Facilitare le relazioni di classe Dott. Coppa incontro scuola

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Facilitare le relazioni di classe Dott. Coppa incontro scuola
FACILITARE LE RELAZIONI DI CLASSE
DOTT. COPPA INCONTRO 21 GENNAIO 2018 SCUOLA SECONDARIA
Questa sera tratterò sia dei comportamenti problematici che del bullismo. C’è una frequenza piuttosto
elevata di questi atteggiamenti di aggressività, sono problematiche comportamentali severe, molto difficili
da aggredire se non si fa un lavoro di rete, e quindi farò anche accenno alla mia esperienza e alle strategie
che hanno prodotto maggiormente dei risultati.
Il taglio che abbiamo dato a questo incontro è strettamente operativo: le cose che un insegnante può fare e
di un protocollo che ci permette di fare una osservazione o screening di primo livello, una valutazione
rispetto all’entità del problema comportamentale che abbiamo all’interno della classe e che impegnano,
con degli strumenti adeguati, poco tempo ma danno delle evidenze che ci permettono anche di poter
segnalare, ad interventi successivi diretti, quelle che sono le modalità o la consistenza di determinate
problematiche. Abbiamo speso il primo intervento per presentare il protocollo, una serie di passaggi e
strumenti operativi che avete a disposizione, per poter fare l’osservazione sistematica. Quindi uno
screening di primo livello ed un protocollo di intervento che è limitato alle cose che possiamo fare
all’interno della classe, con coinvolgimento diretto della classe, per le varie sezioni.
e poi strategie educative che possono essere adatte per gestire situazioni di questo tipo. Faccio sempre
riferimento a cose possibili, cioè ad un intervento indiretto, cose che il docente può fare all’interno della
classe che fanno parte di un intervento di primo livello e per le quali non occorre un intervento dello
specialista. Sono strategie che possono modificare in positivo l’andamento di determinati comportamenti
problema. Quindi strategie educative e protocolli di gestione.
Andiamo alla parte pratica: questa scheda, test SEDS, contiene delle componenti che sono legate a delle
osservazioni che vengono fatte: evitamento dell’interazione con i compagni, interazione aggressiva,
evitamento interazione con l’insegnante, comportamenti inappropriati, reazione depressiva, reazione fisica
e di paura. Questo è un questionario dove vanno messe delle crocette: in base alla componente che viene
chiesta di poter definire e codificare (reazione depressiva oppure reazione aggressiva) si mettono le
crocette. C’è un calcolo molto semplice e questo quadro viene riportato in un profilo grafico che va ad
evidenziare per sezione: livello di difficoltà nell’interazione con i compagni, nell’interazione aggressiva,
nell’interazione con l’insegnante, per cui andiamo a valutare mettendo insieme i risultati delle osservazioni,
facendo una mappatura delle problematiche che il singolo alunno ha all’interno di quel contesto. Questo
test è di facilissima applicazione, un questionario osservativo utilizzato per focalizzare l’entità del problema
o di un alunno o di più alunni. Lo abbiamo utilizzato con i ragazzi di I, II e III media per valutare quali e
quanti ragazzi avevano problematiche che andavano verso la fascia rischio medio-elevato. Una volta fatta
questa mappatura, abbiamo chiamato i genitori e detto che c’era una problematica dello studente in classe
che poteva essere di tipo d’interazione problematica ad alto rischio con i compagni, di interazione verbale
non adeguata nei confronti dell’insegnante, di una reazione ansiogena ogni volta che doveva affrontare dei
compiti ecc. I genitori sono venuti e abbiamo suggerito degli interventi in ambito domiciliare mettendo una
persona che lavorasse su dei programmi di autocontrollo emotivo, di autoregolazione delle emozioni,
laddove c’era una problematica di questo genere. Nessuna famiglia ha rifiutato le indicazioni quando
abbiamo evidenziato che c’era una problematica del comportamento del loro figlio all’interno della classe.
Questo è un intervento di primo livello: abbiamo utilizzato un questionario osservativo, abbiamo
evidenziato in ogni classe dei casi a rischio, anche elevati, abbiamo fatto una analisi attraverso il test SEDS,
e poi convocati i genitori sono stati comunicati i risultati dando suggerimenti.
Non facciamo alcun intervento se non facciamo prima l’osservazione che è assolutamente importante; si
chiama sistematica perché non è una osservazione episodica, di un giorno. Si fanno per un periodo delle
osservazioni che sono comunque codificate in schede osservative opportune, che vanno a registrare la
frequenza, cioè quante volte questo comportamento si ripete in un periodo osservativo che ci diamo, e che
costa in termini di tempo pochi minuti al giorno. Ma facciamo anche una registrazione della qualità, di cosa
si verifica nel momento in cui c’è un comportamento di aggressività: cosa stava facendo, in quale orario,
quale è il comportamento di aggressività e come l’ambiente risponde (coetanei, insegnanti, personale non
docente)di fronte ad un comportamento di aggressività che l’alunno ha nei confronti o del materiale o dei
coetanei. Questo è Il primo passaggio del protocollo di osservazione, utilizzo di materiali diagnostici come
SEDS, della Erikson, schede di osservazione dai 5 ai 18 anni, molto pregnante, in cui gli obiettivi sono:
- facilitare l’identificazione di alunni con disturbi emotivi e anche comportamentali, perché il training non è
lo stesso. Se io ho alunni che hanno problematiche di ansia e depressioni legate alla difficoltà di regolare le
emozioni, dovrò suggerire a casa un certo tipo di intervento rispetto ad un atteggiamento di aggressività
verbale o anche fisica;
- individuare alcune problematiche. Bisogna utilizzare dei test standardizzati perché ci dà una precisione di
osservazione (non diciamo questo ragazzino disturba fate qualcosa a casa che molto spesso diciamo) e ci
permette di dire al genitore che dalle osservazioni fatte c’è un indice di alto rischio per le problematiche
comportamentali di aggressività verbale e anche fisica nei confronti dei compagni e delle insegnanti.
Questa aggressività va gestita e il primo intervento che fate è mettete un insegnante domiciliare che lavoro
su un programma di autocontrollo delle emozioni. Molto spesso la famiglia non partecipa.
- individuare relazioni interpersonali, cioè la problematica propria del bullismo, nell’interazione tra coetanei
e nell’interazione problematica come disturbo oppositivo provocatorio nei confronti dell’insegnante .
Facilitare l’identificazione del problema per facilitare l’intervento, non dà una definizione generica di
ragazzino aggressivo all’interno della classe, o che disturba, sempre definizione generica. Noi cerchiamo di
dare una definizione rispetto ad un problema che cerchiamo di circoscrivere in una categoria diagnostica, lo
etichettiamo come un tipo di disturbo, di aggressività fisica e verbale, un problema di attenzione. Se io
utilizzo un questionario osservativo tipo il SEDS posso facilitare l’identificazione del problema, che non è di
tipo generalizzato, per cui posso dire che il ragazzino è aggressivo nell’interazione con i coetanei e la cosa
cambia completamente, ma cambia anche il tipo di intervento. Oppure posso dire che è ansioso nel
momento in cui interagisce con l’insegnante perché reagisce con l’ansia ad una prestazione in cui non si
sente all’altezza. Il test facilita l’identificazione e permette di poter mirare l’intervento in modo specifico. È
una facilitazione notevole, perché permette di mirare non a una difficoltà generica ma a quella difficoltà
che il ragazzo presenta nell’interazione con i compagni o con l’insegnante oppure come problemi suo
personali. Identificare e facilitare non sono categorie differenti ma facilito nel momento in cui io identifico
specificamente il problema.
