east20_Sulle_ali_del_Leone

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Partire per tornare, viaggiare sull’onda di un respiro più antico, sulle tracce di una vita che
c’era, arrivare ai confini di un sogno, quello di Venezia e del suo mondo, e scoprirne poi mille altri. E sapere di sale e solitudine, incrociare le energie di tanti e la piccolezza di pochi.
Veder scorrere il vento dove volevi e sentire l’amarezza di lasciarti già vagare in questo mondo. Belle parole. Grandi idee. Suggestioni. Nel libro di viaggio di Maurizio Crema “Sulle ali
del Leone”
Sulle ali del Leone
di Maurizio Crema
Olycom
IL LIBRO
uesto è il racconto di un viaggio su rotte
Q
dissoltesi due secoli fa. Come il nostro
stava per finire in vista di Venezia, la sua
mata Iugoslavia – che non accettavo più: la
Storia è andata avanti, la religione non può
più dividere, la pelle, la famiglia, la... possibile
culla, il suo alveo di marmi e acqua.
che possano ancora uccidere?! Poi scoprii che
Da sempre sono affascinato dal mare e dalle
era solo l’inizio di una fine di civiltà. Il rispetfortezze serenissime che spesso lungo
to, la tolleranza, la convivenza che avevamo
l’Adriatico orientale e l’Egeo lo cingono e lo
faticato a costruire dopo una grande guerra e
impreziosiscono. Una passione nata da chissà
il terrore della bomba atomica si stavano disquali letture di bimbo e come un bimbo ho
solvendo alla ricerca di nuove identità e,
cercato di seguirla, scoprendo che questa vec- soprattutto, nuovi poteri. Potere. Dominio.
chia rotta mi svelava sempre nuove scoperte.
Ricchezza. Impossibile scinderli, sarebbe come
A dir la verità, anche antiche tragedie. Ma
estrarre le vene dal marmo. Ci sono, sono
all’inizio c’era solo la suggestione per una sto- umani. Sono spuntati anche nel nostro microria che sentivo anche mia – abito a Venezia da cosmo fatto di legno e vele e umori e odori.
una vita, di fronte ho la chiesa dove è custodi- Figurarsi moltiplicati per un popolo, diverse
ta la tomba di Francesco Morosini, l’ultimo
nazioni, il petrolio. Bosnia, Croazia, Serbia,
grande ammiraglio doge – e l’indignazione per Montenegro, nacque una mitologia di violenza
un dramma – quello delle guerre nella frantu- e sangue che ritornava all’antico, uno specchio
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SULLE ALI DEL LEONE
deformato che poi si sarebbe riflesso anche in
Afghanistan e Iraq, lo scontro di civiltà, di
religioni, di viltà. Bah. C’era però un filo che
univa quei Paesi allungandoli verso l’Albania
e la Grecia, una storia che li accomunava e che
avevano rimosso perché spacciata per fascista:
Venezia. Una storia che avevano accantonato,
nascosto, che anche noi avevamo dimenticato,
sepolta dalle paure verso posti che ci facevano
paura.
La mia passione e la mia ricerca si stavano
diluendo e innervando nella piccola missione
che mi ero dato, navigare nel tempo e nella
realtà per ricordare, capire, riannodare. E far
ritornare l’antico Golfo di Venezia, l’Adriatico,
un ponte tra genti e culture dopo che per un
secolo, l’ultimo, è stato un muro. L’avremmo
tentato di fare con un mezzo antico di comunicazione, la barca a vela, con un gruppo
musicale – le Galere di Fiandra e di Siria –
perché la cultura e le emozioni uniscono; ma,
soprattutto, con noi stessi, antenne e testimoni, viaggiatori e curiosi. Di noi. Di loro.
Non sono un martire, e neanche un santo.
