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A proposito di ‘Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete’
CARLOS LÓPEZ CORTEZO
Nel terzo trattato del Convivio Dante definisce la filosofia come «uno
amoroso uso di sapienza» (Convivio III, XII, 12). È vero che l’amore alla
sapienza appartiene alla definizione della filosofia, nonché alla sua etimologia, e che filosofo è chi ama la sapienza o, in parole di Dante, un «amatore di sapienza» (Convivio III, XI, 5). Fin qui, quindi, nulla di non saputo.
La novità la troviamo, forse, quando identifica la sapienza con il corpo
della Filosofia (Convivio III, XIV, 1), un’identificazione che costringe ad
intendere la citata definizione di filosofia come «uno amoroso uso» del
suo “corpo”. Una visione, quindi, fortemente sessuale, specialmente se
si considera che a personificare la filosofia è una donna, verso la quale,
secondo ciò che racconta nella Vita nova, prova dei sentimenti amorosi
certamente non freddi, tanto da fargli tralasciare Beatrice. Che con questa
donna abbia voluto rappresentare la filosofia, come dice nel Convivio,
non ho il benché minimo dubbio. Il fatto che la presenti affacciata a una
finestra, tra l’altro l’unica finestra che figuri nel libello, confermerebbe
questo significato. Come ho avuto occasione di dire in altre sedi, la finestra, infatti, era simbolo di un’attività “contemplativa” (secondo Alain de
Lille, «fenestra, dicitur mens contemplativa»), il che calza a pennello alla
filosofia. Comunque resta sempre problematica l’identificazione di questa
donna cittadina, affacciata alla finestra, con la filosofia del Convivio,
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«sposa de lo Imperatore del cielo» (III, XII, 14). A questo riguardo, si può
parlare di un caso di doppia personalità; o per essere più esatti, di un caso
di doppia natura, umana e divina, come accade nella persona del Cristo,
veramente uomo e veramente Dio, il che spiegherebbe il rimando alla risposta della Madonna all’angelo annunciatore nei versi 51-52 di Voi che
‘ntendendo: «Amor, segnor verace, / ecco l’ancella tua; fa’ che ti piace».
Con questo rimando, infatti, il poeta stabilisce un parallelismo tra la sua
anima, che, secondo lo spiritel, dovrebbe pronunciare la risposta, e la Madonna; e, più significativo ancora, tra l’incarnazione del Verbo nel seno
di Maria, e l’incarnazione della filosofia (vale a dire, la donna) nell’anima
del poeta. Se l’incarnazione del Verbo divino, cioè, il Cristo, è un miracolo, anche la donna-Filosofia secondo Dante lo è (vid. Convivio III, VII,
15-17); e, come nel caso di Cristo, la sua natura umana, visibile, è oggetto
di ragione, mentre quella divina, non visibile, lo è di fede. E se il Cristo,
essendo Dio, assunse l’aspetto di un uomo qualunque, anche la filosofia,
se pure divina, viene rappresentata da Dante come una donna cittadina.
Questi tratti cristologici, probabilmente ripresi da Agostino (cfr. De Trinitate XIII, 19, 24)1, stanno alla base della distinzione che nel Convivio
fa tra filosofia umana e filosofia divina:
Dico adunque che Iddio, che tutto intende (ché suo “girare” è suo
“intendere”), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando
mira là dove è questa Filosofia. Ché avvegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto, in quanto la distinzione
de le cose è in lui per [lo] modo che lo effetto è ne la Cagione,
vede quelle distinte. Vede adunque questa nobilissima di tutte assolutamente, in quanto perfettissimamente in sé la vede e in sua essenzia. Ché se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra,
filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è
in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo
atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede.
È adunque la divina filosofia de la divina essenza, però che in esso
non può essere cosa a la sua essenza aggiunta; ed è in lui per modo
perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l’altre intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale nullo
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amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la
loro vaghezza. Per che dire si può che Dio non vede, cioè non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa alcuna, in
quanto l’altre cose vede e distingue, come detto è, veggendosi essere cagione di tutto. Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore, che
ne la sposa de lo Imperatore del cielo s’intende, e non solamente
sposa, ma suora e figlia dilettissima! (Convivio III, XII, 11-14)
Vorrei, a questo punto, centrare il mio intervento sulla similitudine che
figura nel passo, che considero appartenente a quelle che a Madrid chiamiamo “analitiche”, come quelle della Commedia, nelle quali bisogna
considerare non solo gli elementi espliciti che le conformano, ma anche
quelli impliciti. Dalla definizione di filosofia come «uno amoroso uso di
sapienza, lo quale è massimamente in Dio» ne segue, infatti, che ci sono
due modi diversi di “usare amorosamente” la sapienza quale “corpo” della
Filosofia: uno perfetto, cioè, “compiuto” («compiuta gioia»); e un altro,
imperfetto, vale a dire, “non compiuto”, non pieno. Il primo corrisponde
all’uso amoroso che ne fa Dio, che, nella similitudine, viene paragonato
all’uso che lo sposo fa della sposa; il secondo, invece, all’uso che, della
stessa sposa di Dio, fanno le altre intelligenze non divine, cioè, l’angelica
e l’umana: un uso amoroso limitato alla sola contemplazione del suo
«aspetto», vale a dire, di ciò che di lei è visibile, guardando il quale «contentan»2 il loro desiderio, ma senza ricavarne «compiuta gioia», spettante
soltanto allo sposo3. Credo importante far notare che questa limitazione
riguarda, non solo la condizione dell’uomo nella vita terrena, ma anche
nell’altra, dato che è condivisa con le intelligenze angeliche (vid. S. Theol.
I, q. 12, a. 4 e 5).