A volte mi arrivano ragazzini di cui si dice “non presta attenzione”; in realtà quello è un effetto, poi magari
viene fuori che è un dislessico, perché poi la domanda successiva è: quando? In quali materie? Perché se io
ho un ADHD, avrò difficoltà di attenzione in tutte le materie, mentre i dislessici perdono l’attenzione
quando si legge, si comprende il testo, ecc. perdono l’attenzione perché percepiscono che non sono
all’altezza, abbassano il livello di attenzione perché c’è una frustrazione e questo determina un disturbo
dell’attenzione. Quindi non mantiene l’attenzione quando legge e viene fuori che è un bambino che nella
rapidità e nell’accuratezza presenta dei valori critici che lo inseriscono in un profilo di dislessia.
Non sono amante delle categorie diagnostiche ma ho visto che se aiuto le insegnanti a definire meglio il
problema, quando mi chiamano faccio meno lavoro, perché so dove andare a lavorare insieme a loro, se
sull’interazione sbagliata, sull’interazione aggressiva o su un disturbo di attenzione o su un DSA non
diagnosticato dove il problema comportamentale è molto più evidente del problema di apprendimento.
Quando parlo di intervento indiretto io dico che dobbiamo investire tempo sulla classe, non sul singolo
alunno, perché non abbiamo capacità, competenze e risorse per poter fare un intervento diretto se non c’è
una persona dedicata, cioè un sostegno o un assistente didattica che fa la badante. Ma anche la badante
deve essere istruita, altrimenti cerca di tappare i buchi. Facciamo corsi per queste ragazze a cui vengono
affidati bambini autistici, con difficoltà comportamentali, ADHD, ma quelli veri, non quelli che in realtà
hanno difficoltà di educazione alle regole e vengono etichettati come ADHD. Quando gli si dà la possibilità
di seguire le regole con il contratto educativo e altre strategie si vede che questa problematica si sgonfia
perché non è di tipo neurologico come è in realtà l’ADHD.
Il piano di trattamento deve essere sistemico, cioè più coinvolge gli attori che stanno intorno al ragazzino
più diventa efficace. Se io faccio un intervento nella classe e promuovo attività che sono di prosocialità,
l’educazione ad individuare quelli che sono i bisogni dell’altro e quindi un investimento sulla classe, e poi
coinvolgo anche i genitori e la tata che gli fa fare i compiti, dicendole quale è il lavoro da fare
sull’autoregolazione delle emozioni e poi non mi fermo lì e investo il gruppo scout, ecc. cioè se allargo la
possibilità di mettere in rete le persone che parlano lo stesso linguaggio e offrono al ragazzino gli stessi
stimoli, aumento ancora di più il successo. Dobbiamo sapere che se facciamo un lavoro di rete diventa più
efficace, perché il ragazzino in base ai contesti in cui si trova riesce ad avere atteggiamenti coerenti dello
stesso tipo.
Andiamo a vedere l’individuale: innanzitutto i ragazzi che hanno dei problemi comportamentali hanno
dinamiche molto specifiche e più andiamo nell’età dalla prima media alle superiori, queste problematiche
evidenziano uno scollamento tra quelle che erano le relazioni che avevano alla primaria e le relazioni che
hanno con il gruppo classe alla secondaria. Più aumentano i comportamenti problema più il gruppo o tende
a supportarlo, ed abbiamo il fenomeno del bullismo, perché il bullismo si sviluppa sempre quando c’è un
pubblico adorante o guarda senza intervenire, né sul bullo né sulla vittima predestinate. Sono ragazzi isolati
ma che possono creare forme di solidarietà, cioè di evidenza e di emulazione, nel momento in cui
assumono atteggiamenti di aggressività e più va avanti con l’età e più questa cosa si amplifica.
Secondo elemento: hanno posizioni marginali e ininfluenti all’interno della classe. Sono quelli che vengono
tenuti in disparte.
Terzo: tendono ad essere meno accettati, un bollo che comincia dalla scuola dell’infanzia, e la loro fama li
precede, ma non lo precede solo tra le insegnanti ma anche tra le famiglie che cercano di spostarsi. Pensate
che tipo di percezione può avere questo ragazzino ma soprattutto nel resto della classe. Le conseguenze
emozionali del rifiuto sono considerate le cause dei problemi di adattamento. Certo che si sviluppa sulle
persone più fragili, che si portano dietro un curricolo di ragazzino problematico e dal punto di vista
comportamentale e dal punto di vista cognitivo, e quindi sono le persone più fragili che possono anche
essere esposte ad essere le vittime di quelli che hanno problematiche di questo genere.
Quali sono gli interventi? Ho selezionato volutamente degli interventi che possono fare in classe, che non
va ad inibire e va sì atogliere delle ore all’insegnamento ma abbiamo un vantaggio in termini di
investimento nella gestione della classe. Le principali strategie sono:
l’educazione prosociale
l’educazione razionale ed emotiva che ha componenti che ha componenti prosociali
il tutoring: utilizzare risorse all’interno della classe
training di autoregolazione per ragazzini che hanno impulsività
sono le strategie che ho praticato di più con maggior successo.
Cos’è la prosocialità? L’insieme di atteggiamenti che sono diretti a porre dei benefici nell’altra persona
senza aspettarsi una ricompensa. Vi parlerò anche di quanto è importante il volontariato nei ragazzi della
secondaria superiore. Il coinvolgimento in attività di volontariato può essere una delle strategie che orienta
e che può modificare determinati atteggiamenti in ragazzi che hanno avuto atteggiamenti o disturbo di tipo
comportamentali. Sono atteggiamenti che vanno a beneficiare un’altra persona. Da grandi, se mantengono
le premesse, saranno persone coinvolte nel volontariato perché per definizione il volontariato crea dei
benefici ad altre persone senza aspettarsi un riconoscimento tangibile, ma soltanto un riconoscimento
morale, la gratuità del volontariato.
Ci sono alcune componenti nella prosocialità che ci aiutano tantissimo. Quando andiamo a vedere i
programmi di prosocialità, “Educare all’altruismo “Michele de Benis – Erikson, è uno dei programmi più
efficaci, andiamo a vedere che va a stimolare due comportamenti che sono direttamente antagonisti con
l’atteggiamento di aggressività, e quindi se io investo in prosocialità sono sicuro di investire in
atteggiamenti positivi che sono direttamente antagonisti alla problematica comportamentale. Gli
atteggiamenti sono due: il primo è stimolare la valutazione positiva dell’altro, non vederne i lati negativi,
ma vedere ciò che l’altro ti può portare come positività. Una strategie che viene adottata per facilitare
l’inclusione del bambino adottato all’interno della classe è proprio la prosocialità perché porta la classe a
vedere le risorse, le competenze positive che il bambino adottato per cultura, per colore della pelle, per
linguaggio è completamente estraneo al gruppo della classe e questo è uno dei programmi che può
facilitare l’inclusione.
L’educazione prosociale stimola la valutazione positiva dell’altro: oltre ad avere diversità riesce ad avere
anche competenze. L’occhio è quello di valorizzare e non di accennare o accentuare le difficoltà.
