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L'IDEA METAFISICA NELL'ESPERIENZA
PITTORICA DI G. DE CH/RICO
Conclusione
Le più antiche testimonianze critiche intorno alla propria pittura, fornite
da De Chirico, risalgono agli anni immediatamente successivi il periodo ferrarese, quando le sue concezioni vennero condivise da altri artisti italiani e fu
così possibile creare una « scuola » e stendere i canoni di una estetica. Non
casuale è tuttavia la coincidenza del momento critico e letterario del pittore con
il decadere della sua ispirazione pittorica: la teorizzazione lasciava alle spalle
le vive esperienze di cavalletto, rapprendendo, cristallizzando in formule il pur
intellettuale effondersi della poesia figurativa.
Immediatamente dopo la fine della guerra, assieme a Carrà, a Morandi e
ai critici dell'area metafisica, Cecchi, Melli, Soffici, De Chirico pubblicò molti
articoli esplicativi della sua pittura (Estetica Metafisica, Noi Metafisici, Sull'arte Metafisica) sulla rivista « Valori Plastici », fondata da Mario Broglio il
15 novembre 1918. Al contempo, nel 1919, per l'editore Vallecchi di Firenze,
Carrà dava alle stampe sparsi articoli polemici ed esornativi, raccolti in un
volume dal titolo Pittura Metafisica. Ancor oggi, De Chirico riporta il doloroso
stupore con cui vide gran parte dei critici del tempo (tutti, in genere, i toscani)
ammirare i nuovi valori espressi dalla pittura metafisica, sopratutto attraverso
l'interpretazione del fiorentino Carrà, che tale movimento abbracciava solo da
due anni senza peraltro esercitare su di esso un'influenza inventiva determinante.
Dopo tanti anni di dolorosa solitudine, il Nostro riceveva i meritati elogi sopratutto attraverso la mediazione di neofiti e di epigoni: questo può considerarsi,
secondo noi, il primo equivoco critico in cui caddero la pittura e l'estetica metafisica. La quale aspira ad un sostanziale cosmopolitismo e non ama circoscriversi, come fu intenzione di Carrà, entro i limiti nazionalistici: ricerca un adeguarsi della forma a contenuti intellettuali, non definizioni posticce, tenute come
pretesto per interessi formali; ed, infine, imposta la sua base figurativa su intenti
architettonici (« Nella forma architetturale delle case, delle piazze, dei giardini,
dei porti, ecc. stanno le prime fondamenta di una grande estetica metafisica » ),
non plastici, ai quali la critica ispirantesi al Carrà vorrebbe ricondurre il germe
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inventivo dell'estetica dechirichiana: la quale non è per puri visibilisti, ma
s'inserisce entro la corrente dei fenomeni di cultura non circoscritti alle possibilità specifiche dei singoli mezzi artistici.
Le testimonianze dirette del pittore vennero raccolte, nel 1920, anche dalla
rivista milanese « Il Convegno », che pubblicò, tra l'altro, l'importante saggio
sul Boecklin: e per due anni, dal 1924 al 1925, da « La rivista di Firenze »,
dopo che, nel 1924, era avvenuto lo scioglimento di « Valori Plastici ». Nel 1924,
a Roma, il pittore pubblicò un saggio su Courbet, nel quale è facile riscontrare
molti motivi d'interesse, pittoricamente tradotti nel periodo ferrarese.
A questo punto, la ricerca critica registra una stasi di circa tre anni, durante la quale l'artista non lasciò testimonianze scritte sulla sua parentesi metafisica. I suoi interessi figurativi s'erano ormai spostati verso ricerche formali
qualitative, che dell'antico periodo conservavano solo la vocazione per la visione
classica, solare e mediterranea della vita: il risorgente richiamo verso la Grecia
risvegliava il mitico mondo delle divinità olimpiche, dei cavalli scalpitanti dinanzi al mare di cobalto, intorno alle rovine degli antichi templi imbevuti di luce.