Questi due diversi usi amorosi corrisponderebbero, a mio avviso, ai
due contrastanti atteggiamenti che, nell’ambito dell’amore cortese,
l’amante poteva avere riguardo alla donna amata: o soddisfare il suo desiderio nel pieno «possesso» sessuale di lei, ricavandone «compiuta gioia»
(amor mixtus); oppure, “contentarsi” della sola «contemplazione» del
corpo dell’amata, rinunciando al suo possesso4 (amor purus), sia per provare un amore “disinteressato”, sia perché la donna era sposata e perciò
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“appartenente” a un altro; tanto più trattandosi, come nel nostro caso,
della «nobilissima sposa» di un imperatore, verso la quale un atteggiamento amoroso “possessivo”, e non meramente “contemplativo”, era considerato non solo moralmente e socialmente inammissibile, ma anche
contra natura, come si afferma nel De amore:
Però non indarno e sanza cagione alla prima fu ordinato ciò, ma
perché ciascheduno istea in suo stato e contento a quello che lli si
fae, e non sia ardito di volere l’altrui cose, che per natura non sono
sue (Cappellano 1980: 37).5
Alla “naturale” gerarchia sociale (plebe, nobiltà, imperatore) corrisponderebbe, per analogia, la gerarchia di “nature” (natura umana, natura angelica e natura divina), per cui se un plebeo non poteva aspirare se non a
contemplare una donna gerarchicamente superiore, come è il caso di
un’imperatrice, nemmeno un umano o un angelo potevano aspirare se non
a contemplare la filosofia divina, vale a dire, l’essenza divina con cui è
stata identificata; e questo mediante una grazia dell’Imperatore, vale a
dire, di Dio (cfr. S. Theol. I, q. 12, a. 4: «L’intelletto creato non può dunque vedere Dio per essenza se non in quanto Dio si unisce ad esso con la
sua grazia quale oggetto di conoscenza»).
Sul significato allegorico del corpo e dell’anima di questa donna-Filosofia il poeta è molto chiaro: l’anima significa l’«amore», e il corpo, come
già detto, la «sapienza»; e l’unione di entrambi, la “speculazione filosofica”; ma si sofferma specialmente sulla faccia di lei, e il significato degli
occhi («le sue demonstrazioni») e della bocca («le sue persuasioni»): «Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e
per composto de l’uno e de l’altro l’uso di speculazione» (Convivio III,
XIV, 1).
Ora in questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare
commendando l’altra parte sua, cioè sapienza. Dice adunque lo
testo «che ne la faccia di costei appariscono cose che mostrano de’
piaceri di Paradiso»; e distingue lo loco dove ciò appare, cioè ne
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li occhi e ne lo riso. E qui si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade
certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali
si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento:
e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine,
lo quale è massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra cosa
di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in
questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio: lo quale essere non può con la
beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio
cosa difettiva; che nullo desidera quello che ha, ma quello che non
ha, che è manifesto difetto. E in questo sguardo solamente l’umana
perfezione s’acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale,
sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza dipende; e
tutte l’altre nostre operazioni – sentire, nutrire, e tutto – sono per
quella sola, e questa è per sé, e non per altri; sì che, perfetta sia
questa, perfetta è quella, tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è
uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato (Convivio III,
xv, 1-5)
L’identificazione del corpo della donna-Filosofia con la sapienza giustifica il carattere sessuale della similitudine: l’uomo, nella vita terrena,
non potendo vedere altro, contenta il suo desiderio contemplando la faccia, vale a dire, gli occhi e la bocca, della Filosofia (che, in quanto appartenenti al corpo della filosofia, sono sapienza), raggiungendo così la sua
perfezione razionale e di conseguenza la felicità («Questo piacere in altra
cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in
questo riso»; «in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista,
cioè la perfezione de la ragione»). Ma, oltre la faccia, ci sono le altre parti
del corpo della Filosofia. Dante è molto chiaro al riguardo quando dice
che il corpo della Filosofia è la sapienza; cioè, “tutto il suo corpo”, e non
solo la faccia. Altra cosa è che lei, «qua giù», mostri ai mortali soltanto il
volto, come d’altronde si addice alla sposa di un imperatore riguardo ai
suoi amatori, i quali, come detto, a differenza dello sposo, devono “con137
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tentarsi” di contemplare la bellezza dei suoi occhi e della sua bocca, anche
perché il loro sguardo (la ragione) non può raggiungere le altre parti occulte del suo corpo. Questa limitazione visuale segna i limiti tra ragione
e fede, dato che la conoscenza comincia dai sensi, e la fede, come si vedrà,
ha invece come oggetto non il visibile, ma ciò che non si vede, come
Dante spiega in quest’importante passo del Convivio:
dove la filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero, nel quale
si ragiona questa essere più che umana operazione6; e dice «del
cielo» a dare a intendere che non solamente essa, ma li pensieri
amici di quella sono astratti da le basse e terrene cose. Poi susseguentemente dice com’ell’avvalora e accende amore dovunque
ella si mostra, con la suavitade de li atti, chè sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio alcuno […] Ancora soggiunge: E puossi dir che ‘l suo aspetto giova: dove è da sapere che
lo sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non
pur per la faccia che ella ne dimostra vedere, ma per le cose che
ne tiene celate desiderare ed acquistare. Onde, sì come per lei
molto di quello si vede per ragione, e per conseguente si vede poter
essere, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter aver ragione, e per conseguente
poter essere. Onde la nostra buona fede ha suo origine; da la quale
viene la speranza de lo proveduto desiderare7; e per quella nasce
l’operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurei, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere
concordevolmente concorrono (Convivio III, XIV, 11-15).
Si noti, a questo riguardo, come Dante identifica la parte visibile del
corpo della Filosofia, cioè, il suo volto («per la faccia che ella ne dimostra
vedere»)8, con la visione o conoscenza razionale («Onde, sì come per lei
molto di quello si vede per ragione»); mentre le altre parti del corpo, o
«cose che ne tiene celate»9, cioè, “velate”10 o vestite (cfr. Alain de Lille:
«vestire, notat velare, unde divinitas dicitur vestita humanitate, id est velata»; «vestis, dicitur corpus Christi»), in quanto non visibili, sono oggetto
di fede («così per lei si crede»), una virtù consistente, secondo Agostino,
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«nel credere ciò che ancora non si vede», ma che in un futuro, cioè, nell’aldilà, si potrà vedere:
Ora la fede, per mezzo della quale vengono purificati i cuori di
quelli che vedranno Dio, finché questi sono pellegrini, consiste nel
credere ciò che ancora non si vede: quando tu vedrai, non avrai
più bisogno di fede. Chi crede si guadagna dei meriti, e vedendo riceve il premio […] Dalla fede nasce il desiderio, il desiderio prepara al possesso, poiché la preparazione della celeste dimora
consiste nel desiderio, frutto dell’amore (Commento al Vangelo di
San Giovanni 68, 3; vid. anche La fede nelle cose che non si vedono).
