Divina Commedia. Paradiso
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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Paradiso letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto IX Cielo terzo o di Venere. Spiriti amanti. Cunizza da Romano. Folco da Marsiglia. Raab. Invettiva contro la Curia Romana. Il canto si apre con l’ardita apostrofe alla “bella Clemenza”, moglie e/o figlia di Carlo Martello, entrambe con lo stesso nome ed entrambe qui non presenti, in un ideale dialogo che vuol essere un omaggio ad entrambe “Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,/ m’ebbe chiarito, mi narrò li ‘nganni/ che ricever dovea la sua semenza”, gratificandole con l’attributo “bella”, solitamente proprio di Beatrice; e le rende partecipi delle disavventure dei loro discendenti con l’accenno a “la sua semenza”; e di questi inganni, di cui certamente tutti sono parte, ora Dante dovrà tacere per volontà dello stesso Carlo, “taci e lascia muover gli anni”; il tempo si incaricherà di verificarli, purtroppo eventi tristi, e “pianto/ giusto verrà di retro ai vostri danni”, laddove “vostri danni” dice continuità in questa specie di dialogo sin dall’inizio enunciato. Amaro vaticinio. Indi “la vita di quel lume santo”, di Carlo si dilegua, quasi a volgere le spalle alla terra e lo sguardo “al Sol che la rïempie/ come quel ben ch’a ogne cosa è tanto”. E Dante, quasi ad evidenziare il contrasto tra cielo e terra, esclama “Ahi anime ingannate e fatture empie,/ che da siffatto ben torcete i cuori,/ drizzando in vanità le vostre tempie!”, dove le “anime ingannate” e le empie creature fungono da eco a “li ‘nganni” cui sopra accennava Carlo. Ma, in un susseguirsi di messaggeri e di messaggi, “ecco un altro di quelli splendori/ ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi/ significava nel chiarir di fori”; l’anima che si presenta è ancora indistinta, ma i connotati sono gli stessi, “splendori”, “voler piacermi”, “chiarir di fori”, a mostrare fuori di sé luce d’amore. Si direbbe a sedurre l’animo del pellegrino. E allora, incoraggiato da Beatrice, Dante gli si volge a chiedere che gli dia prova come il suo desiderio di sapere chi egli sia, si rifletta in lei, “beato spirto”, quasi specchio: “fammi prova/ ch’i possa in te rifletter quel ch’io penso!”; cosa del resto consueta, infatti non solo Beatrice, ma lo stesso Virgilio, spesso avevano letto i pensieri di Dante: li può dunque leggere anche quell’anima, “ancor nova”, desiderosa di compiacergli, quasi che rispondere a Dante sia come proseguire il canto a Dio, nello spirito della squisita carità, “seguette come a cui di ben far giova”. E racconta di sé, e sempre con perifrasi geografica, si dice originaria del colle di Romano, nella Marca trevigiana, luogo “là onde scese già una facella/ che fece a la contrada un grande assalto”, si tratta del tiranno del fratello Ezzelino III da Romano, tristemente famoso per crudeltà, ormai è tutta “terra prava”; dice “d’una radice nacqui e io ed ella”, dice, alludendo alla facella, e “Cunizza fui chiamata”, Cunizza da Romano; “e qui refulgo/ perché mi vinse il lume d’esta stella”, vinta prima dall’amore per gli uomini, ma poi, con improvvisa conversione, vinta dall’amore di Dio. Pertanto è contenta di questo influsso, non se ne rammarica, anche se è cosa “che parria forse forte al vostro vulgo”; lieta, poiché, nata dalla stessa radice di Ezzelino, anziché alla crudeltà, ella indulse all’amore! E, per quanto la concerne, questo è tutto; passa poi a presentare l’anima che le sta accanto, persona di grande fama “luculenta e cara gioia”; e questo anno, 1300, si moltiplicherà per cinque, s’incinqua, prima che la sua fama si estingua: vedi dunque come l’uomo deve rendersi “eccellente” se vuole che la sua fama sopravviva a lungo. Cosa invece che non tocca “la turba presente” che vive fra il Tagliamento e l’Adige, la Marca trevigiana appunto. Ma presto, aggiunge in maniera profetica Cunizza, la palude intorno a Padova cambierà l’acqua in sangue; a Treviso signoreggerà un tiranno di cui già si prepara la rete; anche Feltre piangerà il castigo divino a causa del suo pastore, reo di colpa vergognosa sì “che per simil” ancora nessuno fu incarcerato, un vescovo che tradisce a morte chi di lui si fida! A dire delle tristi conseguenze, commenta Cunizza, troppo grande dovrebbe essere “la bigoncia/ che ricevesse il sangue ferrarese,/ e stanco chi ‘l pesasse a oncia a oncia”, a proposito del sangue dei ferraresi fatto versare dal vescovo di Feltre; e conclude, “cotai doni/ conformi fieno al viver del paese”, come a dire, un tal pastore per un tal gregge! Detto questo della Marca trevigiana e dintorni, invoca per fede a giudice e specchio della divina verità la gerarchia che presiede a questo cielo, “sù sono specchi, voi dicete Troni,/ onde refulge a noi Dio giudicante”. “Qui si tacette; e fecemi sembiante/ che fosse ad altro volta”, ossia alla danza circolare consueta. Si presenta Folco da Marsiglia, peraltro già annunciato, “l’altra letizia”, “qual fin balasso in che lo sol percuota”, rubino purissimo investito della luce solare. “Per letiziar là sù fulgor s’acquista”, ribadisce Dante, come da noi il sorriso, e così saluta il beato: “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia”, tu vedendo Dio vedi tutto, come Dio tutto vede, e vedi il mio desiderio; e, dunque, la tua parola “perché non satisface a’ miei disii?”