Ogni artifizio intellettualistico, ogni preponderanza di contenuto, lasciava il passo a squisite risoluzioni di tecnica pittorica: si può dire che, nei restanti anni
della sua vita, sino ad oggi, De Chirico si studiò di ottener risultati opposti a
quelli cercati nei dieci anni fecondi del periodo metafisico; né ciò, il pittore
tiene a precisarlo, vuol dire un ripudio della sua precedente maniera.
Ricerche di tal genere indussero l'artista a pubblicare, nel 1928, il Piccolo
trattato di tecnica pittorica: ma il discorso intorno alle esperienze dal 1908
al 1918 era lungi dal concludersi.
Nel 1928, a Parigi, Cocteau pubblicava Le mystère laic, uno studio su De
Chirico, ricco di trasposizioni letterarie di grande finezza, dei motivi pittorici
del Nostro: lo stesso Breton, sempre nel 1928, riportava alcune lettere del periodo
parigino del pittore nel suo Le Surréalisme et la Peinture: ciò avveniva a un
anno di distanza dalla pubblicazione del secondo manifesto surrealista. Ai riconoscimenti degli amici francesi (l'amico più grande, l'Apollinaire, era però
caduto in Francia nel 1917) il pittore rispondeva pubblicando, nel 1929, il suo
Hebdomeros, in francese; è, questo libro, la prima autobiografia di De Chirico,
un sognante excursus nel mondo della sua infanzia, pieno di strane suggestioni,
di visioni allucinate, di lampeggianti magismi.
Tanto bastò ( e l'Essai de critique indirette pubblicato da Cocteau nel 1932
non fece che confermare uno stato di fatto), per considerare De Chirico un
« surrealista ». Il periodo francese del pittore fu riguardato sotto una nuova
luce: i motivi autobiografici, le esperienze tedesche, le suggestioni della « misura » italiana vennero trascurati e si corse a ricercare Freud in ogni cantuccio
della sua pittura. Or, che De Chirico abbia a Parigi respirato alcunché dell'atmosfera di quegli anni, è evidente: ma da generiche e comunque puntuative ricerche impostate sulla psicanalisi, su Einstein e su Bergson, fare del Nostro un
patito del pansessualismo, come volle, tra gli altri, lo Onslow-Ford, molto corre.
Ancor oggi, purtroppo, la maggioranza dei critici europei è vittima di questo
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equivoco: tra gli altri lo psicologo italiano Miotto, in un articolo del 1962 (31),
non esita a operare una precisa disamina psicanalitica de L'inquietudine del poeta
del 1913 ( fig. 18 ): « E' quasi — scrive — il delirio dell'aggressione erotica.
La donna, ridotta all'essenziale nella prospettiva fisica, sta per essere assalita dalla
molteplicità degli elementi maschili: il busto si contorce quasi con voluttà e
nell'attesa non c'è neppure il presentimento della sconfitta. Non è forse l'uomo
la vera vittima? E' naturale, dunque, che sia assalito dalla inquietudine ». E'
superfluo aggiungere che nel sopracitato articolo fanno al Nostro buona compagnia i dipinti di tutti i maggiori esponenti del surrealismo, fusi in una commistione di date così imperdonabile da ammettere come sola giustificazione il
fatto che il Miotto non s'interessi propriamente di arte. De Chirico, infatti, dipinse alcuni prototipi (non più di quattro o cinque) ispirandosi al Die Traumdeutung freudiano (e al Weininger ), in pieno « clima » parigino d'anteguerra:
e perciò devesi considerare antesignano, non già coevo delle esperienze surrealiste: l'errore equivarrebbe a quello di considerare Cimabue un « giottesco »!
