romanzi - Federico Tavola

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romanzi - Federico Tavola
ROMANZI
Federico Tavola
CHE BELLA VITA
Prefazione di
Andrea G. Pinketts
MURSIA
Copertina: Valeria Rusconi Clerici
Immagine di copertina: © Amanda Rodhe/iStockphoto.com
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Anno
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Agli uomini perbene,
radicali e ribelli
PREFAZIONE
IL CODICE DI LEONARDO
Il noir è una fonte di energia rinnovabile.
Come il sole, il calore del nostro pianeta, il vento, il mare.
È vero che Celentano negli anni Sessanta cantava Si è
spento il sole, ma lui come profeta vale quanto il sottoscritto come tassidermista.
Anche il noir ogni tanto si spegne perché consumato
dall’uso, dall’abuso su minori (fino a qualche anno fa il noir
veniva considerato il figlio di un dio minore della letteratura). Oggi, in Italia, chiunque si sente in grado di scrivere un
noir, magari a proprie spese di dignità e di pubblicazione.
Sono personalmente assediato da aspiranti scrittori di noir
assolutamente privi di energia che pensano a me come a
una sorta di energia alternativa quando vengono rifiutati da
saggi editori. Infatti il Saggiatore non pubblica noir.
All’inizio degli anni Novanta una sporca dozzina di impavidi – Lucarelli, Fois, Montanari, Carlotto, Vallorani e
sopra tutti Pinketts – è riuscita a sdoganare un genere che
genere non è, chiudendo un rubinetto d’acqua non potabile, non pubblicabile (anche se pubblicata) di storie scritte
con piede sinistro. Storie che non puzzano nemmeno di
piede e di piedipiatti. Storie senza puzza, senza profumo,
senza nulla. Storie che odorano di cliché.
Non è assolutamente il caso di Che bella vita di Federi7
co Tavola, un uomo di cui sono recentemente diventato
prima lettore, e col quale siamo in trattativa per diventare
amici.
Di «energia narrativa» l’autore ne ha da vendere. Federico Tavola, dopo una vita professionale movimentata da
viaggiatore, guida museale, amministratore di una finanziaria, insegna fisica in Statale a Milano.
E qui mi viene in mente una frase di Maupassant che
riassume il nostro nuovo Bel ami del noir: «Quando si ha il
fisico adatto a un’occupazione, se ne ha anche l’anima», parafrasandola in: «Quando si ha un fisico adatto a un’occupazione, se ne ha anche l’anima».
Ecco: Federico Tavola, fisico, ha l’anima dello scrittore.
Lo dimostra a cominciare dal titolo ingannevole Che bella
vita, che sembra scimmiottare il melenso presunto capolavoro di Benigni La vita è bella. Qui si parla d’altro. Si parla
di delitti, di multinazionali in odore di crimine, si parla di
amicizia, si parla di idrogeno. Non è l’idrogeno di Jukebox
all’idrogeno della beat generation. E neanche dell’idrogeno
al quale è dedicato un racconto nell’antologia di racconti Il
sistema periodico di Primo Levi. Se questo è un uomo, Federico Tavola è uno scrittore.
Che bella vita è la storia di un detective privato che ha rinunciato a indagare anche sui propri sentimenti. Provato
da una storiaccia che lo ha portato ad avere un ruolo decisivo nella soluzione di un caso riguardante il rapimento e
l’omicidio di una bambina a opera di satanisti, ne è uscito
svuotato. Senza energia. Per apatia ha rinunciato anche alla
moglie che probabilmente lo ama ancora e si occupa delle
corna dei propri clienti.
Ha una figlia più o meno adolescente, con un’amica a rischio sbandamento siderale e solidi amici che ne assistono
all’assuefazione alla routine. E fin qui siamo ancora nel cliché. Niente di più sbagliato. Il presunto suicidio di un geniale ricercatore, l’incontro con la moglie del mancato
Nobel che gli sviene sul pianerottolo, lo scontro con ambi8
gui dirigenti di società come la Future Oil, specializzata in
tecnologie finalizzate all’idrogeno come fonte di energia, gli
danno una nuova linfa.
E da qui, a poco a poco, comincia un riscatto degno del
Dean Martin di Un dollaro d’onore.
Leonardo, il protagonista, se ne rende conto solo alla
resa dei conti con multinazionali disposte a tutto (vi dice
qualcosa il caso Mattei?), picchiatori, pervertiti. Ma soprattutto con se stesso.
Leonardo è empatico e simpatico e in più ha la castagna
dura alla Tex Willer.
