanti
camion diretti ai cantieri, sobbalzando sulla strada sconnessa,
facevano vibrare i vetri delle finestre.
Al primo sobbalzo di quel 23
novembre pensai istintivamente
che stesse passando il solito
camion (come se fosse normale
che alle sette e trentaquattro di
una domenica sera fossero aperti
i cantieri e ancora si lavorasse).
Ma le vibrazioni, anzi il tremolio,
continuava sempre più intenso:
“Forse è una fila di camion. Non
è possibile che passino tanti
camion, e poi è domenica (ecco,
me l’ero ricordato). E’ il terremoto. Ma non si ferma più. Finirà
per crollare tutto. Non è possibile
che il palazzo resista a una scossa
così lunga. Prima di essere sepolto nel crollo forse è meglio lanciarsi dal balcone. Sto al terzo
piano, con un po’ di fortuna me la
cavo con una gamba rotta. Ma
mia moglie è incinta di tre mesi,
non posso mica buttarla dal balcone. Povero figlio mio, morirà
prima di essere nato. Però le
pareti reggono ancora, forse il
palazzo non crollerà interamente.
Forse spezzoni di muro, pezzi di
pavimento resteranno sospesi nel
vuoto e se siamo fortunati
potremmo esserci noi su quei
pezzi superstiti di cemento e calcestruzzo. E’ finito, è finito davvero. Siamo vivi. La casa ha
retto.”
Tutto in cento secondi.
Radio Irpinia trasmetteva da
Corso Europa. A quattro anni
dalla nascita era ormai una realtà
viva della città e della provincia.
Insieme con Radio Alfa, che
aveva iniziato le trasmissioni
appena con qualche mese di anticipo erano le emittenti locali più
seguite ed autorevoli, la prima
leader nel settore dell’informazione, la seconda nel settore
musicale e di intrattenimento.
Dalla prima sede, all’ultimo
piano di palazzo Scalona, all’angolo fra via Matteotti e corso
Europa, Radio Irpinia si era da
poco trasferita a una cinquantina
di metri di distanza. Nel cortile
dell’edificio di Corso Europa che
ospita ancora oggi la redazione
provinciale de “Il Mattino” avevamo ricavato degli uffici e, sotto
al piano di calpestio, lo studio e
la sala di trasmissione. Quel 23
novembre, alle 19.34, in attesa
che arrivasse Tonino Carrino a
leggere il radiogiornale delle
20.30 (già pronto), Carmine
Ciccarone mandava in onda brani
musicali del suo amato Lou
Reed.
Passerà quasi una settimana
prima che riprendessimo possesso della nostra sede. C’era il
rischio che la sala di trasmissione, ricavata in una specie di cantina si trasformasse in una trappola
per topi, in caso di ulteriori scosse. Attendemmo che i tecnici
effettuassero i sopralluoghi e ci
tranquillizzassero.
Nel 1980 non c’erano ancora i
telefoni cellulari e neppure i computer. Esisteva soltanto la rete di
telefonia fissa, che quasi ovunque
il terremoto mandò fuori uso e in
alcuni centri dell’Alta Irpinia ci
vollero giorni perché fosse ripristinata. E del resto chi c’era nelle
case a rispondere al telefono? In
molti casi non c’erano più neppure le case.
Apparve subito chiaro che l’unico mezzo efficiente di comunicazione era costituito dalle radio.
La rete dei radioamatori rispose
immediatamente e si rivelò di
fondamentale importanza, soprattutto nelle prime ore dopo il
sisma, per indirizzare i soccorsi e
fare un quadro preciso della
drammatica situazione, che, all’inizio, era stata sottostimata, proprio per le difficoltà nelle comunicazioni. E poi le radio private
che divennero vere e proprie
radio di servizio. Ad esse ci si
rivolgeva da tutto il mondo per
avere notizie dei parenti e degli
amici irpini, esse divennero il
megafono per lanciare appelli e
pressanti richieste.
Il direttore di Radio Irpinia,
Peppino Impagliazzo, “requisì”
al fratello, che viveva a Roma,
una roulotte attrezzata per il campeggio invernale, con il riscaldamento interno assicurato da una
bombola di gas. Perché il 23
novembre era una bella giornata
autunnale, ma subito dopo vennero giorni freddi. La posizionammo nello spiazzale dello stadio Partenio. Lo stadio sembrava
aver retto bene, e ci dava, in particolare, sicurezza la tribuna
stampa, collocata all’epoca di
fronte a quella attuale. Vi erano
alcune utenze telefoniche a
disposizione delle emittenti campane per le radiocronache delle
partite interne dell’Avellino.
Chiedemmo di poterle utilizzare,
trasportammo lì il trasmettitore e
riprendemmo a trasmettere. Per
quasi una settimana facemmo
come suol dirsi casa e…bottega.
Dormivano nella roulotte e al
mattino iniziavamo a trasmettere
dalla tribuna stampa del Partenio.
Radio Irpinia divenne, insieme a
Radio Alfa e ad altre emittenti
locali, un vero e proprio call center, un centro di smistamento di
telefonate provenienti da ogni
parte del mondo, parenti ed amici
che si cercavano, notizie che si
rincorrevano, ospitalità che venivano offerte:
“Pino Bartoli, abitante in via
Ammiraglio Ronca, è pregato di
dare notizie di sé all’amico
Vittorio Amendola, telefonando
allo 06.…”
“Il piccolo Luca Minicucci di 9
anni di S. Angelo dei Lombardi
(del quale i familiari chiedevano
notizie) risulta affidato ad una
famiglia di Avellino. Un parente
del ragazzo, Vittorio Martone,
prega la famiglia che lo ha in
custodia di mettersi in contatto
con lui, telefonando al…..”
“Padre Paolo Petrillo, del convento francescano di Montoro
superiore, è pregato di telefonare,
per dare notizie al nipote Gino, al
seguente numero di telefono…”
“Il signor Antonio Laverde, abitante in Avellino alla via Gramsci
20, è pregato di dare sue notizie
alla signora Corvino di Napoli”.
Ricordo le tante offerte di ospitalità, in una gara di solidarietà
commovente:
“ Coloro che volessero affidare
temporaneamente i propri bambini a famiglie di Terni possono
rivolgersi a Telecentritalia”
“Nella città di Latina sono disponibili 800 posti letto per accogliere i sinistrati. Rivolgersi alla prefettura di Latina”
“Alcune famiglie di Pesaro si
sono dichiarate disponibili per
ospitare bambini. Gli interessati
possono rivolgersi a Radio
Irpinia”
“Sono disponibili ad Ischia 500
posti letto per bambini o adulti.
Gli interessati possono far capo
alla clinica Malzoni”
“Mario Piras, un finanziere originario della Sardegna ma residente a Latina, è disposto ad ospitare
nella propria abitazione due bambini e un adulto”
E le radio furono anche il più
immediato ed efficace strumento
per lanciare appelli e chiedere
soccorso:
“Dalla roulotte segreteria della
prima circoscrizione viene lanciato un appello affinchè venga-
no recapitati con urgenza calzerotti, ginocchiere e pezze di lana”
“La colonna di soccorso dell’Aci
di Padova, giunta in Irpinia con
roulotte è ferma presso l’azienda
Seca-Sud di Serino perché ha
perso i contatti col capocolonna,
che ha con sé i documenti necessari per l’assegnazione delle roulotte ai sinistrati. Pertanto il capocolonna è pregato di mettersi in
contatto con l’azienda SecaSud.”
“Situazione critica a Rione
Mazzini, sono giunte solo tre
tende in una zona dove vi sono
circa 120 famiglie.”
“Vi è urgenza di una roulotte nel
comune di Santa Lucia di Serino,
per alloggiare una famiglia con
un bimbo di un anno e mezzo in
precarie condizioni di salute.”
Addirittura le radio locali svolsero un’azione di collaborazione
con volontari e autorità locali,
per lo smistamento dei soccorsi
“Le persone che sono fornite di
auto con gancio a trazione sono
pregate di portarsi presso l’entrata principale della caserma
Berardi, in quanto vi sono numerose roulotte ferme. La destinazione già e stabilita.”
E per venire incontro ai terremotati anche nelle loro esigenze pratiche: “Chiunque voglia inviare
telegrammi in Italia e all’estero
può telefonare alla nostra emittente per dettarne il testo. I nostri
collaboratori provvederanno
all’inoltro presso l’ufficio postale
di via De Sanctis. Il servizio è
gratuito”. Trent’anni fa non c’era
la protezione civile. Fu organizzata -è storia nota- propria a partire dal terremoto dell’Irpinia. Ci
furono però migliaia di volontari,
di militari, di vigili del fuoco, di
uomini delle forze di polizia, di
giovani e meno giovani della
nostra provincia, che accorsero a
volte con pressappochismo e
disorganizzazione, ma animati da
tanta buona volontà ed altruismo.
A mettere insieme le centinaia di
fogli degli archivi di Radio
Irpinia emergono nomi, volti,
città, organizzazioni di volontariato che, messi uno accanto
all’altro, compongono un gigantesco album dell’Italia del 1980,
forse meno organizzata ed efficiente dell’Italia di oggi, ma
anche tanto meno cinica ed egoista.
Nunzio Cignarella
Un cimitero nel cimitero
Ci sono giorni in cui si muore in
molti. Sono i giorni delle grandi
sventure. Quel giorno in questa terra
fu il ventitré novembre del 1980.
Oggi è domenica, nel cimitero di
Conza sono le undici del mattino. I
morti del terremoto sono quasi tutti
sulle stesse file, un piccolo cimitero
dentro il cimitero. Facce di uomini e
donne di ogni età. Facce e storie che
non ho mai incrociato. Ora di ogni
persona che vedo vorrei conoscere
cosa diceva, cosa faceva.
Dall'addobbo della lapide a volte si
capisce che si tratta di persone di
una stessa famiglia. Ecco Luisa
Masini, nove anni, col gatto in braccio. Sotto di lei Valeria Masini,
dodici anni, e poi Maria, quarantatre
anni, la madre. Il pensiero va subito
al padre, chissà dov'è nel mondo a
trascinarsi con la sua pena. Più
avanti un'altra famiglia: Gino
Ciccone, quarantanove anni, e poi
Michele di dieci e Alberto di ventuno. Quelli che sono qui certamente
si conoscevano tutti.
Era domenica pure allora, vissuta
fino al tramonto nel più caldo sole
novembrino. Qualcuno squadrò la
pietra su cui ora mi allaccio le scarpe, l'eresse, l'imbiancò di calce.
Dalla finestra dove un'erba verdemalva pende verso terra qualcuno
aveva posto una fitta pianta di basilico. Ora questo paese è una teca di
rovine. Ci sono solo tre famiglie.
Tre case lontane tra loro. In una di
quattro piani vive la famiglia
Tufano. Quando ci fu il terremoto
Il futuro comincia domani o mai più
Se non si riprende
Conza sarà subito vuota
«Dice che un tempo lontano,
noi conzani eravamo 60.000.
Mi pare un’esagerazione. Oggi
non arriviamo a 500 (s’intende,
nelle casette del centro urbano
provvisorio: e qui forse esagera
un po’ lui, il professionista
stempiato che mi sfoga le sue
amarezze nell’ufficio tecnico
del Comune: certo è che fra il
’51 e il ’79 Conza registra un
saldo migratorio di 38,5%,
appesantito poi molto dal terremoto, n.d.r.). e scenderemo
ancora.
Qua il reddito agricolo non è
sufficiente per campare, ma
necessario è. O si dà subito a
queste persone che stanno a
girarsi i pollici da un anno e
dispari, gli si dà subito la possibilità di rifarsi una rimessa per
il trattorino, una cantina, e subito si riavvia questo minimo di
agricoltura con quel minimo di
artigianato e commercio che
alimenta, opportunamente con
la primavera qua si chiude
baracca: non saremo più abbastanza da permetterci manco un
barbiere».
«Allora, addio grandi programmi incrementizi; e addio anche
a questo progetto di trasformare
tutta Conza vecchia in un parco
archeologico a strati, una specie
di Troia dell’Irpinia che è un
progetto anche ottimo, peccato
che invece di concretizzarsi si
moltiplica, e invece potrebbe
infilzare Conza nell’asse turistico Monticchio-Laceno, e
potrebbe smuovere il terziario, e
potrebbe qualificare giovani del
posto l’archeologia, è impressionante quanto affascina i
ragazzi che stavo dicendo?
Niente: addio Conza! La gente
è delusa nel cuore e se ne va».
Sperare è un vecchio vizio contadino. Ma ormai questi sono
andati a lavorare in giro per
mezzo mondo, e non si rassegnano più a fare dei propri figli
«carne della speranza».
Il futuro della minima ed antichissima comunità conzana o
comincia domani mattina, o non
comincia più.
Vittorio Sermonti
(“l’Unità”,
19 gennaio 1982)
abitavano alla stazione di Conza, ma
già si erano costruiti questa casa,
perché la loro doveva lasciar posto
alle acque della diga. La signora che
mi sta raccontando queste cose è
piccola e coi capelli bianchi, ma ha
l'aria di chi trascorre il suo tempo in
una sofferenza rassegnata. Lei è qui
dall'ottanta. Occupa un appartamento. In un altro c'è la figlia, sposata
con due figli. Attirato dalla nostra
conversazione interviene il marito. Il
suo tono è più animoso. Vive qui da
quasi mezzo secolo, ma non ha
dismesso nella voce l'accento napoletano. Viene da S. Gennaro. Suo
padre, commerciante di stoffe,
lasciò il paese vesuviano nel caos
del primo dopoguerra e prese stabile
dimora a Conza nel cinquantadue. Il
signor Ciro ha proseguito il lavoro
paterno. Ed ora ha questa grande
casa che non vale niente. Quattro
appartamenti: "uno per noi e gli altri
per i tre figli". Ma oggi Ciro Tufano
e la moglie Saveria di figli ne hanno
solo due: uno morì la sera del terremoto. Si chiamava Ernesto e aveva
dieci anni. Come molti morì scappando. Era nella casa di uno zio. Lì
alla stazione di Conza ci furono
molti morti, morì anche il capostazione. Adesso quella stazione non
c'è più. Quando le acque della diga
si abbassano spunta ancora la casa
dei coniugi Tufano col tetto a due
acque. Il signor Ciro è arrabbiato.
Lui è venuto a vivere quassù perché
la sua casa non era caduta. Fece
qualche piccola sistemazione e si
mise dentro, mentre tutti gli altri
cominciavano la loro vita nella
valle: prima nelle baracche della
Ferrocementi (usate dagli operai
durante la costruzione della diga)
poi nelle roulotte, quindi nei prefabbricati leggeri e infine nelle sospirate
case in muratura. Il piano di recupero di Conza prevedeva che dovessero rimanere in quella zona una cinquantina di abitazioni, ai margini del
parco archeologico che comprende
tutto il resto del paese e che ora stiamo percorrendo a piedi. Seguendo
la via pila si arriva al ristorante "da
Michelina". Il ristorante è chiuso. La
signora lo aveva dato in gestione, e
il gestore, a suo dire, non si è rivelato all'altezza. Ora altri vorrebbero
rilevare il locale, ma la strada di
accesso è chiusa. Le case che dovevano essere sistemate sono ancora lì,
pericolanti. I proprietari sperano di
poterle delocalizzare, aspettano che
in misteriosi uffici venga approvata
la variante al piano di recupero.
Intanto vado a vedere il paese
nuovo. Il paese certo doveva essere
più bello sul plastico dell'architetto
che non su questa piana paludosa. Il
paese vecchio aveva un solo accesso, questo è aperto e può essere infilato da ogni lato. Vi arrivo con lo
sguardo pronto a catturare ogni dettaglio. Ecco il piccolo monumento a
ricordo della tragedia. C'è un ferro
contorto, spunta dalla base di
cemento armato che accoglie la
lastra metallica con la lista dei morti:
quattro file di quarantasei nomi, inutile fare la somma. Vado a cercare
con gli occhi dove si trova Ernesto:
era nato il venticinque aprile del settanta.
Qui non c'è neppure il problema di
parcheggiare la macchina. Mi fermo
davanti a un bar posto in un prefabbricato. C'è una bandiera della
Ferrari e qualche persona che discute. Al centro di un quadrivio un
gruppo di persone adulte. Chiedo
del sindaco. È proprio lì, al centro
del gruppo e del quadrivio: qui ci
sono tante strade, ma non c'è una
piazza. Saluto il primo cittadino, gli
spiego il motivo della mia visita e
subito comincia a parlare. Chiedo
spiegazione della strada chiusa al
paese vecchio. Spiegazione lunga:
ricorsi, normative e altre faccende.
Poi gli chiedo chiarimenti sul fatto
che il paese si allaga quando piove.
Spiegazione lunga e complicata:
fogne bianche e nere, relazioni geologiche, colpe di tecnici, interessi
delle ditte, mancanze dei cittadini,
un rosario di motivi, fatto sta che
qualcuno ha sbagliato ed ora si espia
in attesa di trovare un rimedio definitivo. Il sindaco comunque ha
un’aria soddisfatta. Lui fa il chirurgo
ad Avellino da più di vent'anni. È al
suo primo mandato, a guida di una
lista civica che mette insieme persone appartenenti a vari partiti, si definisce, un po' sommessamente, un
popolare.
A Conza lo stato ha speso finora
quasi centoventi miliardi. Per completare la ricostruzione servono altri
tredici miliardi. Sono state realizzate
700 abitazioni. Ne restano da realizzare un centinaio
Non ho voglia di approfondire questi aspetti, parliamo d'altro. A Conza
non c'è disoccupazione, qui ci sono
quattro fabbriche che vanno molto
bene, almeno per i loro padroni:
come in tutte le fabbriche del cratere
si lavora molto e si guadagna poco.
Il sindaco continua a dissipare la
mia tendenza a vedere ovunque
mali e miserie: "qui non c'è il problema della droga e non ci sono
furti.
L'unico neo è la mancanza di iniziative di imprenditoria locale. Il paese
ha interessanti prospettive turistiche,
tra il parco archeologico e l'oasi
naturalistica della diga sottostante ci
sono tutte le premesse. Già adesso il
comune fitta i prefabbricati leggeri
dove c'era l'insediamento provvisorio a gente che vuole venire a trascorrere un po' di tempo a Conza,
napoletani soprattutto." Il sindaco ha
ragione, anche se mi riesce difficile
immaginare come possa essere bello
questo posto quando sarà pieno di
gente. In Irpinia non abbiamo pezzi
firmati. Le tracce dell'antica
Compsa non sono la torre di Pisa e
si possono vedere e ammirare al
meglio in passeggiate silenziose e
solitarie.
La chiacchierata col sindaco è finita.
In giro non c'è più nessuno. Anche
la statale su cui viaggio verso casa è
deserta: all'andata non ho incontrato
neppure una macchina, ma una
poiana quieta e immota su un palo
della luce.
Franco Arminio
Conza, 8 ottobre 2000
IV
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
Pertini e la solidarietà di tutto il Paese
«Quella disperazione
vivrà nel mio animo»
Il messaggio del Presidente - «I soccorsi
non sono stati immediati» - Le lacrime
di un’orfanella - «Speculatori in carcere»
«Roma - Italiane e Italiani,
sono tornato ieri sera dalle zone
devastate dalla tremenda catestrofe sismica. Ho assistito a
degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al
suolo. La disperazione poi dei
sopravvissuti vivrà nel mio
animo. Sono arrivato in quei
paesi subito dopo la notizia che
mi è giunta a Roma della catastrofe, sono partito ieri sera.
Ebbene, a distanza di 48 ore
non erano ancora giunti in quei
paesi gli aiuti necessari. È vero
io sono stato avvicinato dagli
abitanti delle zone terremotate
che mi hanno manifestato la
loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia.
Non è vero, come ha scritto
qualcuno, che si sono scagliati
contro di me, anzi, io sono stato
circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo
non conta. Quello che ho potuto
constatare è che non vi sono
stati i soccorsi immediati che ci
sarebbero dovuti essere. Ancora
dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di
sepolti vivi. Ed i superstiti presi
di rabbia mi dicevano: - Ma noi
non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi
nostri congiunti. Io ricordo anche questa scena
di una bambina che mi si è
avvicinata disperata, mi si è
gettata al collo e mi ha detto
piangendo che aveva perduto
sua madre, suo padre ed i suoi
fratelli. Una donna disperata e
piangente che mi ha detto: - Ho
perduto mio marito e i miei
figli. - Ed i superstiti che lì
vagavano fra queste rovine,
impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi
erano. Ebbene, io allora, in quel
momento mi sono chiesto come
mi chiedo adesso, questo. Nel
1970 in Parlamento furono
votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere
adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di
queste leggi. E mi chiedo. Se
questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché
non hanno funzionato? Perché a
distanza di 48 ore non si è fatta
sentire la loro presenza in queste zone devastate? Non bastano adesso...