Ciò che si vede del corpo della Filosofia, la bellezza del suo volto (conoscenza razionale), genera il desiderio, non più razionale11, ma fideistico,
di vedere ciò che nasconde, vale a dire, le verità di fede, o, metaforicamente, le altre parti del suo corpo. In questo senso «l’aspetto suo aiuta la
nostra fede» (Convivio III, VII, 15-17). Il processo è analogo a quello dell’amore descritto da Andrea Capellano nel De amore: il desiderio amoroso
ha origine nella contemplazione della bellezza “visibile” dell’amata (visio);
l’amante passa da ciò che dell’amata “vede”, a pensare “immoderatamente” in ciò che di lei non è visibile, vale a dire, i “segreti” del suo corpo
(immoderata cogitatio)12, e da questo pensiero nasce l’amore (passio)13:
Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super
omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri […] Quod autem
illa passio sit innata, manifesta tibi ratione ostendo, quia passio
illa ex nulla oritur catione subtiliter veritate inspecta; sed ex sola
cogitatione, quam concipit animus ex aliquam aptam amori et suo
formatam arbitrio, statim eam incipit concupiscere corde; postea
vero, quotiens de ipsa cogitat, totiens eius magis ardescit amore,
quousque ad cogitationem devenerit pleniorem. Postmodum mulieris incipit cogitare facturas et eius distinguere membra suosque
actus immaginari eiusque corporis secreta rimari ac cuiusque
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membri officio desiderat perpotiri […] Non quaelibet cogitatio sufficit ad amoris originem, sed immoderata exigitur: nam cogitatio
moderata non solet ad mentem redire, et ideo ex ea non potest
amor oriri (I, III e V)14.
Una descrizione molto simile si trova nell’episodio di Filomela e Tereo
nelle Metamorfosi di Ovidio:
Non secus exarsit conspecta virgine Tereus
[…]
Spectat eam Tereus praecontrectatque videndo,
[…] At rex Odrysius, quamvis secessit, in illa
aestuat, et repetens faciem motusque manusque,
qualia vult fingit quae nondum vidit, et ignes
ipse suos nutrit cura removente soporem
(VI, 455-494)15.
Entrambi i processi, amoroso e filosofico, hanno, dunque, il loro inizio
nei sensi e nella conseguente meraviglia o ammirazione: l’uno, nei riguardi del «mirabile aspetto» della donna (Convivio III, VII, 17); l’altro,
nei riguardi di qualcosa di straordinario, la cui causa rimane occulta. Per
Aristotele, infatti, l’ammirazione è il principio della filosofia: «Nam propter admirari homines nunc et primum incoeperunt philosophari» (Metafisica I, 2, 982b 12).
Dante, nel passo conviviale considerato, distingue tra «meraviglia» e
«miracolo», rifacendosi probabilmente a Tommaso:
La parola miracolo deriva da meraviglia. E la meraviglia sorge dinanzi a effetti evidenti le cui cause rimangono occulte: così capita
di meravigliarsi a chi vede un’eclisse di sole e ne ignora la causa,
come fa osservare Aristotele. Può darsi però che la causa di un
fatto sia nota a qualcuno pur rimanendo occulta ad altri. Allora il
fatto può riuscire meraviglioso per alcuni, ma non per tutti: come
di un’eclisse di sole resta meravigliato l’ignorante, ma non l’astronomo. Il miracolo è invece un fatto totalmente meraviglioso, poiché ha una causa veramente occulta per tutti. E tale causa è Dio.
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Quindi le opere compiute da Dio fuori dell’ordine delle cause da
noi conosciute vengono dette miracoli (S. Theol. I, q. 105, a. 7).
Sul tema del miracolo e della fede Dante aveva già scritto in III, VII, 1517, dove spiega come la donna-Filosofia, essendo ella stessa un miracolo
visibile, possa far credere ai «dubbiosi» nella possibilità degli altri miracoli:
Secondamente narro come ella è utile a tutte le genti, dicendo che
l’aspetto suo aiuta la nostra fede, la quale più che l’altre cose è
utile a tutta l’umana generazione, sì come quella per la quale campiamo da l’etternale morte e acquistiamo etternale vita. E la nostra fede aiuta; però che, con ciò sia cosa che principalissimo
fondamento della fede nostra siano miracoli fatti per colui che fu
crocifisso – lo quale creò la nostra ragione, e volle che fosse minore del suo potere –, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; e
molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia
siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa
miracolosa, de la quale li occhi de li uomini cotidianamente possono esperienza avere, ed a noi faccia possibili li altri; manifesto
è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta.
E però ultimamente dico che da etterno, cioè etternamente, fu ordinata ne la mente di Dio in testimonio de la fede a coloro che in
questo tempo vivono.
Il «mirabile» volto della donna-Filosofia favorisce («aiuta») la fede,
perché, come si è detto, fa immaginare e desiderare le parti, certamente
esistenti, ma non visibili, del suo corpo-sapienza; vale a dire, le verità oggetto di fede, tra le quali, «quella per la quale campiamo dall’etternale
morte e acquistiamo etternale vita»; verità – o parti del suo corpo-sapienza
– che, a modo di premio, mostrerà all’uomo nell’aldilà, ma non qui: «ciò
che ora conosciamo credendo, allora conosceremo contemplando» (Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni 75, 4).
Ma, riprendendo la metafora sessuale, “contemplare” un corpo nudo
non significa “possederlo” o “penetrarlo”. La visione è certamente un
modo di conoscenza, ma non perfetto. Pensiamo, per esempio, nel signi141
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ficato sessuale che il verbo “conoscere” aveva nella Bibbia: “conoscere”
una donna valeva copulare con lei, non solo contemplarla (cfr. Luca 1,
34: «Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, dal momento che non
conosco uomo?”»). Ci sono, dunque, due diversi gradi di conoscenza:
uno, meramente “contemplativo”; un altro, non soltanto contemplativo,
ma anche “possessivo”. Si consideri, a questo proposito, il latino comprehendere (cum, ‘con’ + prehendere, ‘prendere’), il cui significato, oltre
al secondario ‘comprendere’, è, in primo luogo, ‘prendere’, una caratteristica che non ha videre (‘vedere’). La semplice “visione” implica, dunque, conoscenza, ma la “visione” + “possesso”, conoscenza e
comprensione. E da un’ottica sessuale, “possedere” equivale a “penetrare”, un termine quest’ultimo adoperato da Dante anche per significare
comprensione di una verità:
Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritade,
come disiri, ti farò contento
(Paradiso IV 70-72).