Secondariamente stimolare un atteggiamento non egocentrico: se la persona sta piangendo, quali sono i
sentimenti e le emozioni che non riesce a dirmi verbalmente. Se la persona è aggressiva, oltre a
condannare l’aggressività posso vedere quali sono i motivi per cui quella persona è aggressiva e questo
cambia molto l’atteggiamento. Il primo è un atteggiamento censorio, è aggressivo e giustamente non
accettiamo l’aggressività, ma poniamoci anche su un elemento di riflessione, facciamo un circle time ed
andiamo ad analizzare che cosa è successo quando c’è stata l’aggressione verbale del ragazzino verso il suo
coetaneo e come mai utilizza prevalentemente l’atteggiamento di aggressività verbale e non può
modificare. Ci possiamo fare qualche domanda ma possiamo fare anche qualche proposta; vedete che
l’atteggiamento cambia perché non è più centrato su me stesso ma molto aperto ad evidenziare quali sono
le ragioni del comportamento e secondariamente valorizzazione di ciò che uno mi porta e questo può andar
bene sia che inseriamo un ragazzo con disabilità, sia che inseriamo un ragazzo extracomunitario, sia che
gestiamo una situazione problematica. Però andiamo proprio sul pratico, perché questi programmi sono
pratici. Quali sono le funzioni del programma di educazione prosociale? Sono:
- aiutare fisicamente: in un gruppo di apprendimento cooperativo, il gruppetto si dà delle regole ma anche
delle funzioni e ognuno viene valorizzato per quello che sa fare. Do una mano all’altro su una cosa che non
sa fare, condividere e offrire qualcosa insieme.
- La condivisione è molto importante: ci sono insegnanti che mettono insieme le merende e poi le
ridistribuiscono perché sanno che ci sono ragazzini che per problemi economici non la portano. Stimola
anche la condivisione che è un valore che se coltivato sviluppa atteggiamenti positivi.
- gesti di intimità: il gratificare la persona quando ha atteggiamenti positivi.
Io ho parlato di positività, di non egocentrismo, cioè di cose che non sono riservate a me che terminano con
la mia soddisfazione e il mio benessere, ma ho parlato di altruismo, cioè la capacità di vedere il problema
dal punto di vista dell’altra persona e fare attività concrete per sviluppare comportamenti positivi.
Andiamo a tradurre invece praticamente, andando ad analizzare alcune unità prosociali, cioè come posso
una volta per settimana, da ottobre a maggio, sviluppare un programma di prosocialità in una scuola
media, cercando di investire e lavorare su abilità positive come queste. Innanzitutto vi do delle indicazioni
metodologiche: prima di iniziare qualsiasi intervento, cercate di fare una valutazione d’ingresso, valutate
prima dell’intervento come era la situazione, perché io devo proporre un progetto all’interno del piano
dell’offerta formativa e devo valorizzare questo progetto alla fine dell’anno. Prima di iniziare l’intervento
andiamo a valutare individualmente o di gruppo quale era il livello iniziale prima di attivare l’intervento.
Questo fatelo sempre perché poi quando fate la valutazione d’ingresso, prima dell’intervento, e la
valutazione finale dopo, andate a controllare quanto queste abilità sono cresciute. A chi vi dice che avete
perso tempo per un’ora alla settimana per tanto tempo, voi dovete essere in grado di dimostrare che la
valutazione iniziale evidenziava nella classe che avevate pochissime abilità di altruismo, cioè non sapevano
interagire e valorizzare positivamente l’altro; dopo il programma su cui avete fatto l’investimento, queste
abilità individualmente o di gruppo sono cresciute. E questo non lo dimostrate con il racconto, lo
dimostrate con i fatti. Questa deve essere un orientamento metodologico che vi accompagna per qualsiasi
cosa che fate in modo che qualsiasi delatore, qualsiasi critico che vi dice che avete fatto un programma con
cui avete solo perso tempo, voi dovete dimostrare con i dati, cioè concretamente, che il livello iniziale e il
livello finale sono completamenti diversi e io vi assicuro che è diverso in termini di quantità. Quando
abbiamo fatto questo progetto in scuola media, abbiamo messo insieme le insegnanti che volevano
volontariamente partecipare al progetto, devono essere motivate a partecipare. Prima abbiamo fatto il test
SEDS e la restituzione agli insegnanti, e poi c’è da fare la parte di lavoro sulla classe. Io voglio volontari, non
sabotatori, perché avete diversi ragazzi problematici, per questo progetto, perché con i sabotatori non
funziona. Io lavoro con gruppi di insegnanti volontari, anche pochi, ma motivati e in base al numero dei
volontari tariamo anche il coinvolgimento delle classi, non potrò fare un lavoro diffuso perché devo
dimostrare che quella cosa funziona e in base alle risorse con delle persone veramente motivate che
organizzano, a turno, di perdere un’ora a settimana. Il discorso del tempo è una delle contestazioni che mi
viene fatta sempre. Questa valutazione che si fa con le crocette, impegna mezz’ora di tempo se ho una
classe standard di 20 alunni. Siccome è una valutazione doppia, dell’insegnante e dell’alunno, qualche volta
l’ho fatta valutare anche per valutare la percezione dell’insegnante della classe. Se non volete fare tutta
un’ora insieme, potete fare anche di mezz’ora in mezz’ora, ma comunque vi impegna solo un’ora. Ci
sembra che impegni tantissimo, in realtà sono crocette. C’è proprio una misura statistica, per un certo
tempo ripetuto n volte, ho un’immagine fedele della situazione. Io posso fare un’osservazione di un
comportamento per 10 minuti al giorno, ripetuto n volte, quello è attendibile e mi dà un quadro
assolutamente adeguato e fedele del comportamento del ragazzino.
Guardate questa scheda, questa è la valutazione d’ingresso: valutate le abilità prosociali ed altruistiche,
infatti valuta
- sa aiutare rispettando lo spazio e le libertà altrui, con livelli di frequenza (spesso, a volte, raramente, mai)
Questa valutazione la fate il 18 di settembre prima di cominciare il programma, poi la rifaremo il 15 di
maggio una volta che abbiamo terminato il programma, cioè riapplichiamo con Luigi la stessa scheda e
vediamo se dei livelli bassi come frequenza, con un intervento in classe sulle unità prosociali sono
incrementate e sono cresciute in termini di abilità. Vediamo praticamente
Questo è il training che abbiamo iniziato in una scuola primaria, ma che è rapportabile a livelli diversi, in
una scuola secondaria di I o II grado, i cui sono delle esperienze relative a delle abilità o a delle modalità di
trasmissione della relazione in base a stati d’animo (donare, ascoltare, l’empatia come si trasferisce e come
si insegna, l’aiuto fisico) e molto spesso è importante che l’insegnante porti avanti queste unità prosociali
perché l’insegnante riveste un ruolo di modellamento eccezionale. Voi siete un modello per i vostri alunni a
livelli eccezionali, nel bene e nel male, come un genitore. Dobbiamo essere consapevoli che fungiamo da
modellamento, il nostro atteggiamento viene copiato, il nostro atteggiamento viene emulato.