. E prosegue, “già non attendere’ io tua dimanda,/ s’io m’intuassi, come tu t’inmii”, ossia, io non attenderei domande se potessi compenetrarmi in te come tu entri in me, a conoscere i miei più intimi desideri. A rendere le immedesimazioni del beato con Dio e con lo stesso Dante, il Poeta si inventa i neologismi pronominali, di prima, seconda e terza persona, “s’inluia, m’ intuassi, t’inmii”. Anche Folco da Marsiglia si avvale della solita ed ampia perifrasi geografica, per dichiarare la sua origine; egli proviene dalla foce del Rodano, la valle più grande in cui penetra l’acqua del Mediterraneo, mare per ampiezza inferiore solo all’oceano che circonda la terra; questo mare si estende altrettanto in direzione contraria al corso del sole tra le due rive opposte fino a Gerusalemme, che è a mezza strada fra Cadice e il Gange. Il luogo è Marsiglia “tra Ebro e Macra”, con riferimento al Magra, il breve fiume che divide la Liguria dalla Toscana; fra la Spagna e l’Italia, e sullo stesso meridiano della città algerina di Buggea. “Folco mi disse quella gente a cui/ fu noto il nome mio”, il trovatore provenzale è “Fulquetus da Marsilia”: Tan m’abellis l’amoros pensamen”, nota Dante nel De vulgari eloquentia, questo intende il beato quando dice “e questo cielo/ di me s’imprenta, com’io fe’ di lui”, in maniera così intensa come neppure Didone per Enea, né Rodopea per Demofoonte o Ercole per Iole arsero tanto: tutto questo però “infin che si convenne al pelo”, e cioè fino a che i capelli erano neri. Anch’egli, come già Cunizza, si premura di notare “non però qui si pente, ma si ride”. Non già perché la colpa non sia tale, che peraltro ormai è dimenticata, ma perché si è contenti al pensiero di quella influenza, valor, che pose ordine a quell’inclinazione e la provvide poi a buon fine: e qui si può ben vedere che quello che Dio con “cotanto affetto” ha creato e ordinato, lo abbellisce con tanto amore, come manifesta la positiva influenza del girare dei cieli intorno alla terra. Indi, come Cunizza aveva presentato Folco, così egli presenta l’anima a lui vicina, a soddisfare appieno i desideri del pellegrino, “tu vuo’ saper chi è in quella lumera/ che qui appresso me così scintilla/ come raggio di sole in acqua mera”: quella è Raab, che assai contribuisce allo splendore del coro di questo cielo, “a nostr’ordine”. Questo cielo, nel quale termina con la sua punta il cono d’ombra creato dalla terra, dopo che Cristo scese negli inferi a riscattare le anime dei padri come corteo del suo trionfo, accolse lei per prima, e a buon diritto, “ben si convenne lei lasciar per palma/ in alcun cielo de l’alta vittoria/ che s’acquistò con l’una e l’altra palma”; se, dunque, la vittoria di Cristo è dovuta alla sua crocifissione, questa prese origine da Raab “perch’ella favorò la prima gloria/ di Josuè in su la Terra Santa”; e qui il riferimento biblico ricorda come la prostituta Raab, a rischio della sua stessa vita, ospitò gli inviati di Giosuè a Gerico, inizio della conquista della Palestina. Nota dolorosa il ricordo dell’impresa, con riferimento al presente disinteresse del papa verso la Terra Santa “che poco tocca al papa la memoria”. E qui Folco, con ardito procedimento, cambia soggetto grammaticale, ma non logico, “la tua città, che di colui è pianta/ che pria volse le spalle al suo fattore”, figlia dunque del demonio la cui invidia ha prodotto tanto sconquasso; bene la tua città “produce e spande il maladetto fiore”, quel fiorino che ha invischiato pecore, agni, e peggio ancora, “fatto ha lupo del pastore”, e con lui tutta la curia romana, per il fiorino, “per questo l’Evangelio e i dottor magni/ son derelitti, e solo ai Decretali/ si studia, sì che pare a’ lor vivagni”: non si studia più il Vangelo né l’interpretazione dei dottori della Chiesa, ma solo il Diritto Canonico in ordine alla carriera ecclesiastica, lo si vede dai margini consunti dei testi di diritto; in prima fila il papa e i cardinali: non pensano di certo alla Terra Santa “a Nazarette”. Indi, denuncia e profezia, “ma Vaticano e l’altre parti elette/ di Roma” che furono già luogo di martirio e di sepoltura dei primi cristiani “tosto libere fien de l’avoltero”; un tradimento tale che adulterio lo dice Folco da Marsiglia, già trovatore provenzale, ma poi Vescovo egli stesso di Santa Romana Chiesa.