Queste sfumature semantiche servono a capire la vera portata di ciò
che Dante afferma in quest’altro passo controverso del Convivio:
Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto
abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere, che lo ‘ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima
materia: che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e pur quello che sono intender noi non potemo, se
non cose negando si può appressare alla sua conoscenza, e non altrimenti.
Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente
certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia
[nel]l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere
non possa.
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A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in
ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’averebbe fatto indarno, che è anche
impossibile.
In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre
desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore
cade l’avaro maledetto, e non s’acorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Averebbe[lo] anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad
alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non
passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione.
E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in
quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa
è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che
ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è
colla bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe cose, quello esso è, non sia possibile alla
nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta (Convivio III, XV, 6-10).
Il passo, come si sa, è stato interpretato come una negazione, da parte
di Dante, della possibilità dell’uomo di raggiungere una conoscenza dell’essenza divina, e quindi anche del desiderio naturale di conoscerla (vid.
Gagliardi 1994: 133-180; 2004: 73-75)16, il che contraddirebbe le tesi di
Tommaso d’Aquino (vid. S. Theol. I-II, q. 3, a. 8) e la dottrina della
Chiesa. Tuttavia, nel passo non si dice che l’uomo non possa e non desideri conoscere l’essenza di Dio, ma che non può – né potrà mai – “intenderla”, vale a dire, “comprenderla” («pur quello che sono intendere noi
non potemo»). La sfumatura è importante, perché distingue ciò che era
considerato una conoscenza perfetta (con comprensione) da una imperfetta (senza comprensione)17, come è il caso della semplice visione18.
Come già detto, vedere non implica possedere, cioè, capire (cfr. S. Theol.
I, q. 12, a. 7: «Tra noi infatti non tutto ciò che è visto è già tenuto o pos143
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seduto, poiché talora si vedono anche cose distanti o che non sono in nostro potere»). L’uomo può o potrà “vedere” l’essenza divina, ma senza
comprenderla, cioè, senza “penetrarla”; e perciò nemmeno desidera “naturalmente” ciò che non è possibile a lui, ma soltanto a Dio, il quale «conosce se stesso tanto quanto è conoscibile. E così comprende
perfettamente se stesso» (S. Theol. I, q. 14, a. 3); anzi, «il suo conoscere
è anche la sua essenza e il suo essere» (ib. a. 4).
La tesi che Dante sostiene nel passo, dunque, non è per niente eterodossa e s’accorda con quella di Tommaso d’Aquino, il quale, in un articolo della Somma Teologica intitolato «Se coloro che vedono Dio nella
sua essenza lo comprendano» nega che Dio possa essere inteso, se non da
sé:
È impossibile per qualsiasi intelletto creato comprendere Dio;
«raggiungere però con la mente Dio in qualunque maniera è una
grande felicità», come dice S. Agostino (Serm. 117, 3). Per capire
ciò bisogna dunque sapere che comprendere una cosa vuol dire
conoscerla alla perfezione. È conosciuto poi alla perfezione ciò
che è conosciuto tanto quanto è conoscibile […] Ora, nessun intelletto creato può arrivare a quel perfetto grado di conoscenza dell’essenza divina secondo il quale essa è conoscibile. E lo si vede
in questo modo. Ogni cosa è conoscibile nella misura in cui è ente
in atto. Dio dunque, il cui essere, come si è già dimostrato (q. 7, a.
11), è infinito, è infinitamente conoscibile. Ma nessun intelletto
creato può conoscere Dio infinitamente. Infatti un intelletto creato
conosce più o meno perfettamente la divina essenza a seconda che
è perfuso di un maggiore o minore lume di gloria. Non potendo
quindi essere infinito il lume di gloria ricevuto in qualsiasi intelletto creato, è impossibile che un’intelligenza creata conosca Dio
infinitamente. Quindi è impossibile che comprenda Dio (S. Theol.
I, q. 12, a. 7).
L’affermazione che l’uomo non può né desidera naturalmente “comprendere” l’essenza divina va riferita, quindi, non solo alla vita terrena, ma
anche a quella eterna; e difendere questa tesi, come fa Dante, non è una
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aberrazione da un punto di vista cristiano, come è stato detto; anzi, è una
tesi appartenente alla più stretta ortodossia del pensiero cristiano, poiché
l’incomprensibilità di Dio non solo fu proclamata nel Concilio Lateranense IV (1215), ma era già stata difesa da molti Padri della Chiesa, tra i
quali Agostino:
Dal momento che parliamo di Dio, che meraviglia se non comprendi? In verità, se comprendi non è Dio. Piuttosto si riconosca
umilmente di non capire, invece di fare una temeraria professione
di scienza. Raggiungere Dio appena un poco con il pensiero è una
grande beatitudine; quanto a comprenderlo, invece, è assolutamente impossibile (Discorsi 117, c. 3).
Il Dante eterodosso lo troviamo, invece, quando dice che l’uomo può
soddisfare il suo desiderio di conoscenza e, di conseguenza, essere felice
in questo mondo, giustificandolo con il fatto che i santi sono beati in cielo
anche non potendo raggiungere lo stesso grado di visione e di beatitudine,
senza che per questo motivo abbiano invidia tra loro o desiderino godere
ancora di più, perché conformano il desiderio alle loro possibilità, come
difende Tommaso19:
Quanto invece al conseguimento o fruizione di tale bene [Dio] uno
può essere più beato di un altro: poiché quanto più si fruisce di
quel bene, tanto più si è felici. E avviene che uno possa fruire di
Dio più perfettamente di un altro per il fatto che è meglio disposto
e ordinato alla sua fruizione. E in questo modo uno può essere più
felice di un altro (S. Theol. I-II, q. 5, a. 2).