Se questi sono i passi programmatici, vediamo un esempio di scheda presa da Educare all’altruismo,
Michele De Beni, della Erickson. C’è una vignetta: “Osservala vignetta e scrivi nelle righe poste sotto
l’immagine perché secondo te il bambino agisce in questo modo, lui si copre e lascia che l’altro venga
bagnato dalla pioggia. Formula alcune ipotesi cercando di individuare quali potrebbero essere i motivi della
sua gentilezza”, ma questo è egoismo. Oppure può essere visto come un andare verso l’altro a coprirlo,
oppure vede l’altro bagnarsi e non fa niente per aiutarlo. “Quali pensieri può avere avuto il bambino prima
dell’azione? Che cosa può aver pensato l’altro bambino dopo che gli è stato offerto riparo sotto l’ombrello.”
Si parte sempre da vignette che provocano una riflessione e questa riflessione è un aiuto, quello che viene
chiamato altruismo: cercare di dare aiuto fisico, cercando di aiutare il ragazzino che non solo si sta
bagnando, ma anche quello in difficoltà perché non sa fare i compiti, ma anche quello in difficoltà perché
non sa prestare attenzione, ma anche quello in difficoltà che risponde male all’insegnante. Comunque sia,
come porsi in un atteggiamento di aiuto concreto quando c’è una difficoltà, che tu rispondi o fuori dalla
classe o all’interno della classe. Si parte sempre da uno stimolo e poi si fa molto riferimento nell’andamento
anche a situazioni che si vivono in famiglia o a situazioni che si vivono all’interno della classe.
“Il linguaggio del cuore”. C’è n racconto “Vattene lurido Wop”, questo fa riferimento a una situazione in cui
due bulletti evitano o emarginano un ragazzino che è piccolo, che non è capace, molte volte disabile e
cercano di emarginarlo attraverso una serie di comportamenti e la riflessione che viene fatta è sul perché
abbiano avuto questo atteggiamento, quali sono le motivazioni che li spingono ad avere questo
atteggiamento. Guardate quanto è importante perché lì ci rivediamo tutti gli atteggiamenti di
emarginazione che sono alla base del bullismo, cioè del comportamento prevaricante nei confronti di una
persona che presenta fragilità, che può essere il ragazzo disabile, quello che presenta difficoltà dal punto di
vista emotivo, com’è questa bambina che sto seguendo.
Domanda: questo non può avvenire anche tra due ragazzini bravi per la supremazia l’uno sull’altro? In una
classe ci sono due ragazzini bravi, e uno dei due non può scatenare questa invidia nei confronti dell’altro
comunque bravo?
Questa è una delle ipotesi che può venire fuori dal circle time. Se i ragazzini dicono che c’è competitività,
allora cerchiamo di ridurre i livelli di competitività, perché va bene essere bravi ma vediamo di aiutare
anche gli altri e ci inseriamo un altro elemento che è quello del tutor. Ma se tu sei bravo, copi alla lavagna
velocemente e l’altro che non ce la fa dopo un po’ comincia a disturbare perché non ce la fa, si sente
inadeguato, il suo comportamento problema nasce da una sua frustrazione, e io ho visto questo nel circle
time, posso mettere quello bravo ad aiutare l’altro, gli fa da turo competente? Vedremo che una delle
strategie è proprio quella del tutoring. Abbiamo delle risorse nella classe e vanno coltivate: il ragazzino
bravo può essere utilizzato, non per tutto l’anno, ma un gruppetto che valorizzo, che gratifico.
Il voto di comportamento sintetizza un giudizio su una serie di atteggiamenti positivi. Qui invece c’è una
focalizzazione; io voglio, in quella classe dove ho diversi comportamenti problematici, far crescere la
relazione positiva fra di loro. Ho seguito un ragazzo per anni, che era un disastro dal punto di vista
cognitivo, ma molto bravo in termini di supporto, cioè emotivamente era molto capace di aiutare gli altri e
allora abbiamo cercato di compensarlo, cioè di rafforzare la sua abilità nella relazione con gli altri rispetto al
deficit che lo mandava in frustrazione la sua autostima dal punto di vista scolastico. Qui c’è una costruzione
sistematica, scientifica di abilità positive fatte ogni settimana per mesi, perché è questo che produce il
cambiamento.
Una delle leggi dell’apprendimento è la ripetitività della risposta: n volte che ho la risposta crea e consolida
delle connessioni neuronali, quindi apprendimento, quindi associazioni. Io molto spesso visto che questa
cosa viene fatta da docenti che sono molto orientati a valorizzare, non sempre viene fatta in maniera
sistematica e da tutti. Quando invece io coinvolgo un gruppo insegnanti su questa cosa, e dico guardate che
il programma funziona se viene fatto una volta a settimana, che tutte le volte che viene fatto “Conta su di
me” io stimolo la riflessione che incide anche sui livelli personali di coinvolgimento emotivo e do
sistematicamente dei messaggi positivi di valorizzazione dell’altro anche se non può camminare, ad
esempio, questa cosa crea apprendimento. Quando diventa una cosa che non è così condizionata ad un
programma vedo che si fa fatica.
Dopo che abbiamo fatto una unità prosociale non bisogna passare all’ora successiva. L’ora è composta da
uno stimolo “Conta su di me”, una situazione che stimola la riflessione, poi ci deve essere sempre una
riflessione di gruppo, quello che viene chiamato circle time. Nella scuola media lo facciamo con tutti gli
alunni, favorisce la riflessione sui lati emotivi che sono stati stimolati da quella esperienza che è stata
presentata e sviluppa il senso di consapevolezza perché da comunque ordine ad una discussione. Il circle
time prevede che ognuno dica la sua, che l’altro ascolti quello che viene detto. Guardate che l’abilità di
ascolto è una delle abilità che fa un lavoro anche di monitoraggio dell’impulsività. Il fatto di ascoltare e
ripetere con altre parole quello che ha detto il compagno rispetto all’unità prosociale, diventa anche una
educazione alla regolazione delle emozioni. C’è anche un programma che porta la persona non solo ad
ascoltare ma anche a poter autocontrollare le proprie emozioni.
Quali sono le regole? Importantissime: ogni partecipante ha il diritto di parlare ha dovere di ascoltare,
mentre un alunno parla gli altri ascoltano senza interrompere, criticare o deridere, ritorniamo agli obiettivi
dell’educazione prosociale, aspettare il proprio turno prima di parlare. Ma queste non sono le abilità che
cerchiamo di insegnare a partire dalla primaria, per insegnare le regole della classe? Le applichiamo nell’ora
in cui facciamo unità posociale; dedichiamo la prima mezz’ora a presentare lo stimolo, “Conta su di me”, o
l’altra esperienza visualizzata e poi cerchiamo di stimolare la riflessione su tutto il gruppo.
Mi piaceva parlarvi di un’altra strategia efficace: il tutoring. Noi abbiamo degli alleati dentro la classe,
abbiamo delle risorse in alcuni alunni che hanno delle caratteristiche per cui li possiamo coinvolgere come
nostri collaboratori. Il tutor è una strategia per cui affidiamo ad altri alunni delle responsabilità educative
nei confronti di altri compagni. Abbiamo fatto anche dei corsi per tutor, dato indicazioni per gestire
situazioni di bullismo. Questa è una strategia che abbiamo utilizzato nella gestione del bullo, perché il tutor
è un pari livello, non è un adulto che si rivolge al ragazzino, ma un pari livello a cui diamo competenze
educative, “Io ho bisogno di te”. Il tutor può essere di due tipi: il tutor strategico o il tutor naturale, quello
che naturalmente, di fronte ad un ragazzino che presenta problematiche comportamentali e quello che
comunque interagisce in una maniera naturale e spontanea e non si fa prendere da pregiudizi o da
indicazioni per tenerlo emarginato. È una persona che ha comunque un atteggiamento spontaneo di
valorizzare quelle che sono le risorse indipendentemente dai suoi comportamenti.