Tra Milano con le sue bellezze nascoste e Lugano con le
sue banche che hanno più segreti del Vaticano. Tra un debole per le partite di basket e John Lennon, Leonardo si guadagna il podio di un personaggio difficile da dimenticare.
Esattamente come tutti i suoi comprimari, che siano
informatici che somigliano al mitico Thor o professori universitari che non siano baroni ma principi dell’amicizia virile.
Lasciamo perdere, per un attimo, Leonardo. Veniamo
all’autore, Federico Tavola. La sua è una tavola imbandita.
Di umorismo marlowiano (l’antieroe liquida assatanate receptionist e altre squinzie, con misoginia fulminante), di tenerezza, di indignazione e, naturalmente, di mistero.
Espressioni come: «È come spiegare a fare le lasagne a
un sasso», «Non si allacciano le scarpe a un nano da giardino», «Una Clio verde vomito di gatto avvelenato dal vicino» sono inequivocabili dimostrazioni scientifiche, chimiche, fisiche, energiche ed energetiche del fatto che Federico Tavola, che battezzo astro nascente del qui coniato
«Energy noir», abbia un asso nella manica. Si chiama «Il
senso della frase». E se lo dico io...
ANDREA G. PINKETTS
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PROLOGO
Nella mitologia greca l’energia era rappresentata dal fuoco
che il filantropo Prometeo aveva sottratto agli dei per farne
dono agli uomini. Aristotele la considerava come l’atto,
mentre Leibniz la definiva come l’essenza delle monadi, ovvero i costituenti primi della materia. In fisica, l’energia
viene più precisamente definita come la capacità di compiere un lavoro.
Quando si chiede a qualcuno che cos’è l’energia, si arriva naturalmente a collegarla col concetto stesso di vita.
Senza energia non c’è vita, ma senza vita ci può essere energia. La si può considerare in senso più ampio come la capacità di vivere, ovvero un’opportunità. Essa c’è a prescindere dal suo utilizzo, è intrinseca all’universo nella sua sostanza e nei suoi movimenti. A seconda di come si manifesta e come viene utilizzata genera possibilità differenti. L’energia meccanica del vento dà l’opportunità di veleggiare
attraverso gli oceani e quella di illuminare un palazzo e far
funzionare degli elettrodomestici, una volta trasformata in
energia elettrica. Così come l’energia nucleare dà l’opportunità di distruggere un Paese nemico, di produrre idrogeno come vettore d’energia e di poter curare certi tipi di tumore. Non esiste energia buona o cattiva, questo dipende
da come la si utilizza e soprattutto dallo scopo per cui la si
vuole utilizzare.
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I
Appena entrò nella camera Bouba ebbe la sensazione di pericolo che spesso gli aveva salvato la vita da ragazzo, quando vagabondava per i sobborghi di Abidjan in cerca di fortuna, o di qualcosa che almeno le somigliasse. La stanza era
completamente al buio, inserì la tessera nella fessura a destra e tenendo la porta aperta accese le luci.
Tutto era apparentemente in ordine, come erano abituati a lasciarlo i suoi colleghi addetti alle pulizie delle camere.
C’erano solo un foglietto scritto lasciato sul tavolino di legno
alla sinistra di un monitor Lcd da 32 pollici, appeso al muro
di fronte al letto matrimoniale, e una giacca da completo grigio scuro, appoggiata sulla sedia a lato del letto. Sistemate le
coperte, Bouba stava per lasciare il cioccolatino della buonanotte sul cuscino, quando la sua inquietudine lo indusse a
fissare la porta semichiusa del bagno.
Era sempre molto attento e rispettoso della privacy dei
clienti, ma quella porta sembrava chiedergli di essere aperta.
Bouba lasciò allora il dolcetto sul letto, si avvicinò al
bagno, aprì definitivamente la porta e, una volta accesa la
luce, si ritrovò un’immagine che lo riportò immediatamente agli orrori della sua infanzia. Con gli occhi sbarrati di chi
ha fatto lo stesso incubo per l’ennesima volta, uscì dalla
stanza lasciando tutto com’era. Chiuse la porta della camera e andò dal direttore con cui attese l’arrivo della Polizia.
In seguito raccontò alle autorità competenti di come si
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era accorto del morto trovato in bagno e di come la vista di
quell’uomo lo avesse terrorizzato, nonostante di morti ne
avesse già visti fin troppi. Alla domanda sul perché fosse sicuro si trattasse di un omicidio esitò un attimo per poi rispondere che quell’uomo era sicuramente stato ucciso, se lo
sentiva nel profondo.