E', in effetti, ben vero che il pittore ispirerà alcuni aderenti al movimento francese, come il Tanguy, che espose i suoi primi dipinti alla Galleria Surrealista
del 1926 dopo aver conseguito per illuminazione repentina una vocazione alla
pittura visitando alla galleria Paul Guillaume una mostra di De Chirico: ma
questo è un fatto indipendente dalla volontà del pittore che mai nutrì molta
simpatia verso i surrealisti sopratutto per le loro ossessioni freudiane (nella
più recente autobiografia riporta con sarcasmo l'episodio del viaggio di nozze di
Breton, il quale, invece di scegliere le consuete mete italiane, « si recò con la
giovane sposa a Vienna, non per assaporare il romanticismo della capitale austriaca, ma per conoscere personalmente il maestro della « libido » e del complesso di Edipo »). Ma già alcune voci si son levate per separare l'esperienza
dechirichiana da quella surrealista. Sin dal 1950 il Sinisgalli osservava: « De
Chirico non avrebbe mai accettato la barbarie e il gioco di Max Ernst e di Dalì.
Le sue ricerche sono sempre state controllatissime; nessuna narcosi da peinture
onirique, nessuna dictée automatica. Alla Pitia, De Chirico ha sempre preferito
Minerva (32) ». Questo fondamentale rilievo, confermato dallo Helwig, coglie
la differenza essenziale dei due movimenti: l'uno, il francese, disorganico e
dispersivo, privo di una effettiva spiritualità, implicato nei più torbidi moti materialistici della nostra epoca, polemicamente distruttivo quanto privo di effettive idee rinnovatrici l'enigma, scriveva il Breton nella poesia « Gli stati generali », è di non sapere se si abbatte o si edifica » —, l'altro, l'italiano, teso a
coglier motivi d'evoluzione artistica nella sorgente della cultura europea. Piuttosto, un effettivo rapporto estetico pre-pittorico può cogliersi tra l'arte del nostro e l'accezione del termine « surrealismo » quale fu coniata dall'Apollinaire
(31) A. MIOTTO, Surrealismo e psicanalisi, in « Rassegna medica e culturale », XXXIX,
1962, n. 6-7.
(32) L. SINISGALLI, op. cit. p. 291.
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Fig. 18 - G. DE CHIRICO : L'inquietudine del poeta (1913)
Coll.ne Roland Penvose - Londra
nel suo dramma Les mamelles de Tirésias, del 1916: trasmutato il greco in
latino, esso equivale al « metafisico » dechirichiano. Ma la loro distanza rispetto
alla direzione assunta a partire dal 1919, dal movimento francese si equivale.
Né, con ciò, è possibile porre il punto sugli equivoci della critica intorno
alla pittura metafisica. Negli anni 1933-34, un cospicuo numero di opere dell'artista venne esposto nella seconda Quadriennale di Roma: si trattava però in
gran parte di dipinti di maniera, eseguiti dopo il 1920, del tutto privi di calore
inventivo. Fuorviato da tale riferimento, il Ragghianti fu giustamente indotto
a rifiutare in modo drastico, esclusivo, ogni valore d'arte alla espressione dechirichiana (33 ). Merito grande del Ragghianti fu, tuttavia, proprio per la massiccia armatura d'idee di cui si valse per dimostrare il suo assunto, di richiamare,
(33) C. L. RAGGHIANTI, La seconda Quadriennale Italiana. I. Giorgio De Chirico, in
« La Critica d'Arte », I, 1935, n. 1, p. 118 e sgg.
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sull'opera di De Chirico, un più vivo interesse da parte della cultura italiana, e
sopratutto una più rigorosa procedura metodologica nella disamina della sua
arte.
La revisione del giudizio del Ragghianti non tardò molto a manifestarsi.
Nel 1940 in seguito ad una mostra in una galleria milanese delle opere del pittore dal 1910 al 1922 il Brandi riuscì a cogliere nella produzione metafisica i
concreti valori formali, di astratta e privativa spazialità, in essa presenti (34 ).