Questi posti, quei mari e quelle coste sono
bellissimi. Solo a scriverlo col sottofondo di
Pearl Jam mi emozionano e mi danno energia,
sono proprio piccole perle che se non riesco a
distillare e se non riusciamo a ricordare
rimangono solo marmellata, uno splatter di
emozioni idiote. Ma ho ancora troppa tensione
e amarezza per riuscire a districare 1300
miglia e cinque settimane e centinaia di facce
in una rotta di parole. Ho paura di affondare,
di naufragare in questa piccola odissea. Di non
riuscire a dare luce ai tanti posti e persone che
abbiamo toccato. Ma forse proprio questa è la
condanna del marinaio: entrare in un porto
come fratello, andarsene con nostalgia, in un
lampo finire in un altro mondo, perdersi la
propria vita per respirare gli odori e i sapori di
tante altre. Faccio fatica anche a stare inchiodato qui, al computer, a quest’àncora che per
ora mi trattiene e non mi fa ancora volare.
Solo la musica riesce a sollevarmi da questo
peso e da questa responsabilità. Che, paradossalmente, mi sembrano ancora peggiori di
quelli che avevo mesi fa quando tutto doveva
essere pronto. E si festeggiava con un varo un
nuovo nome per quella che sarebbe stata la
nostra barca: Brancaleon. Un nome che era
tutto un programma.
La festa era decollata, il gruppo ci dava dentro,
le ballate avevano già il sapore dell’esotico
mentre il vino scorreva placido. La pioggia se
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Forse proprio questa è la
condanna del marinaio:
entrare in un porto come
fratello, andarsene con
nostalgia, in un lampo
finire in un altro mondo,
perdersi la propria vita per
respirare gli odori e i
sapori di tante altre
n’era andata nel pomeriggio, l’organizzazione
era ripartita come una mongolfiera, lentamente, si librava di nuovo nell’aria l’idea di questo
viaggio Sulle Ali del Leone e ora era scoppiata
la festa. Ma c’era bisogno di un varo. Presi la
biondina più carina che c’era a tiro e la trascinai sulla barca della spedizione: un ketch di
tredici metri di quarant’anni fa, appena dipinto di bianco e rattoppato di fresco. “È stata la
prima volta che ho lavorato su una barca
senza tirarla in secca”, aveva appena raccontato un ragazzo riccioluto messo sotto alla bisogna. Una magnum di prosecco e la obbligai a
prua dove stava la vecchia àncora e tutto il
resto. L’isola della Certosa, la nostra isola-base
a due passi da Venezia, era tutta illuminata e
davanti a noi s’era già formato un drappello di
curiosi, l’avvenimento, l’avvenimento.
Giacomo aveva cercato di fermarmi: “Porta
sfortuna, non si fa, non è tradizione”, non ci
badai. Uno, me ne sbatto delle superstizioni
che non sono le mie; secondo, un montanaro
cosa vuoi che sappia... e poi eravamo lanciati e
via. Il problema era la biondina, simpatica,
sorridente, ma con pochi muscoli e nessuna
perizia. Uno, due, tre, quattro tonfi e quel
vetro non voleva rompersi, quel battesimo
non voleva compiersi. La situazione cominciava a essere imbarazzante, vuoi vedere che il
menagramo...
Ci pensò Martina, un incrocio tra una nuotatrice dell’Est e il classico topo da biblioteca,
a spaccare tutto e a dare finalmente vita ufficiale al nuovo nome di questa vecchia barca.
Brancaleon.
IL LIBRO
A posteriori, quando i giochi sono stati chiusi
e ci sono solo i ricordi – e per fortuna ci
sonooooo – quello fu il momento peggiore:
tutti là davanti che aspettavano un vaticinio
dal vate (uno dei miei soprannomi, spesso
allungato con una poco elegante “r”) e noi
appesi a una stupida bottiglia. Non credo proprio che tutto quello che ci sarebbe capitato
dopo sarebbe stato da collegare a quel battesimo sofferto. I problemi erano già in nuce nell’amalgama delle persone e negli obiettivi così
diversi di molti e, principalmente, nella natura
degli uomini e delle cose (molto buddista, eh!
Prima o poi inizierò a fare yoga, per ora mi
limito al mio saluto al sole personale che spesso creò l’ilarità degli astanti, non è facile fare
ginnastica alle dieci di mattina nel porto di
Lesina-Hvar). Comunque, per finirla con questa porzione esoterica, l’unica conseguenza
tangibile di quel varo furono i piccoli vetri
della bottiglia superstiti che per giorni si conficcarono nei miei piedi nudi. Già, perché stare
in barca con le scarpe da ginnastica è molto
sano e intelligente, soprattutto quando piove e
c’è mare brutto , ma fa tanto ragioniere. E io
voglio sentirmi il più libero possibile.