Vi è anche questo episodio che
devo ricordare, che mette in
evidenza la mancanza di aiuti
immediati. Cittadini superstiti
di un paese dell’Irpinia mi
hanno avvicinato e mi hanno
detto: - Vede, i soldati ed i carabinieri che si stanno prodigando
in un modo ammirevole e commovente per aiutarci oggi ci
hanno dato la loro razione di
viveri perché noi non abbiamo
di che mangiare. Non erano
arrivate a quelle popolazioni
razioni di viveri Quindi questi
centri di soccorso immediato,
se sono stati fatti, ripeto, non
hanno funzionato. Vi sono state
delle mancanze gravi, non vi è
dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è
stato colpito il prefetto di
Avellino, che è stato rimosso
giustamente dalla sua carica.
Adesso non si può pensare soltanto ad inviare tende in quelle
zone. Sta piovendo, si avvicina
l’inverno, e con l’inverno il
freddo. E, quindi, è assurdo
pensare di ricoverarli, pensando
di far passare l’inverno ai
superstiti sotto queste tende.
Bisogna pensare a ricoverarli in
alloggi questi superstiti. E poi
bisogna pensare a una casa per
loro. Io ricordo che sono andato
in visita in Sicilia. Ed a
Palermo venne il parroco di
Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo, che a
distanza di 13 anni nel Belice
non sono state ancora costruite
le case promesse. I terremotati
vivono ancora in baracche.
Eppure allora fu stanziato il
denaro necessario. Le somme
necessarie furono stanziate. Mi
chiedo dove è andato a finire
questo denaro? Chi è che ha
speculato su questa disgrazia
del Belice? E se vi è qualcuno
che ha speculato, io chiedo:
costui è in carcere? perché l’infamia maggiore, per me, è
quella di speculare sulle disgrazie altrui.
Quindi non si ripeta, per carità,
quanto è avvenuto nel Belice,
perché sarebbe un affronto non
solo alle vittime di questo disastro sismico, ma sarebbe un’offesa che toccherebbe la
coscienza di tutti gli italiani,
della nazione intera e della mia
prima di tutto... Quindi si provveda seriamente, si veda di dare
a costoro al più presto, a tutte le
famiglie, una casa.
Perché un appello voglio rivolgere a voi italiane e italiani,
senza retorica, un appello che
sorge dal mio cuore, di un
uomo che ha assistito a tante
tragedie, a degli spettacoli che
mai io dimenticherò di dolore e
di disperazione in quei paesi. A
tutte le italiane e italiani, qui
non c’entra la politica, qui
c’entra la solidarietà umana,
tutte le italiane e italiani devono mobilitarsi per andare in
aiuto a questi loro fratelli colpiti da questa nuova sciagura.
Perché, credetemi, il modo
migliore di ricordare i morti è
quello di pensare ai vivi».
Sandro Pertini
La storia dell’aretino Beppe Martini
Il volontario toscano
che oggi si sente irpino
Beppe Martini era un assessore
della provincia di Arezzo nel
novembre dell’80, prese 4 mesi di
congedo non pagati dalla scuola
in cui insegnava e si trasferì nei
paesi del cratere, coordinò gli
aiuti della Regione Toscana. 30
anni dopo Beppe Martini è ritornato in Irpinia, lui ci ritorna spesso, infatti dice “ Mi sento irpino.
Quella esperienza è stata la più
forte e la più emozionante della
mia vita. Ero un insegnante delle
elementari, collaboravo con
Gianni Rodari, il noto scrittore
per bambini. Partimmo dalla
Toscana dopo 3 giorni con una
carovana. Tutto quello che noi
oggi diamo per scontato, come
cellulari e computer, 30 anni fa
non c’erano. Il primo telefono fu
ripristinato a Lioni in una segheria
dopo 7 giorni. Il censimento si
faceva in quei giorni come quando Giuseppe e Maria si recarono a
Betlemme. Si chiamavano le persone che riferivano i nomi dei
loro parenti scampati al terremoto, così si ricostruiva il patrimonio
anagrafico.
L’esperienza
dell’Irpinia mi ha cambiato, ho
mantenuto rapporti di amicizia
forti e solidi, sono anche diventato il padrino di Battesimo di una
ragazza nata dopo il terremoto, ho
trovato empatia con questo popolo”.
Paola De Stasio
Appello di rabbia e speranza
Quell’uomo in lutto che rappresenta una nazione - La capacità di ascoltare le vittime - Il senso
di impotenza rispetto ai clamorosi ritardi nei soccorsi - Le parole sincere di fronte al dolore che
commossero l’Italia - La rimozione del prefetto di Avellino - Le dimissioni del ministro Rognoni
Ognuno di noi ha sedimentate
nella memoria alcune immagini indelebili, che hanno fatto la
storia della nostra Nazione.
Alcuni di questi fotogrammi
hanno per protagonista Sandro
Pertini, in particolare due
immagini, una di gioia spontanea, l’altra di dolore.
Ha segnato la nostra vita la
gioia espressa in modo irrefrenabile, con semplicità, spontaneità, verità, di fronte alla vittoria della nazionale di calcio
agli indimenticabili mondiali
di Spagna dell’82. In quel fotogramma, ci sentimmo tutti
Nazione, non ci fu differenza
tra ricchi e poveri, tra comunisti, socialisti o democristiani,
tra nord e sud. L’altro fotogramma, che rese l’Italia unita
furono quelle che passarono la
sera del 26 novembre 1980, il
discorso di Sandro Pertini alla
Nazione dopo il suo ritorno dal
cratere irpino.
Aveva dichiarato ai giornalisti,
quella mattina, che “qualsiasi
parola è vuota retorica” di
fronte al dramma cui aveva
assistito. In alcune foto d’epoca, si vede un uomo in lutto,
che rappresenta una Nazione
intera in lutto, rigido, addolorato come di fronte al feretro
della persona più cara, passare
per le strade devastate di
Sant’Angelo dei Lombardi, tra
la folla silenziosa, con un giovane Gerardo Bianco cui il
vecchio Presidente quasi si
appoggia. C’era lo Stato, quel
giorno, per le strade d’Irpinia,
ed era uno degli uomini più
degni a rappresentarlo.
Dunque, il 25 novembre, nonostante il parere contrario del
presidente del Consiglio
Forlani e altri ministri e consiglieri, Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia,
ritrovando l'allora Ministro
degli Esteri, il potentino
Emilio Colombo.
Come sempre, il Presidente
Pertini non rinunciò a dire la
verità fino in fondo, lui che è
sempre stato uomo di verità e
di giustizia. Prima, confortò
con la sua presenza, con
abbracci da padre, orfani e
vedove, ascoltò la disperazione
di chi aveva scavato e ancora
scavava a mani nude nella speranza di salvare un figlio, la
moglie, un padre. E quindi
chiese le ragioni, lui Stato allo
Stato, degli inspiegabili ritardi,
chiese le ragioni ai rappresentanti dello Stato, senza reticenze, senza nessuna scusante.
Pertini aveva ascoltato, commosso, la disperazione dei
superstiti, il dolore dei superstiti, ed aveva scoperto un
senso di impotenza, che forse
non aveva mai provato. Non
avrà provato impotenza di
fronte al fascismo e al nazismo, non avrà provato impotenza frustrante mai durante la
lunga militanza politica, ne
provava allora ed era dolorosa.
Le Italiane e gli Italiani ascoltarono forse increduli queste
parole, perché mai un Politico
aveva parlato esprimendo il
sentimento comune, il dolore
comune, l’analisi spietata della
realtà: “Io ricordo anche questa
scena di una bambina che mi si
è avvicinata disperata, mi si è
gettata al collo e mi ha detto
piangendo che aveva perduto
sua madre, suo padre ed i suoi
fratelli. Una donna disperata e
piangente che mi ha detto: - Ho
perduto mio marito e i miei
figli. - Ed i superstiti che lì
vagavano fra queste rovine,
impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi
erano. Ebbene, io allora, in
quel momento mi sono chiesto
come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento
furono votate leggi riguardanti
le calamità naturali. Vengo a
sapere adesso che non sono
stati attuati i regolamenti di
esecuzione di queste leggi. E
mi chiedo. Se questi centri di
soccorso immediati sono stati
istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di
48 ore non si è fatta sentire la
loro presenza in queste zone
devastate? Non bastano adesso...”.
Ed ecco le domande: perché
non sono stati attuati i “regolamenti di esecuzione” delle
leggi riguardanti le calamità
naturali? Perché i “centri di
soccorso immediati” non
hanno funzionato? “Perché a
distanza di 48 ore non si è
fatta sentire la loro presenza in
queste zone devastate?”
Le parole di Pertini continuano
in modo chiaro: “Quindi questi
centri di soccorso immediato,
se sono stati fatti, ripeto, non
hanno funzionato. Vi sono
state delle mancanze gravi,
non vi è dubbio, e quindi chi
ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato
rimosso giustamente dalla sua
carica”. Dunque, fu costretto
alle dimissioni il prefetto
Attilio Lobefalo come si dimise il Ministro degli Interni
Virginio Rognoni.
Mentre si preparava per il
viaggio in Irpinia, Sandro
Pertini sarà andato forse con la
memoria a tanti anni prima,
agli anni lontani della sua giovinezza quando aveva partecipato alla campagna elettorale
per la Repubblica tra i paesi
dell’Ufita, oppure avrà pensato
all’amico Carlo Muscetta, con
cui era stato detenuto a Regina
Coeli nel 1943. Famosa è
anche l’amabile querelle sull’intelligenza degli Irpini, che
sarebbe superiore alla media
per l’“innesto” di tribù liguri
in età romana.
Ma quello, che stava affrontando, non era un viaggio politico, non era neanche parte di
una campagna elettorale seppure fondamentale per la storia
d’Italia, era un pellegrinaggio
di dolore, che aveva accomunato l’Italia tutta.
Sandro Pertini riuscì a smuovere una solidarietà nazionale,
che sarebbe stata unica nella
storia nazionale: allora, grazie
alle sue parole, a quel “Fate
presto” riproposto a caratteri
Finirà mai il terremoto in Irpinia?
Tre decenni non bastano
per cancellare quei ricordi
Ogni anno la data del 23 novembre è
nella mente e nel cuore di tutti coloro
che hanno vissuto direttamente, o indirettamente, la tragedia del terremoto
dell’Irpinia.
Dopo trent’anni ancora il ricordo è
indelebile, le paure, le disperazioni, le
emozioni non si cancellano e negli
occhi le immagini di quei momenti.
I ricordi di Irpinia 80 hanno segnato
un’epoca, la nostra epoca, la storia di
ognuno di noi.
L’Italia sognava in bianco e nero, la tv
a colori era un privilegio ancora di
pochi, la classe politica del
Mezzogiorno a Roma contava, eccome
se contava.
Furono rasi al suolo “presepi
dell’Appennino” e non tutti comprese-
ro gli effetti provocati nelle coscienze
delle popolazioni colpite.
Il sisma del 1980 distrusse vite, alterò
la geografia dei luoghi, stravolse
modelli sociali, suscitò ingenue speranze, produsse laceranti delusioni.
Di qui la domanda: il terremoto
dell’Irpinia finirà prima o poi?
L’auspicio è che la ricostruzione dei
nostri paesi venga ultimata nel più
breve tempo possibile e che la classe
politica, interprete delle esigenze del
popolo irpino, decida di non interrompere il flusso dei finanziamenti, indispensabili a completare la ricostruzione
ed a promuovere un autonomo processo di sviluppo economico.
Vito Iuni
Sindaco di Guardia
cubitali dai giornali dell’epoca,
l’Italia si sentì unita. Per la
prima volta, sugli schermi e
sui quotidiani apparvero nomi
prima sconosciuti: l’Irpinia
non era semplicemente “vicino
Napoli”, era un luogo preciso,
il luogo del cratere, e con essa
risuonarono comuni dai nomi
esotici
quali
Lioni,
Sant’Angelo dei Lombardi,
Conza della Campania, Teora,
Torella, San Mango Sul
Calore, e con essi Laviano,
Balvano, Muro Lucano.
L’Italia scoprì una terra sconosciuta, “Cristo” non si era più
fermato ad Eboli, era andato
sino al centro dell’Appennino.
E oggi risuonano con eguale
forza quelle parole: “Perché un
appello voglio rivolgere a voi
italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal
mio cuore, di un uomo che ha
assistito a tante tragedie, a
degli spettacoli che mai io
dimenticherò di dolore e di
disperazione in quei paesi. A
tutte le italiane e italiani, qui
non c’entra la politica, qui
c’entra la solidarietà umana,
tutte le italiane e italiani devono mobilitarsi per andare in
aiuto a questi loro fratelli colpiti da questa nuova sciagura.
Perché, credetemi, il modo
migliore di ricordare i morti è
quello di pensare ai vivi”.
E così migliaia di giovani, provenienti da tutta Italia, arrivarono in Irpinia: giovani scout
cattolici dell’AGESCI, la
Caritas, i Sindacati, gli operai
del Nord e del Centro, la
Misericordia e la Pubblica
Assistenza, studenti universitari, disoccupati, tutti insieme a
sacerdoti, soldati, vigili del
fuoco, carabinieri, forze di
polizia, insieme ai superstiti e
agli amministratori locali.
Ma quella era un’altra Italia.
Era ancora lontano l’odio tra
Nord e Sud. C’era il razzismo
e il leghismo strisciante, che
dieci anni dopo si organizzerà
politicamente. Ma erano ancora echi lontani.
Bisognava fare presto, i fratelli
stavano per morire, e altri fratelli correvano, guidati da un
Padre, Sandro Pertini, che li
guidava.
Paolo Saggese
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
V
L’ARCI E TANTI ARTISTI NEL TEATRO TENDA
STEFANO VENTURA È NATO NEL 1980, È IL PRIMO STORICO DEL SISMA
Portare cultura
nella città crollata
I giorni delle coop
e lo sviluppo mancato
Portare cultura e un momento di
spensieratezza fra una cittadinanza in
preda alla disperazione e con il
morale sotto i tacchi. Fu questa la
scommessa del gruppo di allora giovani responsabili dell’Arci avellinese, che pochi mesi dopo il 23
novembre riuscì a offrire alla città di
Avellino, grazie alla collaborazione
volontaria di artisti da tutta Italia.
L’iniziativa fu denominata Centro di
Iniziativa Culturale per la
Ricostruzione ed ebbe il suo centro
in un teatro tenda installato nel piazzale dello Stadio partenio, con eventi
concentrati in gran parte nel mese di
gennaio 1981. Importante fu la sensibilità e l’appoggio all’iniziativa
dimostrati dall’allora Assessore
Comunale alla Cultura, la repubblicana Armida Tino.
Abbiamo parlato di questa vicenda
con uno dei protagonisti di questa
vicenda, Giuliana Freda, che allora
assieme a Gaetano Vardaro e
Giovanni De Luca fu tra i principali
animatori dell’Arci nel capoluogo
irpino.
Nelle settimane
successive al
sisma si promosse , attraverso la
stampa un accorato appello in cui
si sostiene che :
“è necessario che
vengano ripristinate le condizioni
che consentano la
ripresa della vita civile e sociale delle
popolazioni colpite”. In vista delle
festività di natale e inizio anno si
chiedeva : “a tutti gli artisti ad essere
presenti nelle zone terremotate (…)
al fine di favorire con la loro opera il
raggiungimento di questo obiettivo”.
Le risposte furono importanti.
Vennero ad Avellino gratuitamente
per offrire conforto e un sorriso alla
popolazioni artisti del calibro di
Vittorio Gassman, Gigi Proietti,
Salvatore Accardo, Beppe Barra,
Giovanna Marini, Nanni Moretti.
La ‘ciliegina sulla torta’ fu il concerto di Claudio Abbado con l’orchestra
dell’Orchestra Giovanile della
Comunità Europea, che si tenne al
teatro Partenio il due maggio dell’81.
Ma accanto ai nomi importanti, si fu
capaci anche di creare iniziative
meno altisonanti, ma ugualmente
efficace, come Teatro Quotidiano,
che si svolgeva al mattino e si rivolgeva ai bambini, diretta da Raffaele
Spagnuolo. “La risposta degli avellinesi fu buona. Noi all’inizio eravamo molto impauriti – ci racconta
Giuliana Freda -. Temevamo le critiche, perché pensavamo che dopo
eventi così drammatici e tanti lutti, la
nostra proposta potesse essere giudicata fuori luogo. Noi credevamo che
dopo il terremoto c’era la necessità
di stare insieme, non solo per piangere. Alla fine venimmo compresi”.
In verità l’iniziativa dell’Arci era una
importante realtà per Avellino già da
diversi anni. Solo nel mese di giugno prima della catastrofe del 23
novembre era toccata l’organizzazione di un impegnativissimo evento, il concerto di Lou Reed, dirottato
all’ultimo momento da Napoli
all’Irpinia.
“La città prima del terremoto, offriva
davvero poco ai ragazzi – continua
la Freda -. Noi eravamo un gruppo
di giovani già impegnati politicamente nel Partito Comunista
Italiano, che però ci sentivamo
molto incompresi. Ad Avellino si
respirava un’aria cupa, chiusa. Noi
avevamo voglia di fare qualcosa di
concreto per gli altri. Partimmo dalla
musica soprattutto, con un concerto
degli Area nel 1975, presso il cinema Ideal di Atripalda. Iniziammo a
spaziare nella musica classica contemporanea con Luigi Nono, passando poi per il teatro e il cinema e
iniziandoci a porre il problema dell’utilizzo degli spazi in città, allora
molto più scarsi di adesso”.
La sezione Arci avellinese riuscì ad
andare anche
oltre le 100 adesioni. Nei mesi
successivi al
novembre 1980
riuscì ad avere
anche una sede,
in una roulotte
presso il giardino
della Biblioteca
Provinciale.
L’autentico vulcano di idee del gruppo era l’oggi
compianto e futuro apprezzato giuslavorista, Gaeatano Vardaro. Ma le
iniziative messe in campo permisero
anche la nascita di eventi che negli
anni sarebbero diventati appuntamenti fissi per il pubblico avellinese,
come ‘Musica in Irpinia’, curata dal
maestro Mario Cesa, che ebbe il suo
antecedente nelle iniziative e nei
concerti organizzati dall’Arci con
‘Musica-Incontro’.
“Riuscimmo a realizzare tante cose
su più fronti – ricorda con un misto
di orgoglio e nostalgia Giuliana
Freda -. Coinvolgendo tante persone, creando inediti momenti di confronto con l’esterno. E’ stata un’esperienza che penso valga ancora da
esempio, su come impegnarsi in
questa città e riuscire a fare qualcosa
di concreto. Nonostante le tante difficoltà e le diffidenze, qualcosa si
mosse. Potrà sembrare strano per un
giovane, ma rispetto a trenta anni fa
Avellino, nel suo piccolo, offre
molte più possibilità e spazi”. Quello
di Giuliana Freda non è affatto un
invito a crogiolarsi sugli allori di una
positiva esperienza del passato e fermarsi per guardarsi attorno soddisfatti; la lezione che ci sembra di
cogliere è semmai quella di trarre
degli stimoli per tener viva una città
che troppo facilmente, sul piano
socio-culturale, continua a intorpidirsi.
Mar. Dep.
L’analisi dell’autore del libro “Non sembrava novembre quella sera” - L’interpretazione storica del
terremoto - La ricostruzione del primo anno dopo la tragedia - Il nuovo modello economico. Fallito
Stefano Ventura è nato nel 1980 a
Teora, ma non è solo uno dei primi
componenti della generazione postsisma, da ormai diversi anni coltiva
un ambizioso percorso formativo,
quello di diventare il primo storico
del sisma dell’80 in Irpinia.
Alle spalle ha una tesi di laurea in
storia contemporanea e un dottorato
all’università di Siena incentrati sulla
ricostruzione storica di quello che
avvenne sui nostri territori a partire
dalle 19e35 del 23 novembre di trenta anni fa, cui sono proseguiti ulteriori studi e pubblicazioni, la collaborazione con
L’Osservatorio
Permanente sul DoposismaFondazione MIdA, diretta dal giornalista de La Repubblica Antonello
Caporale.
Una settimana fa per i tipi di Mephite
è uscito un suo libro dal titolo ‘Non
sembrava novembre quella sera’ che
rappresenta una prima sistematica
sintesi degli studi compiuti finora.
Per capire meglio cosa anima il lavoro di Stefano Ventura abbiamo pensato di porgli direttamente qualche
domanda.
Perché, dopo tre decenni, è giunto
il momento di studiare il terremoto
dell’Irpinia come una vicenda storica?