Anche i santi, dunque, “contentano” il loro desiderio di beatitudine pur
sapendo che ci sono altri che hanno raggiunto o raggiungeranno un più
alto grado di beatitudine (vid. Paradiso IV, 28-36; VI, 117-123). La giustificazione la troviamo nel De Trinitate di Agostino, il quale, rifacendosi
alla massima di Terenzio «poiché non può realizzarsi ciò che vuoi, desidera ciò che puoi» (Andria, 2, 1, 5-6) la applica, non – come fa Dante nel
Convivio – alla condizione dell’uomo in questa vita mortale, ma a quella
che avrà nell’altra immortale, dove il beato lo è perché «tutto ciò che
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vuole può realizzarsi, perché non vuole ciò che non può realizzarsi» (De
Trinitate XIII, 7, 10)20. La formula, com’è noto, sarà ripresa, parzialmente,
da Dante nella Commedia per riferirsi all’Empireo come unico luogo di
beatitudine: «Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole» (Inferno
III, 95-96).
Il ragionamento di Dante mi sembra logico: se nel cielo un uomo può
essere beato, nonostante non abbia raggiunto, come altri beati, un più alto
grado di beatitudine, senza che per questo lui lo desideri, o invidi la sorte
degli altri, anche nella vita terrena si può essere felici, basta conformare
il desiderio alle proprie possibilità e non desiderare altro, come fanno i
beati. D’altronde anche nell’altra vita la nostra conoscenza sarà limitata,
poiché non potremmo “comprendere” l’essenza divina, né conoscere tutto
in Dio, né tutto ciò che Dio è, come si afferma nella Somma Teologica,
dove si nega il desiderio naturale di conoscere tutto. Tommaso, infatti,
nell’articolo intitolato «Se coloro che vedono Dio per essenza vedano in
lui tutte le cose», rifiuta la seguente tesi:
La creatura razionale desidera naturalmente di conoscere tutto. Se
dunque nella visione di Dio non conosce tutte le cose, il suo desiderio naturale rimane insoddisfatto: e così anche vedendo Dio non
sarà beata. Ma questo ripugna. Quindi nella visione di Dio conosce
tutte le cose ( S. Theol. I, q. 12, a. 8).
L’argomentazione di Tommaso nella sua risposta è molto simile a
quella di Dante, poiché, come detto, nega il desiderio naturale di conoscere ciò che non è possibile all’uomo, ma soltanto a Dio; vale a dire, lo
stesso ragionamento di Dante nel giustificare che la sapienza può fare felice l’uomo anche non potendogli mostrare certe cose:
nessuna intelligenza creata, come si è già visto, può comprendere
totalmente Dio. Quindi nessuna mente creata, vedendo Dio, può
conoscere tutto ciò che Dio fa o può fare: poiché ciò equivarrebbe
a comprendere tutta la sua potenza. Tuttavia delle cose che Dio fa
o può fare l’intelletto ne vede tante di più quanto più perfettamente
vede Dio […] Il desiderio naturale di conoscere insito in ogni crea-
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tura razionale ha per oggetto tutte quelle cose che sono necessarie
alla sua perfezione intellettuale; e queste sono precisamente le specie e i generi delle cose e le loro cause, e tutte queste cose saranno
viste da chiunque contempli l’essenza divina. Conoscere invece
tutti i soggetti singolari, con i loro pensieri e con le loro opere, non
è richiesto alla perfezione dell’intelletto creato, né a ciò tende il
suo desiderio naturale; come neanche il conoscere tutte quelle
cose che ancora non esistono, ma che possono essere fatte da Dio.
Del resto, se uno conoscesse soltanto Dio, fonte e principio di tutto
l’essere e di ogni verità, appagherebbe talmente l’innato desiderio
di sapere che non cercherebbe più nient’altro, e sarebbe beato (S.
Theol. I, q. 12, a. 8).
A questo punto, per chiarire un po’ meglio il significato filosofico e
teologico delle immagini sessuali adoperate da Dante, vorrei riprendere
il tema della doppia condizione della Filosofia, sposa dell’Imperatore del
cielo, e amante delle altre intelligenze. Si ricordi che l’unico a poter godere del suo corpo, cioè, della sapienza, era l’Imperatore, mentre le altre
intelligenze dovevano “contentare” il loro desiderio contemplando il suo
«aspetto», cioè, quel che lei mostrava loro del suo corpo, vale a dire, il
volto (bocca e occhi), nascondendo le altre parti, tra le quali le più intime,
riservate a Sua Maestà l’Imperatore.
Ma si tenga presente che Dante, nel personificare la filosofia e sposarla
a Dio, separa immaginariamente due concetti, ‘sapienza’ e ‘Dio’, che in
teologia sono inseparabili, dato che la sapienza è l’essenza divina, vale a
dire, il suo essere, come dice Tommaso:
S. Agostino [De Trin. 7, 2] dice: «Per Dio l’essere è essere sapiente». Ora, essere sapiente è lo stesso che conoscere. Quindi per
Dio l’essere è conoscere. Ma l’essere di Dio è la sua sostanza.
Quindi il conoscere di Dio si identifica con la sua sostanza […]
siccome la sua essenza è anche la sua specie intelligibile, come si
è già detto, ne viene di necessità che il suo conoscere è anche la sua
essenza e il suo essere (S. Theol. I, q. 14, a. 4).
Nel De Trinitate, infatti, si legge:
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vi è sapienza [in Dio] per il fatto stesso per cui vi è essenza. Perciò
in quanto vi è un’essenza, vi è una sapienza […] il termine sapienza che è anche assoluto, essendo sapienza per se stessa, indica
pure l’essenza e l’identità tra l’essenza e la sapienza (De Trinitate
VII, 2).
Dante, dunque, parla di «eterno matrimonio» per significare l’unità sostanziale ed essenziale della sapienza – cioè, del “corpo” della Filosofia
– con Dio, dato che il matrimonio era considerato l’unione o congiunzione
degli sposi, i quali formano così una cosa sola, come dice Tommaso:
Per fare di due esseri una cosa sola si richiede un’unione. Ora, ciò
avviene nel matrimonio, poiché nella Genesi [2, 24] si legge: «E i
due saranno una sola carne». Perciò il matrimonio è un tipo di
unione (S. Theol. Supplem., q. 44, a. 1).
Ma, quando si dice che l’essenza divina consiste nel “conoscere” o “intendere”, va considerato che Dio conosce e intende tutto in se medesimo
(cfr. Convivio III, XII, 11: «Ché avvenga che Dio, esso medesimo mirando,
veggia insiememente tutto»):
bisogna dire che Dio vede se stesso in se medesimo, poiché vede
se medesimo nella sua propria essenza. Le altre cose, distinte da sé,
le vede non in se stesse, ma in se medesimo, in quanto la sua essenza contiene la somiglianza degli altri esseri distinti da lui (S.