Questa sua dichiarazione fu messa agli atti e venne considerata nulla più di una nota folcloristica nell’indagine che
il mese successivo, dopo i prevedibili risultati della scientifica e dell’autopsia, venne archiviata dal Pubblico Ministero come suicidio.
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II
Era entrata nello stabile approfittando di un signore che
stava uscendo e le aveva lasciato aperto il portone. Era confusa, agitata e decisamente stanca. Da quando era morto
suo marito, quattro mesi prima, non era ancora riuscita a
passare una notte decente. Aveva provato con la camomilla, niente. Allora era passata alle tisane rilassanti, niente.
Aveva tentato, contro ogni sua predisposizione, diverse dosi
di benzodiazepine e niente anche con quelle; al che era ritornata alla solita camomilla.
Trovò piuttosto agevolmente la porta con la targhetta che
stava cercando, suonò il campanello più volte senza però ricevere alcuna risposta. Si sedette allora sui gradini delle scale,
in attesa che rientrasse la persona che pensava di incontrare
da settimane. Solo quella mattina però aveva avuto il coraggio, o la disperazione per arrivare fino a quella porta muta. Si
addormentò sugli scalini con la testa appoggiata al muro.
Una mano si poggiò delicatamente sulla sua spalla destra
e la signora Merlini si svegliò di colpo, alzando la testa di
scatto, con un’espressione sorpresa per essere riuscita ad
addormentarsi e per l’imbarazzo di averlo fatto in quella
circostanza. Lo stupore si attenuò alla vista dell’uomo che
le stava davanti un po’ perplesso. Era alto, decisamente alto
per lei, e ciò che la colpì più di tutto erano i suoi grandi
occhi verdi, dolci e rassicuranti.
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«Spero di non averla spaventata. Ho visto che dormiva
rannicchiata davanti alla porta del mio studio ed ero curioso di sapere se chi l’ha lasciata qui avesse voluto che io mi
prendessi cura di lei.»
«Mi scusi? Non...»
«Lasci stare, è una giornata un po’ così. Immagino che si
sia addormentata nell’attesa di qualcosa o di qualcuno. Posso aiutarla?»
«Lei è il dottor Lorenzi?»
Leonardo annuì, sorridendo alla goffa timidezza della
bella e distinta signora, che nel frattempo si era risistemata
e che aggiunse: «Allora spero proprio che possa aiutarmi».
Leonardo aprì la porta dello studio ed entrò facendo
strada alla signora Merlini.
«Entri pure e non faccia caso all’ordine. Anche perché
se dovesse ritornare dubito che lo ritroverebbe in questo
stato. La mia assistente se ne è appena andata; era lei a sistemare tutto e a rendere questo posto presentabile. Quindi fintanto che non troverò una soluzione alternativa le cose
qui saranno libere di muoversi a piacimento.»
Sistemò il caban e il cappotto della signora sull’appendiabiti all’ingresso, nell’angolo tra due pareti, su cui stavano appese un paio di vecchie stampe di Milano raffiguranti Porta Ticinese e Corso Vittorio Emanuele ai primi del
Novecento. Erano un’eredità del suo vecchio capo, nonché
ex titolare di quella che da un paio d’anni era diventata la
sua agenzia.
Entrati nella stanza fece accomodare la signora e, mentre si sedeva, le chiese se volesse qualcosa dal bar di fronte,
magari un caffè o quello che preferiva, visto che lui avrebbe comunque ordinato un cappuccino.
«Anche se stona, visto come ci siamo incontrati, ho un
po’ di difficoltà a dormire e il caffè non è l’ideale.»
«Effettivamente è una delle prime cose a cui ho pensato
quando l’ho vista. Non mi guardi come se volessi prendermi gioco di lei. Non ci sono molte altre spiegazioni nel trovare una signora distinta come lei che si addormenta alle
undici del mattino sulle scale davanti alla porta di uno sco16
nosciuto. O è narcolettica, oppure non ha dormito molto.
Un succo di frutta?»
«Alla pesca, grazie.»
Dopo un paio di convenevoli, le dovute presentazioni
fatte come si deve e un po’ di inutile conversazione sul
clima milanese, in attesa che arrivasse il galoppino del bar,
Leonardo si sentì pronto a fare la classica domanda che
tutti quelli che si trovavano davanti a lui in quella stanza volevano sentirsi fare. C’era chi sembrava non aspettasse altro
per iniziare a parlare e sfogarsi di qualcosa che lo turbava,
chi era più titubante perché in imbarazzo per qualcosa di
cui pensava di doversi vergognare e chi, come la signora
Merlini, sembrava non avere altra scelta che essere lì in quel
momento, come se quel passo avrebbe cambiato radicalmente la propria esistenza.