“Il sisma del 1980 è una vicenda
molto complessa, che finora è stata
analizzata da molti studiosi sul piano
dell’economia, delle relazioni tra
politica e criminalità organizzata, dell’urbanistica. Io ho portato avanti un
tentativo diverso, quello di dare un
interpretazione storica dei fatti e delle
tematiche di cambiamento. Un
evento come il terremoto permette di
vedere distintamente un prima e
dopo, le continuità e le rotture del
divenire storico”.
Nel tuo lavoro ti sei concentrato
soprattutto sull’evento sismico e
nei mesi successivi….
“Trent’anni sono un tempo congruo
per la memoria di questi fatti, per
Della Terza a Sant’Angelo dei Lombardi
Non sono rimaste
tracce del passato
Mi sono recato a Sant’Angelo nell’estate del
1981. Mi hanno detto: “Non andare al castello, la strada è ostruita l’edificio è pericolante”. L’ala del castello dov’era l’abitazione di
Antonio si è accasciata su di lui sotto l’impeto della prima scossa sismica. Ciro, in un
paese del potentino impiegato delle Imposte,
A Sant’Angelo dei Lombardi, sette giorni dopo
Quelle scarpette di vernice nera
Dopo una settimana dal terremoto, se ben ricordo, andai
col mio caro amico Gerardo
Preziosi, ora affermato ristoratore in quel di Atripalda, a
Sant’Angelo dei Lombardi a
vedere come stavano le cose.
Il tempo si era messo finalmente al bello. La strada era
percorsa da mezzi militari che
andavano e venivano. Arrivati
sul posto c’erano tanti giovani militari di leva dall’aria
spaesata armati di badile.
Distruzioni varie. Parecchia
confusione. Le vecchia case
semidistrutte, un intero isolato
di palazzine nuove completamente raso al suolo, così come
il nuovo ospedale civile. Molti
i volontari in gita. Gli accenti
più vari, in maggioranza quelli del nord. Molti quelli
accampati nel boschetto dalle
parti del camposanto, tra le
volute di fumo degli arrosti.
Si era fatto ora di pranzo.
L’odore delle grigliate si
confondeva con quello dolciastro che veniva ancora fuori
dalle macerie. Ma forse, nel-
l’allegria del picnic, non ci
facevano caso. Io non ho mangiato carne arrosto per mesi.
Gironzolando, entriamo nel
Camposanto. C’erano ossa
sparse in giro, cadute da vecchie tombe. Un soccorritore
con magnetofono registrava le
antiche lamentazioni di una
vecchia nerovestita. Essendo
gli unici in circolazione veniamo subito ingaggiati dai vigili
del fuoco.
Preleviamo casse da morto da
un enorme pila, le spacchettiamo del cellofan e le prepariamo. Sono casse da morto
molto belle. Ogni tanto arrivano i vigili del fuoco con qualche corpo appena estratto
dalle macerie. Non possiamo
toccarli, sono passati giorni.
Loro hanno tute, guanti e stivali di gomma, e mascherine.
C’è il serio pericolo di infettarsi. I corpi sono racchiusi in
sacchi di plastica, quelli che
gli americani chiamano bodybag. Loro depongono i sacchi nelle bare e vanno via,
noi poi provvediamo solo a
ricostruire le vicende di questi giorni.
Sul piano storico-politico la vicenda
è più difficile da analizzare, in parte
questa vicenda è ancora attualità. La
classe dirigente di allora, a livello
locale, in molti casi non è cambiata”.
Una limitazione che ha caratterizzato la tua ricerca..a quanto ci è
sembrato di leggere, giusto?
“Si, ho dato una divisione in due
fasi. La prima è la fase dell’emer-
mettere il coperchio chiudendolo con le viti. La vecchia ha
finito di lamentarsi, non c’è
nessuno in giro. Un silenzio
surreale. Quando le bare sono
riempite, ne prepariamo delle
altre. Ad un certo punto arrivano tutti insieme molti
corpi. Ci dicono che avevano
finalmente raggiunto il reparto pediatrico dell’Ospedale.
Erano arrivati i bambini. Non
li abbiamo visti. Dai sacchi
colava un po’ di liquido verdognolo, o scuro, io ora lo
ricordo verdognolo, maleodorante. Poco dopo venne un
uomo. Aveva con sé un paio
di scarpette di vernice nera.
Nuove, appena comprate. Un
uomo dignitoso e severo,
come lo è la gente di quelle
parti. Si avvicinò ad una bara
e vi depose le scarpette.
Quando fu chiusa se ne andò
com’era venuto. Senza una
parola.
Ora in cielo c’è un angelo con
un paio di scarpette di vernice nera.
Edoardo Fiore
non ha assistito alla fine del suo rivale di un
tempo. Umberto, l’imperterrito galoppatore,
è stato travolto dalle rovine delle sua stessa
casa. Mio fratello, magistrato in un paese
del Piemonte, è arrivato con una colonna di
soccorso: non ha trovato più tracce del passato.
Ricordo che quando c’era qualche piccola
baruffa in famiglia, era proprio lui, mio fratello, che interveniva a mettere pace tra la
mamma e la zia e chiedeva alla zia
Giuseppina, per creare un’efficace diversione, quale fosse quel sogno così curioso che
lei aveva fatto notti prima e che gli aveva
raccontato, ma che lui non ricordava più.
“Niente, cominciava lei col dire, mi trovavo
a Napoli da ragazza e stavo insieme alla
mia compagna Assuntulella per le strade
della Vicaria”. Il racconto continuava così
perdendosi nei meandri di inesplorabili labirinti. “Questa, sbottava mia madre, non le
bastano le otto ore che dorme per sognare;
continua a sognare da sveglia”. Io ho spesso
riflettuto sul caratteristico intercalare della
zia: su quel “niente” con cui dava inizio ad
ogni racconto. Credo che nella sua mente
fosse una figura di litote: “Tu mi dici che ti
ho raccontato un sogno strano, rilevante,
invece si tratta di poca cosa e io te lo ripeto
così alla buona in quattro e quattr’otto”. O,
anche “Io, vedi, non ho ragione alcuna per
vantarmi dei sogni che faccio; sono una persona semplice. Che cosa t’aspetti mai da
me, che ti racconti?”. Ma, ora il suo “niente” mi si complica nella mente assorta ed
attonita, diventa una prolessi, si riversa sui
contenuti stessi del racconto, li erode, li
distrugge, li vanifica. Castello, amici, il
paese tutto mi appaiono travolti in un sogno
lancinante che tutti li convoglia in uno spazio di dolorose, implacabili attese.
Dante Della Terza
Dal libro Dagli Appennini alle Montagne
Rocciose (e ritorno). Testimonianze e
rimembranze per Dante Della Terza, a cura
di Vittorio Russo, Bibliopolis, Napoli, 2000
genza, che va dal novembre dell’80
fino a metà maggio successiva,
quando viene approvata la legge
219, che da il via alla seconda fase
quella della ricostruzione. La mia
ricostruzione si ferma al primo anno
dopo il sisma. Naturalmente ho
dovuto individuare i principali attori
in campo in questa fase: i terremotati, le amministrazioni locali, l’esercito, i volontari, la protezione civile.
Nella prima parte domina la cronaca
dei fatti, nella seconda fase prende il
sopravvento l’analisi a grandi linee,
attorno tematiche principali”.
Parliamo delle testimonianze che
hai raccolto. Esistono dei tratti
comuni?
“Sono presenti molti tratti comuni tra
le varie memorie. Innanzitutto
dominano delle immagini ricorrenti
come quello del caldo fuori stagione,
da cui ho ricavato il titolo del libro,
ma anche la luna grande e soprattutto
la scossa che sconvolge e spezza la
quotidianità e la spensieratezza di
quella domenica sera. Tutti i testimoni intervistati raccontano il
momento della scossa con un’estrema dovizia di particolari e sono tutti
ricordi molto individuali, vale anche
per chi, in quel momento aveva
responsabilità più grandi, come sindaci e amministratori locali. Nei
giorni successivi alla tragedia, inoltre, in tutte le comunità colpite è vivo
il ricordo della grande solidarietà e
spirito di unione. Un momento che si
spezza con l’arrivo dei soccorsi da
fuori e dei primi aiuti, che fanno riemergere l’individualismo delle persone”.
Successivamente, nel libro, parli
di una significativa esperienza di
mobilitazione dal basso, rappresentata dai comitati, sorti in tutte
le comunità più gravemente colpite dal sisma…
“Sì, fu un’esperienza di risveglio di
partecipazione da parte della popolazione, spinto dai tanti volontari giunti
in Irpinia, che spesso erano attivisti
politici e sindacali, e da giovani dei
paesi già impegnati politicamente.
Naturalmente da località a località il
quadro cambiava. Spesso i comitati,
per ragioni politico-ideologiche,
entravano in contrasto con le amministrazioni locali, mentre altrove
c’era il terreno per una fattiva collaborazione. E’ bene precisare che per
i volontari venuti da altre regioni la
priorità era dare una mano da un
punto di vista materiale. I comitati
nacquero dopo giornate di duro lavoro, in momenti di incontro e discussione serale, aperti a tutta la comunità”.
Molte di queste esperienze di
comitati di base sfociarono nella
costituzione di piccole cooperative
di giovani, che decisero di organizzarsi per crearsi da soli occasioni
di lavoro. Un’esperienza di cui
parli nel volume come un’occasione di sviluppo perduto.
Probabilmente è l’unica sezione
del libro in cui accanto al rigore
del ricercatore, poni un velo di
polemica rispetto alle successive
scelte di industrializzazione e ai
suoi costi…
“Non ho voluto esprimere giudizi.
Ho semplicemente analizzato l’evoluzione del contributo dei volontari e
dei segni tangibili della loro presenza
nelle aree più colpite. Fu il tentativo
di portare un modello nuovo di sviluppo economico per le nostre zone.
Si trattava di dare strumenti economici moderni ai giovani di questi territori, per renderli davvero protagonisti, nei settori chiave dell’economia
provinciale, penso all’artigianato,
all’agricoltura, ma anche della cultura. Furono le raccomandazioni fatte
un anno dopo il terremoto da Manlio
Rossi-Doria e dal suo gruppo di collaboratori, in uno studio appositamente realizzato sulle aree del cosiddetto ‘cratere’ ”.
La risposta istituzionale, dopo
qualche anno, però è stata l’industrializzazione, che come sottolinei,
ha avuto costi stratosferici…
“Il vero problema è stato, oltre quello
dei costi, quello di una classe
imprenditoriale locale che non si è
sviluppata. Qui viene fuori il nodo
segnalato da Rossi-Doria, cioè quello di proporre uno sviluppo a partire
da una modernizzazione che si
basasse sui settori economici tipici di
un territorio”.
In conclusione, per te che sei di
Teora, nato nel 1980, non è stato
difficile distanziarti dalla tematica
studiata?
“Ponendomi il problema, ho trovato
anche la soluzione. Sulle vicende del
dopo sisma ho totalmente escluso la
mia
comunità
d’origine.
Naturalmente mi sono dovuto basare
in maniera ancora più forte sulle
fonti. Ho cercato di limitare al massimo i miei giudizi e interpretazioni.
Ho lasciato stare le polemiche, mi
sono basato sui dati”.
Ma a tuo avviso, quando arriverà
il giorno in cui oltre i mesi successivi al sisma, uno storico potrà
affrontare anche la ricostruzione?
“Sarà possibile affrontarli quando ne
si potrà parlare senza scadere nella
polemica politica dell’attualità”.
Mario De Prospo
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
VII
Il terremoto e l’ondata antimeridionalista
Due mesi dopo, «dannati terroni»
Prima la grande commozione e la solidarietà, poi ritorna il vecchio pregiudizio di fronte
alla brutale realtà del Sud - Uno dei guasti provocati dal 23 novembre - All’aumento
della benzina per aiutare i terremotati, cortei di operai urlano: meridionali sanguisughe
All’inizio la grande commozione, il brivido della morte in diretta, la curiosità un
po’ morbosa di tutta la gente che andava
scoprendo sul piccolo schermo di casa
cosa può essere una catastrofe di massa.
E le collette, le raccolte di vestiti e roulotte, le partenze improvvise e non sempre
meditate per i paesi annientati dal terremoto. Ma a mano a mano che i giorni
passavano da quel tragico 23 novembre,
lo stato d’animo nazionale cominciava a
cambiare.
Non solo nelle cronache dei quotidiani
d’informazione, dove le storie strazianti
dei sepolti vivi e dei superstiti venivano
sostituite da quelle, meno edificanti, dei
piccoli accaparratori, degli sciacalli, dei
notabili e dei camorristi. Anche nel Paese
reale, nelle fabbriche di Torino come nei
salotti di Milano o di Venezia si cominciava a parlare sempre meno in sordina
di «meridionali buoni a niente», «lavativi», «piagnoni», fino a resuscitare il vecchio e mai dimenticato epiteto di «terroni».
Non erano solo chiacchiere. A Genova
un corteo spontaneo di 5 mila operai,
usciti in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi della benzina a favore
dei terremotati, scandiva slogan incredibili come: «Non vogliamo mantenerli» e
«Meridionali sanguisughe». A Torino,
alla Fiat, il 40 per cento degli operai si
presentava all’ufficio personale a chiedere che non gli si trattenesse dalla busta
paga le 4 ore che secondo il sindacato
tutti avrebbero dovuto offrire.
E mentre i proprietari delle seconde case
sulla Domiziana si dicevano disposti a
tutto pur di non dover ospitare i «contrabbandieri e le puttane del bassi napoletani», si abbatteva sulle città del Nord
l’ondata di ritorno dei soccorritori delusi.
Nei loro racconti c’era di tutto un po’.
Risentimento: «Mentre lavoravamo a
spalare, i ragazzi del paese si defilavano
con i vestiti nuovi che gli avevamo portato. E quando una volta gli ho chiesto di
aiutare mi hanno risposto: “Eh no, bella
figa”» dice sconsolata Monica Craig, 17
anni, figlia dell’attore Mimmo.
Indignazione: «Quando arrivavano i
camion con i soccorsi la gente li assaltava. E poi spesso buttavano i vestiti o le
provviste nel fango e si accaparravano la
tenda anche se la casa gli era rimasta in
piedi. “Magari viene buona per il mare”
ho sentito dire più di una volta» riferisce
Silvia, 19 anni, studentessa di Pallanza.
Non tutti tornavano in queste condizioni,
ma lo stato d’animo predominante fra i
giovani che risalivano la penisola era
comunque quello di stupore, per un
mondo in cui erano piombati, e che spesso avevano immaginato come una specie
di presepio immobile in cui andare a fare
i benefattori.
«Avevo viso al cinema Cristo si è fermato ad Eboli e credevo che i contadini fossero ancora così dignitosi e riservati. E
invece la dignità ce l’hanno solo nei confronti della morte. Verso la ricchezza,
verso il lavoro c’è solo l’arraffo» dice
Liliana V., 20 anni, infermiera di
Genova. E Roberto Sessa, 23 anni, studente milanese: «Andare per credere, è il
succo della mia esperienza. La questione
meridionale nessuno di noi si sogna neppure che cosa sia. Quello è un altro pianeta. Bisogna salvarlo, ma farne una specie di riserva indiana, perché è proprio
inconciliabile con l’Italia dove viviamo
noi».
Più o meno le stesse scoperte, anche se
senza la giustificazione della giovane
età, le andavano facendo anche alcuni
giornalisti scesi al Sud. Egisto Corradi,
un inviato di lunga esperienza, tornava
con le mani nei capelli dalla Valle del
Sele, dove era andato per conto del
Giornale di Montanelli, a cercare un
paese «pulito» a cui versare i tre miliardi
di sottoscrizione raccolti. «Dappertutto
ho trovato camorra, violenza, insensibilità. Ho dovuto rincuorare un gruppo di
brianzoli che erano andati giù con gli
architetti e i muratori per costruire gratis
le case e che erano stati minacciati da un
sindaco. Ho dovuto consolare i ragazzi
del battaglione Julia amareggiati perché
dopo essersi alzati all’alba per portare il
caffè caldo ai terremotati erano stati
accolti al grido di “andatevene, lasciateci
dormire”» si sfoga Corradi.
E Indro Montanelli, che si era lanciato
Rovine
e morti
nella nebbia
Si sentono solo le urla, i pianti, i
richiami.
Salgono su dalla nebbia verso la
strada piena di sole. Laggiù,
invece, nella conca tra le montagne, è come se la notte non fosse
ancora finita.
Arrivo tra le prime case di
Balvano e scendo dalla macchina. In mezzo alla strada massi,
detriti, giornali, quaderni volati
via dalle case. Poi l’orrore.
Davanti alla scuola, su una specie di terrazzo rialzato, i corpi.
Dieci, venti, trenta, cinquanta:
povere donne con il volto tumefatto e la bocca piena di calcinacci, bambini con le gambe larghe e le mani coperte di sangue,
appena nascosti da teli, coperte e
stracci, uomini anziani e ragazzine nelle fosse orrende della
morte. Ai piedi, un numero tracciato con il gessetto per l’identificazione. Un cordone di soldati
blocca il passaggio e, intorno,
aggrappati ad una lunga cancellata, gruppi di donne con lo
scialle in testa, urlano e chiamano ininterrottamente.
La nebbia che bagna tutto non
accenna a sparire e Balvano non
riesce ad uscire dalla notte.
Wladimiro Settimelli
(“l’Unità”, 25 novembre 1980)
Solo all’alba si è capito il disastro
E poi su Napoli
è calato il silenzio
Soltanto all’alba, al mattino, con i
primi comunicati straordinari della
radio e della televisione, con i primi
giornali acquistati all’edicola appena
aperta, con la premonizione di trovarvi terrificanti notizie, l’entità del disastro si rivelò nella sua agghiacciante
realtà. I crolli, le vittime, i paesi
distrutti, le regioni devastate, non avevano raggiunto, per incompletezza
d’informazioni, le proporzioni spaventose che avrebbero assunto nelle
ore e nei giorni immediatamente successivi, ma il loro numero era già talmente alto da far toccare con mano ad
ognuno l’immensità della tragedia. La
città capì subito d’essere stata colpita,
e che il terremoto non aveva precedenti, nella sua storia.
Anche il mare era cheto. Sotto un
cielo bianchiccio che pareva cieco,
dove ogni tanto un sole esangue cercava, senza troppo impegnarsi, di
penetrare l’ingombro delle nuvole
basse, il mare di via Partenope, di via
Caracciolo e della rada di Mergellina,
solitario e triste e oleoso, aveva appena, a pelo d’acqua, un leggerissimo
movimento ondeggiante, come se a
sua volta fermentasse sotto la sua
superficie piatta una sconosciuta
minaccia; ma presso le scogliere mancava l’abituale schiuma provocata dal
frangersi delle onde anche in giorni di
calma. Era un silenzio di partecipazione alla sciagura, un silenzio d’attesa,
un silenzio di paura? Non lo sapremo
mai. Era, in ogni caso, un silenzio
quasi spettrale, che ci restituiva un
volto di Napoli del tutto inedito: e lo
ricorderemo per il resto della nostra
vita con un sentimento d’inquietudine
e di turbamento che, al di là dal dolore
per le perdite umane, per le case crollate, per i muovi problemi economici
che si aggiungono ai precedenti ancora irrisolti, porteremo dentro come l’emozione più sconvolgente di questa
esperienza.
Michele Prisco
(Il Mattino illustrato,
6 dicembre 1980)
sulle colonne del Giornale in attacchi
moralistici al Meridionale: «Mi hanno
dato del razzista per quel che ho scritto.
E invece, proprio per non fomentare gli
odii razziali, non ho pubblicato una sola
delle moltissime lettere indignate che
sono arrivate su quel che sta succedendo
laggiù».
In chi di colpo ha scoperto che a fianco
dell’Italia del Nord, moderna e progredita, c’è un altro pezzo di Paese in cui succede di tutto, è immancabile il richiamo
al terremoto del Friuli. Dove, come ricorda con nostalgia Corradi «tutti erano in
piedi alle 4 di mattina a spazzare le strade e le donne pulivano i mattoni uno per
uno tirandoli fuori dalle macerie». O,
come afferma ancor più esplicitamente
Giulia V., 24 anni, operaia «dove la gente
era uguale a noi. Mentre questa volta
siamo piombati nel Terzo Mondo».
È un specie di rifiuto emotivo, privo di
analisi e di conoscenze vere, che però
anche ad altri livelli, come quello politico, salta fuori sempre più spesso. «Il terremoto ha scatenato un antimeridionalismo che in realtà era latente da tempo
anche fra le forze più insospettabili»
sostiene Giuseppe Galasso, docente di
storia moderna a Napoli, uno dei fondatori di Nord e Sud, la rivista che negli
anni ’60 era stata il portavoce laico e
liberal-radicale delle idee meridionaliste.
Secondo Galasso la spia di questo atteggiamento ostile era nella mancanza di
progetti validi per il Mezzogiorno, considerato ormai apertamente una specie di
palla al piede, di pozzo senza fondo in
cui buttare miliardi a fondo perduto. E
ancor oggi si stabiliranno cifre da capogiro per la ricostruzione (i 40mila miliardi
da spendere in cinque anni) senza avere
un censimento dei danni del terremoto e
dei bisogni reali.