Il secondo è il tutor strategico: vi ho parlato del ragazzino con enormi problemi di apprendimento ma con
doti empatiche, con buone capacità nella relazione con gli altri, quindi diventa strategico perché cerco di
compensare una frustrazione enorme legata ad un profitto scolastico molto basso, con delle competenze
che vengono valorizzate da parte dell’insegnante. Questo programma prevede dei passaggi procedurali:
quando identifico un bambino al quale cerco di affidare l’altro che presenta problematiche
comportamentali (si alza spesso dal banco, fa dei dispetti a chi è vicino, ecc.) definisco con lui quali sono gli
obiettivi (evitare che si alzi, ricordargli che certi comportamenti non si devono fare, ricordare le regole,
valorizzarlo quando è bravo), cioè cerco di istruirlo su quelle due o tre cose che farei io. Un pari grado, un
coetaneo è molto più seguito e sentito rispetto ad un adulto ed è una strategia vincente.
Terzo, scelgo come tutor naturale e strategico e li faccio ruotare, perché la rotazione è importante per non
appesantire il ruolo del tutor, lo preparo, gli do una durata, e devo dargli una guida, cioè fare degli incontri
con lui durante la ricreazione per cercare di potergli dire come sta andando e se qualcosa da modificare.
Strategia di grande efficacia soprattutto per ragazzini iperattivi, ragazzini che presentano disturbi all’interno
della classe, la possibilità di poterli affiancare con dei tutor che vengono cambiati, mensilmente, diventa
una strategia di supporto veramente notevole.
Questa è una scheda che troverete dentro il protocollo: quali sono le abilità che devo selezionare in un
bambino tutore, saper ascoltare, avere la passione per l’attività. Do un punteggio e posso valutare quelle
che sono le competenze naturali che un ragazzino può avere nell’effettuare questo lavoro e questo
supporto di tutor.
-
Educazione prosociale: coinvolgere tutta la classe;
Tutoring: utilizzare degli alleati all’interno della classe che hanno la funzione di supportare e
mettersi vicino alla persona che presenta delle difficoltà; ovviamente devono essere valorizzati,
bisogna dargli degli obiettivi e devono essere seguiti. Alla fine anche cercare di gratificarli
Un’altra strategia che utilizzo molto con ragazzi che presentano problematiche è una modalità che può
avere due applicazioni: individuali, può essere un contratto educativo individuale, sul ragazzino, ma può
essere un contratto educativo con tutta la classe.
Che cos’è un contratto educativo? Ci arriva attraverso l’esperienza di un capitano di vascello inglese del
1800, il quale perde la rotta e la sua ciurma lo minacciano di buttarlo a mare. Lui fa un contratto: voi mi
date 3 giorni di navigazione, per ogni giorno vi do un pezzo di sughero e se entro questo tempo, ritrovo la
rotta, scambierò i pezzi di sughero con monete d’oro. Grazie a lui abbiamo una strategia di grande efficacia:
il contratto educativo si applica in ambito riabilitativo anche con comportamenti molto gravi, nella gestione
della classe, nelle comunità per disturbi psichiatrici, in ragazzi normali, in ragazzi che hanno difficoltà di
attenzione e concentrazione, quindi la vastità di applicazione del contratto educativo è molto elevata con
livelli molto elevati di efficacia.
È un impegno del tipo: se oggi hai un comportamento adeguato io ti do qualcosa, che una volta che lo porti
a casa, puoi essere valorizzato con delle cose minime. I genitori normalmente comprano bustine di figurine
o li fanno giocare con la playstation, ecc. viene utilizzata inizialmente una gratifica concreta per una
richiesta di autocontrollo dei comportamenti problematici, per cui è un stabilire regole in base alle quali c’è
un contratto tra le parti equilibrato e molto concreto. Nella pratica utilizza i token: nel momento in cui il
ragazzo ha dei comportamenti che deve seguire e viene premiato e si fa un cartellone diviso in due, dove da
una parte ci sono i comportamenti che voglio che lui abbia (non si alza, non da fastidio, non corre per il
corridoio, ecc.) e c’è uno smile arrabbiato e non prende la gratifica, e i corrispettivi positivi (cioè sta seduto,
alza lamano prima di parlare, non da le botte ma anzi collabora, ecc.), diametralmente opposti a quelli
negativi, vengono premiati con degli smile. Collezionando questi smile alla fine c’è una gratifica che viene
pattuita. Un esempio: abbiamo fatto il gioco dell’euro, e abbiamo fatto un programma dove venivano dati
degli smile che venivano attaccati giornalmente su un quaderno delle buone azioni. Avevamo fatto un
patto con i genitori che quando il ragazzo veniva con il quaderno e lo smile sorridente, i genitori dovevano
gratificarlo, gratificando l’atteggiamento di autocontrollo e positivo che aveva avuto a scuola, e davano 20
centesimi, perché avevamo finalizzato il programma: oltre ad insegnare delle regole di comportamento,
volevamo fare in modo che il loro comportamento positivo avesse anche dei riflessi, delle ripercussioni
positive e abbiamo contattato una parrocchia che faceva una adozione a distanza. I 20 centesimi che
venivano dati per il comportamento positivo, venivano messi dentro un grande salvadanaio e alla fine
dell’anno abbiamo adottato 2 bambini per un anno, dotandoli anche del corredo scolastico. Abbiamo non
solo chiesto un atteggiamento di autocontrollo, durante gli incontri, sviluppare comportamenti positivi al di
là dei comportamenti aggressivi o di disturbo che avevano, ma abbiamo anche finalizzato ad un’opera di
altruismo, cioè l’adozione a distanza, dove loro vedevano che il loro comportamento positivo aveva una
finalizzazione per altri coetanei meno fortunati della loro età. Questo è stato uno degli esempi di patto di
corresponsabilità, lo abbiamo fatto proprio pratico. Il patto di corresponsabilità viene fatto attraverso un
progetto di educazione prosociale, con il contratto educativo che vanno a valorizzare i comportamenti. Con
gli scambi durante l’anno di corrispondenza con i ragazzi adottati, c’è stato anche un effetto a lungo
termine di questo intervento positivo che ha mantenuto anche i comportamenti.