E più tardi, sviluppando analiticamente nel « Carmine » il suo pensiero sull'arte, arrivava a esemplificare nella pittura metafisica uno dei casi del momento
germinale della creazione artistica, ponendola come modello di « costituzione
negativa d'oggetto »: che era quanto riconoscere in essa una magnifica elezione
di nascita, anche se, con opportune specificazioni, si individuava il processo
involutivo che venne poi a inquinarla (35 ). Tale riconoscimento trovava seguito nell'opera del Pica ( 36 ), nella quale vien posto l'accento ( per la prima
Fig. 19 - G. DE CHIRICO : Meditazione mattinale (1912)
Coll.ne privata - Milano
(34) C. BRANDI, De Chirico metafisico al « Milione », in « Le Arti », II, 1940, n. 2,
p. 118 e sgg.
(35) BRANDI, Carmine o della pittura, Firenze 1947, pp. 88-92.
(36) A. PICA, Dodici opere di Giorgio De Chirico, Milano 1944.
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Fig. 20 - G. DE CHIRICO : Malinconia torinese (1915)
Coll.ne Frua De Angeli - Milano
volta, in Italia) sui motivi vitali, le fonti e le discendenze della produzione metafisica.
Nel 1945, dopo sedici anni di silenzio, il pittore si ripresentava con due
scritti: le Memorie della mia vita pubblicato a Roma per l'editrice Astrolabio
e (insieme con la moglie, Isabella Far) Commedia dell'arte moderna, una raccolta
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di scritti dal 1918 al 1943. Intorno ad essi — il pittore vi si mantiene sostanzialmente legato al suo isolamento — la critica ebbe modo di assumere i più
vari atteggiamenti. Ricorderemo, tra le altre, le opinioni dell'Argan (37), del
Cairola (38), del Marchiori (39 ) e del Valsecchi (40), le quali non si discostano, salvo per l'ultimo, da un cauto riconoscimento di originalità. Ma per il
pittore, ancora una volta, dovevano parlare le opere. Nel giugno del 1948, la
XXIV Biennale di Venezia apriva le sue sale alle tele più significative, dal 1908
al 1920, di De Chirico, Carrà e Morandi. Questa nuova esposizione riproponeva,
stavolta perentoriamente i termini di un improrogabile riconoscimento generale.
Fra le voci allora levatisi a tale scopo, spiccano quelle dell'Apollonio, autore delintroduzione esplicativa alle opere esposte alla Biennale (41) e di un saggio, pubblicato nel 1949 (42): e il Faldi, da noi spesso citato, che lo stesso anno compose
una mirabile monografia, ricchissima di riferimenti filologici e storiografici, nettamente distanziantesi, assieme a quella del Soby (43 ), da ogni altra per chiarezza e sistematicità d'esposizione (44).
Si giungeva così agli « anni cinquanta », che vedevano la lenta, ma decisa
ascesa della pittura metafisica nel mondo della pittura europea. In Italia, più
d'ogni altro il Valsecchi, con molti scritti, alcuni dei quali già citati (45), s'impegnava a valutar la pittura metafisica come « scuola », riconoscendo in essa la migliore espressione pittorica italiana del '900. Individuando importanti analogie
letterarie coeve e scoprendo continui motivi d'allacciamento con la tradizione figurativa italiana, tentava, con piena riuscita, un inserimento della pittura metafisica
nella storia dell'arte europea.
In Germania la critica più recente (Hess, Sedlmayr ), di contrasto con le opinioni dell'Hauser e dell'Hausenstein, pur non riconoscendo il valore di « gruppo »
dell'idea metafisica, ha voluto rivedere il concetto che fa di De Chirico un surrealista, inserendolo entro la cornice, pur di incerti contorni, del « realismo magico ».
(37)
e sgg.
G. C. ARGAN, Pittura italiana e cultura europea, in « Prosa », III, 1946, p. 288
(38) S. CAIROLA, Giorgio De Chirico, in « Arte italiana del nostro tempo », Bergamo
1946, p. 26.