Ancora più esplicito Francesco Rosi, il
regista delle Mani sulla città e di Cristo si
è fermato ad Eboli, che ha appena finito
di girare un’altra storia sul Sud, Tre fratelli: «La prova del nove dell’antimeridionalismo di oggi è nel fatto che del
Mezzogiorno ci si occupa esclusivamente nei momenti straordinari, sull’onda
delle grandi emozioni: il colera a Napoli,
il crollo di Agrigento, il terremoto. Ma
appena i morti sono seppelliti si torna
all’indifferenza, all’ignoranza delle
realtà più elementari».
Può così succedere che si scopra con
stupore che mentre al Sud non è arrivato
il lavoro, si è invece saldamente insediato il consumismo e la civiltà delle immagini legata alla Tv. E che quindi la gente
è oggi ansiosa di accaparrarsi oggetti e
vestiti proprio come succederebbe a
Milano o a Torino. Si può scivolare in
gaffe culturali come quella di Francesco
Compagna, ministro e meridionalista, o
di un giornalista progressista come
Giorgio Bocca, secondo cui le distruzioni causate dal terremoto sarebbero l’occasione buona per abbandonare per
sempre i paesi-presepio costruiti sui
cocuzzoli e ricostruire gli insediamenti
moderni a valle.
«A parte il semplice dato di fatto che i
paesi sulle come delle montagne sono
ben pochi e che la maggioranza già si
trova nel fondovalle, nessuno può pensare di sradicare impunemente le comunità senza alterarle o distruggerle»
sostiene il sociologo napoletano
Domenico De Masi.
Sono tutte spie di una realtà estremamente complessa, dove l’indifferenza ai
problemi dell’«altra Italia» si incrocia a
una conoscenza sempre più precaria
delle nuove realtà del Sud. E dove l’antimeridionalismo non è che la faccia più
evidente della caduta del meridionalismo, dell’inaridirsi di quei vari filoni
culturali che già all’indomani dell’unificazione d’Italia si erano posti il problema di come risolvere la questione meridionale. È una storia, quella del meridionalismo, che specie nel secondo dopoguerra si era articolata su due scuole
distinte e in qualche modo contrapposte:
il gruppo liberal-radicale dei Galasso e
dei Francesco Compagna, che faceva
capo alla rivista Nord e Sud, nata nel
1954 e grande sostenitrice di un
Mezzogiorno dell’intervento speciale,
dove i problemi si sarebbero risolti
creando le sovrastrutture, modernizzando, in qualche misura anche non bloccando l’emigrazione. E il gruppo comunista di Cronache meridionali, nato nello
stesso anno e tenuto in piedi da Giorgio
La vita che riprende a Morra
Nella piazzetta di De Sanctis
tra quelle case sventrate
La piazzetta dove De Sanctis
ricordava nei suoi libri di aver
giocato bambino è piena di macerie, ma davanti alla casa c’è uno
spettacolo che sembra la ricostruzione di un museo etnografico o
una casa di bambole e che invece
è terribilmente vero. È caduta la
facciata esterna di una casa e si
può vedere lo spaccato di una
cucina bellissima, con le pentole
e i coperchi ben allineati su una
parete, i mazzi di cipolle, i grappoli di uva nera, le collane di
peperoncini che pendono da una
trave, il calendario di frate
Indovino sopra il camino, una
fascina di legna e le molle per il
fuoco lì accanto, una sedia che
pare appena caduta e, sul tavolo,
una zuppiera, dei piatti e un
pacco di spaghetti, tutto lasciato
in un limpido ordine, ultimo
brandello di vita di quella sera
domenicale. Vi abitava un bidello, Antonio Grippo, con la vecchia madre Giacomina: sono
morti, sono riusciti a salvarsi,
sono finiti chissà dove, eterni
profughi di un terremoto che non
uscirà mai più dalla memoria di
questa gente?
La vita a Morra, dove le strade
erano dedicate al Croce, a
Gramsci, a Dorso, riprende con
infinita fatica tra difficoltà e contraddizioni: due tedeschi di
Hannover, Kiepe e Schumacher,
venuti con una cucina da campo
capace di preparare 500 pasti
caldi due volte al giorno, non
sono stati messi in grado di essere utili e girano da un paese
all’altro e adesso sono qui a offrire inutilmente il loro aiuto.
Trentotto studenti dell’Istituto
tecnico agrario Garibaldi di
Roma, esperti in zootecnia, capaci di accudire alle bestie, dopo tre
giorni di offerta senza risposta a
Sant’Angelo dei Lombardi, a
Lioni, Teora, hanno costruito una
stalla per venti vacche e cercano
anch’essi di poter lavorare.
Corrado Stajano
(da Giovanni Russo – Corrado
Stajano, Terremoto, Garzanti)
Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo
Chiaromonte, Rosario Villari: «Il nostro
tema di fondo era la questione agraria,
allora sottovalutata da tutti. Abbiamo criticato fin dai suoi primi passi la Cassa, ne
abbiamo intuito la logica assistenziale,
che avrebbe finito per svuotare di contenuti gli stessi gruppi di intellettuali che
l’avevano voluta» dice Villari.
E infatti a mano a mano che sorgono al
Sud le cattedrali nel deserto, le grandi
fabbriche isolate dal contesto della
società, o che si procede negli elefantiaci
e interminabili lavori di dighe e porti
attorno a cui si scatena la mafia e l’accaparramento, Nord e Sud si disgrega e
sparisce in pratica di scena (oggi è poco
più di un’emanazione privata di
Compagna). Ma anche Cronache meridionali finisce con l’esaurirsi e chiude
«non per uno scontro politico come era
successo al Politecnico di Vittorini, ma
proprio per un calo di tensione, per un
inaridirsi dei suoi temi» afferma
Valentino Parlato, il direttore del
Manifesto. Negli anni Settanta, per il
Sud, è il vuoto dei grandi progetti, sia da
parte moderata che da parte comunista (e
la batosta elettorale alle ultime elezioni
comincia a essere sempre più vista proprio come una conseguenza del fatto di
aver smarrito negli anni una proposta
chiara e unificante per il Mezzogiorno,
com’è apparso anche all’ultimo comitato
centrale dedicato al terremoto).
Fra i pochi a studiare il Sud e la sua
realtà ci sono oggi gruppi dell’ultima
leva, quasi tutti meridionali, che usano la
sociologia di tipo nord-americano, l’antropologia, l’economia comparata. Un
punto di riferimento è la «scuola di
Portici», vicino a Napoli, dove lavorano
economisti come Augusto Graziani, uno
degli studiosi più originali dell’economia
meridionale. Ed è proprio una giovane
ricercatrice uscita da quell’ambiente,
Gabriella Gribaudi, che ha appena pubblicato un saggio sul sistema di potere al
sud, Mediatori (ed. Rosemberg e
Sellier), dove molto più che in tante
colonne di piombo uscite in queste settimane, è possibile capire perché e i meccanismi di una classe politica locale, i
mediatori appunto, che sarebbe stata
delegata dal potere centrale a far da cerniera con le popolazioni, con tutti i guasti
che ne sono derivati.
«Sono studi di grande interesse, ma che
purtroppo restano fini a se stessi, slegati
da qualsiasi concreta proposta politica»
afferma Carlo Donolo, un altro giovane
studioso che agli inizi degli anni Settanta
aveva pubblicato sui Quaderni piacentini
un famoso saggio sullo «sviluppo ineguale» del Sud, paragonandolo a quello
dell’America Latina. Ma che per lo meno
hanno il vantaggio di cominciare a proporre, sia pure ancora per un pubblico di
èlite, una visione non semplificata, distorta o addirittura grottesca del pianeta
Mezzogiorno.
Chiara Valentini
(Ha collaborato Luca Rossi)
Panorama, 5 gennaio 1981.
L’Irpinia
scompaginata
e sconvolta
Un giorno del non lontano
novembre ci siamo svegliati ad
una realtà che ci pareva e ci pare
incredibile. Una cieca forza si era
abbattuta su uomini e cose e tutta
l’Irpinia ne era stata scompaginata e sconvolta.
Noi che non abbiamo sofferto
nella carne lo strazio che le popolazioni hanno patito perché le
vicende della nostra vita ci hanno
voluto tenere lontani, siamo stati
anche noi chiamati a curare le
nostre ferite, le lacerazioni
apportate dalla ferocia dell’evento al tessuto dei nostri affetti.
Oggi più che mai uniti con le
popolazioni irpine alle quali
abbiamo il doloroso orgoglio di
appartenere, noi rivolgiamo
commossi il nostro pensiero alla
gente fraterna di S.Angelo, la
città che ha aperto ospitale e
materna le strade della vita alla
nostra infanzia ed adolescenza,
agli amici di Lioni, Teora, Torella,
Guardia, Morra, ai nostri morti,
così crudelmente sottratti al fervore delle loro attività, vivi per
sempre nel nostro ricordo.
Dante Della Terza
(“Il domani”,
giugno-luglio 1981
Molti pensano di partire, ma per dove?
Una popolazione migrante
non ha fiducia nello Stato
Le ragioni per cui i contadini sono
decisi a sfidare un inverno tremendo,
piuttosto che “arretrare”, sono di
carattere storico, psicologico, culturale, culturale, ma soprattutto economiche e sociali. E’ quasi ovvio che
popolazioni emarginate da secoli, di
cui l’unica prospettiva è stata l’emigrazione all’estero o al nord, non
abbiamo fiducia in uno stato che le
ha sempre ingannate. L’ultimo tradimento lo hanno ancora negli occhi e
nell’anima come una ferita sanguinante: i loro cari lasciati morire per
due giorni, senza adeguato aiuto,
sotto le macerie. Poi c’è il modo
come l’esodo viene progettato.
Camioncini con altoparlanti girano
per i paesi invitando a “salire” sugli
autobus, pronti a partire. Ma per
dove? Nessuno sa con certezza dove
andrà, a chi sarà affidato, quali garanzie ha di rivedere i suoi cari e quando,
chi custodirà e come la sua casa, il
bestiame, la terra sia pure avara.
Il parallelo con il Friuli è mistificante
e improponibile. A parte la differenza
di mentalità, di cultura, di storia, il
Friuli aveva dietro di sé il nord industrializzato. Gli alberghi, dove vennero sfollati donne e bambini - ma ciò
accadde solo quattro mesi dopo il terremoto, quando si verificò una seconda grande scossa, il 13 settembre
1976 - erano a trenta o quaranta chilometri di distanza e gli uomini rimasti
sul posto avevano la certezza di un
pendolarismo effettivo con una viabilità. Qui si vuole portarli nel Gargano
o a Manfredonia, sulle coste calabresi
o campane, a centinaia di chilometri
di distanza. Non si pensa neppure a
reperire possibilità di sistemazioni
che tutti sanno esistenti in città e nei
paesi limitrofi.
Fondamentale è poi il problema economico. In Irpinia, come nell’alta
valle del Sele e in Basilicata, si tratta
di famiglie di medi e piccoli agricoltori e allevatori. La famiglia è un’entità economica per i lavori agricoli.
Occorre quindi affrontare questo problema in una forma diversa. Bisogna
raggruppare nelle masserie e nelle
case intatte e non pericolose vari
nuclei familiari, approntare prefabbricati per le stalle crollate, roulotte nelle
frazioni sperdute. C’è chi irride a queste proposte, ma sono le uniche sensate.
Corrado Stajano
(da Giovanni Russo – Corrado
Stajano, Terremoto, Garzanti, 1981)
X
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
LE INFILTRAZIONI DEL DOPO TERREMOTO
La camorra
fiutò l’affare
La malavita organizzata intendeva impossessarsi della grande torta degli
appalti miliardari - L’attentato a Gagliardi - La prima volta delle cosche
A trent’anni dal sisma è ancora viva
la scia di dolore e morte lasciata dal
terribile evento, ma questa ricorrenza è anche l’occasione per riflettere su quanto è avvenuto nei territori colpiti da allora ad oggi.
La commozione mi assale nel ricordare quello che vidi quando con i
primi soccorritori giunsi in Alta
Irpinia.
Evidenti all’istante le dimensioni
immani della tragedia: migliaia di
vittime, decine di paesi rasi al suolo
e tanta, tantissima gente straziata
tra le macerie.
Invocavano tutti disperatamente
aiuto.
Solo a Sant’Angelo dei Lombardi il
sisma aveva provocato la morte di
quasi 500 persone, tra cui il Sindaco
Avv. Guglielmo Castellano mentre
giocava a carte con gli amici in un
circolo; il Capitano dei Carabinieri
Antonio Pecora che chiedeva ai
soccorritori che lo estraevano dalle
macerie di attivarsi per aiutare
anche gli altri…mentre ovunque
serpeggiava la morte unita alla
disperazione.
Ancora intatto sui suoi piedi di
lamiera era rimasto soltanto il cartello d’ingresso al paese. Tutto era
distrutto. Ogni cosa, in ogni dove.
Vidi file di bare allineate in diversi
luoghi, talvolta madri e figli collocati
insieme all’interno di una sola.
Ho ancora negli occhi la disperazione della gente di Lioni, Teora,
Torella, Conza, Morra, Laviano,
Calabritto, Senerchia e degli altri
centri limitrofi. Notai da subito l’esiguità di soccorsi mal coordinati
rispetto alla vastità della distruzione.
E fu Pertini, il Presidente Pertini, a
denunziare la mala gestione della
catastrofe.
Ricordo l’amico Franco Roberti visibilmente commosso nel raccontarmi la scena a cui aveva assistito:
con alcuni camion, su disposizione
dei Capi della Corte, furono spostati
da Sant’Angelo gli arredi ed i documenti contenuti nel palazzo di
Giustizia. Molte persone, appresa la
notizia dell’arrivo dei veicoli e nel
timore di uno spostamento definitivo del Tribunale, si stesero per terra
innanzi agli autocarri.
Non era protesta. Era difesa del territorio, difesa del loro mondo.
E Roberti, avendo giustamente
interpretato l’animus di questo
gesto estremo, telefonò al
Procuratore Generale che sospese il
trasferimento.
Fu in quell’occasione che l’amico
Roberti guardandomi soggiunse: “il
terremoto ha già tolto tutto a questa
gente, non possiamo ora contribuire a sottrarre loro anche il
Tribunale”.
Con ammirazione vera ricordo l’opera di migliaia di volontari giunti
da ogni parte del Paese e importanti
aiuti umanitari da tutto il mondo.
Nacque allora la Protezione Civile e
tantissimi organismi di volontariato,
dalla Caritas alla Croce Rossa, trovarono nuovo impulso e nuove motivazioni, così come un rilevante
apporto lo diedero l’esercito, i carabinieri, la polizia, la guardia di finanza, il corpo forestale le polizie municipali e molte altre associazioni.
Vidi la voglia di riscatto di un popo-
lo che aveva sì subito un grave
affronto dalla natura ma che ora si
stava ribellando e che cercava di
recuperare il senso della propria
storia. Con dignità lavorava per
ripulire i borghi dalle macerie, per
ridare identità al territorio ed al suo
patrimonio artistico ed ambientale.
Da sempre questa terra è abituata a
subire il ciclo vichiano della distruzione e della successiva resurrezione. Rinascere ogni volta dalla polvere del terremoto come la fenice.
Non è retorica. La vera ricchezza
dell’Irpinia è la sua gente.
Questa è la terra di De Sanctis di
Morra, che non esitò a farsi anni di
galera per promuovere tra i suoi
allievi gli ideali liberali; di Palatucci,
giovane commissario a Fiume, originario di Montella, che si immolò nel
lagher di Dachau per aver salvato
migliaia di ebrei dai campi di sterminio.
Questa è la patria di gente di montagna che custodisce ancora nei cuori
valori che hanno consentito loro di
superare le avversità della natura
per avere, ogni volta, la forza di ricominciare.
Il nostro Paese ha subito nel tempo
numerosi terremoti drammatici
descritti con notevole sensibilità da
grandi narratori nel corso del
Novecento.
Tra le tante esperienze significativa
è quella vissuta da Benedetto Croce
durante il terremoto di
Casamicciola del 1883. Il grande
intellettuale perse così all’età di
diciassette anni i propri genitori e la
sua unica sorella, rimanendo egli
stesso sepolto sotto le macerie per
diverse ore. L’evento sconvolse la
sua vita e gli procurò un grave stato
di depressione descritto solo nel
1915 in Contributo alla critica di me
stesso : “Quegli anni furono i miei
più dolorosi e cupi: i soli nei quali
assai volte la sera, posando la testa
sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino”.
Ed ancora l’immane tragedia del terremoto del 28 dicembre 1908 nella
zona dello Stretto di Messina vide,
tra i più colpiti, Gaetano Salvemini:
perse la moglie, cinque figli e una
sorella. Si arrivò a temere per la sua
ragione. Raramente Salvemini volle
ricordare questa drammatica esperienza. Tra le poche testimonianze
c’è una lettera inviata a Gentile in
cui scriveva: “Ho qui nel mio tavolo
un po’ di lettere della mia povera
moglie, della mia sorella, dei bambini. Me le vado leggendo a poco a
poco. Mi sembrano le loro voci. E
dopo averne letta qualcuna devo
smettere, perché un pianto disperato mi prende e vorrei morire”.
Il terremoto del 1908 colpì anche
Palmi. Lo racconta Leonida Rèpaci
ne I fratelli Rupe in cui il sisma viene
descritto come quel colpo di tosse
della terra malata che scoppia come
un melograno maturo, mentre la
morte sembra camminare per le
strade, far visita ad ogni famiglia,
strappando in un attimo le loro vite,
piccoli sogni, la loro debole ma al
tempo stesso intensa felicità. Il terremoto, sostiene Rèpaci, è un gran
livellatore di classi: “Il proprietario
che ha sempre trattato il suo colono
alla stregua di una bestia, ora gli
struscia pavido e conciliante. Ed è
anche la cassazione suprema che
spalanca le porte del carcere che la
giustizia degli uomini tiene sbarrata”.
Qualcosa di simile è avvenuto a
Sant’Angelo dei Lombardi durante il
sisma dell’80. A seguito del crollo
della Casa Circondariale i detenuti
liberarono le guardie carcerarie
rimaste intrappolate nelle macerie.
Episodi che assurgono a metafora
della vita ove solo circostanze eccezionali consentono un’inversione di
ruoli sociali e da prigionieri si può
diventare liberatori dei carcerieri.
Il livellamento di cui parla Rèpaci
finisce però per apparire non reale
ma fittizio e provvisorio, così come
il senso di umanità e la pietas sembrano inficiati dalle condotte precedenti e da quelle successive.
In questa direzione si muove anche
la testimonianza di Ignazio Silone,
colpito gravemente nei suoi affetti
dal terremoto della Marsica del
1915.
In una intervista al Le figaro
Littèraire Silone racconta un particolare aneddoto: un vecchio usuraio fu sorpreso a letto dal sisma e
alle sue richieste di aiuto e di cibo,
gli fu risposto dalla gente di nutrirsi
delle sue cambiali!.
Ed ancora narra del ritrovamento di
sua madre tra le macerie: “era distesa presso il camino, senza ferite evidenti. Era morta. Non ho versato
una lacrima. Qualcuno ha creduto
che non avessi cuore. Ma quando il
dolore supera ogni limite le lacrime
sono stupide...”. L’esperienza del
sisma lascerà forti tracce nell’opera
di Silone. In Incontro con uno strano prete afferma che l’evento nello
scoperchiare le abitazioni ha messo
in luce cose che di solito rimangono
nascoste, mettendo in mostra l’altra
faccia della tragedia, ovvero l’occasione per l’arricchimento individuale e per l’azione di sciacallaggio da
parte di quanti hanno partecipato
all’assalto di danaro pubblico.
Di esperienze simili il nostro Paese
ne ha vissute tante fino a quelle ultime dell’Umbria, con il crollo della
chiesa di San Francesco in Assisi,
ed il terribile sisma dell’Abruzzo
dell’aprile 2009 con la completa
distruzione di un’importante città
come l’Aquila, con decine di centri
rasi al suolo ed alcune centinaia di
vittime.
Recentemente mi è giunta una bella
lettera da parte di Antonio Gagliardi
Procuratore della Repubblica di
Avellino all’epoca del post-sisma.
Mi informa che il Presidente della
Repubblica gli ha concesso una
medaglia per l’eccezionale impegno
dimostrato come magistrato nella
lotta alla mafia tanto da subire nel
settembre 1982 un agguato ( in cui
rimase gravemente ferito) ad opera
di numerosi esponenti di rilievo
della Nuova Camorra Organizzata.
Ho ricordato così quegli anni quando giovane magistrato dovetti
affrontare l’emergenza del post-terremoto ed il disegno apparve subito
chiaro dalle indagini che sviluppai.
