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MICHEL DE MONTAIGNE, Saggi [1571-1580], trad. it. a cura di Fausta Garavini, Arnoldo Mondadori Editore, 1970 Milano, 2 vol. Capitolo XIV – Come il sapore dei beni e dei mali dipenda in buona parte dall’opinione che ne abbiamo (a) Gli uomini (dice un’antica sentenza greca) sono tormentati dalle opinioni che hanno delle cose, non dalle cose stesse. Sarebbe un bel guadagno per il sollievo della nostra miserevole condizione umana, se si riuscisse a rendere vera in tutto e per tutto tale proposizione. Perché, se i mali hanno accesso in noi solo attraverso il nostro giudizio, sembra che sia in nostro potere non tenerne conto o volgerli in bene. […] Se l’essenza originale di quelle cose di cui abbiamo timore avesse potere di allogarsi in noi di sua propria autorità, si allogherebbe uguale e identica in tutti; di fatto gli uomini sono tutti d’una specie e, salvo il più e il meno, sono forniti di uguali utensili e strumenti per intendere e giudicare. Ma la diversità delle opinioni che abbiamo di tali cose mostra chiaramente che esse entrano in noi solo per un accordo, un tale per avventura le alberga in sé nella loro vera essenza, ma mille altri dànno loro un’essenza nuova e contraria accogliendole in sé. […] (c) Che la nostra opinione dia pregio alle cose, si vede da quelle tante alle quali guardiamo non solo per farne stima, ma pensando piuttosto a noi; e non consideriamo né le loro qualità né le loro utilità, ma soltanto il prezzo che ci costano per acquistarle; come se esso fosse parte della loro sostanza; e in esse chiamiamo valore non quello che ci dànno, ma quello che noi diamo loro. Perciò ritengo che siamo grandi amministratori della nostra spesa. […] (c) La fortuna non ci fa né bene né male: ce ne offre solo la materia e il seme che la nostra anima, più potente di lei, volge e applica come le piace, sola causa e padrona della propria condizione felice o infelice. […] (c) Nessuno sta male per molto tempo se non per colpa sua. (I, XIV, 60-61; 78; 85; 86. Ogni riferimento è stato indicato con numeri romani per il libro dei Saggi, con cifre arabe per il saggio specifico, e concludendo con il numero della pagina esatta). Capitolo XX – Filosofare è imparare a morire (a) La meta della nostra corsa è la morte; è questo l’oggetto necessario della nostra mira: se ci spaventa, come è possibile fare un passo avanti senza agitazione? Il rimedio del volgo è di non pensarci. […] (a) Essi vanno, vengono, trottano, danzano; della morte nessuna notizia. Tutto questo è bello Ma quando poi essa arriva, o per essi o per le loro mogli, figli e amici, e li sorprende all’improvviso e alla sprovvista, che tormenti, che grida, che dolore e che disperazione li abbatte! […] (a) E per cominciare a togliergli il suo maggior vantaggio su di noi, mettiamoci su di una strada assolutamente contraria a quella comune. Togliamogli il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo consueto, cerchiamo di non avere niente così spesso in testa come la morte. Ad ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. […] La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. […] (c) Come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose. […] La morte è origine di un’altra vita. Allo stesso modo piangemmo; allo stesso modo ci costò entrare in questa; allo stesso modo ci spogliammo, entrandovi, del nostro antico velo. […] (c) Tutto ciò che vivete, lo sottraete alla vita; lo vivete a sue spese. La continua opera della nostra vita è costruire la morte. […] (c) La vita in sé non è né un bene né un male: è la sede del bene e del male secondo quale voi decidete di accogliere. […] (a) Fate posto agli altri, come altri hanno fatto a voi. […] (b) La morte è da temere meno che niente, se ci fosse qualcosa di meno del niente, multo mortem minus ad nos esse putandum Si minus esse potest quam quod nihil esse videmus1. (c) Essa non vi riguarda né da morte né da vivo: vivo, perché siete; morto, perché non siete più. […] (c) Pensate invero come una vita perpetua sarebbe per l’uomo meno sopportabile e più penosa della vita che gli ho dato. […] (a) I bambini hanno paura perfino dei loro amici quando li vedono mascherati; e così noi. Bisogna togliere la maschera