“IL GIORGI”, OVVERO UN CERTO MODO DI “FARE SCUOLA”

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“IL GIORGI”, OVVERO UN CERTO MODO DI “FARE SCUOLA”
“IL GIORGI”, OVVERO UN CERTO MODO DI “FARE SCUOLA”
Uno di noi (il docente del serale), a.s.2015/2016 (10.05.2016)
Ho insegnato nelle scuole serali alla metà degli anni Ottanta e 30 anni dopo al “Giorgi
Serale” dove spero di concludere, non la mia carriera di insegnante, ma la mia vita
d’insegnante (gli insegnanti, almeno fino ad ora, non hanno carriera e credo che in buona
parte sia giusto così; non posso, per brevità, precisare questo concetto e allora “taglio il
discorso” con un aforisma che spero valga, se non come spiegazione delle mie parole,
almeno come suggestione orientativa anche per la lettura delle prossime righe; si dice:
“prete un giorno, prete per sempre”, e questo vale anche se diventi papa o cardinale; e
dunque, e in analogia, insegnante un giorno e per sempre). Tuttavia, non nascondo
l’evidenza: il mondo sta cambiando. Tornando a me, posso dire che, in entrambi i casi, la
“Scuola Serale” sia stata una scelta elettiva i cui motivi non è qui il caso di spiegare ma che
si legavano alle esperienze dei "Doposcuola Popolari" fioriti nel corso degli anni Settanta,
anni Settanta che non sono stati dunque solo “Anni di Piombo”, ma anni di grande
rinnovamento della scuola e dell’idea di insegnamento. Possiamo così ricordare i Decreti
Delegati e la successiva L. 517 del 1977 che hanno aperto la scuola a una democrazia “dal
basso” e che prevedevano e prevedono tuttora che la scuola fosse guidata non più solo dalla
Dirigenza Scolastica (impronta Gentiliana dal 6 maggio 1923) e dal Collegio dei Docenti
ma anche dal Consiglio di Istituto, un organo di democrazia eletto da tutti i lavoratori
e“fruitori” della scuola. Ma per dare ulteriore concretezza a quest’affermazione e cercare di
ricostruire un “clima” ormai lontano, posso ricordare che insegnavo allora in quelle che si
chiamavano, in gergo scolastichese, “Le 150 ore”; si era cioè, dopo il Sessantotto e con lo
Statuto dei Lavoratori, conquistato il diritto a 150 ore di permesso retribuito in modo tale
che gli studenti-lavoratori potessero più agevolmente terminare un ciclo scolastico e
ovviamente l’orario era serale-notturno. Ma veniamo a oggi (torneremo più avanti ancora
sul rapporto scuola-mondo del lavoro) e alla stringente domanda di una collega che mi
ricorda che in questa breve testimonianza devo parlare della “cosa migliore” di insegnare al
Giorgi serale e della “cosa peggiore” (e non è certo il caso di raccontare di te e dei tuoi
ricordi d’antan, vecchio trombone! questo non me lo ha però detto esplicitamente, per la
sua solita buona grazia, ma da come le ridevano gli occhi... mi è parso chiaro!).
E allora dunque quale la “cosa migliore” della Scuola Serale Giorgi, oggi finalmente
Istruzione degli Adulti? Credo di poter dire che è un certo stile della comunità docente e
un certo stile nella professionalità della proposta didattica. E poi il concretizzarsi di
questo “stile”, di questo “modo di essere” nell’incontro con la comunità degli studenti (ma
è corretto chiamarli cosi?) che sono, in gran parte, maggiorenni, e dunque cittadini adulti
(obbligatorio per me dunque il lei!). In termini più tecnici ritengo che la “didattica Giorgi”
sia la realizzazione “concentrata” di diversi articoli della nostra Costituzione in particolare
gli articoli 31, 92 e 333. Vorrei in particolare fermarmi sull’articolo nove (frutto altissimo
della penna di un vecchio professore comunista come Concetto Marchesi e di un giovane,
ma già lungimirante, dirigente democristiano come Aldo Moro) dove si afferma
testualmente: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica”. Ne vengono, ferma un’innovativa idea dell’unità della cultura, almeno due
caratteristiche di un certo modo di pensare l’insegnamento. In primo luogo la centralità del
concetto di disciplina (che si declina per le Scienze Umane in “analisi del testo” e per le
“Scienze della Natura” in “analisi dei fatti scientifici”). Poi la centralità di quel complesso
atteggiamento che possiamo definire “Cura”. “Avere cura” è, in effetti, una fortissima
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Art.3, Costituzione Italiana – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economia e sociale del Paese.
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Art.9, Costituzione Italiana – La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione.
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Art.33, Costituzione Italiana – L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce
scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i
diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento equipollente a quello degli
alunni di scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione
all’esercizio professionale. Le Istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello
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Stato.
caratteristica che attraversa l’intero stato democratico, dalla Scuola alla Sanità
all’Amministrazione pubblica. Ma vorrei declinare questa riflessione teorica in un episodio
concreto dello “Stile Giorgi”. Ho assistito (con ammirazione), nel corso del corrente anno
scolastico, a centinaia di colloqui (interviste) che i miei colleghi hanno fatto per “aver cura”
che gli studenti fossero adeguatamente valutati per le loro competenze e ricevessero
pertanto un’adeguata offerta scolastica. Ecco come, rapidamente, al Giorgi si passa dai
concetti astratti a una “cura” e un’attenzione concreta. Mi piace cosi ricordare una bella
canzone di Franco Battiato "La cura" che è spesso stata letta “solo” come una canzone
d’amore quando, invece, veicola un concetto molto più vasto, quello dell’attenzione
partecipe all’altro e ai suoi “bisogni esistenziali”. Ecco dunque quello che mi pare essere lo
“stile didattico Giorgi”: una declinazione democratica e concreta, che fa sì che il Giorgi sia,
a pieno titolo, tra le istituzioni di democrazia e di “cura e/o attenzione agli specifici bisogni
formativi dell’adulto”.