La camorra intendeva impossessar-
Antonio La Penna e il sisma del ‘30
E’ stata la tragedia
meno imprevedibile
Per chi è nato nell’alta Irpinia
da oltre cinquant’anni, il terremoto è stato una tragedia
meno imprevedibile.
Da ragazzo sono passato attraverso il terremoto del 1930;
anzi questo è uno dei ricordi
meno stabili della mia infanzia.
Più volte mi è tornata in
mente la notte in cui mia
madre, spaventata, mi avvolse
precipitosamente in un materasso e mi portò a dormire
sotto gli olmi.
Eravamo in campagna, di
luglio: questa volta si è
aggiunto anche il gelo dell’inverno.
Seguì un breve periodo passato sui prati, sotto le tende: un
ricordo quasi idilliaco, diversissimo da quello che lascerà
in tutti questa tragedia che ora
E adesso ci sentiamo
«più italiani in Italia»
Caro Manzione,
perché rischiare di deformare, corrompere un
lavoro costato tanto dolore?
Questo non è un libro che tolleri il sopruso di una
prefazione.
Non c’è niente da suggerire, aggiungere o interpretare in una cronaca così esemplare della nostra
tragedia.
Senza retorica né pregiudizi, senza vittimismo né
presunzione, raccogliendo, per molti e molti mesi,
immagini, avventure, voci e silenzi delle persone, e
persino il respiro della natura nelle diverse stagio-
Atripalda, via Roma (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda)
ni, tu e i tuoi collaboratori rendete sacra e intoccabile testimonianza delle speranze e delle delusioni,
della rassegnazione e del coraggio della gente coinvolta nella spaventosa sciagura, e date il resoconto
imparziale e completo di quanto è stato fatto, si
sarebbe dovuto fare e ancora si aspetta che venga
realizzato.
Dante Troisi
(Prefazione al libro
di Gaetano Manzione Dai paesi del batticuore,
novembre 1982)
pesa sulla Campania; ma,
intendiamoci, c’era tragedia
anche allora.
A Bisaccia vidi qualche casa
povera sventrata dalle cosse;
solo più tardi capii quale disastro aveva schiacciato altri
paesi, per es. la vecchia
Carbonara, che il regime
fascista aveva ribattezzato col
nome di Aquilonia, forse per
ricordare una celebre sconfitta dei Sanniti, schiacciati
dalla potenza di Roma.
A Sant’Angelo dei Lombardi
compii i miei studi di base,
dopo le elementari, cioè il vecchio ginnasio: pochi luoghi mi
sono così cari nel ricordo.
Capoluogo del circondario,
sede di tribunale e di vescovado, la piccola Sant’Angelo era
una metropoli per noi che non
avevamo mai visto una città.
Dopo la faticosa salita, dopo
la svolta che era in cima alla
salita, s’imboccava un corso
arioso, quasi elegante, che
costeggiava una larga piazza:
questo piccolo centro colpiva
per la sua civiltà dignitosa,
per la sua signorilità.
Il centro storico, castello,
curia vescovile, ginnasio
annesso alla curia, aveva,
naturalmente, un aspetto più
austero, a tratti quasi tetro.
Credo che ora il vecchio e il
nuovo siano confusi nel disastro e nelle macerie.
Antonio La Penna
(Istituto Gramsci, convegno del
15 e 16 gennaio 1981 ad
Avellino, anche in “Password”,
n.1, 1998)
si della “grande torta” degli appalti
miliardari per la ricostruzione e
vedeva in Gagliardi un ostacolo al
perseguimento di questo scopo.
Successivamente lavorando presso
la Dda di Napoli compresi che il
sisma era diventato un’occasione di
arricchimento per i sodalizi mafiosi
dell’intera Campania e per tanti affaristi e faccendieri, anche in territori
che nulla avevano a spartire con
questo evento drammatico.
Furono anni difficili ma entusiasmanti. Decine di rilevanti indagini
squarciarono il velo su tantissime
vicende importanti e ricevetti anche
gravi minacce con rilevanti rischi
per la mia incolumità. Ma la battaglia fu vinta. Grazie al grande impegno delle forze dell’ordine:
Carabinieri, Polizia,Guardia di
Finanza. E grazie anche a quella
parte del mondo politico che
avvertì il pericolo della presenza
delle cosche mafiose in contrade
che non avevano mai conosciuto
questo fenomeno.
Dopo trent’anni dobbiamo chiederci cosa è rimasto dell’originario
spirito di riscossa. Dopo la ricostruzione materiale occorreva recuperare l’identità storica, culturale e
socio-economica di un territorio
dissanguato anche dall’inarrestabile
emorragia del flusso migratorio.
I paesi dell’Alta Irpinia arroccati
attorno ad un castello e ad una chiesa non difendono solo cose ma proteggono importanti valori comuni:
la famiglia, i principi cristiani, la solidarietà nella sventura, il rispetto
reciproco, la dignità del lavoro, le
tradizioni, l’artigianato, l’amore per
il territorio e per la comune cultura.
Oltre alle case occorreva anche
ricostruire un’identità culturale ed
economica preservando questi
valori e nel contempo aggiornarli
sulla base delle nuove istanze provenienti dalla società.
L’emigrazione ha invece continuato
a desertificare queste terre tanto
che negli ultimi trenta anni la popolazione dell’Alta Irpinia si è notevolmente ridotta facendo assumere ad
alcuni paesi connotazioni spettrali
fino ad annebbiare la storia di questi luoghi tramandata soprattutto
per via orale. Quante volte ho dovuto leggere negli occhi degli emigranti la nostalgia per la terra natia, ho
avvertito nei loro racconti la caparbia volontà di tramandare le antiche
tradizioni ed riti religiosi costruendo chiese simili a quelle originarie
di San Gerardo o della Madonna
della Neve anche lì lontano dalla
Patria perché ciò li faceva sentire
meno soli ed il distacco diventava
meno duro.
Quei centri che nel noto Viaggio
Elettorale di Francesco De Sanctis
erano ancora pieni vita e di fermenti
culturali, oggi si presentano spenti
ed in preda ad una lenta agonia
dovuta anche ad una continua emigrazione tesa a mortificare ed inselvatichire sempre più questi territori
montuosi.
Progressivamente si stanno riducendo tutti i centri di aggregazione
costituiti da scuole, parrocchie, circoli culturali e politici e aumentano
la depressione ed il “mal di vivere”
di cui sono spia un crescente numero di suicidi tra gli anziani e di tossicodipendenze tra i giovani. Disagio
che sarebbe stato ancora maggiore
senza l’encomiabile ruolo svolto
dal mondo del volontariato nel
creare una “rete di solidarietà” nei
confronti delle fasce deboli ( disabili, anziani, poveri, malati ).
Nessuna altra area del Paese ha vissuto in questi ultimi trent’anni un
tale fenomeno migratorio con la
naturale conseguenza di un rapido
invecchiamento della popolazione
esistente ed una disgregazione dei
nuclei familiari rendendo così calzante la definizione del Rossi-Doria
per questi luoghi: “le terre dell’osso”.
Ad un secolo e mezzo dall’unità
d’Italia rimane ancora attuale il
dramma vissuto da Pasquale
Villari, Francesco De Sanctis,
Pasquale Stanislao Mancini,
Benedetto Cairoli, Giustino
Fortunato e da tanti altri intellettuali che all’unità politica non videro
seguire anche una unità economica. Anzi appare ancora in atto un
triste e rovinoso processo di allontanamento tra le due Italie.
Ed accanto a questa separazione se
ne è verificata un’altra altrettanto
drammatica. Abbiamo aree costiere e collinari sovrappopolate e
completamente cementificate mentre le zone interne si stanno sempre
più spopolando. Vicende rilevanti
come la devastazione del territorio,
l’affare dei rifiuti, le condizioni di
boschi, fiumi e delle aree interne
dimostrano la necessità di risolvere
questi problemi.
Urge un riequilibrio per deflazionare alcuni territori e dare nuovo
respiro ad altri. Urge investire risorse per potenziare il turismo, migliorare il commercio dei prodotti tipici
di questi luoghi dal vino alle castagne, sostenere l’artigianato, sviluppare adeguatamente le aree industriali eliminando l’eccessivo peso
della burocrazia e fornendo una
giustizia di qualità al servizio dei
cittadini.
Occorre far si che l’Irpinia diventi
un “distretto culturale” perché la
formazione proficuamente indirizzata può costituire volano per lo
sviluppo. In questi territori stanno
sorgendo insediamenti industriali e
commerciali ed un terziario avanzato che hanno bisogno di personale
specializzato e di servizi adeguati
per poter crescere. Occorre incentivare una progettualità realmente
funzionale all’occupazione per non
sprecare le poche risorse ancora
disponibili.
Non si intende, naturalmente,
minimamente interferire nelle autonome scelte del mondo politico ma
solo offrire una pacata testimonianza in quanto “la sensibilità
all’interesse pubblico” è nel codice
etico dei magistrati .
Questa ricorrenza deve costituire
non solo l’occasione per ricordare
ma stimolo per una nuova riscossa,
per un nuovo rinascimento di valori, per ridare nuova linfa all’economia di questi luoghi, deve servire
ad unire le forze non a dividere.
L’appello che rivolgo è lo stesso di
Guido Dorso in La Rivoluzione
Meridionale. Sia la rinnovata classe
dirigente capace di farsi carico dei
sogni di tantissimi giovani costretti
a lasciare l’Irpinia e sia capace di
costruire per loro, con passione e
nuove idee, un futuro. Un futuro qui
e non altrove.
Dobbiamo credere nei sogni, anche
quando i risultati non sono immediati e tutto sembra perduto, perché il seme della speranza una
volta piantato germoglierà ed una
nuova primavera subentrerà all’inverno di questi anni.
Ci sono le condizioni per lavorare
in questi centri appenninici per le
infrastrutture realizzate, per il livello culturale e morale dei suoi abitanti, per l’amore di questi luoghi,
per il diffuso senso di legalità esistente.
Ci sono le condizioni per costruire
insieme nuovi orizzonti per i nostri
figli.
Ci sono le condizioni per migliorare
il nostro futuro.
E’ giunto il momento che gli uomini
di queste terre, molti ormai sparsi
per il mondo, riannodino gli antichi
legami e si facciano carico dello sviluppo socio-economico dei centri
appenninici consentendo così alle
aree interne di riconquistare la centralità perduta.
All’ombra dell’Appennino lo sviluppo è possibile. Diamo a chi è capace ed ha buone idee l’opportunità
di rimanere. Ed a chi è partito una
buona ragione per tornare a casa.
Perché ritrovare la propria terra è
ritrovare se stessi.
Antonio Guerriero
Procuratore
della Repubblica
di Sant’Angelo
dei Lombardi
XII
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
IL DEGRADO SBRICIOLATO DAL TERREMOTO
Avellino, la città
dove il cieco guida
Atripalda, via Roma (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda)
Il centro storico non c’è più.
Probabilmente anche premuto
dalle ditte di appalti, il Comune
ha demolito tutto, per far sorgere
tutto dal nuovo. Mentre molto si
poteva ristrutturare, salvando i
valori ambientali e storici. È nota
l’avversione dei politici per l’integrità dei centri storici e la loro
insana predisposizione a considerarli inutili muffosi musei nel
cuore di una città in pieno sviluppo.
Da decenni, nonostante gli interventi della Sovrintendenza e le
recriminazioni della sinistra, nel
borgo antico (prima romano, poi
longobardo, e avanti con i palazzi
costruiti dai francesi, con quelli
settecenteschi fatti erigere da
Carlo III), non è mai stato fatto
nulla, nessuna manutenzione, non
un restauro, non parliamo di
piano regolatore. Senza che le
autorità preposte all’urbanistica si
rendessero conto che recuperare e
restaurare il vecchio costa molto
meno che costruire il nuovo.
Risanamento conservativo? Ah,
ah, ah! Chissà come hanno riso,
sentendo quest’espressione, gli
avidi costruttori e i loro protettori
politica che, lasciandolo deperire
a quel modo, consideravano il
Una storia
del Sud
Siamo noi infarinati
come pagliacci di un circo equestre
in più soltanto un filo
di sangue dalla bocca.
Avevamo tutti in mente
un nome amato e invano,
sul momento,
qualcosa ce l’ha fatto dimenticare.
Mia figlia stava tessendo
pensando al marito in Germania.
Mia nuora stava scrivendo
a caratteri grandi l’amore
per mio figlio finito a Digione.
Avevo un nipotino sulle gambe
pieno di riccioli e bizze,
una pecora ai piedi e il cane
appoggiato sulla sua lana;
mentre io fumavo la pipa
nell’alta sera Irpina.
Sere di storie subite
e rimaste impunite.
sere di venti e tremiti
d’animali nei pagliai,
mescolate a magìe
pagane o cristiane.
Ma tutti avevamo fiducia
nella forza dei cieli siderei,
nell’osso che ci ha generati
cui stavamo aggrappati
come grappoli d’uva acerba,
tra i sassi che ci riscaldavano
insieme ai fagioli e ai ceci,
miti cibi come mangimi.
Poi c’è stato l’evento,
nero furore profondo,
tra l’ictus e l’infarto,
un dubbio, come un peso
di una bilancia impazzita.
Ho sentito il passo di Pertini
e quello felpato del Papa,
ma né l’uno, né l’altro,
umane creature, avevano
unghie per scavarci.
e così siamo morti da emarginati
da antichi clandestini della storia.
Domenico Rea
(“Il Mattino illustrato”,
6 dicembre 1980)
centro storico come terra di conquista.
In alcune città, Bologna in testa,
intorno al ’70, per scongiurare la
distruzione di un patrimonio insostituibile e per evitare la trasformazione degli alloggi in uffici, si
era arrivati a un restauro fisico a
fini residenziali.
Qui certo no. Si è lasciata degradare la parte vecchia collegata
con vie ripide e strette all’imponente Duomo dalla facciata neoclassica e così le chiese, la fontana barocca, la più antica strada,
quella del Seminario, la torre
dell’Orologio, la piazza centrale
di forma quasi triangolare in cui
sboccavano cinque vie e anche il
palazzo medievale della Dogana
rifatto a metà Ottocento a cura di
Marino Caracciolo e decorato da
statue e busti di imperatori romani.
Degradazione totale finché il terremoto mette a posto tutto, cioè
sbriciola e ferisce (molto rovinate
le case di tufo) e masse urlanti di
cittadini del centro storico che
hanno sofferto per anni in case
cadenti e maleodoranti, senza
apparecchiature igieniche, si precipitano per strada chiedendone
la demolizione immediata e al
loro posto case di cemento armato. Senza immaginare che sarebbero finiti chissà per quanto in
campi di concentramento di periferia.
Camilla Cederna
(da Casa nostra,
Rizzoli, 1983)
Terremoto,
quale
ricostruzione
I tragici fatti, in gran parte evitabili, del recente terremoto,
dimostrano chiaramente l’elevato costo sociale che si è
dovuto pagare per l’arrogante
disprezzo nei confronti di tali
competenze, per l’inettitudine
e l’ottusità, per la torbida
visione approssimativa nell’amministrazione delle cose.
Viene alla mente la lettura di
un’autorevole pubblicazione
tedesca del 1909, nella quale si
faceva una descrizione, minuziosamente commentata, dei
fatti relativi al terremoto di
Messina del 1908. In tale
descrizione, se si cambiano
ovviamente i nomi dei funzionari coinvolti, emerge una
realtà poco (o per niente)
diversa da quella che abbiamo
vissuto nel recente terremoto.
Se si pensa bene, nei settant’anni che ci separano dai
fatti di Messina, non c’è stato
in Italia un sostanziale progresso nel modo di misurarsi
con la questione sismica.
Modo di misurarsi che, oggi
come ieri, procede a pari passo
con un modo arretrato di
governare.
Solo così si spiega l’irresponsabile passività dello Stato, dei
suoi apparati esecutivi e burocratici, nel campo della protezione civile. Nulla, ad esempio, è stato fatto per dare
nascita ad una coscienza di
massa, senza la quale, come è
noto, ogni protezione civile è
difficilmente praticabile.
Tomàs Maldonado
(“Casabella”, n. 470,
giugno 1981)
LA SOPRINTENDENZA AL LAVORO PER SALVARE LA STORIA
La cultura e gli effetti della scossa
Dopo il sisma catalogato un patrimonio sconosciuto - Ritrovati episodi di un mondo artistico ritenuto
a torto minore - L’impegno per salvare dalle ruspe castelli, palazzi storici, antiche dimore - Tanti
gli edifici crollati o seriamente lesionati - Strutture che in molti casi erano state quasi dimenticate
Domenica 23 novembre 1980, ore 19,35:
una violenta “interminabile” scossa
sismica sconvolge la Campania e la
Basilicata, lasciando dietro di sé distruzione e morte. Ma i danni di un terremoto
così grave, pur nel rispetto del dolore e
della sofferenza abbattutisi su quelle
popolazioni, non si possono calcolare soltanto sulla base del numero dei morti e
della percentuale di edifici crollati o resi
inagibili. Un evento di così drammatiche
proporzioni finisce inevitabilmente con lo
sconvolgere le stesse condizioni di vita di
genti già colpite negli affetti e nei beni,
distogliendole anche dalle attività lavorative e intaccandone quindi l’economia e
la gestione dei mezzi di sopravvivenza. E
non risparmia purtroppo neanche il patrimonio culturale di una collettività, al
quale è tacitamente affidato il compito di
trasmettere alle generazioni future la
coscienza della propria storia, il retaggio
delle tradizioni, l’attaccamento alle proprie radici. Ma non è neanche facile far
comprendere a popolazioni tanto provate
l’importanza di certi valori.
Gli effetti di un sisma così violento sono
perciò catastrofici.
All’indomani della scossa sismica di
novembre e a quella successiva, non
meno grave, di febbraio, fu necessario
perlustrare tutto il territorio per individuare e catalogare un patrimonio culturale
semisconosciuto. Entrando con non pochi
rischi in chiese e conventi si cercò di tirar
fuori un pò alla volta statue, tele, tavole
dipinte, pezzi di altari ...; insomma quello
che non rappresentava più semplicemente
un oggetto di culto o uno strumento della
liturgia o una testimonianza della devozione di un popolo, ma diventava un
“bene culturale” da recuperare, catalogare, restaurare e restituire appena possibile
alla comunità cui apparteneva.
Accanto alle sculture di Cosimo Fanzago,
agli edifici monumentali del Vaccaro e ai
dipinti di Andrea da Salerno, di Marco
Pino da Siena, di Francesco Guarini o dei
Solimena e del Ricciardi, vennero alla
luce tanti episodi di un mondo artistico
considerato minore, ma certamente significativo rispetto al contesto socio-culturale nel quale si era sviluppato nel tempo.
Via via che si percorrevano le strade del
“disastro”, capitava assai spesso di ritrovarsi inaspettatamente in chiostri affrescati, cripte ancora pervase del misticismo e
della spiritualità del cristianesimo
San Marciano, quel che resta (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda)
medioevale, cappelle rupestri dove sembrava ancora aleggiare la presenza dei
santi-eremiti che le eressero per isolarsi
dal mondo e vivere nella preghiera e
nella povertà. Nel frattempo si cercava di
salvare dalle ruspe, favorendone poi il
ripristino, antiche dimore signorili,
importanti palazzi pubblici e castelli:
pagine di una storia che non ci viene raccontata nei libri scolastici, ma che è possibile leggere soltanto attraverso le visibili testimonianze del passato e ricostruire
sulla base di uno studio attento e
approfondito di documenti archivistici,
peraltro assai spesso scarsi.
Le ferite più profonde e più evidenti si
contavano soprattutto nei centri storici,
generalmente già deboli a causa di un
degrado conseguente ad uno sviluppo
urbano naturalmente e progressivamente
eccentrico e a tutta una serie di valutazioni, principalmente economiche, errate. E,
in modo particolare, negli edifici più
antichi e nei complessi monumentali.
Il patrimonio monumentale irpino si pre-
senta, dunque, come un insieme di edifici
di rilevanza artistica minore, tra i quali
però emergono alcuni esempi di architettura colta, degni di attenzione: la tardocinquecentesca Collegiata di Solofra,
ricca delle migliori opere di Francesco
Guarini e dei Solimena; il settecentesco
Palazzo Abbaziale di Loreto a
Mercogliano, iniziato nel 1734 da
Domenico Antonio Vaccaro, ma terminato nella seconda metà del secolo dall’architetto della corte borbonica
Michelangelo De Blasio; L’Abbazia di S.
Guglielmo al Goleto a Sant’Angelo de’
Lombardi, dove si sono conservate
meglio le costruzioni più antiche rispetto
alla chiesa del Vaccaro; La Basilica
paleocristiana e le contigue catacombe di
Prata. L’architettura cosiddetta minore
comprende edifici pubblici e privati.
