Divina Commedia. Paradiso

Transcript

Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto X
Cielo quarto o del Sole. Anime dei sapienti. Sapienza di Dio Creatore. Ascesa al Sole. La corona
dei dodici spiriti: loro presentazione da parte di S. Tommaso d’Aquino.
“Guardando nel suo Figlio con l’Amore/ che l’uno e l’altro etternalmente spira,/ lo primo e ineffabile
Valore”, nella terzina le parole da sottolineare sono guardando, che definisce con questo atto la persona
del Verbo eterno generato da lo primo e ineffabile Valore, che è il Padre, quindi spira a definire la
relazione della prima e della seconda persona della Trinità, ossia il procedere dello Spirito Santo dal
Padre e dal Figlio, Filioque: e sono le operazioni ad intra, o intratrinitarie; e l’intensità dottrinale non
finisce qui, la seconda terzina definisce l’operatività ad extra delle tre Persone, o extratrinitarie, il loro
concorso all’opera creativa, “quanto per mente e per loco si gira/ con tant’ordine fé”; laddove per mente
dice riferimento agli esseri puramente spirituali, per loco include tutti gli esseri composti di materia e di
forma che occupano uno spazio, loco; la seconda parte della stessa terzina, “ch’esser non puote/ sanza
gustar di lui chi ciò rimira”, dice riferimento alla perfezione del creato sì che ogni essere intelligente
che ciò vede e comprende, rimira, non può non dare gloria a Dio Creatore. Conseguente l’esortazione
al distacco dalle miserie che accadono sulla terra, enunciate in chiusura del canto precedente, e a
guardare in alto: “leva dunque, lettore, a l’alte rote/ meco la vista”, dove la perfezione di Dio esplica
l’opera sua, evidenziata da quel grandioso moto “dove l’un moto e l’altro si percuote”, il moto diurno
del cielo stellato e quello annuo dei pianeti, il moto universale. L’invito “a vagheggiar ne l’arte di quel
maestro che dentro a sè l’ama,/ tanto che mai da lei l’occhio non parte” annuncia la seconda
prerogativa ad extra, Dio Conservatore, se mai Egli distogliesse l’occhio suo amoroso, tutto
ritornerebbe al nulla; “l’oblico cerchio che i pianeti porta” è lì ad annunciare la qualità del moto;
proprio perché “oblico”, strada torta, dà origine alle diverse stagioni, che rendono possibile la vita sulla
terra “per sodisfare al mondo che li chiama”, diversamente sarebbe “quasi ogne potenza qua giù
morta”, perché “molta vertù” presente nei cieli non troverebbe le condizioni adatte per il corretto
influsso sulla terra.
“Or ti riman, lettor, sovra il tuo banco” si raccomanda Dante, a riflettere sulle conseguenze e
implicazioni delle due verità appena enunciate; “ormai per te ti ciba;/ ché a sé torce tutta la mia cura/
quella materia ond’io son fatto scriba”. Troppe cose egli ha visto in questo cielo e deve riferire, fatto
com’è scriba. Riprende così la cronaca del viaggio dopo il solenne incipit.
“Lo ministro maggior de la natura”, il Sole: “io era con lui; ma del salire/ non m’accors’io”: Dante si
ritrova in questo nuovo cielo, e non sa dire come vi sia giunto, come non ci si accorge quando da un
pensiero si passa ad un altro, senza soluzione di continuità. Il sole, dunque, che presiede a tutte le nostre
attività generatrici e conservatrici e ci dà la misura del tempo, si trovava nell’equinozio di primavera “si
girava per le spire/ in che più tosto ognora s’appresenta”, passava cioè dal tropico del Capricorno a
quello del Cancro. Sulla scorta di Beatrice egli passa di cielo in cielo fuori da ogni misura del tempo.
Qui, dove tutto è luce, una realtà non si distingue dall’altra per un diverso colore, ma per una maggiore
luce: si immagini come splendevano quelle anime! Né ingegno, arte o esperienza sono di aiuto, solo
l’immaginazione soccorre “ma creder puossi e di veder si brami”. Non è però da meravigliarsi “se le
fantasie nostre son basse”, inadeguate, “ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse”: S. Paolo infatti era
giunto solo fino al terzo cielo, i beati di questa sfera costituiscono la “quarta famiglia” della Trinità, de
“l’alto Padre”, che li sazia “mostrando come spira e come figlia”. Beatrice opportunamente raccomanda
a Dante la preghiera di ringraziamento del dono gratuito di Dio, il “Sol de li angeli”, di essere stato
elevato fin qui: e Dante dà una riposta pronta e piena “e sì tutto ‘l mio amor in lui si mise,/ che Bëatrice
eclissò ne l’oblio”: è la prima volta che viene eclissata, ma lei stessa è la prima a comprendere l’abisso
fra sé e Dio, e “non le dispiacque, ma sì ne rise,/ che lo splendor de li occhi suoi ridenti/ mia mente
unita in più cose divise”: ora è Dante che, con il suo profondissimo amore di Dio, rende lei più felice e
più splendidi il sorriso e gli occhi.