Certo, i segnali di maledizione non si fermarono. Come leggereste il fatto di impiantarsi in
secca a dieci metri dalla partenza? O la rottura
dell’amantiglio del boma mentre eravamo
sopra in tre? Io propongo sempre la spiegazione più naturale: stupidità. Anche perché dei tre
– io, Bruno e la sua fidanzata Fina – sono stato
l’unico a non finire in acqua. Quindi, per me è
stato un colpo di culo.
So che raccontare queste cose farà male a qualcuno dei “miei” skipper, ma non essendo un
alfiere della nautica bensì solo un viaggiatore
accanito e un amante della barca senza complessi di superiorità rispetto a chi cammina o
va in bici (li compatisco solo per la fatica che
fanno), mi permetto di essere anche un po’ ironico, i nostri nonni direbbero che la prendo
con filosofia. Spicciola, per la precisione.
Venezia, una quasi partenza
Maurizio Crema, inviato del “Gazzettino di
Venezia” e collaboratore di east ha all’attivo
reportage dai Balcani, dall’India, dalla Cina e
dal Sud America. Sulle ali del Leone, di cui
pubblichiamo qui il capitolo “Venezia, quasi una
partenza”, è pubblicato da edicicloeditore.
Comunque, quell’alba dell’11 luglio 2006
arrivava dopo ore di lavoro per liberare la
barca di suppellettili inutili, pulire la banchina dai resti dei lavori andati avanti fino a
poche ore prima e riempire la cambusa per
un viaggio che si annunciava lungo –
Venezia-Corfù e ritorno costeggiando
Albania, Montenegro e Croazia – e complicato. Dovevamo infatti arrivare di lì a cinque
giorni all’isola greca meta di tante navi serenissime – 450, 500 miglia – in tempo per
organizzare e supportare il concerto del
nostro gruppo, le Galere di Fiandra e di Siria,
che poi avremmo imbarcato verso il Paese
delle Aquile. E questa era solo la prima delle
ideuzze che ci erano balenate per fare della
nostra impresa e della nostra barca un viaggio veramente per unire.
Comunque, per farla breve, rincoglioniti dal
poco sonno fatto e dalla molta fatica accumulata, impantanati nel canale della Certosa
dalla bassa marea, attendemmo pazienti il
levarsi delle acque e del sole dopo il diluvio
di parolacce che vennero sparate al Cielo in
quei momenti. Per fortuna la giornata si
annunciava bella. In barca eravamo in sette:
io, Bruno (skipper n. 1), Tiziano (skipper n.
2), Giacomo 1 (l’armatore che doveva fare il
regista), Enrico (il cameraman che diventò
montatore ma non riuscì a fare il regista),
Fina (la fidanzata del n. 1), Saverio (l’hombre
de arte con la patente nautica in parte).
Compagnia eterogenea, una vera armata
brancaleonica. Che presto, una volta finalmente partiti, si sarebbe assottigliata.
Verso le sette di mattina, dopo già molti
brontolii, la marea ci liberò da quella scomoda e poco gloriosa posizione. Il motore del
Brancaleon iniziò a borbottare più tranquillo
e noi a respirare di sollievo. Vento nemmeno
a parlarne, ma almeno eravamo partiti.
Venezia, ammorbidita da quella luce limpida
ma ancora tenue, era bellissima, e già mi
faceva nostalgia. Lasciavo molti punti interrogativi e molti altri me ne portavo nel
cuore, ma anche a quello ero abituato.
L’azzardo era il mio mestiere, il problema è
che cominciavo a pensare di non essere l’unico incosciente in quella barca.
Salutammo una classica barca a vela della
laguna, una sanpierota, con al timone un
marinaio d’altri tempi e la barba bianca – lui
sì che ci sapeva fare e si godeva la vita – e ci
dirigemmo un po’ più sorridenti verso
Chioggia, la sorella minore della laguna.