La categoria più ampia è rappresentata
dalle chiese, da quelle di maggiori
dimensioni, come S. Ippolisto ad
Atripalda o la Cattedrale di Conza, a
quelle di proporzioni più modeste. Molte
Ora uno dei mali peggiori è l’assuefazione al peggio
Dopo due anni di lotte dure
tra rassegnazione e realismo
Sono passati due anni da
quel tragico ventitrè novembre 1980.
Sono stati due anni di lotte
dure, per i comitati dei terremotati, per i lavoratori delle
fabbriche danneggiate dal
terremoto, per i giovani due
anni in cui non ha cessato di
farsi sentire il peso dell’incapacità, delle lotte intestine,
dei giochi di potere del
governo centrale, ma anche
dell’inadeguatezza, della
pasticciona faciloneria del
governo regionale, inadempiente cronico riguardo alle
sue stesse promesse (formulate sempre con incredibile
facilità).
Ma questi due anni sono stati
anche quelli in cui a livello
del governo regionale, come
del potere degli enti locali, a
cominciare proprio dalla
partita della ricostruzione,
del dopoterremoto, la camorra i suoi “imprenditori”, i
suoi “uomini d’oro” hanno
fatto sentire il loro peso.
Abbiamo sentito qualcuno,
anche qualche magistrato,
affannarsi a dire che, tutto
sommato, si poteva ritenere
ancora salva dalle manovre
camorristiche il mercato dell’edilizia e quindi della ricostruzione. Assurdo. Ma se
numerose inchieste, condotte
proprio dalla magistratura
salernitana e anche napoletana, dimostrano il contrario?
Ma se proprio “Dossier”, in
una inchiesta dedicata ai
‘monopoli della mafia’,
svelò i giochi esistenti tra il
boss
della
camorra
Rosanova ed alcuni comuni
del nocerino sulla costruzione di alloggi per i terremotati (da pagare a peso d’oro?).
Ecco. A due anni di distanza
dal sisma che provocò devastazioni in Alta Irpinia ed in
Alto Sele, come del resto
nelle province di Salerno e
di Avellino, forse, possiamo
dire che uno dei mali, dei
guasti peggiori è l’assuefazione, la convinzione che le
cose devono andare avanti
così; male, per forza e ineludibilmente. È la cultura
della rassegnazione che
tanto assomiglia a quella
omertà, e ne diventa parente
stretta, fino ad indurre,
anche chi ha intelligenza per
capire e occhi per vedere, a
dire che ‘no, certe cose non
esistono’, anche se esistono,
sono ‘immaginazione’ pur
essendo cruda realtà, sono
‘di la da venire’, pur essendo in atto da tempo.
Giuseppe Marrazzo
(“Dossier Sud”,
19 novembre 1982)
hanno un impianto antico, ma quasi tutte
hanno in comune una ristrutturazione settecentesca, per lo più a seguito di eventi
sismici, tra i quali in particolare quello
del 1732. Lo schema planimetrico più
ricorrente è quello longitudinale a navata
unica con cappelle laterali; ma non mancano esempi di chiese a tre navate: S.
Giovanni del Vaglio a Montefusco, l’exCattedrale di Frigento, S. Maria delle
Grazie ad Atripalda, l’Assunta a Lioni.
La navata unica assai spesso presenta un
soffitto piano con tavolato dipinto, decorazione tipica della seconda metà del
secolo XVIII e molto diffusa in Irpinia
perché più economica e più facile da realizzare rispetto agli affreschi. Come
corpo a parte, ma sempre a completamento della chiesa e adiacente ad essa, si
presenta di solito la torre campanaria,
costruzione massiccia generalmente a
pianta quadrata e con il basamento rivestito in conci squadrati.
Un’altra categoria ampiamente rappresentata è quella dei “palazzi”, che comprende complessi conventuali, edifici
signorili, castelli. I primi, caratterizzati
generalmente dalla presenza di più corpi
di fabbrica intorno ad un chiostro, spesso
rimaneggiati e posti su diversi livelli,
dopo un terremoto così violento non
potevano non presentare cedimenti.:
potremmo citare, come esempi, il complesso di S. Marco a Sant’Angelo de’
Lombardi o il convento dei Francescani
di Serino. Un caso non raro è quello rappresentato dai palazzi cosiddetti “civili”
derivanti dalla trasformazione di ex-conventi, come il palazzo civico di Atripalda
e il Seminario Arcivescovile di
Montefalcione; o dalla trasformazione di
castelli medievali, come il palazzo baronale di Prata o l’Episcopio di S. Andrea
di Conza. Elementi di riferimento importanti nel tessuto urbano dei centri storici
sono, poi, gli edifici signorili, caratterizzati da corpi edilizi a corte, con facciate
arricchite da elementi decorativi a stucco
e in pietra e da portali importanti, come i
palazzi Caracciolo di Avellino e di
Atripalda o il palazzo Orsini di Solofra, il
palazzo Alvares di Avella, il palazzo Del
Balzo di Cervinara, i palazzi Greco e
Festa nel centro storico di Avellino.
Non mancano esempi, inoltre, di una
tipologia molto particolare, che è quella
rappresentata da due edifici ottocenteschi, nati con una funzione specifica
ormai cessata: l’ex-Carcere Borbonico di
Avellino a pianta poligonale, progettato
da Luigi Oberty e realizzato da Giuliano
De Fazio; e la Dogana dei grani di
Atripalda, interessante esempio di
archeologia industriale. Undici, infine, in
Irpinia, i castelli censiti dopo il terremoto:
ad Ariano, Avella, Calitri, Chianche,
Forino, Grottaminarda, Manocalzati,
Monteforte Irpino, Montella,
Montemiletto, Sant’Angelo de’
Lombardi.
L’analisi dei danni evidenzia un’alta incidenza dei crolli, soprattutto delle strutture
verticali e di copertura; ma anche fenomeni di distacco, prevalentemente nelle
chiese, poi nei palazzi, infine in campanili e castelli in pari misura.
Un dato emerge con certezza: il terremoto ha infierito su strutture già indebolite
da anni, forse secoli, da una scarsa conoscenza, da poca attenzione e da ancora
minore interesse ad una adeguata manutenzione.
Maria Grazia Cataldi
Funzionaria del Ministero
Beni Culturali
presso la Soprintendenza mista
di Salerno e Avellino
Quel colpo nello stomaco sferrato
ad un popolo che si piegò in ginocchio
Quella sera, alle 19.34, una zappata di
buio si abbatté sulle terre dell’Irpinia e
ne dissestò le antiche e le nuove geometrie.
Un grappolo di speranze, di tenere consuetudini, di fatiche in parte concluse, in
parte avviate, fu strappato, buttato a
terra, calpestato. A tradimento, mentre
veniva dalla gente gustata la pigra dolcezza serale di un mite giorno di festa
d’autunno.
Proditoriamente fu sferrato un colpo
nello stomaco e un popolo intero si
piegò, cadde in ginocchio.
Di fronte, tra i tenui veli brutalmente
squarciati di quella sera, che sembrava
indugiare a cedere alla notte, l’orrore
mostrò il suo volto ostile e insieme
demente. Il grido di chi vide si rivoltò
all’interno e cadde lungo i dirupi della
paura: implose, si perse, affondò nel
silenzio. Ci volle poi l’infinita eternità di
alcuni attimi per riprendere fiato a chi
l’avesse. Per lamentarsi, per farsi ascoltare, quando l’irreparabile era accaduto,
quando le pareti si erano crepate e i
morti giacevano con mucchi di macerie
sopra il cuore.
Ugo Piscopo,
Irpinia sette universi cento campanili.
Percorsi e spaccati,
ESI, Napoli, 1998.
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
XIII
Le riflessioni sul dopo terremoto di Rossi-Doria e Prodi
Lo sviluppo fantasma
La pubblicazione un mese dopo il sisma dello studio «Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23
novembre 1980» - Si consiglia la delimitazione dell’area colpita: solo così saranno possibili ricostruzione e rilancio economico - Gli
studiosi auspicavano la ristrutturazione e il potenziamento dell’agricoltura e la creazione di alcuni nuclei industriali - Non è andata così
A trent’anni dal terremoto, occorre
guardare avanti, al futuro, bisogna
affrontare con grinta, con determinazione, con energia rinnovata e nuova,
anche con un certo ottimismo, tutte le
sfide, che sono davanti a noi, le sfide,
che l’Italia, il Mezzogiorno, la
Campania e l’Irpinia dovranno affrontare per dare risposte convincenti e
vincenti ad una crisi economica, che
si profila come strutturale e ad una
situazione - quella irpina -, che risente
non poco della crisi generale del
nostro Paese.
Evidentemente, questo è il modo
migliore, sensato e giusto, per guardare al futuro, e tuttavia volgere la nostra
attenzione al passato è non meno preziosa cosa, non tanto per lasciarci
prendere da rimpianti e nostalgie,
quanto per compiere la necessaria
ammissione, che non tutto ha funzionato nel modo migliore.
Del resto, le testimonianze che le televisioni, e i giornali stanno fornendo
dell’Irpinia a trent’anni dal terremoto,
presentano una terra tra luci e ombre.
Se da un lato, la ricostruzione è avvenuta in modo quasi completo, e talvolta in modo accurato, se non eccellente, dall’altro lo spopolamento di
La ricostruzione
cancella
l’antica miseria
Con riferimento all’unica
grande unità irpina che comprende l’alta Valle dell’Ofanto,
la zona del Terminio e l’alta
Valle del Sele per oltre novantamila ettari, occorre sin dall’inizio affrontare i problemi in
modo diverso a seconda che ci
si riferisca ai comuni distrutti e
gravemente disastrati (nei
quali ricade il novanta per
cento delle vittime totali) o a
quelli meno colpiti o quasi
intatti.
Nei primi, la popolazione, falcidiata dalla morte ha una vita
tanto sconvolta da rendere
indispensabile per molti mesi il
prevalente intervento esterno
sia pubblico, che privato. Nei
secondi, all’inverso, si può e si
deve sin da ora fare prevalente
assegnamento sulle forze locali
e su di una parte degli emigrati
che volontariamente accettino
di ritornare e partecipare alla
ripresa.
Nell’uno e nell’altro caso, gli
aiuti esterni dovranno attuarsi
in modo che i superstiti primi e
durevoli della realizzazione,
dopo la sciagura, del nuovo
possibile migliore assetto economico, residenziale e civile.
Ciò richiede però che l’aiuto
esterno abbia carattere di continuità, sia realizzato con l’opera di gruppi organizzati di
volontari civili delle altre regioni d’Italia; che i soccorsi siano
adeguati, adatti, continuativi e
distribuiti con rigorosa equità
sotto il pubblico controllo; che
l’azione dello Stato e della
Regione nei campi di loro
diretta competenza sia pronta,
non burocratica e affidata a
funzionari onesti e efficienti.
Ciò potrà essere, in particolare,
possibile se i mezzi finanziari
destinati al soddisfacimento
della fondamentale esigenza la
ricostruzione e la riparazione
delle case saranno con procedure semplici messi direttamente a disposizione degli interessati, i quali possono essere i
migliori, più rapidi e più economici costruttori e riparatori,
senza l’interferenza dei meccanismi burocratici e clientelari,
evitando la piaga dei grossi
appalti edilizi che in questo
caso sarebbero del tutto fuori
luogo ed assurdi.
Manlio Rossi-Doria
(“Corriere della sera”,
30 novembre 1980)
questi luoghi restituiti agli uomini
risulta evidente a tutti. L’Irpinia è una
delle province più vecchie d’Italia, ed
è una delle zone con il minor numero
di giovani. Inoltre, la fuga dei giovani,
anche di diplomati e laureati, sembra
essere una emorragia, che continuerà
per molto tempo.
Analizzare questi problemi, e soprattutto tentare di fornire qualche soluzione minima e credibile, è compito
arduo, e che non compete certo a chi
scrive. Piuttosto, posso segnalare a
chi è deputato a questi compiti uno
scritto importante, noto soprattutto tra
gli addetti ai lavori, e che l’Università
degli Studi di Napoli, segnatamente il
Centro di specializzazione e ricerche
economiche-agrarie
per
il
Mezzogiorno di Portici, sotto la guida
di Manlio Rossi-Doria, realizzò ad un
mese dal disastroso sisma dell’Irpinia:
“Situazione, problemi e prospettive
dell’area più colpita dal terremoto del
23 novembre 1980”, Einaudi, 1981.
Dietro queste riflessioni, vi è certamente la figura di Rossi-Doria, che da
anni, ben prima del terremoto, almeno a partire dai famosi interventi per
l’Irpinia del 1968, del 1969 e del
1971, e segnatamente nell’ultimo di
questi, “L’Irpinia e le zone interne
nello sviluppo regionale”, aveva focalizzato la sua attenzione su quei problemi riproposti poi dall’Università di
Portici sul finire del 1980.
Tuttavia, il lavoro di questa
“Memoria” è in un certo senso collettivo, ossia riguardò un numero imprecisato di giovani e meno giovani
ricercatori, coordinati dal Maestro:
pertanto, in questo saggio non voluminoso, di poco meno di cento pagine, gli autori si firmano genericamente “gli estensori di questa Memoria”,
“Il centro di Portici” e similia.
Tutto, comunque, rimanda a RossiDoria: i caratteri di delimitazione del
territorio, e la conoscenza approfondita della realtà sociale, culturale ed
economica dell’Alta Irpinia, della
zona del Terminio, dell’Alto Sele e
del Tanagro, della Basilicata: il grande meridionalista, infatti, sin dal
1944/1946, aveva studiato questa
zona interna del meridione, quella
terra dell’osso, il cui amore lo legava
inscindibilmente a uomini quali
Guido Dorso, Rocco Scotellaro e
Carlo Levi.
Sin dalla prima pagina, si evidenzia
come un presupposto fondamentale
per la riuscita della ricostruzione e
dello sviluppo economico sia la chiara delimitazione del territorio colpito
più gravemente dall’evento. E così,
già a pagina 9, si trova scritto: “Per
affrontare razionalmente i problemi
della prima sistemazione, della ricostruzione e dello sviluppo economico
delle zone più duramente colpite è,
quindi, opportuno delimitare chiaramente il territorio investito, in base
non soltanto alla gravità dei danni
subiti, ma anche ai confini naturali
delle unità idrografiche ed economiche, nelle quali rientrano i comuni
maggiormente distrutti o sconvolti.
Questo, anzitutto, si è proposto di fare
il “Centro” di Portici, che, a tal fine,
ha tracciato, e oggi propone al
Governo, i confini del comprensorio
da considerare, ai fini di un’organica
ricostruzione e di un razionale sviluppo economico e civile, limitando l’attenzione alle aree non metropolitane.
Quello delimitato è un territorio,
senza soluzione di continuità di quasi
300.000 ettari, con una popolazione
di oltre 230.000 abitanti; ricade nelle
tre province di Avellino, Salerno e
Potenza e investe 71 comuni così
ripartiti”: 40 per la provincia di
Avellino, 16 per Salerno, 15 per
Potenza. Questo concetto è subito
ribadito nelle pagine successive. Al
proposito, è necessario riportare una
larga citazione, per comprendere
quanto fossero chiare le idee agli
estensori della “Memoria”: “È convinzione degli estensori di questa
‘Memoria’ che ricostruzione e sviluppo saranno possibili solo a condizione
di tenere chiaramente e rigidamente
separati nella legge, nella struttura
organizzativa e specialmente nei
finanziamenti quel che riguarda l’area
‘epicentrica’ più duramente colpita
Conza della Campania (foto De Napoli - Pro Loco Atripalda)
dalle altre. Se, infatti, il rimanente
vastissimo territorio investito dagli
effetti del terremoto e i grandi addensamenti urbani più o meno gravemente danneggiati richiedono finanziamenti cospicui, i problemi che si
devono affrontare sono di natura
obiettivamente diversa da quelli dell’area epicentrica”.
E concludono: “La ricostruzione e lo
sviluppo di questa [area epicentrica]
debbono essere avviati subito e portati
avanti, con particolare energia e rapidità, come azione a sé, non è escluso,
tra l’altro, che in tal modo essi possano servire da modello e da banco di
prova per quanto potrà essere fatto in
seguito in altre zone interne del
Mezzogiorno”. Quindi, prima regola:
delimitare il territorio dell’area epicentrica e per questa attuare leggi speciali per la ricostruzione e lo sviluppo.
Questa zona comprende sinteticamente l’alta valle dell’Ofanto e l’alta
Irpinia, la zona montana e pedemontana del Terminio, l’alta valle del
Calore, l’alta e media valle del Sele e
della connessa media valle del
Tanagro, i comuni appartenenti alle
Comunità montane del MarmoPlatano e del Melandro.
Come siano realmente andate le cose
e come l’area terremotata si sia poi
espansa sino ad interessare tre
Regioni, è un interrogativo la cui
risposta lascio ad altri.
Nella “Memoria” si passa quindi ad
analizzare la realtà preesistente al terremoto, l’emigrazione, la struttura
sociale ed economica, la ricostruzione
e lo sviluppo.
L’analisi presenta luci e ombre. Infatti,
i ricercatori di Portici restano stupiti,
quasi ammirati, dal fatto che la nostra
terra non appaia ad un mese dal terremoto una terra in estinzione: i cittadini
vogliono caparbiamente restare e
vivere qui. Inoltre, vedono la presenza
di infrastrutture sufficienti, sebbene
siano necessari dei potenziamenti e
dei miglioramenti anche notevoli.
Tuttavia, un punto di debolezza consiste nel fatto che la maggior parte degli
uomini atti al lavoro, tra i 18 e i 40
anni, viva lontano, in Italia del Nord o
all’estero, per ovvie ragioni di sopravvivenza. Occorrerebbe, pertanto,
incentivare in qualche modo il ritorno
di questa forza lavoro, necessaria per
una rinascita, anzi per il pieno sviluppo del territorio.
Venendo al problema focale, “le linee
del possibile sviluppo prevedono sia
una ristrutturazione e un potenziamento dell’agricoltura, sia la creazione di alcuni nuclei industriali, localizzati in modo da poter essere facilmente raggiunti da un certo numero di
comuni, la cui popolazione potrebbe
così trovare sul posto quella integrazione ai redditi agricoli, che sinora è
stata costretta a ricercare lontano con
l’emigrazione”.
In buona parte, come si può comprendere facilmente, questi concetti
sintetizzano le posizioni teoriche
sostenute da Rossi-Doria da più di
dieci anni, quali, ad esempio, la politica dei nuclei industriali, l’ammodernamento dell’agricoltura, la politica
per il ritorno degli emigrati. Del resto,
questi stessi concetti furono espressi
anche da Romano Prodi, che in un
articolo apparso sul “Corriere della
Sera” dell’8 dicembre 1980, scriveva
a proposito delle zone terremotate:
“Tutta l’Italia industriale deve prendere in cura la creazione di alcune
zone industriali moderne, cercando di
utilizzare le risorse umane di molti
emigrati che, a diversi livelli, posseggono una propria capacità professionale nel campo dell’industria e dell’artigianato. Non mi illudo che questo sia facile, ma credo che senza il
ritorno, anche per mezzo di forti
incentivi finanziari, di parecchie centinaia di uomini di questo tipo, sia
ben difficile costruire un tessuto industriale robusto e moderno”.
Venendo alle aree industriali, nella
“Memoria” si ipotizza la realizzazione di cinque grandi nuclei: uno nella
zona Flumeri / Grottaminarda, un
altro in territorio di Lioni (“nel mezzo
della valle dell’Ofanto”), quindi tra
Montella e Nusco, in località
Ponteromito, un altro in prossimità
delle confluenze tra il Sele e il
Tanagro, ed infine nei pressi del
Calaggio.
Sul tipo di industria, ovviamente, gli
studiosi non si sbilanciano. Ma
Manlio Rossi-Doria nel suo intervento già ricordato del 1971 raccomandava di creare una relazione stretta tra
le risorse alimentari del territorio e gli
insediamenti produttivi, almeno
quando era possibile.
A questo punto, nel concludere, preferirei più che chiosare questa indagine porre delle domande.
Innanzi tutto, cosa è stato fatto di concreto, soprattutto tra il 1980 e il 1995,
a favore dell’agricoltura delle zone
interne? Solo di recente - forse troppo
tardi? - l’agricoltura innovativa è stata
percepita come strumento di sviluppo, di occupazione qualificata, di
benessere.
D’altra parte, nelle aree industriali
realizzate nel dopo-terremoto si sono
insediate tutte attività produttive floride, solide, legate alle risorse materiali
del territorio, oppure, accanto a queste, anche molte attività produttive
poco solide, interessate più ai contributi dello Stato che a realizzare azien-
de durature ed efficienti?