Poi questo beatissimo cielo si anima e si riempie “io vidi più fulgòr vivi e vincenti/ far di noi centro e di
sé far corona”, detto con studiato parallelismo, centro e corona; così come l’alone circonda la luna
quando l’aria è densa di vapori. La connotazione “più dolci in voce che in vista lucenti”, è una
comparazione fra vista e voce che sa di paradosso, ma è lì non solo ad esaltare l’umana sensibilità
presente in Dante, ma a sottolineare le celesti melodie di quei beati spiriti di cui si accingerà a dire, “e ‘l
canto di quei lumi era di quelle… gioie care e belle/ tanto che non si posson trar del regno”,
indescrivibili a “chi non s’impenna sì che la sù voli”. E, cantando, tre volte, a modo di danza, girano
attorno a Dante e a Beatrice, “donne mi parver, non da ballo sciolte,/ ma che s’arrestin tacite,
ascoltando/ fin che le nove note hanno ricolte”, pronte a riprendere il ritmo; il preciso riferimento alla
sospensione più che pausa nella danza ci dice che tutto avviene all’istante, simultaneamente: a rendere
quindi la coralità della beatitudine paradisiaca dei beati, oltre al canto e alla luce, ora si aggiunge la
danza. Ed ecco finalmente la voce di una di esse: “quando/ lo raggio de la grazia... multiplicato in te
tanto risplende”, e cioè, poiché la grazia divina risplende in te in maniera così eccezionale, e ne fa
testimonianza la tua presenza qui e ora, “qual ti negasse il vin de la sua fiala/ per la tua sete, in libertà
non fora”, chi rifiutasse di soddisfare ai tuoi legittimi desideri di sapere, non si comporterebbe da
persona libera, poiché la grazia divina “onde s’accende/ verace amore e che poi cresce amando”, carità
accresce carità, e il tuo amore è così grande che, di natura sua, crea corrispondenza, e negare
corrispondenza sarebbe “com’acqua ch’al mar non si cala”.
Il beato conosce il desiderio che urge nella mente di Dante: “tu vuo’ saper di quai piante s’infiora/
questa ghirlanda che ‘ntorno vagheggia/ la bella donna ch’al ciel t’avvalora”, sa tutto, dunque. Prima
però di rispondere degli altri, presenta se stesso, “io fui de li agni de la santa greggia/ che Domenico
mena per cammino/ u’ ben simpingua se non si vaneggia”. La presentazione è ancora un po’ generica e
contiene anche un po’ di sale; ma preciserà poi tutto sulla sua persona nella terzina seguente, ora passa
ad onorare altri del primo posto; quanto poi all’espressione “u’ ben simpingua”, la chiarirà ampiamente
nel canto successivo, a fugare l’interrogativo apparso nella mente di Dante; e comincia, “questi che m’è
a destra più vicino,/ frate e maestro fummi, ed esso Alberto/ è di Cologna, e io Thomas d’Aquino”. I
domenicani in primis, allora e da tempo i veri cultori della scienza in generale con Alberto Magno, il
maestro di Tommaso e di tanti altri, e della filosofia aristotelica applicata alla teologia con lo stesso
Tommaso. Poi gli altri; inutile dire a Dante “se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,/ di retro al mio parlar
ten vien col viso/ girando su per lo beato serto”; e li addita a uno a uno seguendo la disposizione nella
ghirlanda o serto. Dopo i domenicani, gli altri dieci in sequenza, tutti insieme fonti cui si ispirò Dante:
il monaco camaldolese Graziano che per primo diede ordine e forma al diritto canonico, quasi in
contemporanea con il giurista Irnerio, entrambi a Bologna. “L’altro... quel Piero fu che con la poverella/
offerse a Santa Chiesa suo tesoro”, Pietro Lombardo che, come la poverella del vangelo, offrì alla
Chiesa quello che aveva, il suo testo, Sententiarum libri quattuor, su cui si sono formati i teologi per
circa due secoli, fino a Tommaso. “La quinta luce, ch’è tra noi più bella,/ spira di tale amor”, e non
induca in errore quest’ultima espressione, perché, certo si distinse per amore, ma “è l’alta mente u’ sì
profondo/ saver fu messo, che... a veder tanto non surse il secondo”, e Tommaso sembra giurare sulla
profondità del sapere di Salomone; anche su quest’ultima espressione Tommaso tornerà nel canto
seguente. Poi Dionigi che “più a dentro vide/ l’angelica natura e ‘l ministero”, ossia le gerarchie
angeliche. Seguono lo storico Paolo Orosio “avvocato de’ tempi cristiani” di cui molto si avvalse S.
Agostino; il filosofo Severino Boezio è “l’anima santa che ‘l mondo fallace/ fa manifesto a chi di lei
ben ode”; ed è anche martire, egli “da martiro/ e da essilio venne a questa pace”; quindi “fiammeggiar
l’ardente spiro/ d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,/ che a considerar fu più che viro”, quest’ultimo è il
mistico scrittore della scuola parigina dei vittorini. Indi “’l lume d’uno spirto che ‘n pensieri/ gravi a
morir li parve tardi: essa è la luce etterna di Sigieri” di Brabante; ci sorprende qui la presenza di chi,
tormentato e concentrato su gravi problemi filosofici, arrivò al punto di non curarsi della sua stessa vita;
e sintetizza “silogizzò invidïosi veri” a dire dell’invidia altrui, fino ad accusarlo di eresia. Indi, come
orologio che indica alla Chiesa l’ora del sorgere mattutino alle divine lodi “tin tin sonando”, così “vid’io
la gloriosa rota/ muoversi e render voce in tempra/ e in dolcezza ch’esser non pò nota/ se non colà dove
gioir s’insempra”, nella perennità del Paradiso, appunto.