Un peccAto originAle

Transcript

Un peccAto originAle
Un peccato originale
Il mare era in burrasca da giorni e il vento continuava a sferzare
una piccola isola sperduta nell’oceano Atlantico, a nord della
Martinica. Un atollo al di fuori di tutte le rotte commerciali,
non segnalato dalle carte nautiche.
Un uomo, riverso sulla spiaggia, portato a riva dalla corrente,
ne era diventato da qualche ora l’unico abitante.
Indossava una maglietta strappata e un misero pantaloncino.
Esausto per aver lottato con il mare tutta la notte.
Attorno a lui solo grandi palme e una fitta vegetazione.
Sarebbe potuto rimanere così immobile per molto tempo, se
un’onda impetuosa non lo avesse fatto sobbalzare.
Aprì gli occhi, si passò la mano sul viso e istintivamente guardò il cielo. Appena riuscì a mettere a fuoco quelle nuvole tutt’ora minacciose, la sua mente gli offrì il ricordo degli ultimi attimi
prima del naufragio.
«Abbandoniamo la barca». Con angoscia e con terrore vide
allora i suoi compagni di viaggio indossare i giubbotti di salvataggio e, uno dopo l’altro, buttarsi in acqua.
Guardò per l’ultima volta il suo veliero e pensò che sarebbe
stato meglio affondare con lui piuttosto che affrontare una mor7
te lenta nell’oceano. Solo l’istinto di sopravvivenza lo riportò
immediatamente alla realtà, ricordandogli quanto invece desiderasse ancora vivere.
D’un tratto sentì un tonfo. L’albero maestro si schiantò sulle
onde. Gettatosi anche lui in acqua, riuscì con poche bracciate ad
aggrapparsi a quel tronco di legno. Un legno levigato, fiero, che
dopo averlo portato in giro per il mondo ora, seppur a pezzi, lo
traghettava, come poteva, verso un ultimo approdo: una spiaggia sperduta in mezzo all’oceano.
Su quella sabbia finissima, i suoi occhi continuavano a perdersi nel cielo plumbeo e la sua mente nei ricordi della tempesta.
Non capiva se era un sogno o la tetra realtà.
Si alzò in piedi con la lentezza di chi non sa bene cosa provoca ogni piccolo movimento, ma con l’attesa spasmodica di vedere un segno di speranza.
Si girò su se stesso per trovare qualcosa di conosciuto. Nulla. Mise velocemente le mani in tasca, ma anch’esse ritornarono
fuori vuote.
Il terrore iniziò allora a fare il suo sporco lavoro.
Per fuggire quella insopportabile condizione di panico crescente iniziò a parlare.
Riuscì a dire solo poche parole, perché le lacrime presero
subito il sopravvento, bagnando quei suoni timorosi che uscivano dalla bocca e che timidamente chiedevano: «Mi salverò?».
«Sì, ce la farò».
8
Dove tutto è iniziato
C’è stato un momento nella nostra vita, anche se non possiamo
dire con precisione né dove né quando, in cui, per la prima volta, anche noi ci siamo comportati come questo naufrago. Forse
la situazione non è stata così drammatica, ma le nostre arterie, non di meno, hanno registrato un vero sussulto. E come il
superstite ci siamo concessi un’operazione indebita, un azzardo
che invece avremmo dovuto evitare.
In quella circostanza, dopo aver posto la domanda che tanto
ci premeva, da soli, nello stesso momento, abbiamo dato anche
la risposta; quella che volevamo sentire.
Una risposta fulminea, immediata. Senza aspettare un confronto, una conferma e senza sapere quello che sarebbe effettivamente successo. Spinti unicamente dal desiderio di rispondere
ai nostri dubbi e di placare le nostre paure. Ma dovevamo fare in
fretta, perché l’attesa era insopportabile; il dubbio, mortale. In
quel momento cercavamo solo una reazione che ci permettesse
di continuare a sperare.
«Tutto andrà bene». «Sono convinto che ce la farò». «Devo
assolutamente farcela».
9
Ritengo che questa prima volta si sia verificata nella nostra
infanzia. Non lo ricordiamo più perché si è trattato di un atto
privo di consapevolezza, ma, inconsciamente, conserviamo
ancora la memoria del sollievo che questa personale forzatura
ha portato.
E ci è parso così bello e così utile che abbiamo iniziato a trasformare il primordiale gioco in una tendenza; poi, in una consuetudine; infine, in una vera e propria abitudine fatta sistema:
una coazione a ripetere dalle conseguenze neppur lontanamente
immaginate.
Da allora, pensare alla soluzione che più ci piace o immaginare che le cose vadano come vogliamo noi è il nostro modo di
vivere e di pensare.
E siamo talmente immersi in questo mare di illusione in cui
facciamo tutto da soli che è addirittura difficile rendersene conto. È una dimensione che ci sovrasta e ci rinchiude in un vestito
che non riusciamo più a dismettere.
È sporco, puzza, ma non sappiamo farne a meno. E se qualcuno ci dice di cambiarci, gli chiediamo se è matto: in quei panni noi ci stiamo benissimo.
Con gli anni poi siamo diventati talmente bravi che possiamo fare la domanda e dare la risposta in una frazione di secondo. Siamo abilissimi.
Immaginiamo qualsiasi cosa senza doverci spostare di un millimetro: facciamo tutto in casa nostra, tutto nel nostro piccolo
cervello. Creiamo cioè in ogni momento della giornata un dialogo interiore che non lascia un attimo di respiro. E a volte è
talmente asfissiante e coinvolgente che il possibile e l’imprevisto
non trovano spazio per vivere.