Theol. I, q. 14, a. 5).
Perciò quando Dante dice che soltanto l’Imperatore del Cielo può godersi “compiutamente” la Filosofia, vale a dire, la sua sposa, significa che
Dio soltanto può “conoscerla perfettamente”, che – come si è già visto –
non consiste solo nel “contemplare” il suo corpo-sapienza, ma fondamentalmente nel “possederlo”, cioè, nel “penetrarlo” (copulatio). La penetrazione, infatti, è il termine chiave con cui si significava la conoscenza
intellettuale, la comprensione dell’essenza di qualcosa, come spiega Tommaso:
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la conoscenza sensitiva si occupa delle qualità sensibili esterne,
mentre quella intellettiva penetra fino all’essenza delle cose, poiché l’oggetto dell’intelletto, come dice Aristotele [De anima, 3,
6], è «ciò che la cosa è». Ora, molti sono i generi delle cose che si
nascondono all’interno, e che la conoscenza umana deve penetrare. Infatti sotto gli accidenti è nascosta la natura sostanziale
delle cose, sotto le parole è nascosto il loro significato, sotto le similitudini e le figure è nascosta la verità in tal modo figurata […].
E siccome la conoscenza umana comincia dai sensi, ossia quasi
dall’esterno, è evidente che più la luce dell’intelletto è forte, più è
capace di penetrare intimamente […] [l’]intelletto indica una particolare eccellenza della cognizione, cioè una penetrazione intima
(S. Theol. II-II, q. 8, a. 1).
L’atto divino del comprendere la propria essenza, equivale, dunque,
nel caso dell’Imperatore, a penetrare il corpo della sposa.
Possiamo, pertanto, concludere che Dante, nell’attribuire all’atto sessuale il significato di comprensione conferisce anche agli organi sessuali
della sposa (esterni, ma fondamentalmente agli interni, vale a dire, all’utero) e a quelli dell’Imperatore, un significato molto concreto: quelli di
lei, in quanto sono determinanti del genere21, rappresentano l’“essenza”
(cfr. Alain de Lille: «uterus, dicitur occulta Dei substantia»)22, vale a dire,
ciò che viene penetrato dallo sposo; quelli di lui, l’intelletto, dato che è lo
strumento con cui si penetra.
Va ricordato a questo punto che non è l’unica volta che Dante adopera
una simile immagine. Si tenga presente a tal proposito il primo congedo
di Tre donne in torno al cor mi son venute, nel quale figura, se Raffaele
Pinto mi concede di usare la terminologia del suo magistrale saggio (Pinto
2007: 125-156), lo stesso «isomorfismo sessuale», anche se in chiave metapoetica, per segnalare il significato allegorico, vale a dire, la «veritade
ascosa» sotto i «panni» della canzone-donna23:
Canzone, a’panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude:
bastin le parti nude;
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lo dolce pome a tutta gente niega,
per cui ciascun man piega.
Ma s’egli avien che tu mai alcun trovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color novi
poi gli ti mostra; e ‘l fior, ch’è bel di fuori,
fa disiar negli amorosi cori
(vv. 91-100).
Riguardo alla relazione degli umani con la sposa dell’Imperatore, cioè,
con la Filosofia e, più in concreto, con il suo corpo-sapienza, è chiaro dal
paragone conviviale che è meramente “contemplativa”: i suoi amanti contentano loro desiderio contemplando il suo «aspetto», cioè, quella parte
del suo corpo che lei mostra loro, e che in questa vita è il volto. Dalla
contemplazione della bellezza del suo volto, l’uomo passa ad immaginare
le parti celate sotto la veste, oggetto di fede perché non visibili in questa
vita, ma soltanto nell’altra, dove “spera” di poter contemplare la Filosofia
nello splendore della nudità del suo corpo-sapienza; o, in termini teologici, di avere una visione intuitiva dell’essenza divina (dal lat. intueor,
‘contemplare’). Si tratta, quindi, di una visione meramente contemplativa,
a differenza della “conoscenza” – nel senso biblico – che l’Imperatore del
Cielo ha della sposa. Ovviamente, il godimento dell’Imperatore è maggiore di quello dei suoi sudditi, limitato ad una specie di “voyeurismo”
gnoseologico, di certo piacevole, ma incomparabilmente minore di quello
della copulatio imperiale, come Tommaso spiega, in termini teologici, in
questo passo della Somma Teologica:
la beatitudine di Dio [il godimento dell’Imperatore], il quale abbraccia e comprende perfettamente col suo intelletto la propria essenza [penetra con il suo sesso il sesso della sposa], è superiore a
quella dell’uomo o dell’angelo, i quali vedono quell’essenza [quel
sesso] senza averne la piena comprensione [senza penetrarlo] (S.
Theol. I-II, q. 3, a. 8).
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NOTE
1
«Tutto ciò che il Verbo fatto carne ha fatto e sofferto per noi nel tempo e
nello spazio appartiene […] alla scienza, non alla sapienza. Invece ciò che il
Verbo al di fuori del tempo e dello spazio, è coeterno al Padre e tutto intero in
ogni luogo; di questo, se qualcuno può parlare secondo verità, ciò che dirà apparterrà alla sapienza; per questo motivo il Verbo fatto carne, Cristo Gesù, possiede
i tesori della sapienza e della scienza».
2
Si è soliti concordare «contentan» con «amadore» (vid. Enciclopedia Dantesca vox «contentare»: «dove è da notare il plurale concordante con nullo “amadore”»), il che, a mio avviso, è un errore. Il plurale «contentan», infatti, concorda
con l’«altre intelligenze», non con «nullo amadore». Il passo deve intendersi
così: «Nell’altre intelligenze è per modo minore, ma nel suo aspetto contentano
la loro vaghezza, come un amadore che non prende compiuta gioia da una
druda».
3
Cfr. «Homo ait: “Fateor et est verum, virum vestrum omni probitate gaudere
nec non prae cunctis in orbe viventibus beatitudinis gaudiis honorari, qui vestrae
celsitudinis gaudia suo meruit amplexu percipere”» [«risponde l’uomo: “Confesso ed è vero, che vostro marito è così come dite e da farli onore sovra ogn’altro
che viva, il quale fu degno d’avere voi al suo volere”»] (Cappellano 1980: 127).
