Erano i tempi in cui il Po era delle barche

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Erano i tempi in cui il Po era delle barche
IN BARCA E PER SEMPRE
La testimonianza di Giovanni Forza di Corbola, uno degli ultimi marinai del Po.
Erano i tempi in cui il Po era delle barche. Ce n’erano tante: burchi, gabare e qualche
bucintoro. Non molti anni fa, comunque. Se è vero che una delle testimonianze scritte più
antiche è rappresentata da Evangelista Forza, Patron di Nave delle Corbole sul Po che
trasportava panni, sale e frumento da Ferrara a Venezia e che scrive al Duca Ercole per
avere la rinomata cittadinanza adriese, le acque del fiume hanno accarezzato le nostre
barche fin dopo la metà dell’ultimo tormentato secolo. Ma com’era, poi, che s’iniziava a
fare il barcaro? Innanzitutto, la professione era di casa: interi paesi, per esempio Corbola,
erano abitati essenzialmente da barcari. Ho iniziato a fare il moré, cioè il mozzo, da
piccolo. Proprio da questa parola viene l’appellativo confidenziale “moro”o “moretto”. Mi ci
mandarono nei tre mesi di vacanza da scuola tra i sei e i sette anni, e per quella prima
volta non ebbi impegni. L’anno successivo, invece, come tutti, dovetti darmi da fare, anche
perché, come si diceva, “se vanno male le cose, è colpa del moré”. Il moré era il più
giovane e il più occupato. Puliva la barca con una spónga, una vera spugna di mare,
lavava i piatti, andava a tirare con la séngia, la cinghia, la barca stessa, quando la corrente
non bastava, cercava, spesso invano, di non bruciare il caffè mentre veniva chiamato: “Va
a lavare in tèra…, va a tirar la corda in tèra…, salta in batelo, tìral’ su, issa la vela ..”. Chi
riusciva gestire tutto nel miglior modo, magari procurandosi un po’ di nafta o olio presso
un rimorchiatore per aiutarsi in cucina, faceva strada. A volte, verso Comacchio, dove la
nostra barca polesana ricordava comunque Venezia, venivo provocato: “Barcaro, gato el
gato sottocoperta?”, con allusione al più maestoso leone.
Diventavamo barcari effettivi finite le scuole, non molto tardi quindi, dopo la quinta, perché
pochi frequentavano la sesta…s’andava in barca e per sempre.
E dove s’andava? Dopo che l’inverno, a
partire dalle feste natalizie, ci aveva
trattenuti, anche per permettere alla barche
di essere riparate negli squeri di Adria (si
ricordino i cantieri Duò, artefici dei magnifici
Tesio e Gilberto), Ponte delle Fornaci, Volta
Grimana, Brondolo e Choggia, si ripartiva. In
primavera iniziavamo a trasportare le pietre
dalle fornaci di S. Maria, Villanova,
Panarella, Bottrighe e Corbola ai cantieri di
Venezia o per i trabaccoli destinati all’Istria.
Da
Venezia,
successivamente,
conquistavamo la laguna intera: Brondolo,
Porte Grandi, su per il Sile fino a Casier o Treviso, per caricare la ghiaia con cui ancora
facevano le strade. A fine Giugno eccoci con il frumento di Pontelagoscuro, Crespino,
Villanova alla volta di Venezia o Silea a vantaggio del tuttora esistente Mulin de’ Stucchi.
Con le barbabietole, invece, avevamo il nostro bel daffare su per l’Adigetto, dove si
andava a remi, visto che i cavalli si trovavano solo a Punta Stramazzo, e lì altro che callo
del marinaio ci veniva, a forza di spingere col remo tra la spalla e il braccio.
Chissà perché, ma i nostri remi non
sono mai diventati “ali al folle volo”. La
barca andava su, finché l’Adigetto era
navigabile, sopra Ca’ Emo. Là
caricavamo bietole e tornavamo per
Fasana, Botti Barbarighe, Passetto,
fino a Forcarigoli. A volte abbiamo
anche provato percorsi alternativi, io e
i miei. Poi c’era il riso, da Camerini,
Ca’ Dolfin, o Bonelli, su per il Po di
Tolle, che portavamo alla Curtiriso di
Adria o a Venezia, ancora. Abbiamo
avuto anche carbone, raccolto ad
Adria. È per tutto questo tempo via dal
paese possiamo dire che le barche
erano le nostre case, anche se noi barcari abbiamo sempre pensato di essere come dei
nomadi. Una volta “Padron di Nave”, depositavamo il nome alla Capitaneria, ma le
decorazioni erano a nostro gusto. Le vele di cotone gialle, rosse e bianche erano il
risultato di un bagno in acqua salata e residui di pittura. Inoltre, in alto, sulla vela di prua, i
Comacchiesi portavano S. Antonio o Maria Vergine, a Corbola si aveva un Sole nascente
o una Scala che si innalzava al Paradiso, come le nostre speranze. Qualche corbolano
esibiva sulla vela una bella Madonna: si trattava di un affare fatto a Venezia, quando i
trabaccoli dismettevano le loro. E che dire degli occhi delle navi, quei disegni simmetrici
sulla prua, come a guardare avanti e a proteggerci, come le antiche polene? Io, sulla
nostra, da piccolo, ci disegnai una stella, col compasso, anche se di norma le stelle erano
a Comacchio. A Corbola c’erano i rombi, a Contarina c’erano i rettangoli, a Cavarzere i
leoni alati e a Battaglia Terme i rettangoli arrotondati.
Sulla barca vivevamo come e più che a casa. C’era una cucina, che serviva anche da
riscaldamento dove si facevano un paio di pezzi di lardo che, se avevano un’”ombra” di
carne, erano una ricchezza, del baccalà, cipolle col riso e riso in generale. Chi era
fortunato poteva scambiarlo con un paio di pàssare o dei bisati, e se si era dalle parti di
Boccasette magari con un magasso. Non essendoci frigo, si serbava il minimo
indispensabile, appendendolo alle sartie o, nel caso di possibili furti, avvolto in una rete
sottocoperta per difenderlo da insetti e topi. Questi erano gli sgradevoli compagni di
viaggio di quando ci ficcavamo completamente vestiti sotto tre coperte e ci buttavamo
addosso tutto, anche le vele appena ammainate, per tenere lontano il freddo e i richiami
notturni della nebbia silenziosa, cullati, un po’, dal dondolio perenne dello scafo. Ma questi
sono, parafrasando il poeta d’Irlanda, memorie, nient’altro che memorie.
Giovanni Forza con l’intervistatrice
Francesca Forza
(Grafica: Giorgia Stocco)