Un modo di pensare che ci convince di avere quasi sempre
ragione e ci ripiega sul nostro io.
10
Ma non ci bastò.
L’ingordigia, l’avidità e la stoltezza posero le basi per il secondo disastro.
Rispondere al posto dell’altro, usurpando la sua parola, fu il
nuovo delirio.
Quindi, il suo pensiero, la sua idea, la sua risposta, divennero
di nostra competenza.
Per paura e per bramosia di controllo, incominciammo noi a
inventare le parole dell’altro, chiudendoci a lui e alla possibilità
di sentirlo.
L’ascolto divenne dunque una questione immaginaria. Esclusivamente immaginaria. Perdemmo cioè la capacità di accogliere
l’altro e di farlo vivere.
Ancora una volta, ovviamente, non ce ne rendemmo conto.
Ma ci piacque molto. Non solo ce la cantavamo da noi e per
noi, ma adesso potevamo farlo anche per i nostri simili.
L’euforia di sentirsi dei piccoli re, e l’illusione di manovrare il
prossimo, a nostro uso e consumo, divenne irresistibile.
In un attimo ci appropriammo di quella particolare facoltà
che ebbero tutti i regnanti di un tempo: il diritto di morte.
Quell’imposizione crudele e arbitraria la riesumiamo ancora
oggi, ogni volta che non ascoltiamo o che impediamo all’altro
di parlare, di esprimersi, e quindi di esistere. Di avere un pensiero diverso dal nostro. Oppure quando non accettiamo cosa dice
e come lo dice. In quei momenti, negandogli il diritto di essere
così com’è, lo uccidiamo. Simbolicamente, certo, ma l’intenzione è identica.
Quante volte ci è capitato di chiuderci a colui che parla? Di
non stimarlo, di criticarlo, di ridicolizzarlo? Di confezionare nel
11
nostro cervello la risposta mentre lui sta ancora parlando? Di
interromperlo? Quante volte, prevenuti, abbiamo rifiutato la
sua idea? O non abbiamo dato nessun peso e nessun valore a
quello che diceva?
Quante volte “uccidiamo” nelle nostre famiglie?
Eppure noi siamo convinti di ascoltare l’altro, di rispettarlo
e di amarlo.
In realtà, noi non lo sappiamo fare. Noi non sappiamo ascoltare. E non ascoltiamo perché nessuno ce l’ha insegnato. Siamo,
questo sì, sclerotizzati e ipnotizzati sull’idea che, per il solo fatto di avere due orecchie, noi sappiamo e possiamo ascoltare. Ma
l’ascolto è ben altro che disporre di due padiglioni auricolari.
Il libro che avete fra le mani nasce da un percorso spirituale e professionale. Nasce, potrei dire, in un altro tempo. Credo
infatti di aver scritto le prime righe, senza saperlo, circa venticinque anni fa quando la donna che poi è diventata mia moglie
mi guardò con occhi affranti chiedendomi: «Perché non mi
ascolti?».
A quella domanda imbarazzante risposi come tutti quelli che
sono scoperti con le mani nel sacco: negai. Negai per paura e
perché ignoravo. Non ero pronto ad ammettere l’unica cosa che
avrei potuto dire: «Non so che cosa vuol dire ascoltare».
Il non vivere questa fondamentale attività umana – l’ascolto – è
stato per me, come per tutti, fonte di grandi incomprensioni, di
interminabili discussioni e di inutili sofferenze. Veramente inutili.
Quante energie buttate e che stanchezza!
Ma non c’è rammarico; ora c’è solo la gioia di continuare ad
imparare, ogni giorno, alla scuola di Gesù Cristo.
12
Il Maestro è disponibile, per tutti, e non aspetta altro che il
nostro vero desiderio, il nostro Amore.
Se accogliamo la sua offerta, ne trarremo pace e serenità.
Potremo costruire dei veri rapporti umani basati sulla verità del
nostro dire e sulla capacità di farlo vivere.
Da dove partire allora e che cosa abbandonare?
Anche in questo caso non esistono segreti e tutto quello che
serve brilla alla luce del sole. Chiaro, disponibile, libero, gratuito.
Lo scopo di questo libro è dunque quello di sostenere ed aiutare chi cerca questo sapere, pur non nascondendo le difficoltà.
Avremo bisogno di costanza, impegno e umiltà, ma è possibile. E nel cammino che ci tradurrà alla meta scopriremo che
ascoltare il nostro prossimo è essenziale come respirare; nutriente come mangiare; affascinante come vivere.
Perché aprirsi all’altro è aprirsi a innumerevoli sorprese ed
emozioni.
L’altro da noi, il nostro altro, è un’inestimabile ricchezza. Un
tesoro sempre presente. Una fonte a cui abbeverarsi. Un continuo imparare. Un umano mistero. Un prezioso messaggero.
Dobbiamo solo vincere la paura che questo essere umano ci
incute e accoglierlo con disponibilità.
Queste pagine vogliono prendere per mano chi ascolta e
avvicinarlo a colui che parla, chiunque esso sia: moglie, marito,
figlio, figlia, parente, amico, amica, conoscente, collega, compagno di giochi o di sventure, straniero, sconosciuto, nemico. Il
nostro prossimo.
Accogliere le sue parole è accoglierlo. Accoglierlo è dargli vita.
13