4
«amor quidam est purus, et quidam dicitur esse mixtus. Et purus quidem
amor est, qui omnimoda dilectionis affectione duorum amantium corda coniungit.
Hic autem in mentis contemplatione cordisque consistit affectu; procedit autem
usque ad oris osculum lacertique amplexum et verecundum amantis nudae
contactum, extremo praetermisso solatio ; nam illud pure amare volentibus exercere non licet. Hic quidem amor est, quem quilibet, cuius est in amore propositum, omni debet amplecti virtute. Amor enim iste sua semper sine fine cognoscit
augmenta, et eius exercuisse actus neminem poenituisse cognovimus ; et quanto
quis ex eo magis assumit, tanto plus affectat habere. Amor iste tantae dignoscitur
esse virtutis, quod ex eo probitatis origo descendit, et nulla inde procedit iniuria,
et modicam in ipso Deus recognoscit offensam. Ex tali nempe amore neque virgo
nunquam corrupta nec vidua vel coniugata potest aliquod sentire gravamen vel
propriae famae dispendium sustinere […] Mixtus vero amor dicitur ille, qui omni
carnis delectationi suum praestat effectum et in estremo Veneris opere terminatur» [«amore tal è puro e tal è mescolato. Ma il puro amore è quello, il quale con
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tutto desiderio d’amore giunge i cuori insieme di duoi amanti. Ma questo amore
viene da desiderio de l’amante e del cuore e va infino al basciare e l’abbracciare
e toccare le vergognose membra de l’amante a gnudo e alla fine non usare insieme, perché non è licita cosa di far quello a coloro che amano puro. E quest’è
quello amore, il quale catino ch’à proponimento d’amore dé volere con tutta sua
forza. Perciò che questo amore sanza modo crescie tuttavia, e non si fa che niuno
anche se ne potesse saziare; e quanto catino ne prende più, tanto più ne vorrebbe
avere. E questo amore è di tanta vertude, che da llui viene principio di tutto savere
e niuna ingiuria n’à il proximo e piccola offesa si ne fa a Dio. Certo, di cotale
amore, né vergine né corrotta, né vedova né maritata ne può sentire alcun danno
o al suo pregio averne menomanza […] Ma quell’è detto amore mescolato, il
quale dà efetto a ogne desiderio della carne e alla fine si compie per luxuria»]
(Cappellano 1980: 163-165).
5
«Non enim otiose vel sine causa fuit ab aevi primordio inter homines ordinum reperta distinctio, sed ut quisque intra generis saepta permaneat et per omnia
sui ordinis finibus contentus exsistat, et ea, quae maioris sunt ordinis stabilita
natura, sibi nullus usurpare praesumat, sed ipsa tanquam aliena relinquat».
6
L’«umana operazione» sarebbe quella di guardare la faccia della Filosofia:
«in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione
della ragione» (Convivio III, xv, 4).
7
Seguo in questo caso la lezione di Busnelli, e non quella di Brambilla Ageno
e di Vasoli («la speranza, ch’è ‘l proveduto desiderare»). La speranza, infatti,
non può essere «’l proveduto desiderare», almeno secondo Tommaso: «un moto
appetitivo non può tendere verso una cosa con la speranza o con l’amore, se
prima non la conosce con i sensi o con l’intelligenza. Ora, l’intelletto conosce le
cose che spera e che ama mediante la fede. Perciò in ordine di generazione la
fede deve precedere la speranza e la carità» (S. Theol. I-II, q. 62, a. 4).
8
Si intenda: “non solo per vedere la faccia che ella ci mostra”.
9
Qui con «cose» indica le altre parti del corpo, come in Inferno XXXII, 132:
«Non altrimenti Tideo si rose / le tempie a Menalippo per disdegno, / che quei
faceva il teschio e l’altre cose» (vid. Grande Dizionario della Lingua Italiana,
vox «cosa»; e Enciclopedia Dantesca vox «cosa»).
10
Credo che sia da rifiutare la lettura del Nardi, che intende invece che la
donna gentile ha due volti: «Così la donna gentile ha una doppia faccia, una delle
quali “ne dimostra”, l’altra ci nasconde» (1944: 217-218). Che Dante rappresenti
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la Filosofia con una donna a “doppia faccia” mi sembra inammissibile. La donna
gentile, invece, mostra il volto, e nasconde, probabilmente sotto un velo, il resto
del suo corpo. Si ricordi, a questo riguardo, che «velare» («coprire con un velo»)
valeva, anche per Dante, ‘celare’, ‘nascondere’, ‘sottrarre alla vista’ (vid. Enciclopedia Dantesca, vox «velare»). Si tenga presente anche che oggetto della fede
sono le verità che l’uomo non può vedere, ma che sono state, paradossalmente,
“rivelate”, ricoperte da un “velo”, come dice Dionigi [De cael. hier. 1, 2: «Il raggio divino non può risplendere su di noi se non attraverso la varietà dei sacri
veli» (vid. S. Theol. I, q. 1, a. 9).
11
Si tratterebbe di un desiderio, metaforicamente, lussurioso e, come tale, non
razionale (cfr. Inferno V, 37-38: «…i peccator carnali, / che la ragion sommettono
al talento»).
12
Tommaso nell’articolo intitolato «Se credere sia “cogitare con assenso”»
(S. Theol. II-II, q. 2, a. 1) si rifà alla definizione dell’atto di credere d’Agostino
come «cogitare con assenso» (De praedestinatione sanctorum, P.L. 44, 959, 2,5).
13
Interessante, al riguardo, il dibattito su quale parte del corpo femminile sia
più “amabile”, se quella “superiore” o “quello che si nasconde” nell’inferiore
(Cappellano 1980: 187-189).
14
«Amore si è una passione naturale, la quale si muove per veduta o per grandissimo pensiero di persona ch’abia altra natura, per la qual cosa alcuno desidera
d’averla sovre ogne altra cosa: ciò che ll’amore demanda per lo volere d’ambendui […] Ma che quella passione sia da natura, apertamente lo ti mostro, perciò
che quella angoscia per niuno fatto non viene, se noi vogliamo bene guardare la
veritade, ma solo per lo pensiero dell’animo, per quello che vede, nascie quella
passione. Imperciò che quando altri vede alcuna che possa amare e che piaccia
a llui, incontanente la comincia a volere un poco bene in suo cuore, poscia,
quanto più ne pensa, più se aprende nel suo amore infino che vegna a più pieno
pensiero, perché poscia comincia a pensare le sue fattezze e a distinguere le sue
membra e a imaginare li suoi portamenti, e di cercare le secrete cose di suoi secreti membri, e di farne di ciascuno membro al suo volere […] Non ogne pensiero
basta all’amore, ma quelo ch’è sanza misura, perciò che misurato pensiero non
riede a la mente, però di quello non può nasciere amore».