Una cosa che si potrebbe fare con i più grandi è un contratto di gruppo, dove loro acquistano soldi e ci
fanno una gita oppure una pizza, qualcosa che comunque ricade nel benessere della classe. Io ho parlato di
cose materiali, ma anche un progetto di adozione a distanza potrebbe funzionare; noi pensiamo che non sia
valido, ma perché non provarci? Una sensibilizzazione può essere una cosa positiva, dobbiamo ovviamente
tararlo per l’età, qualcosa che può essere investito per tutta la classe, che appassioni. Io non escluderei
anche la possibilità di fare un progetto che li appassioni di solidarietà. Io do una mano all’AVULSS,
un’associazione che va a dare da mangiare alle persone e una dei problemi che abbiamo è che l’età media
dei volontari viaggia dai 60 anni in su. Uno dei problemi che abbiamo sempre è quello di come coinvolgere i
ragazzi e allora abbiamo creato grazie a una volontaria un gruppo di teatro all’interno del volontariato e
fatto un corso di animazione teatrale. Hanno preparato delle rappresentazioni, delle parodie, con lavoro di
educazione espressiva e alla fine i soldi delle rappresentazioni sono stati destinati ad un progetto solidale:
c’era una cooperativa che aveva avuto dei danni dall’esondazione del fiume. Poter lavorare su se stessi,
pensiamo all’attività espressiva, grande capacità di poter lavorare con gli adolescenti sul fargli esprimere
quelle che sono le loro difficoltà, comunque farli lavorare su qualcosa che è utile per loro, ma con una
finalità sociale, cioè questo lavoro produce una raccolta fondi per attività sociali o socialmente utili, questo
è volontariato indiretto. Sfido a trovare comportamenti di bullismo in chi fa volontariato, perché anche
ragazzi che hanno difficoltà, quando li inserisci dentro un meccanismo in cui fanno attività di espressione di
sé, lavorano sulle proprie emozioni, (parleremo del bullismo e diremo che uno dei tratti che li
contraddistinguono è quello dell’analfabetismo delle emozioni; sono ragazzi che hanno difficoltà a
riconoscere le emozioni proprie e degli altri e anche di raccontarle), quindi fare qualcosa su di sé, lavorare
sull’espressione delle proprie emozioni, fare un percorso in cui li si aggancia a qualcosa di positivo
pensando che quello che fanno per loro e per altri, per avere un riscontro nell’aspetto sociale. Questo è
uno degli antidoti al comportamento di aggressività, antisociali, di bullismo con zero lire.
Adesso stiamo facendo una iniziativa che si chiama “Volontario per un giorno” e stiamo facendo una
campagna di proseliti nelle aziende e nelle scuole superiori, dove i ragazzi vengono per un giorno a capire
che cosa significa fare volontariato. Sono sicuro che dopo quel giorno tireremo le reti e tireremo fuori un
sacco di pesci. Il fatto di creare situazioni, essere coinvolti in attività per gli altri, è un antidoto contro il
comportamento problematico.
Vi faccio vedere una modalità di gestione di contratto educativo con le faccine arrabbiate e sorridenti che
stanno dentro un quaderno dove nella prima pagina vengono dati i comportamenti che vengono premiati
con la faccina sorridente; nella pagina vicino i comportamenti che non vengono premiati e contrassegnati
con la faccia arrabbiata. C’è tutta una procedura di insegnamento per cui, se nelle prime fasi le faccine
sorridenti sono di più di quelle arrabbiate viene vinto il premio simbolico, ma concreto, perché il ragazzo
deve sperimentare che per quei comportamenti positivi viene premiato con qualcosa che gli piace,
qualcosa che i genitori gli daranno a casa. A scuola il ragazzino deve solo sapere qual è il premio della
giornata; inizialmente il contratto funziona se diamo la possibilità ai ragazzi di poter sperimentare che ce la
fanno. Quindi nel momento in cui inseriamo il quadernino, non controlliamo tutti i comportamenti; il
contratto deve avere pochi comportamenti, ma quelli essenziali, non importa se non sono tutti i
comportamenti negativi. L’importante è che vengono definiti uno o due comportamenti positivi e che io
alla mattina li declino per lui o per tutta la classe assieme a quelli che non devono avere. Questa cosa può
essere poi aumentata con altri comportamenti. Funziona se:
-
I comportamenti sono pochi,
Se la gratifica è qualcosa a cui tiene e sollecitiamo i genitori a comprare quel qualcosa che
darebbero gratis finalizzato al contratto educativo che avete stipulato per il comportamento
adeguato, sicuramente lo fanno
Quindi inizialmente i contratti cerchiamo di farglieli avere, poi successivamente aumentiamo il numero dei
comportamenti che devono avere, però dobbiamo verificare che questa procedura sia positiva.
Se voi leggete i libri di Tata Lucia, lei è stata una docente che ha lavorato con bambini iperattivi, con ottima
competenza dal punto di vista didattico metodologico, lei dedicava 2 giorni a parlare del contratto
educativo. Da delle indicazioni notevoli, come quella del semaforo sulla cattedra, che evita di far sgolare le
insegnanti; insegnare questa abilità e premiare i ragazzi. I suoi libri sono dei trattati semplificati di
metodologia del comportamento: contratto, rinforzo, la gratifica, ecc. , quello che adesso per l’autismo
viene utilizzato come il metodo ABBA.
Tata Lucia mi ha dato l’opportunità di introdurre una metodologia che si chiama coaching educativo, non è
più un intervento diretto ma implica una metodologia di intervento di questo genere. Il coach è un
allenatore, mutuato dal gergo sportivo, perché molto spesso andiamo a rilevare due difficoltà:
A scuola abbiamo poche risorse per l’intervento individualizzato, un sovraffollamento delle classi,
problematiche complesse: attenzione, concentrazione, insofferenza alle regole, ecc. e molto spesso
abbiamo docenti frustrati e impotenti perché non possono modificare le risorse, nessuno li aiuta, non
hanno a chi fare riferimento perché la famiglia gira le spalle, ecc.
A casa c’è incoerenza parentale, uno dei punti più critici, scarso supporto alla genitorialità, nessuno ci
insegna a fare i genitori. Quindi abbiamo grosse difficoltà fin da piccoli a capire a chi rivolgerci per avere un
supporto su come gestire la situazione, siamo genitori imperfetti, però è importante saperlo per metterci in
discussione, creare delle situazioni che ci possono aiutare.
Tempi ridotti a casa per poter dialogare e affrontare le situazioni vanno a inficiare e inquinare la qualità del
rapporto tra i genitori, ecc. ora lavoro molto con difficoltà comportamentali correlate a difficoltà all’interno
della coppia (conflittualità, separazioni ecc.), ma una delle difficoltà che riscontro che molte problematiche
del ragazzino che ha scuola hanno un riflesso enorme in situazioni di disagio dal punto di vista emotivo.
Spesso si trovano in situazioni conflittuali dove i ragazzini sono istigati dall’uno all’altro contro l’altro
genitore e spesso non lo tollerano.
Molto spesso la problematica che vediamo a scuola parte da un contesto familiare e stante questa
situazione sia a scuola che a casa, uno degli interventi che da due anni a questa parte faccio con degli
educatori che lavorano con me anche in classe e a casa, ci siamo inventati il coaching educativo. Si tratta di
una figura, l’educatore, che fa da unione facendo un pacchetto di 10 incontri, ogni incontro di due ore, e fa
da allenatore sia con le insegnanti (per esempio per avviare il contratto educativo, oppure per avviare tutta
una serie di interventi per gestire il comportamento problema) e contemporaneamente è obbligatorio che
vada anche a casa a vedere quello che non funziona nella relazione tra genitore e ragazzo. Fa un pacchetto
intensivo di 4 incontri + 4 incontri e poi due di verifica e io incontro la famiglia prima e dopo l’intervento.