«A cosa devo la sua visita?»
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III
Era da poco suonata la campanella. Giulia aveva sistemato
i libri e dopo aver salutato velocemente alcuni compagni di
classe era uscita sempre più preoccupata per l’amica che
non si era presentata a scuola e non si degnava neanche di
rispondere ai suoi sms. Appena uscita dal portone fatiscente del Berchet, in Via della Commenda, girò a destra in Via
Orti, a pochi metri dall’agenzia di suo padre, e provò a richiamare Terry senza successo.
Trovò il portone aperto e, mentre saliva le scale a due a
due, vide uscire dallo studio di suo padre una bella donna
dall’aspetto rintronato di chi è appena stato investito da
uno tsunami.
La donna le passò accanto senza degnarla di uno sguardo, come fosse invisibile, e proseguì verso l’uscita. Giulia
suonò il campanello ed entrò senza aspettare, tanto suo
padre la stava aspettando e sapeva di non doversi scomodare ad aprire.
Lo trovò seduto con la schiena totalmente appoggiata
alla sedia, le mani intrecciate dietro la testa e lo sguardo
neutro fisso nel vuoto. Leonardo percepì la presenza della
figlia e si girò con un accenno di sorriso a salutarla.
«Ciao piccoletta, come è andata oggi?»
«Tutto OK, ma sei stato tu o cosa?»
«Scusa?»
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«La donna che è appena uscita l’hai ridotta tu così col
tuo solito savoir faire o è una cornuta più del solito?»
«Purtroppo per lei nessuna delle due. È una nuova
cliente ed è una storia credo più triste che complicata. Comunque non ci pensiamo. Non dovevi venire anche con
Terry? È parecchio che non la vedo, mi faceva piacere salutarla.»
«Non so che dirti, ha bidonato come te il weekend in
montagna e oggi non si è fatta vedere a scuola. Non risponde neanche ai messaggi e sinceramente non so se preoccuparmi o incazzarmi.»
«Magari è solo un periodo negativo, capita no? Non ti
preoccupare.»
«È da un po’ che non la capisco, è strana. Si è incupita e
quando le chiedo che c’è non mi risponde e fa finta di niente. Non so, speravo che fare due chiacchiere con te magari
le avrebbe fatto bene.»
«Vabbè, ne parliamo dopo con calma, ora ho una fame
tremenda. Che dici, solito bar?»
«No dai, ho voglia di pizza!»
«Tu? Pizza a pranzo? Questo lunedì comincia a essere
interessante.»
Leonardo aveva cercato invano di capire perché la figlia
non volesse mai mangiare la pizza a pranzo, considerandolo un pasto essenzialmente serale. Capiva non volersi fare
una cotoletta con patate a colazione, o un tacchino ripieno
per merenda, ma perché non la pizza a pranzo era fuori
dalle sue capacità di comprensione.
Aveva rinunciato limitandosi ad accettare che ci sono
delle relazioni imprevedibili e occulte tra le donne e il cibo,
che la semplice mente maschile non può comprendere.
Superato Viale Caldara, Leonardo e Giulia si diressero
in Viale Montenero al Picchio Rosso, una pizzeria semplice
e popolare che faceva la pizza al trancio.
Entrarono che erano le due meno dieci e la maggior
parte degli avventori se non stava pagando il conto per rientrare in ufficio poco ci mancava. Salutarono il proprietario
e si sedettero nell’unico tavolo libero in fondo a destra, a
fianco di uno con quattro signore sui trentacinque, qua19
rant’anni che, con tailleur d’ordinanza dell’Oviesse, trucco
un po’ troppo pesante e aria da super donne in carriera,
stile Ivana Trump di Baranzate, stavano bevendo il caffè
parlando male di qualcuno a caso.
Una volta seduti, Leonardo e la figlia pensarono praticamente la stessa cosa: il primo sperava che Giulia non diventasse così e lei che piuttosto si sarebbe fatta suora in un
convento di qualche ordine di donne scalze, penitenti e che
si ispiravano a una santa dalle innumerevoli ferite.
Davanti alle solite pizze, Giulia cominciò a raccontare
come era andato il weekend in montagna con la mamma,
che ovviamente sarebbe stato più bello se ci fossero stati sia
lui sia Terry e che comunque era andato bene lo stesso, perché la neve era meravigliosa e non c’era neanche troppa
gente sulle piste.
Leonardo si limitò ad ascoltare i racconti piacevolmente
leggeri della figlia, beandosi della paternità e ripromettendosi di fare il possibile perché la signora Merlini un giorno
potesse essere abbastanza serena da poter vivere un momento simile col proprio figlio.
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