Forse i nuclei industriali poi realizzati
erano troppi e rispondevano più a
interessi localistici che a funzionalità
di concreto sviluppo? Come, d’altra
parte, si è pensato di completare questo piano di sviluppo, basato sull’agricoltura e sull’industria, con altri settori strategici come l’artigianato e il
turismo (altro auspicio di RossiDoria)? Quanto questo progetto di
sviluppo si è basato su solide, robuste
risorse locali, umane e intellettuali, e
quanto, invece, su individui provenienti da fuori, attenti forse soprattutto
a “raccogliere” e a partire per altre
mete?
Quali politiche, in fine, sono state
attuate a favore del ritorno degli emigranti magari per mettere a frutto le
competenze acquisite in campo lavorativo e imprenditoriale nella loro
terra d’origine? Non diamo risposte,
ma piuttosto una constatazione, ossia
che senza il concorso massiccio delle
forze locali uno sviluppo dell’Irpinia
non sarà mai possibile. Ma questo la
politica sembra lontana dal comprenderlo.
Paolo Saggese
Una prova
terribile
per tutti
Giustificato lo sdegno,
comprensibile la rabbia,
necessaria la giustizia,
ma ora guai a fermarsi
Una prova terribile per la gente del
Sud che rinnova le piaghe ancora non
rimarginate dell’antico dolore. Ma
ormai non è più il tempo delle parole
che possono parere consunte anche
quando dicono sinceramente pietà e
amicizia. E in queste settimane ne
sono state macinate, quante ne sono
state macinate! Ma ora sappiamo che
sono buona farina solo quelle che
hanno lasciato in ognuno di noi la consapevolezza che la tragedia ci riguarda
tutti.
Giusto lo sdegno, con irrefrenabili
lacrime, di chi ha sentito nella propria
carne lo strappo delle persone care;
comprensibile la rabbia delle polemiche, a costo che non siano un alibi
(della strumentalizzazione, se c’è stata
e continua, è moralità non parlarne;
non prenderne neppure atto per non
condividere la vergogna); necessaria la
giustizia contro chi è stato svelato e
riconosciuto nei propri loschi mestieri
dalla violenza naturale. Ma guai a tutti
se ci si fermasse a questo, se con questo diversivo si dimenticasse che la tragedia continua nella lentezza dei giorni, che per migliaia e migliaia di persone non saranno più quelli di prima.
Ferita la terra e feriti a morte i paesi di
cui, per la gran parte, ignoravamo l’identità e che abbiamo conosciuto nell’ultimo atto della loro esistenza.
Saranno più gravi i giorni della tragedia che sono ancora da vivere se la
memoria rimarginerà le ferite prima
che gli squarci delle famiglie disperse,
di quelle che si preparano a cominciare
daccapo, se l’isolamento di chi è solo
sarà considerato un affare amministrativo o solo amministrativo e politico.
Poiché è dalla volontà e dal sacrificio
di tutti – quello che si misura nei fatti,
non labile partecipazione sentimentale
– che dipende il futuro e la conclusione storica dell’apocalittico evento. Se
non si uscirà da questo terribile catalizzatore migliorati nello spirito comunitario e nella coscienza civile, se il terremoto non ha scosso anche certe incrostazioni di costume e di comportamento di tutta la comunità nazionale avremo una colpa imperdonabile in più di
fronte a coloro che debbono ancora
nascere; e di fronte a Dio, cui chiediamo aiuto per scamparci dalla miseria
dell’indifferenza.
La sventura è anche l’ora della conoscenza di noi stessi: atroce e impietosa,
non può che spingerci ad alimentare la
speranza che si costruisce nel sacrificio
creativo per gli altri: anche quando ci
sembrerà di non udire più il loro grido.
Valerio Volpini
“L’Osservatore Romano”
dicembre 1980
La sfiducia di fronte allo Stato
E ora via i Borboni
ritorni Garibaldi
Il grande momento della solidarietà
nazionale passerà presto, ma gli
effetti di questo terremoto no, non
passeranno. Effetti economici, effetti
politici, effetti morali. Ci sono due
ragioni prostrate, paesi rasi al suolo,
una città enorme come Napoli che
sembra tornata ai tempi del dopoguerra, altre, come Potenza e
Avellino, colpite nelle loro più vitali
radici, risorse distrutte per migliaia di
miliardi.
Quando la notte di domenica arrivarono le prime terribili notizie e i giornali fecero partire gli inviati, il commento che ci scambiammo a caldo
fu: lo scandalo dei petroli scomparirà
dalle prime pagine. Ma non si era
capito che lì, quella notte, si apriva
un processo di dimensioni infinitamente più grandi, che coinvolgeva la
responsabilità di tutti, della classe
dirigente nel suo insieme, politici,
amministratori, imprenditori, intellettuali, ma che tuttavia avevano un
soggetto bene individuato: e cioè il
gruppo che guida da trentacinque
anni il paese e le clientele che nel
Sud l’hanno rappresentato.
Sono ormai dieci giorni che questo
processo si sta svolgendo sotto l’occhio impietoso della televisione e
sulle pagine dei giornali, dinanzi a
trenta milioni di italiani.
In questi dieci giorni abbiamo imparato o ricordato più cose che se avessimo letto una biblioteca intera.
Abbiamo visto come non ha funzionato lo Stato centrale e come si siano
dissolti nel nulla i suoi organi periferici.
Abbiamo visto inoltre i prefetti sostituiti dai generali; gli organi di rappresentanza regionale incapaci non solo
di attuare ma addirittura di concepire
un piano d’emergenza; abbiamo
visto il cemento delle case armato
non di tondino ma di sottile fil di
ferro.
Ma quel ch’è peggio, abbiamo visto
la sfiducia profondissima, invincibile, delle popolazioni di fronte allo
Stato.
Eugenio Scalfari
(“la Repubblica”,
2 dicembre 1980)
XIV
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
La lettera agli irpini di Cesare Zavattini
«Sento il dovere
di esservi vicino»
«Nei giorni del Festival sarò ad Avellino e mi
renderò conto della vostra civiltà contadina»
Lioni, due giorni dopo
Sento il dovere di esservi ancora
di più vicino con la mia modesta
persona in questa situazione, che
sinora segna il passo con una
interminabile messe di parole e
con una legge della ricostruzione
di là da venire, la quale continua
ad essere il buscherio di quelle
forze politiche per cui tanto facile è stata ed è la costante elargizione di promesse verso il
Mezzogiorno.
Nei giorni del Festival sarò ad
Avellino e mi impegnerò a rendermi maggiormente conto di
quella civiltà contadina che i
neorealisti di “Cinemasud”, contro tutte le mode dell’epoca, difesero sin dagli anni ’60, quando
elementi economici e sociali
prendevano il sopravvento in
modo corporativo anche tra la
stessa classe operaia limitandone
l’azione di solidarietà e di sostegno alle masse più povere del
Mezzogiorno con una sorta di
generici appelli all’unità tra i
lavoratori.
Oggi la civiltà contadina non può
restare reclusa nelle carte e nei
libri dei politici e degli storici,
deve tornare senz’altro ad essere
la voce del Sud, la cui coerente
difesa fatta nel passato con encomiabile spirito di sacrificio da
parte dei miei amici in Avellino –
tramite il Festival del Cinema
Neorealistico – è un esempio di
quanto voglia e sappia produrre
una onestà intellettuale intesa
come bene supremo degli uomini
migliori e di buona volontà.
Perciò v’è tanta certezza in me
che la battaglia civile e democratica condotta anche da tutti noi
con la rivista “Cinemasud” non è
stata inutile nè di facile dimensione.
Anzi, Avellino, come città e provincia, deve ora molto della propria notorietà in campo internazionale al Festival, la cui politica
cinematografica non ha mai
abbandonato i sentimenti di pace
e di fratellanza in ogni momento
della sua storia più che ventennale. Ed oggi, più che mai, il
Cinema da noi difeso e propagandato non può restare sordo
all’angoscia delle popolazioni
irpine, alle quali il mio doveroso
saluto di amicizia e di amore
risulta essere innanzitutto un
impegno umano e morale di partecipazione alla loro volontà liberatoria da qualsiasi vincolo che
ne fermi e tronchi il processo di
evoluzione verso nuovi traguardi.
Questa ricostruzione abbia
soprattutto e sempre le radici
nella grande tradizione democratica del Mezzogiorno, di cui le
masse contadine sono avanguardia e supporto per gli anni futuri.
Perciò la ripresa del Festival, in
aprile, è ancora una volta un atto
di fiducia e di ferma decisione da
parte di tutti gli operatori culturali per non indugiare nella nostalgia dei sentimenti e per andare
avanti con concretezza e fedeltà
alla causa della cultura neorealistica e nazionale.
Sia la nostra forza morale, altrimenti, invito e monito a quanti,
afflitti e consunti da meschini
interessi di parte, si trincerano
dietro la vaga astrattezza e la
falsa elaborazione di princìpi.
Cesare Zavattini
(“Il Paese”, 12 aprile 1981)
Letteratura, cinema e giornalismo: intervista a Paolo Speranza
Il terremoto raccontato
Il trionfo delle stereotipo e l’indignazione per l’arretratezza del Sud - I fenomeni sismici e le
trasformazioni economiche e sociali - La fase della partecipazione e quella dell’oblio - L’ultima
stagione della cultura meridionalista - I film sulla catastrofe - Le parole di Carmelo Bene - I giovani
Il terremoto come specchio dell’Irpinia
nell’immaginario collettivo: è questo il
filo conduttore della ricerca che si concretizzerà, a partire da domani, in una
mostra fotografica sui terremoti del ‘900
in provincia di Avellino, promossa dalla
Cgil e dall’Archivio Storico della Cgil
irpina e da “Quaderni di Cinemasud”, a
cura di Paolo Speranza e Olivo Scibelli.
Un percorso che il curatore scientifico
della mostra, Paolo Speranza, conduce da
anni sul tema, attraverso la letteratura, il
cinema, il giornalismo.
“Avellino e l'Irpinia, nel corso del
Novecento, hanno conquistato la ribalta
della stampa nazionale per i personaggi e
le vicende della cronaca nera, per storie di
emigrazione e miseria, per i suoi politici
di primo piano, nell'ultimo scorcio del
secolo anche per lo sport e, più raramente, per iniziative culturali. Più di tutto
questo, tuttavia, la provincia di Avellino al pari di tante realtà del Sud - ha ottenuto
attenzione e visibilità per effetto delle
catastrofi naturali, in particolare i terremoti, che si sono abbattute sulla nostra
terra e sul nostro popolo, a più riprese, nel
corso del "secolo breve"”.
Dall’esame dei reportage della stampa
nazionale come esce l’Irpinia?
“In occasione di ciascuna catastrofe, e
ovviamente in modo particolare per il terremoto del 23 novembre, la chiave di lettura e di interpretazione della realtà irpina, da parte di commentatori e reporter, è
stata sostanzialmente di duplice segno: da
un lato il trionfo degli stereotipi, di luoghi
comuni spacciati per analisi sociologiche
(o, peggio ancora, per "meridionalismo"),
non di rado anche di cripto-razzismo; dall'altro, lo sforzo generoso di documentare
le tragedie e le contraddizioni di una
comunità isolata ed economicamente
depressa, l'indignazione civile per l'arretratezza di strutture e servizi, e anche un
concreto contributo di solidarietà, peraltro
non sempre compreso ed apprezzato
dalla popolazione locale, spesso più incline ad attendere dai soccorritori e dalla
politica il "miracolo" o la "raccomandazione" anzichè attivarsi per una collaborazione reciproca ed attiva”.
Perché per questa mostra, che sarà
inaugurata domani da Guglielmo
Epifani all’ex asilo “Patria e Lavoro”
di Avellino, è stato scelto il titolo
“L’emergenza infinita”?
“Perché dalle immagini e dai titoli dei
giornali, molti dei quali rarissimi, i fenomeni sismici si caratterizzano come filo
conduttore del Novecento in Irpinia, delle
sue trasformazioni economiche, sociali e
di costume, delle sue emergenze mai
definitivamente risolte, della sua immagine al cospetto dell'opinione pubblica italiana ed internazionale. Nel trentennale
del 23 novembre abbiamo voluto in questo modo sottrarci al periodico diluvio di
retorica e affidarci ad iniziative concrete
ed alla forza delle immagini: per
approfondire la conoscenza del nostro
passato; per riflettere sugli errori commessi e sui progressi compiuti; per svi-
«La storia italiana è cambiata brutalmente quel 23 novembre»
La nottata deve passare
Quando saranno passati i giorni della morte e dell’espiazione,
annunciata come una catarsi dal presidente Pertini nel suo
lacerante messaggio televisivo di mercoledì, torneranno i
giorni della vita. Di questo bisogna essere convinti. Noi non
accettiamo l’idea che il cuore del Sud si sia veramente fermato insieme con quelli delle migliaia di suoi figli, uccisi dal terremoto, dall’inefficienza e dell’indifferenza. Il Paese tutto
intero non può accettare l’idea che la calamità naturale e il
cinismo di troppi esponenti della classe dirigente risultino alla
distanza più forti della volontà di resurrezione, che oggi viene
espressa dai giovani accorsi spontaneamente da ogni angolo
della Penisola sui luoghi della catastrofe, dai ragazzi in
uniforme che compiono umilmente il loro duro servizio,
dagli uomini e dalle donne di ogni ceto sociale che in ogni
regione stanno facendo a gara per offrire un segno tangibile
della loro solidarietà, dagli emigranti che sono tornati precipitosamente a casa per seppellire i morti e rianimare i superstiti.
Quando le povere vittime saranno sepolte e i colpevoli avranno pagato, il problema delle terre straziate nel triangolo
Napoli-Avellino-Potenza e del Mezzogiorno nel suo complesso rimarrà per lungo tempo all’ordine del giorno della
nazione. Alle 19.34 del 23 novembre, la terra non ha tremato
soltanto per i derelitti abitanti della Campania e della
Lucania. La terra ha tremato, e continuerà a tremare, per tutti
noi, governanti e governati, ladri ed onesti. La storia italiana è
cambiata radicalmente, brutalmente la sera del 23: più presto
ce ne persuadiamo, meno alto e doloroso sarà il prezzo che
pagheremo. Da domenica sera, la gente del Sud ha perduto la
pazienza. Fosse eredità di una saggezza millenaria o retaggio
di millenaria servitù, il fatto è che laggiù non c’è più rassegnazione. La celebre invocazione di Eduardo (“Adda passà
‘a nuttata”), che fu eliminata polemicamente e profeticamente tre anni fa nella riedizione di Napoli milionaria a Spoleto,
torna valida oggi, ma come una rabbiosa indignazione.
“Adda passà ‘a nuttata” questa volta significa che la notte
deve passare; che non ci saranno più benessere e democrazia
in Italia se il capitolo del terremoto nel Mezzogiorno tornerà
a chiudersi, come i cento capitoli drammatici che lo hanno
preceduto, con una alzata di spalle. Se non si capisce questo,
non si è capito nulla di quanto sta accadendo a sud del
Garigliano, e si preparano al Paese giorni assai più amari di
quelli finora vissuti.
Per placare questa collera, ciò che si chiede, ciò che si pretende dalla classe politica – opposizione e sindacati compresi – è
un grandioso sforzo di volontà, di fantasia, di concretezza.
La notte del Sud può passare soltanto se la tragedia del terremoto viene assunta come una piattaforma di lancio per un
progetto di ricostruzione di ampio respiro. Lasciamo stare il
Belice, il cui ricordo pure noi abbiamo evocato per primi. A
questo punto, non basta più neppure evitare che quell’infamia
si ripeta; procurare semplicemente che i soccorsi immediati e
gli stanziamenti futuri si inquadrino in un serio piano di ricostruzione, confluendo esclusivamente nelle zone e a vantaggio dei terremotati. A questo punto, siffatta elementare esigenza di correttezza non può essere più considerata sufficiente. Il Sud esige un programma globale, vasto, profondo e di
esecuzione rapida, per restituire non solo case e lavoro a chi
ne è rimasto privo, ma una ragione di esistenza attiva e partecipe di tutte le regioni meridionali.
Il segnale di questo programma deve essere forte, deve essere
avvertito chiaramente, deve recuperare la fiducia e l’entusiasmo di quelle popolazioni, non importa quali e quanti sacrifici possa comportare per il resto del Paese.
Antonio Ghirelli
“Corriere della sera”,
30 novembre 1980
luppare la cultura della protezione civile e
della solidarietà; per riprendere il confronto e l'iniziativa per un futuro migliore - più
giusto e sicuro - per la provincia di
Avellino, il Sud, l'Italia”.
Quale è il legame tra la nuova mostra
fotografica e la ricerca sul terremoto
dell’80 nel giornalismo e nella letteratura che, nel 2006, si è concretizzata nel il
libro “19.35: scritti dalle macerie”, edito
nel 2006 da Laceno?
“Lo spirito e l’obiettivo sono analoghi:
raccogliere e salvare documenti, spesso
rari e preziosi, per farne elementi di conoscenza per i più giovani e di rinnovata
riflessione per chi il 23 novembre l’ha vissuto”.
Perché un’antologia come “19.35”, con
tanti testi d’autore (Moravia, Sermonti,
Rea, Pomilio, Scalari, Stajano,
Montanelli, Della Terza, La Penna ecc.),
è uscita solo venticinque anni dopo il
sisma?
“La risposta è semplice: prima abbiamo
vissuto in tanti, a vario titolo, la fase della
“partecipazione” (nel mio caso, ad esem-
pio, con un impegno giornalistico costante), poi della “rimozione”. Ritengo che un
quarto di secolo, o un trentennio, il tempo
di una generazione, sia un arco cronologico sufficiente per cominciare a riflettere
con distacco e senso della prospettiva storica su un evento - il sisma del 23 novembre
'80 - che ha segnato in misura decisiva la
parabola discendente della Prima
Repubblica e, più in generale, la storia
recente d'Italia. Per una riflessione collettiva di elevato profilo, allora, occorre ripartire dalle origini, da quella luminosa e poi
tragica sera di novembre. E dai resoconti e
dalle analisi "a caldo" che nei giorni dell'emergenza - e delle scelte per la ricostruzione - ci hanno consegnato alcuni dei maggiori intellettuali e scrittori, in uno slancio
di mobilitazione e di impegno mai più
eguagliato, forse, dal giornalismo italiano”.
Quale è il valore, politico e letterario, di
questi testi, trent’anni dopo?
“Molti di questi interventi, a rileggerli oggi,
conservano intatta la loro forza di denuncia
e insieme di proposta, prefigurando altresì,
non di rado, gli scenari futuri. Neppure agli
osservatori più critici, tuttavia, riuscì allora
di immaginare il livello di corruzione e di
malgoverno, di sperperi e di scempi
ambientali, perpetrati negli anni ’80 da
politici del Sud e imprenditori del Nord, da
costruttori d’assalto e tecnici rapaci. Anche
per questo, la mobilitazione collettiva degli
scrittori ed artisti italiani in favore delle
popolazioni dell’Irpinia, dell’Alto Sele e
della Basilicata finisce per caratterizzarsi
come l’ultima grande stagione della cultura
meridionalista in Italia”.
Dalla letteratura al cinema. Tu sei stato
il primo ad analizzare l’eco dei terremoti, soprattutto del 23 novembre ’80, nel
cinema italiano, a cui è dedicata una
sezione del convegno nazionale
dell’Airsc (associazione italiana per le
ricerche di storia del cinema), giunto
alla nona edizione, che si è aperto lunedì
all’Accademia di Belle Arti a Napoli e si
concluderà venerdì 26. “Quaderni di
Cinemasud” è uno dei partner
dell’Airsc e tu uno dei componenti del
comitato scientifico: quali novità e “scoperte” ti aspetti da queste giornate di
studio?
“Ci saranno relazioni di importanti storici
di cinema e proiezioni di film rarissimi, ad
esempio sul terremoto di Messina. Agli
incontri di Napoli abbiamo inoltre invitato
due autori di rilievo nazionale con origini
irpine. Oggi alle 15.00, nella ricorrenza del
trentennale del sisma, il regista Michele
Schiavino, originario di Calabritto, presenterà due titoli apprezzati dalla critica:
Cratere, un corto del 2000 con musiche di
Paolo Fresu, e A piena voce, basato su
un’intervista esclusiva a Carmelo Bene in
occasione della sua Lectura Dantis a
Salerno, nei giorni dell’emergenza, in
segno di solidarietà alle popolazioni terremotate.
E mercoledì 23, alle 16.00, Franco
Arminio presenterà in anteprima Giobbe a
Teora, un video di 18 minuti su una delle
vicende umane più struggenti ed emblematiche del 23 novembre ’80. Ed è interessante notare il ritorno di tanti giovani documentaristi nelle zone del cratere. Accanto
ad altri filoni di ricerca (il nuovo cinema
italiano, gli autori dei Paesi in via di sviluppo, la storia del Neorealismo, gli scrittori e
il cinema) il discorso su cinema e terremoto vede impegnato da tempo gli studiosi e i
collaboratori di “Quaderni di Cinemasud”,
e contiamo di approfondirlo in un numero
speciale, con interventi di critici autorevoli
e di giovani studiosi, all’inizio del 2011”.