Se non c’è qualcuno che affronta il problema e propone un modello educativo coerente sia a scuola che a
casa si fa molta difficoltà, perché molto spesso è necessaria una persona che ci dica come si fa, che ci avvii il
lavoro, ci dia indicazioni e che a casa evidenzi i comportamenti che possano provocare comportamenti
problematici; quindi l’operatore che lavora nei due contesti fa da tramite. Da buoni risultati sia su
problematiche emotive che comportamentali a tutti i livelli, perché garantisce l’intervento su entrambi i
sistemi offrendo coerenza e continuità di intervento. Per fare l’intervento il coach deve avere competenze
non solo dal punto di vista pedagogico ma anche relazionale, perché a casa va ad inserirsi nelle dinamiche
tra marito e moglie ed è un compito molto delicato. Lì l’assistente scolastica o domiciliare è incastrato nelle
dinamiche familiari e spesso fa fatica ad essere neutro rispetto alle posizioni dell’uno o dell’altra. Come
avvio iniziale deve essere fatto da una persona esterna poi può essere seguito anche da persone che erano
già presenti nel nucleo familiare o a scuola, come un’assistente scolastica. Mancanza di regole,
comportamento verbale non adeguato, incongruenze parentale in cui ci sono tensioni tra i modelli
parentali presentati: occorre una persona esterna che sia neutra che sappia leggere le dinamiche, altrimenti
rischia di essere risucchiata. Per cui propongo inizialmente una equipe esterna, poi può essere continuato
dando coerenza e continuità all’intervento avviato. 5 fasi di attuazione secondo un format di 10 incontri,
follow up previsto a distanza di tempo, per vedere come sta andando. Offre flessibilità di intervento a
seconda del contesto.
Questo coaching lo faremo con il Centro Risorse per l’Educazione di Ancona, con un servizio innovativo per
famiglie e docenti che hanno bambini adottati, perché le stesse problematiche le abbiamo riscontrate
quando una famiglia adotta un bambino, quindi c’è un inserimento nuovo, in un contesto in cui ci sono altri
figli e in un contesto scolastico nuovo.
Parliamo di bullismo. Se adesso la televisione e la stampa non ne parlano, non è detto che non ci siano,
ritorneranno fuori quando cadrà l’interesse per l’ISIS con i soliti video su youtube. Bullismo significa una
serie di comportamenti che ci obbligano ad una gestione sicuramente molto difficile, che è un
atteggiamento di spiccata aggressività. Un elemento comune a tutti i ragazzi è la mancanza di compassione
e l’analfabetismo affettivo. Persone che sono cresciuti in un ambiente familiare dove raccontare le
emozioni, specie quelle “deboli” come il piangere, venivano censurate, per cui fanno difficoltà non solo a
raccontarle ma anche ad esprimerle e questo è un dato saliente che ci orienta anche verso gli interventi che
dobbiamo fare a favore del bullismo. Altre caratteristiche sono l’Intensità e durata coerenti, vulnerabilità
della vittima perché comunque presenta fragilità, mancanza di sostegno e gravità delle conseguenze. Come
si manifesta: in tre modi, con la violenza di tipo fisico, quella più evidente, ma c’è una violenza psicologica
che facciamo fatica a cogliere, continua, vessati da un terrorismo di tipo psicologico che è quello più difficile
da identificare. Il 32% di bambini che hanno avuto nella loro crescita comportamenti o disturbi
dell’impulsività, cioè difficoltà a gestire le proprie emozioni e anche l’iperattività, cioè la capacità di
regolare le proprie azioni ed emozioni, è a rischio di bullismo perché denotano una difficoltà di
autocontrollo emotivo. I bambini che a scuola hanno avuto episodi di bullismo, entro i 25 anni hanno una
percentuale di probabilità molto evidente rispetto alla possibilità di incorrere in reati gravi. Quindi c’è
anche un lavoro di prevenzione assolutamente importante che bisogna fare.
Bulli si nasce o si diventa? Si è visto, nell’analizzare il profilo psicologico di questi ragazzi, che in età precoce
hanno avuto
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-
grossa difficoltà nei legami di attaccamento, cioè di relazione con la figura di riferimento,
generalmente la madre,
eccessiva permissività e tolleranza da parte della famiglia; comunque il ragazzo si deve esprimere e
comunque sia viene incentivato dalla famiglia a questo tipo di permissività, cioè non si danno
limiti, paletti perché vengono considerati come limitazioni all’espressione del sé;
modello genitoriale punitivo, perché sono famiglie che adottano sia la modalità verbale, in cui si
urla, ma anche modalità punitive di tipo fisico, per cui il genitore diventa modello in cui la modalità
per ottenere le cose o avere la meglio sulla persona è quello di utilizzare la violenza fisica.
Questi sono i presupposti in cui cresce il problema del bullismo. Quando ci sono questi episodi di bullismo,
si tende a sminuire la situazione. Uno dei fattori rischio è che la vittima si trovi sola, in situazione di
solitudine e non possa chiedere aiuto o avere punti di riferimento.
Sfatare i miti: è una delle cose più pericolose e dei rischi che possiamo correre. Quali sono i miti? I luoghi
comuni:
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Sono ragazzate, non è la fine del mondo,
Ignorando si supera: non è possibile, perché è una vessazione continua,
Magari è arrabbiato per motivi suoi, ma è tanto intelligente… è un bullo, vittimizza le persone ma è
tanto intelligente e questo dovrebbe compensare il comportamento.
Non c’è un bullo se non c’è una vittima: non c’è un ragazzo che adotta atteggiamenti di bullismo se non c’è
una persona con fragilità, che fa fatica a difendersi dal punto di vista fisico e verbale. I bulli o fanno alla luce
del sole, quando c’è un pubblico che li sta a vedere, ma se ne guardano bene dal farsi vedere dal docente.
Utilizzano momenti in cui il docente non può rilevare o controllare questa cosa per avere comportamenti
vessatori.
Come tende a reagire la vittima? Con la fuga anche mentale: piuttosto che affrontare la sofferenza si
estranea e le insegnanti rilevano la caduta negli apprendimenti perché è sempre tra le nuvole. Uno dei
modi per poter affrontare la realtà è la fuga dal punto di vista cognitivo con la richiesta di aiuto, non
essendo in grado di difendersi dagli altri e non avendo appoggi.