(39) G. MARCHIORI, Cocteau e De Chirico, in « Emporium », LII, 1946, pp. 123 e sg.
(40) M. VALSECCHI, Una pagina per De Chirico, in « Lettere e Arti », II, 1946, n. 4,
p. 14 e sgg.
(41) V. APOLLONIO, Tre pittori italiani dal 1910 al 1920, in « Catalogo della XXIV
Biennale di Venezia », Venezia 1949, pp. 29, 30.
(42) APOLLONIO, La pittura metafisica, in « Le Arti belle », Milano 1948, n. 14-15,
p. 35 e sg.
(43) j. T. SOBY, The Carly De Chirico, New York 1941.
(44) I. FALDI, Il primo De Chirico, Venezia 1949.
(45) M. VALSECCHI, La pittura metafisica, Milano 1958; ID., Un decennio: 1905-1915,
in « Maestri Moderni », Firenze 1957.
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Per ultimo l'Helwig, proseguendo la linea che tende a mantenere il nostro isolato
da ogni contesto artistico, sviluppa gli intenti culturali di base dell'estetica dechirichiana, secondo un ben preciso impegno spirituale. L'idea di una missione, suffragata da numerose testimonianze autobiografiche, affiora così al di là di ogni
polemica e di ogni equivoco, a qualificare una pittura che mai accondiscese ad
imbarbarirsi, sempre tenendo innanzi agli occhi l'umanistico richiamo alla dignitas hominis.
* * *
Col sorgere del XX secolo l'astrattismo, lo Jugendstyl, eppoi il surrealismo e
la pittura informale si volgono verso un superamento della visione puramente oggettiva; delle forme della natura e, con essa, dell'antitesi tra classicità e deformazione; ma ben più rigorosamente dei suddetti movimenti, l'isolata esperienza metafisica dechirichiana tende a passare dall'analisi di una realtà esterna a quella
di una realtà più interiore. « Ogni cosa — scriveva l'artista nel 1919 (46) — ha
due aspetti: quello concreto, che vediamo quasi sempre e che ciascuno vede, e
quello spirituale e metafisico che solo rari individui sanno vedere in momenti di
chiaroveggenza e metafisica astrazione ».
Su questa base, dopo le speculazioni monacensi e i primi tentativi italiani,
la pittura del Nostro riesce, a Parigi, a maturare il programma weiningerian o attraverso l'ealborazione di una nuova « simbolica universale ». Si attua così una
ricerca esistenziale che, da un lato — è il caso di Meditazione Mattinale del 1912
( fig. 19) — sorge dall'interiorità dell'artista richiamandosi ai motivi di solarità,
luminosità e chiarezza mediterranea riscontrabili nelle impressioni giovanili riportate a Volo e ad Atene; e dall'altro — come in questa Malinconia Torinese
del 1915 ( fig. 20) — si studia d'esprimere la stimmung nietzschiana « dei pomeriggi d'autunno nelle città italiane », che racchiude in sé la partecipazione alle intime esigenze di un'epoca di transizione. Il ciclo delle « Piazze d'Italia » rappresenta una sintesi di queste due direttive: il valore estetico in esso contenuto s'individua in due momenti successivi, strettamente connessi tra loro: nel primo l'artista scioglie i nodi logici e memoriali che l'avvincono agli oggetti, scoprendoli come qualcosa di non apparente e fissa le immagini risultanti in un eterno presente, ben espresso dai colori di coccio, dal chiaroscuro essenziale, dalla fermezza degli sfondi e dalla nettezza dei contorni, che nulla concedono a tremolii o vibrazioni. La sensazione di sgomento che ne risulta s'accentua allorchè, nel secondo momento, l'artista si libera anche delle categorie spazio-temporali: la realtà così ottenuta è quella tipica delle visioni oniriche, ma in virtù della certezza e della luci-
(46) R. MODESTI, op. cit., p. 4.