Se questa, a mio personale avviso, la “cosa migliore” e certo se ne potrà eccepire, e
trovarne altre, credo sia più facile dire che concordiamo tutti nel fatto che la cosa peggiore
sia il drammatico rapporto tra scuola e “mondo del lavoro”. E qui (mi scusi qualche
collega!) devo tornare a me e a trent'anni fa e forse più... vorrei cioè ricordare le mie prime
supplenze fatte senza neppure la laurea con il solo diploma di maturità alla fine degli anni
Settanta... c’era un paese in grande fermento, c’era un paese che lavorava “forte” e che
chiedeva di entrare presto (subito!) nel mondo del lavoro e in forma anche gratificante in
termini economici. Ad esempio uno di noi, con lo stipendio d’insegnante non di ruolo,
poteva comunque a vent’anni affittare una casa e vivere fuori dalla sua famiglia e non
lontano dalla propria famiglia
(certo, il lavoro “non sicuro”
spingeva a fare tante
ripetizioni “private” ma anche questa era un’esperienza gratificante e viva e dinamica: la
chiamavamo, con tanto affetto, la nostra piccola “industria del ciuco”... ma ciuco anch’io
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che tanto stavo imparando dai miei allievi giovani e meno giovani e più di tutto la verità di
un proverbio che, corretto, suona così: “raglio d’asino non giunge in cielo, è vero, ma se gli
costruiamo un sentiero, raglio d’asino giungerà anche in cielo”: e anche questo era la scuola
degli anni Settanta-Ottanta, un grande ed effettivo “ascensore sociale” che ne faceva uno
degli elementi centrali, e positivi, dell’intera società).
Torniamo però ad oggi... è, al contrario, il rapporto con il mondo del lavoro quello che oggi
mi pare il punto più feroce e dolente della scuola. Non sono cioè certo che noi insegnanti
siamo davvero pienamente in grado di fornire agli studenti le competenze per un mondo del
lavoro che è diventato sempre più spietato e meno prevedibile. Le competenze che
fornivamo allora avevano una “gittata” che coincideva sostanzialmente con l’arco
lavorativo di una vita... ovvero dai 20 ai 35 anni lavorativi; ora dobbiamo dare degli
strumenti metodologici che permettano una formazione permanente a generazioni che
faticano a cominciare a lavorare, ad avere esperienze continuative di lavoro, a
prevedere regolarità di contribuzione e certezza di pensione. Oggi dunque dobbiamo
fornire non solo competenze ma metodologie di autoaggiornamento e di autoformazione. E’
un compito oggettivamente più difficile e tutto questo con un’attenzione al ruolo
dell’insegnante che è incredibilmente diminuito nella sua considerazione all’interno della
società. Non investire sulla scuola (come è stato è per lunghi anni), relegarla nella
considerazione generale, è il suicidio di una nazione, la negazione del suo futuro. Eppure...
Non voglio però entrare qui nel merito delle scelte politiche degli ultimi governi e dunque
mi permetto solo un altro ricordo (visto che questa presente è anche una celebrazione
storica) e faccio un altro esempio concreto. Dino Formaggio, Franco Fortini, Cesare
Musatti, Maria Corti, grandi intellettuali milanesi e Maestri del Novecento... loro, come
tanti altri, avevano insegnato nelle scuole per poi entrare nelle università e, se avevi la
fortuna di incontrarli, ed era facilissimo, pure senza facebook, bastava una lettera o una
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timida telefonata, ti trattavano da collega, senza formalismi o distanze. Vi era, cioè, una
circolarità del sapere e non un’università chiusa e feroce nel suo privilegio. Sarebbe
dunque necessario che i docenti universitari insegnassero ogni sette anni in un ordine
diverso di scuola e che, simmetricamente, gli insegnanti venissero distaccati presso le
università sia per anni sabbatici di formazione che per fattive collaborazioni didattiche. Ma
sarebbe anche necessario trovare un modo di trasmissione dell'insegnamento “orizzontale”
e tra colleghi... ad esempio, ricordo come fondamentali le ore di “copresenza” dove si stava
in classe in due insegnanti e dove si imparava (io imparavo) ad insegnare e l’entusiasmo
dell’insegnamento. E ricordo in particolare una collega che spiegava la costituzione e ne
faceva il centro della sua didattica formando non solo gli allievi ma anche i colleghi nella
prospettiva di una “missione laica” che coinvolgeva ogni cittadino. Ma temo nuovamente di
finire a parlare di me e dunque mi taccio dicendo solo un’ultima cosa. Credo davvero (alla
luce di questo tempo passato dentro la scuola e a pensare la scuola) che il Giorgi possa
divenire un punto di ripartenza per una scuola nuova e che dunque vada difeso non solo
come entità presente, e passata, ma anche come progetto futuro.
Milano, 10 maggio 2016
(Paolo, Fiorella, Enrica, Francesco, Fabiana, Vincenzo, Lorenzo, Anna, Gabriella,
Tommaso, Valeria, Giovanni, Maria, Marcello, Salvatore, Angelo, Francesca, Giuseppe,
Erika, Giuseppa, Alessandro …il docente del giorgi)
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