Quali possono essere gli interventi da fare a favore del bullismo? Si chiama il circolo di qualità, simile al
circle time. Passata l’educazione, la stimolazione prosociale cerchiamo di fare degli interventi in cui
raggruppiamo gli alunni in un’ora che dedichiamo a questo, in cui cerchiamo delle soluzioni pratiche per
comportamenti di bullismo. Prima di tutto: come li identifichiamo? Fate attenzione perché ci sono degli
indicatori che individuano il problema, cerchiamo di analizzare ed ognuno suggerisce delle soluzioni. Al di là
del fatto che queste soluzioni siano finalizzate alla soluzione, è comunque un modo per fare ragionare i
ragazzi e farli sensibilizzare su una problematica che tante volte non avvertono, anzi molti di questi si
schierano con il bullo. Il bullo è affascinante, è quello che ottiene le cose, è quello che viene seguito dalle
ragazze, ha un suo fascino. Quando abbiamo in una classe sia il bullo che le vittime predestinate, la
possibilità di poter lavorare con tutta la classe è indispensabile, perché se vengono lasciati fuori il bullo o la
vittima non li coinvolge nella riflessione. Una delle strategie educative per il bullismo è quella
dell’educazione affettiva. Cioè l’educazione alle emozioni, raccontare le proprie emozioni, fare delle attività
in cui uno racconta le emozioni, ma è fondamentale che in questi gruppi partecipi sia il bullo, perché
racconta quello che non sa raccontare, come riconoscere le proprie emozioni, ma soprattutto quelle della
vittima. Quando il compagno piange, ti domandi perché piange? Quali sono gli stati emotivi; il bullo fa
molta fatica a riconoscere gli stati emotivi della vittima, perché è quasi una censura degli affetti. Il circolo
dell’interesse condiviso, cioè cercare di analizzare un problema che c’è nella classe, non va fatto dopo
l’episodio, se l’episodio c’è stato si parte da quello, non per fare un intervento spot, ma si cerca di fare degli
incontri in cui si parta dall’episodio e si cerchino delle soluzioni. Ma se una delle soluzioni è che lui fa fatica
a riconoscere la portata delle sue azioni, cioè che cosa ha fatto, e la vittima a sua volta fa fatica a dire che
cosa ha subito, facciamo un lavoro sulle emozioni. Da lì, da dove possiamo vedere delle possibili soluzioni,
cerchiamo di lavorare su dei giochi di educazione emotiva, cercando di stimolare sia il bullo che fa delle
azioni, sia la vittima che le riceve, rispetto ai sentimenti che sentono quando è aggressivo (bullo) ma anche
quando lo subisce (vittima). Ci dà la possibilità di poter sviluppare con il gruppo, è importante che tutti
stiano dentro, perché tutti e due hanno difficoltà ad esprimere le emozioni. Una delle strategie per
affrontare il problema è educare alle emozioni, a tutti i livelli: se uno degli elementi che accomuna il bullo e
la vittima è l’analfabetismo emotivo, la difficoltà di poter rappresentare che cosa sta pensando la persona
quando è aggressivo ma anche quando subisce l’aggressività. Allora sviluppiamo dei programmi di role
playing in cui vedere che cosa succede quando accade una situazione come questa dando dei ruoli, come
fossero degli attori, coinvolgendo a rotazione tutta la classe, facendo delle ipotesi e dando la possibilità a
tutto il gruppo di riflettere. C’è sempre una ragione, sia nel comportamento di aggressività sia in chi subisce
l’aggressività. Quindi non è un atteggiamento di censura, ma un atteggiamento di comprensione.
Ci vuole tempo, ci vogliono insegnanti motivate ma quanto preveniamo facendo un lavoro sulle emozioni e
quanto meglio riuscite a gestire una classe dove l’atteggiamento di bullismo è ridotto ai minimi termini. Noi
dovremmo sensibilizzare su una prevenzione e allora uno dei programmi che viene usato è quello di
educare all’altruismo perché comunque sia la prosocialità sviluppa comportamenti di aiuto e non di
prevaricazione e una educazione razionale ed emotiva, lavorando sul role playing e in circle time raccontare
poi ognuno che cosa ha sentito, è una cosa che i ragazzi accettano volentieri, perché è un lavorare su di sé
ed una cosa che produce comunque dei cambiamenti se fatta bene e sempre all’interno di un progetto. Io
dentro il POF inserisco l’educazione razionale ed emotiva per la prevenzione del bullismo.
C’è una pubblicazione interessante, che ritrae il bullo: ha paura di essere amato, preferisce essere temuto,
sceglie obiettivi facili, persone che appaiono diverse, fragili, deboli.
Il ritratto della vittima: “La mia vita è uno schifo, nessuno mi capisce, mi sento veramente solo, ho paura,
mi sento brutto grasso e ridicolo, non piaccio a nessuno”, atteggiamenti di bassa autostima, non sentirsi
considerati, l’isolamento è il primo passo per essere vittimizzati.
L’educazione che si fa è cercare di creare dei supporti (non sei solo, guarda che c’è l’insegnante a cui fare
riferimento). L’insegnante deve però essere educata, non a fare i processi all’americana, perché altrimenti
crea un atteggiamento “cover”, cioè un atteggiamento di copertura e si continua a vessare la vittima senza
farsi scoprire, anzi aumentando l’intensità della vessazione.
Consigli per la vittima: sollecitare a non pensare che nessuno capire, ma invitare a parlare con qualcuno
della famiglia, con una insegnante di cui ti fidi o un amico; se sei ferito non nasconderlo, lo puoi raccontare
anche con delle immagini. Evitare l’isolamento perché se siete in gruppo il bullo fa dietrofront; cerca di
ignorare il bullo ed evita di trovarti nei guai. Cerca di mostrati sicuro, tanto più posso far leva su amicizie
che mi danno una mano, tanto più mi sento sicura nell’ affrontare la persona. Ricordati che sei speciale,
non cambiare il tuo modo di essere perché c’è un bullo che ti vessa, resta te stesso.
C’è anche un bullismo che arriva attraverso la rete, il cyberbullismo, una delle problematiche su cui sta
lavorando la polizia postale.
La meglio gioventù è quella che lavora nella solidarietà, perché è la migliore prassi contro il bullismo,
perché agganciare i giovani in progetti solidali non è una strada poco percorribile. Nella problematica
comportamentale non limitiamoci a quello che facciamo a scuola: più riusciamo a coinvolgere il ragazzo
anche fuori, per esempio nei gruppi parrocchiali, il giovane deve essere corrotto con proposte motivanti. Se
a lui piace la clown terapia o una proposta teatrale, o qualsiasi altro tipo di coinvolgimento, è un
coinvolgimento positivo direttamente antagonista con quello dei gruppi o delle gang che hanno invece a
che fare con gli atteggiamenti di prevaricazione ed aggressività. Pensate per i vostri giovani un impegno
limitato nel tempo, ecco perché progettiamo volontario per un giorno, perché assaporino che cosa significa
fare del bene, donare gratuità per una giornata, senza nessun impegno, un qualcosa che puoi sperimentare.
Vorrei concludere che tutti i ragazzi, con il disturbo del comportamento, della personalità, della sfera
affettiva, ecc., vengono pensati come parti integranti all’interno di sistemi. Quello della scuola dove
lavoriamo è uno dei sistemi, ma poi c’è anche il sistema extrascolastico, quello familiare, che ha delle
inflessioni e delle riflessioni assolutamente importanti su come si presenta il ragazzino. L’85% degli alunni
non sono distinguibili tra vittime e aggressori, ma possiamo farli diventare risorse. Non credo all’approccio
in cui condanno il bullismo, ma porto il gruppo a capire le ragioni, che non si significa accettarlo, significa
cercare di capire che cosa c’è dietro al comportamento di chi subisce l’aggressività e chi la esercita e penso
che questa sia un atteggiamento che va verso l’educazione prosociale. Anche i bulli sono vittime, vittime di
se stessi, sono vittime delle cose che non hanno imparato, dell’analfabetismo emotivo degli affetti, sono
vittime di una crescita in cui hanno avuto difficoltà nei legami di attaccamento, quelli che nei primi tre anni,
dicono gli scienziati, determinano tutta la nostra vita e lì che ci giochiamo molto della nostra vita in termini
di equilibrio. Quindi sono destinati loro stessi a pagare una incapacità soprattutto dal punto di vista
emotivo, di riconoscere ed esprimere in maniera adeguata le proprie emozioni e quindi voglio concludere
con questo proverbio indiano: “Per crescere un bambino è necessario un intero villaggio” e penso che
rappresenti anche il senso del nostro lavoro.