15
«Alla vista della vergine, Tereo s’infiamma […] Tereo la contempla e più
la guarda più pregusta di palparla […] Ma il re di Tracia, benché Filamela si sia
appartata, continua a ribollire per lei, e ripensando al suo volto, ai suoi gesti, alle
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sue mani, immagina così come lo vorrebbe ciò che ancora non ha visto, e alimenta da sé la sua fiamma con un tormento che gli scaccia il sonno».
16
«Se alla natura umana è impossibile conoscere Dio e tutte le altre creature
spirituali, è evidente che è innaturale desiderare di conoscerle» (Gagliardi 1994:
172); «la conseguenza è ovvia, Dio non può essere desiderato» (Gagliardi 1994:
177); «Dante taglia la naturalità e originarietà del desiderio umano di conoscere
Dio» (Gagliardi 1994: 177); «Non solo viene negata la possibilità di conoscere
le sostanze separate e Dio ma viene cancellato quel desiderio di conoscenza»
(Gagliardi 2004: 74).
17
In questo senso vanno intese le espressioni che seguono all’affermazione iniziale «Pur quello che sono intender noi non potemo»: «non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare»; «conoscere di Dio, e di certe cose, quello esso è,
non sia possibile alla nostra natura». Dante, ovviamente, sta parlando di una conoscenza perfetta, vale a dire, con comprensione. Se non sente il bisogno di specificarlo è perché già aveva detto «intender».
18
Cfr. Convivio III, IV, 9-11: «dico che nostro intelletto, per difetto de la virtù
da la quale trae quello ch’el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote
a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che),
sì come sono le sustanze partite da materia; le quali, etsi alcuna considerazione
di quelle avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente».
Evidentemente qui Dante, contro quel che alcuni intendono (Gagliardi 1994:
146), non nega la conoscenza delle sostanze separate da materia, ma la loro comprensione. Si tenga presente a questo riguardo Oltre la spera che più larga gira:
«Quand’elli [il sospiro] è giunto là ove disira, / vede una donna che riceve onore,
/ e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira. // Vedela tal, che
quando ‘l mi ridice, / io no·llo ‘ntendo, sì parla sottile / al cor dolente, che lo fa
parlare». Il commento di Dante mi sembra chiaro: «Nella terza dico quello che
vide, cioè una donna onorata lassù. E chiamalo allora “spirito peregrino”, acciò
che spiritualmente va lassù e, sì come peregrino lo quale è fuori della sua patria,
vi stae. Nella quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no·llo
posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in
grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro
intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole» (Vita
nova 30, 6-7).
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Anche Agostino: «le diverse mansioni rappresentano i diversi gradi di meriti
che esistono nell’unica vita eterna [...] Come le stelle in cielo, i santi hanno dimore diverse come diverso è il loro splendore […] La diversità dello splendore
non susciterà invidia perché regnerà in tutto l’unità della carità» (Commento al
Vangelo di San Giovanni 67, 2).
20
La critica di Agostino a quest’atteggiamento è radicale: «Ma allora vuole ciò
che può, perché non può ciò che vuole. Questa è tutta la beatitudine – non si sa
se ridicola, o più tosto degna di compassione – dei mortali orgogliosi, che si gloriano di vivere come vogliono, perché volontariamente sopportano con pazienza
i mali che non vogliono che loro accadano. È questo, si dice, il saggio consiglio
di Terenzio: “Poiché non può realizzarsi ciò che vuoi, desidera ciò che puoi”.
Espressione bella, chi lo nega? Ma è un consiglio dato ad un infelice, peché non
fosse maggiormente infelice. Però, a chi è beato, come tutti vogliono essere, non
è giusto, né vero dire: “Non può realizzarsi ciò che tu vuoi”. Se infatti è felice,
tutto ciò che vuole può realizzarsi, perché non vuole ciò che non può realizzarsi.
Ma questa condizione non è propria di questa vita mortale, essa si realizzerà solo
quando si accederà alla vita caratterizzata dall’immortalità. Se questa fosse del
tutto inaccessibile all’uomo, vana sarebbe pure la ricerca della beatitudine, perché
senza immortalità non vi può essere beatitudine» (vid. anche S. Theol. I-II, q. 5,
a. 8, ad 3).
21
Se l’essenza è “ciò per cui qualcosa è quello che è”, il sesso è quello per cui
una donna è donna, e un uomo, uomo. I genitali, infatti, sono gli elementi determinanti per sapere se un neonato è femmina o maschio.
22
Cfr. anche San Bonaventura (Bonaventura da Bagnorea 1985): «in sapientia
aeterna est ratio fecunditatis ad concipiendum, producendum et pariendum quidquid est de universitate legum; omnes enim rationes exemplares concipiuntur ab
aeterno in vulva aeternae sapientiae seu utero» (Collationes in Hexaemeron 20, 5).
23
«L’isomorfismo del fiore è anzi concettualmente più ambizioso, poiché
aspira a porsi come modello di ogni polisemia: ciò che è occulto e al tempo stesso
desiderato del corpo femminile (quindi il suo sesso) è, a ciò che è esposto (le
“parti nude”), quello che l’allegoria (cioè il recondito contenuto di verità) è alla
lettera (la superficie espressiva del testo). D’altra parte, la figurazione della giustizia come di una donna lacera e seminuda, che attrae la curiosità del desiderio
(Amore) per il sesso che la “rotta gonna” lascia intravedere, prelude alla successiva allegorizzazione del fiore, che si presenta, nei versi 91-100, prima come og-
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getto che si desidera toccare ed eventualmente gustare (“lo dolce pome”), e poi
come oggetto che si desidera vedere (‘l fior’) […]. La canzone, dunque, come una
donna che stimola il desiderio di un uomo, presenta “parti nude” che sono la lettera e parti intime che sono la allegoria. La visione di queste ultime, e l’eventuale
concessione di esse (“fa disïar”), sono riservate agli “amici di virtù”» (Pinto 2007:
132-133).
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