alle cose come alle persone; tolta che sarà, ci troveremo sotto quella stessa morte che un servo o una semplice cameriera sostennero ultimamente senza paura. (I, XX, 105; 109-110; 118-121, 123-124) Capitolo XXVI – Dell’educazione dei fanciulli (a) […] vorrei anche che si avesse cura di scegliergli un precettore che avesse piuttosto la testa ben fatta che ben piena, e che si richiedessero in lui ambedue le cose; ma più i costumi e l’intelligenza che la scienza; e che nel suo ufficio egli si conducesse in una maniera nuova. […] Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta. (c) Socrate e in seguito Arcesilao facevano prima parlare i loro discepoli, e poi parlavano loro. «Obest plerumque iis qui discere volunt auctoritas eorum qui docent».2 1 Montaigne traduce, prima di citarli, questi versi di LUCREZIO, De rerum natura, III, 926-927. «L’autorità di coloro che insegnano nuoce spesso a coloro che vogliono imparare». CICERONE, De natura deorum, I, v. 2 […] (a) Che gli faccia passar tutto allo staccio e non gli metta in testa nulla con la sola autorità e a credito; i princìpi di Aristotele non siano i suoi principi non più di quanto lo siano quelli degli stoici o degli epicurei. Lo si metta davanti a questa varietà di giudizi; se può, sceglierà, altrimenti rimarrà in dubbio. (c) Soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti. […] (c) Chi segue un altro, non segue nulla. Non trova nulla, anzi non cerca nulla. […] Il profitto del nostro studio è esserne diventato più saggio. […] (c) Sapere a memoria non è sapere: è conservare ciò che si è dato in custodia alla propria memoria. […] (a) Non tanto gli insegnino le storie, quanto piuttosto a giudicarle. […] (a) Dal frequentare la gente si ricava una meravigliosa chiarezza per giudicare gli uomini. Noi siamo tutti ristretti e rattrappiti in noi stessi, e non vediamo più in là del nostro naso. Domandarono a Socrate di dove fosse. Non rispose: «Di Atene», ma : «Del mondo». […] (a) È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la filosofia è, anche per le persone di ingegno, un nome vano e fantastico, che non serve a nulla e non ha alcun pregio, (c) sia in teoria sia in pratica. (a) Credo che ne siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi sentieri. Si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato e terribile. Chi me l’ha camuffata sotto questo viso falso, esangue e ripugnante? Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocoso e, direi quasi, burlone. Essa non predica che festa e buon tempo. […] (a) L’anima che alberga la filosofia deve, con la sua sanità, rendere sano anche il corpo. Deve far risplendere anche al di fuori la sua tranquillità e il suo benessere, deve dare la sua impronta, al portamento esteriore e guarnirlo quindi di un’amabile fierezza, di un’aria attiva e allegra e di un atteggiamento soddisfatto e bonario. […] (a) togliete tutte quelle sottigliezze spinose della dialettica, da cui la nostra vita non può trarre profitto, prendete i ragionamenti semplici della filosofia, sappiateli scegliere e trattare opportunamente: sono più facili a capirsi di una novella di Boccaccia. Un fanciullo ci cresce, fin dalla più tenere età, assai più che a imparare a leggere o a scrivere. La filosofia ha ragionamenti adatti all’infanzia degli uomini come alla loro decrepitezza. […] (a) Per il nostro ragazzo, una camera, un giardino, la tavola e il letto, la solitudine, la compagnia, il mattino e la sera, tutte le ore saranno uguali, tutti i luoghi gli serviranno di studio; infatti la filosofia, che, in quanto formatrice degli intelletti e dei costumi, sarà la sua principale lezione, ha questa prerogativa di mescolarsi ovunque. […] (a) Ecco le mie lezioni. (c) Ne avrà meglio profittato chi le mette in pratica che chi le sa. Se lo vedete, l’udite; se l’udite, lo vedete. […] (c) Il vero specchio dei nostri ragionamenti è il corso della nostra vita. […] (a)Per tornare al mio discorso, non c’è che da secondare il desiderio e l’amore, altrimenti non si fanno che asini carichi di libri. A colpi di frusta gli si dà in custodia la loro sacchetta piena di scienza, che, per far bene, bisogna non soltanto riporla in sé, bisogna sposarla. (I, XXVI, 196-200; 206-207; 212-213; 215-217; 222-223; 236)