Paolo Speranza
Cinque anni dopo, l’inaugurazione del nuovo impianto
Uno stadio grande come la città
E tutt’intorno i prefabbricati
Tutto è pronto per la grande
festa.
Oggi ad Avellino si inaugura lo
stadio «dei cinquantamila»
ottenuto con l’ampliamento del
vecchio Partenio.
La premiata ditta del cavalier
Rozzi, specialista in campi
sportivi (ora lo attende San
Siro: tutta un’altra impresa) ha
fatto le cose in grande, lavorando giorno e notte per dare
all’Irpinia uno stadio internazionale.
Lo stadio è davvero bello, con
la nuova tribuna stampa, la
pista di atletica, l’impianto di
illuminazione e diecimila posti
in più nella curva nord. È forse,
per densità di popolazione, lo
stadio più grande del mondo:
può contenere quasi tutta la
popolazione della città e un
decimo di quella della provincia. Col nuovo stadio, Avellino
sarà una delle sedi dei mondiali
del 1990, e ospiterà forse una
delle prossime amichevoli della
Nazionale: un risultato fortemente voluto dalla Dc di De
Mita.
Il primo cittadino, il democristiano Enzo Venezia, demitiano
«doc» che ama definirsi «il sindaco-tifoso», ha vegliato con
impegno certosino sull’esecuzione dei lavori, consapevole
che in città il calcio, sul piano
elettorale, conta più del buon
governo.
Lo spettacolo del nuovo
Partenio è una contraddizione
stridente, fisica: a due passi
dallo stadio, su due lati, è in
scena da cinque anni uno spettacolo diverso, quello dei prefabbricati leggeri dove abitano
le famiglie dei senzatetto dal
terremoto dell’80. Molti nuclei
familiari di quattro o cinque
persone vivono ancora in
alloggi (si fa per dire) di
diciotto metri quadrati.
Sono 460 baracche per tremila
persone, alcuni abusivi, altri
terremotati dal 1980, tutti in
attesa di una casa. Cinque
amministrazioni a guida Dc
non sono riuscite a portare a
termine il piano della prefabbricazione pesante, affidato
alle ditte Feal e Volani. Dei
mille alloggi da consegnare
entro il 1983 neppure la metà è
abitata, gli altri non saranno
completati che entro la fine del
1986, in alcuni quartieri i lavori non hanno neppure avuto
inizio.
Sono le cifre di un fallimento
politico e amministrativo, che
si è intrecciato a gravi episodi
di speculazione.
Un incredibile gioco di coincidenze vuole che, in concomitanza con l’inaugurazione
dello stadio e alla vigilia del
quinto «anniversario» del terremoto, si celebri in questi
giorni il processo di appello a
politici, tecnici e costruttori
condannati per lo scandalo dei
prefabbricati pesanti, con in
testa l’ex sindaco e segretario
provinciale (demitiano anche
lui). E fra qualche mese il pro-
cesso sul caso Cirillo potrà
forse rivelare le responsabilità
politiche al livello più elevato,
che secondo i magistrati avellinesi sono ancora tutte da chiarire.
I soldi della ricostruzione sono
serviti per nuovi progetti nell’ordine di miliardi: lo stadio,
il palasport, l’autostazione.
Non parte invece l’opera di
recupero e risanamento delle
zone colpite dal sisma, il centro storico e il corso Vittorio
Emanuele. (…)
In questa situazione la Dc conserva il potere più per debolezza degli altri partiti che per
capacità proprie. La maggioranza di pentapartito (l’unica
in provincia) è sempre sul
punto di sfasciarsi: non c’è
seduta consiliare che non registri momenti di tensione fra la
Dc e il Psi e il Psdi, afflitti a
loro volta da problemi interni.
(…)
Gli anni dell’attesa stanno però
per finire. Avellino è chiamata
in questi mesi a scelte decisive
alle quali non può sottrarsi. Ma
i suoi governanti intanto
addormentano il gioco, per
dirla nel gergo del pallone. E
domani saranno tutti in prima
fila, sugli spalti, a raccogliere
la propria razione di applausi:
il sindaco-tifoso Venezia, il
capogruppo senatore Mancino,
Ciriaco De Mita…
Paolo Speranza
Da “l’Unità”,
27 ottobre 1985, pag.3
Ottopagine
Martedì 23 novembre 2010
XV
GLI EFFETTI DELLA RICOSTRUZIONE E DELLO “SPAESAMENTO” IN UNA RICERCA ANTROPOLOGICA
Nuova Bisaccia
è un altro paese
Nelle interviste ai residenti il disagio per un posto che non riconoscono - «Io quando esco
vado sempre al vero paese» - La contesa per le feste di Sant’Antonio e del Corpus Domini
Nel 1999, quando ero ancora
studente di sociologia
all’Università degli studi di
Salerno, ricevetti la proposta di
partecipare ad un progetto di
ricerca di taglio socio-antropologico sull’Irpinia, denominato
HIRPUS (Hiht Integration
Research Project for Unfolding
Societies), finanziato dal
Ministero dell’Università e
della Ricerca Scientifica e
Tecnologica. Il programma di
indagine si sviluppò nell’arco
di tre anni seguendo due
macro direttrici: la prima fu
costituita dal progetto
“Middletow” che si proponeva
di analizzare gli effetti del
sisma dell’80 e dei successivi
interventi di ricostruzione
sulla società irpina, la seconda
macro-direttrice invece, intitolata reti della “memoria”, consisteva in un progetto articolato
in due distinte sezioni
“Mnemosyne” e “Clio” che
intendevano concentrare l’attenzione sulle componenti culturali del territorio irpino e
delle identità comunitarie e
sociali che lo caratterizzavano.
Presi parte ad entrambi i programmi di ricerca entrando
nell’equipe coordinata dall’antropologo Marino Niola, con
l’incarico di rilevatore dati
quantitativi-qualitativi. Insieme
ad Ilaria Di Gaeta, concentrammo la nostra attenzione sul
paese di Bisaccia, al quale
rimasi molto legato anche
dopo il periodo di ricerca con
il centro Guido Dorso.
Continuai per altri tre anni i
miei sopralluoghi poiché dall’esperienza di “campo” emersero interessanti spunti di riflessione sugli effetti del terremoto
nelle comunità irpine. Bisaccia
catturò il mio interesse in
quanto poteva ben rappresentare la portata di un evento
sociale così drammatico che
rappresenta allo stesso tempo
un fatto naturale e culturale.
Per una serie di motivi di ordine geologico, non fu possibile
procedere ad una ricostruzione del paese, né tantomeno
legare il nuovo impianto abitativo al vecchio insediamento, e
così fu ampliata una zona agricola, a circa 1,5 km dal vecchio
paese, già interessata da una
riconversione urbana durante
il regime fascista, a seguito
sempre di un altro sisma avvenuto negli anni ‘30. Alla mia
curiosità si presentava un
paese diviso in due insediamenti abitativi e già nei primi
sopralluoghi rimasi molto colpito da alcuni aspetti linguistici
che la popolazione utilizzava
rispetto alla delocalizzazione
del paese. Da una parte infatti,
il paese “vecchio” veniva chiamato Bisaccia, e dall’altro il
nuovo insediamento, a sud
delle Colline Serroni, chiamato
invece “piano”. Gli abitanti di
Bisaccia utilizzavano il termine
lu chiano per indicare il nuovo
contesto abitativo, impiegando
talvolta la variante “piano regolatore”, una zona che fu
costruita, come ho già detto
nel 1930. Per gli scienziati
sociali, ed in particolar modo
per gli antropologi, la scienza
del linguaggio e le riflessioni
dei linguisti, hanno costituito
un campo d’interesse, un
luogo privilegiato dello scambio e del confronto tra le due
discipline. La costruzione retorica dei sistemi linguistici
esprime, oltre alla disposizione
sistematica di elementi, anche
una componente semantica
dei processi cognitivi. In questo dibattito, l’antropologia e la
linguistica riflettono sui rapporti tra lingua e pensiero, lingua e cultura, lingua e società.
Le abitudini linguistiche allora,
hanno una certa influenza sulla
percezione e sulla costruzione
sociale del modo esterno. In
questo senso le formule linguistiche adottate per denominare il paese nuovo sono una
sorta di sintesi complessa che,
nel combinare e nel comprendere gli elementi spaziali, attribuiscono ai termini linguistici
una densità simbolica, rappresentano dei commenti, delle
interpretazioni in cui si articolano i discorsi “parlati” sullo
spazio. Nello spazio vengono
lanciati degli indizi che richiamano per analogie, una mappa
più ampia che permette agli
individui di fare “mente locale”
(F. La Cecla, 1995), utilizzando
termini tecnici sedimentatisi
lungo tutto il periodo della
ricostruzione. A determinare
ancora di più la mia riflessione
lungo questo percorso furono
una serie di fattori emersi
durante gli anni di ricerca. Di
seguito proverò ad argomentarli ovviamente non potendo
dare conto in questa sede, dell’ampia problematicità di tale
fenomeno e delle conclusioni
più generali, dunque circoscriverò le mie riflessioni ad alcuni
aspetti emersi durante la ricerca empirica. Il mestiere dell’antropologo, prima di tradursi in
un sapere che fonda teorie e
modelli, consiste innanzitutto
nell’osservazione particolareggiata dei luoghi e dei soggetti
“oggetti” della propria indagine. Volendo richiamare la
riflessione, del grande antropologo del novecento Cluaude
Lévi-Strauss, sulla esperienza a
Campos Novos e sulle implicazioni della ricerca etnografica
(benché oggi ci sia un grosso
dibattito interno alla disciplina
sulle ben più vaste implicazioni di questa pratica), gli antropologi devono “alzarsi all’alba,
restare svegli finchè l’ultimo
indigeno non si (sia) addormentato e anche, a volte, spiare il suo sonno; fare il possibile
per passare inosservato essendo sempre presente; tutto
vedere; tutto ricordare; tutto
notare, fare uso di una discrezione umiliante, mendicare le
informazioni (…), tenersi pronto per approfittare di un istante di compiacenza o di trascuratezza; oppure per giorni interi saper frenare ogni curiosità e
appartarsi nella riservatezza
imposta da un cambiamento di
umore della tribù (…). Nella
speranza di ritrovare un contatto così duramente guadagnato, aspettiamo, passeggiamo, giriamo a vuoto; rileggia-
mo le vecchie note, le ricomponiamo, le interpretiamo,
oppure ancora ci imponiamo
un compito minuzioso e vano,
vera caricatura del mestiere,
come quello di misurare la
distanza fra i focolari e catalogare uno per uno i rami adoperati per la costruzione delle
capanne”(C. Lévi-Strauss,
1960). L’antropologo prima di
osservare strutture politiche,
economiche e sociali, interagisce con le persone, le segue, le
guarda a distanza, la ricerca
sul “campo” è prima di tutto
un’esperienza sinestetica nel
quale vengono coinvolti tutti e
cinque i sensi, egli oltre a guardare, ascolta, annusa, degusta, tocca. Il ricercatore allora
deve fare i conti con uomini e
donne “reali” che fanno cose
“reali” come: parlare, pregare,
mangiare, incontrarsi, camminare, ridere, piangere, organizzarsi, costruire e produrre
cose. Quando arrivai a
Bisaccia notai, all’ingresso del
paese nuovo, lu chiano, una
insegna luminosa di un bar
che divenne in seguito per me
motivo di riflessione più
ampia. Il testo dell’insegna
recitava così “Bar Nuova
Bisaccia”. Questo elemento
entrava in diretta relazione con
i dati e le osservazioni che
andavo accumulando durante
i mie soggiorni. Infatti la scelta
del gestore di denominare così
il bar, per quanto poteva essere addebitata ad una preferenza di tipo casuale, non lo era
invece rispetto alle logiche che
mi ero prefissato di indagare.
La formula utilizzata “Nuova
Bisaccia” implicava una sottile
ed al tempo stesso sofisticata
valutazione linguistica e culturale. La composizione della
frase “Nuova Bisaccia” è diversa dalla formula “Bisaccia
Nuova”. Invertendo i valori
della sintassi s’introduce un
cambiamento semantico della
proposizione.
“Bisaccia
Nuova” infatti suggerisce la
rifondazione di Bisaccia nello
stesso luogo, nello stesso
posto, nel senso che al vecchio
si sovrappone un ex-novo,
mentre “Nuova Bisaccia” sottolinea, lo spostamento in un
altro sito, suggerisce l’idea di
una Bisaccia ricostruita ma,
spostata in un altro luogo, per
l’appunto delocalizzata. La
denominazione del bar con
l’inversione del sostantivo e
dell’aggettivo mi permetteva di
leggere la storia degli spazi
urbani e di come questi venivano percepiti dai bisaccesi.
“…il nostro intelletto è idoneo
ad avere a che fare, in primo
luogo, con lo spazio e si muove
con estrema facilità in questo
mezzo. Da qui viene che il linguaggio stesso diventa spazializzato e poiché la realtà è rappresentata da un linguaggio, la
realtà tende ad essere spazializzata” (G. Miller, 1976). Le
mappe mentali degli abitanti di
Bisaccia sembravano contese
tra una famiglia di spazi irrimediabilmente separati. Questa
condizione emerge chiaramente anche tra le interviste compiute in paese: “Io personalmente qua la uso (la casa)
come un dormitorio, se devo
uscire sul piano regolatore no!
Faccio la spesa e poi rientro,
fare la passeggiata non mi va,
voglio andare giù al paese vecchio” ed ancora “Qua (al
“piano regolatore”) abbiamo
preso l’abitudine d’incontrarci
quattro cinque ragazze e scendere con un genitore, o a passaggio. Ci mettiamo al bar
dopo l’ITIS, lungo quella strada
e aspettiamo qualcuno che
conosciamo”. “Il pomeriggio,
alle sei, dopo studiato scendo
al paese vecchio, in piazza
Duomo, perché lì ci sta l’incontro di tutti i ragazzi”. Il “piano
regolatore” non riesce ad
avere un suo centro, per tutti il
centro è “giù nel paese”. Lu
chiano è considerato dai bisaccesi come l’antitesi di Bisaccia,
il paese vecchio viene indicato
come il “vero paese”. A confermare questa percezione dualistica sono le informazioni che
affiorarono dalle interviste
relative alle feste religiose del
paese, dalle quali emerse
un’interessante contesa che
divenne il nucleo d’interesse
della ricerca, tanto che negli
anni successivi mi organizzai
per seguire con la telecamera
questi eventi religiosi. Le festività che destarono la mia
curiosità scientifica furono la
festa di S. Antonio e quella del
Corpus Domini. Dai questionari e dalle interviste risultò che
la festa più sentita in paese era
quella di S. Antonio, tutti gli
intervistati facevano riferimento ad essa quando gli si richiedeva di indicare la festa religiosa più importante. Queste due
feste si sono sempre svolte nel
paese vecchio e per questa
ragione, il parroco del “piano”
col tempo sottolineò la necessità di celebrare alcuni culti
religiosi anche nel nuovo
paese, evitando di concentrarli
nel paese vecchio, per giunta
in buona parte disabitato.
La contesa aprì un grosso
dibattito tra le due parrocchie
e tra i membri della congrega
di S. Antonio. Inoltre il prete
del “piano” mosse alcune critiche riguardanti le modalità dei
festeggiamenti per il Santo
patrono mettendo in discussione alcuni aspetti del rituale
“…lui dice che sono feste
pagane, sta insistendo con il
vescovo perché dice che non
c’è bisogno di portare la statuina in giro e di offrire l’oro, tutte
queste devozioni a che
servo?”. “Praticamente vogliono far morire questo paese,
questo prete sta lottando per
portare pure Sant’ Antonio qua
ma, la confraternita si è ribellata, e per quest’anno i festeggiamenti si sono tenuti ancora nel
paese vecchio. Poi non lo so
che succederà il prossimo
anno”.
Per approfondire questa vicenda incontrai i membri della
confraternita, i quali smentirono le voci di un eventuale spostamento della festa del Santo
sul “piano”, sostenendo che il
luogo dei festeggiamenti “non
può assolutamente essere
messo in discussione”.
Confermarono però l’accordo
raggiunto tra le due parrocchie
sui festeggiamenti del Corpus
Domini, che prevedeva lo svolgimento a rotazione della processione, un anno si sarebbe
svolta al paese vecchio e quello successivo al “piano”. Il sentimento religioso comune
riscontrato tra i bisaccesi era
tutto rivolto al Santo patrono.
“Sant’Antonio è Sant’Antonio
ma, il Corpus Domini è pure
una grande festa” ripetevano. Il
culto del Santo resta, in questa
prospettiva, più importante
del Corpus Domini, mentre la
festa più importante della
Chiesa, perché festa del
dogma, resta sullo sfondo “…è
pure una grande festa”. Difatti
se è stato possibile spostare la
processione del Corpus
Domini ogni due anni al
“piano”, per la festa di S.
Antonio l’intenzione è quella di
lasciarla al paese vecchio.
Il dato più interessante di questo spostamento annuale furono le modifiche che il prete del
“piano” introdusse nella funzione. In particolare la sostituzione di alcuni canti, le modalità di procedere in processione dei fedeli, l’abolizione dell’accompagnamento musicale
della banda, il divieto per i
membri della confraternita di
S. Antonio di indossare e portare simboli della associazione
religiosa. Pertanto, negli anni
in cui ho seguito le processioni
del Corpus Domini a Bisaccia,
ho assistito a due modi di concepire ed eseguire la funzione
processuale, dove il cambiamento di location della processione implicava il cambiamento dell’impianto normativo e
prescrittivo della processione
stessa.
Mentre nel paese vecchio il
corteo religioso era caratterizzato da una serie di elementi
quali, la forma binaria assunta
dai fedeli che costituivano due
lunghe fila all’estremità della
strada e la presenza della
banda che accompagnava la
processione, “al piano regolatore” invece la cerimonia muo-
veva senza la banda, il corteo
procedeva compatto “come
una unica famiglia”, le autorità
civili a differenza della processione nel centro storico, dove
occupavano un posto ben preciso nella gerarchia del corteo,
qui si confondevano tra la
“folla in cammino”. Mentre
nella processione che si svolgeva giù, al paese vecchio, la
congrega di S. Antonio formava con tutti i suoi membri un
ordinato spezzone, al piano
regolatore procedevano invece senza le tuniche e senza
gonfaloni. Al “piano” non si
cantava la canzone “ti adoriamo ostia divina”, mentre al
paese vecchio erano i versi
più intonati durante la cerimonia. Questa connessione dinamica tra senso, spazi e poetiche sociali permetteva agli
stessi attori “festivi” di essere i
protagonisti di due diverse
performance religiose, lo spostamento spaziale della processione era accompagnato
da una ridefinizione delle pratiche.
Le modifiche riportate alla
processione del “piano” propongono un superamento ed
uno snellimento delle pratiche
devozionali, introducendo
un’organizzazione intorno al
sacro depurata ed alleggerita
dai sincretismi che molto
spesso il rito cristiano incorpora.
Negli anni in cui svolsi l’indagine etnografica non mi limitai a
frequentare Bisaccia nei soli
giorni delle processioni bensì,
instaurai un rapporto con il
mio “campo di ricerca” continuato e reiterato nel tempo,
mi interessò riflettere sul sistema festivo, nel suo complesso
dispiegarsi tra i gruppi e gli
individui che partecipavano
alle costruzioni di una serie di
significati e proiezioni simboliche. Ho avuto modo di assistere a diversi funerali dove
osservai la “messa in scena”
dello stesso meccanismo
oppositivo utilizzato nelle
occasioni della festa del
Corpus Domini. Quando moriva un membro della congrega
di S. Antonio ed abitava nel
centro storico, il corteo funebre era aperto dai fratelli della
congrega. L’associazione religiosa era ufficialmente presente con gli abiti ed i simboli del
gruppo. Quando invece il
defunto abitava sul “piano
regolatore” al funerale la confraternita si presentava in via
ufficiosa, senza i simboli di
appartenenza del gruppo religioso del paese.
In questo senso “da bsazza a
lu chiano, da lu chiano a bsazza” è la strada percorsa, in
questo pezzo d’Irpinia dal progetto della modernità, una
strada a doppio senso in cui si
danno la spola i caratteri del
cambiamento sociale e le
modalità in cui Bisaccia ed i
suoi abitanti sono coinvolti
nell’incessante rapporto tra
tradizione e modernità, tra
continuità e mutamento.
Ricordo con grande affetto e
con un certo debito critico e
riflessivo un SMS inviatomi da
un mio informatore “Ciao, che
fai oggi, vieni a Bis?”.
Carlo Preziosi
antropologo