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Fig. 21 - G. DE CHIRICO : Purezza (li un sogno (1915)
privata - Parigi
dità in precedenza acquisite, si ha piuttosto l'impressione di penetrare un sopramondo, un iperuranio culturale fatto di idee pure archetipali.
In questa nuova, inesplorata dimensione si coglie una quasi integrale assenza della figura umana, proprio perchè il nouvel hu,manisme dechirichiano presuppone una penetrazione nell'oggetto divincolata da forme esteriori. Il senso di so-
litudine che ne consegue ha il valore di una certezza raggiunta, che supera lo
smarrimento in quanto si richiama a un mondo originario-primordiale il cui simbolismo — le torri, le statue supine ecc. — si perde nella tradizione delle religioni
più antiche. « Ogni opera d'arte profonda notava l'artista ( 47 ) — contiene due
solitudini: una, che si potrebbe chiamare solitudine plastica e che è quella beatitudine contemplativa che ci dà la geniale costruzione e combinazione delle forme:
(47) DE CHIRICO,
Provincia
Lettera in Breton...,
passim.
e cce
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l'altra sarebbe quella dei segni: solitudine, questa, eminentemente metafisica e
per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica di educazione psichica o
visiva ». I segni di cui il pittore parla sono le magiche forme in cui l'uomo primordiale s'imbatteva ad ogni passo: « Uno dei più rari fenomeni che ci ha lasciato la preistoria — scriveva, sin dal 1914 ( 48 ) — è il presagio (il significato magico delle cose). Esso esisterà sempre. E' come un'eterna dimostrazione del non-senso (in senso logico) dell'universo ».
L'insistere dell'artista sul richiamo alle origini, su una certezza anticamente
posseduta ed ora affuscata è anche, per il ricongiungersi del ciclo, il tendere verso una sintesi suprema, una semplicità autoconsapevole che racchiuda in sè i contrasti redimendo ogni falsità.
La soluzione parigina è, in definitiva, pregna di superuomismo paganeggiante. Le statue, la ferma impostazione spaziale, l'olimpica virilità delle torri svettanti si contrappone volutamente ad un mondo sempre più devitalizzato, indebolito
da fariseismi umanitari, altruistici, femministici ecc. Dinanzi ad essi la pittura dechiarichina pone l'individuo assoluto, non - impegnato in alcuna illusione, eroicamente allenato a vincere il timore dei non - io vanificatori.
Codesta visione, a cagione delle nuove esperienze figurative e, soprattutto,
della catastrofe bellica, si placa, a Ferrara, in un più equilibrato senso d'umanità,
fatto di comprensione, se non di compassione delle umane debolezze e di esaltazione della solidarietà e della non - violenza.
A Ferrara, oltrechè la « oltremodo metafisica » suggestione del palazzo estense, ritratto ne Le Muse Inquietanti e di tutta l'architettura rinascimentale, il pittore ritrova, nei dipinti del Cossa, del Crivelli e di Cosmè Tura — così come, più
tardi, in Mantegna — l'idea metafisica, intesa come tensione verso uno stato di
libertà, come aspirazione verso l'infinito, come enigmatico accostamento di oggetti-simboli come evocazione magica della realtà nella perpetuazione dell'istante: e
ne scopre il valore di non casuale ricerca, al di là del gusto decorativo e dell'inclinazione culturale clasischeggiante del tempo. L'idea metafisica, come si scorge
nella pittura italiana di ogni tempo, era dunque qualcosa di presente, di vivo, di
avvertito, anche se non formulato coscientemente: ed in questa verifica nella tradizione, l'artista poteva dire d'aver individuato, non già un mondo interiore opinabile, ma una ben precisa inclinazione dell'animo umano, riscontrabile in special modo nei periodi di transizione.
Codesto riallacciamento alle più luminose testimonianze dell'arte figurativa
italiana, rivissute con occhio moderno, s'unì al ricordo risorgente del « paradiso
perduto » dell'infanzia, per indurre il pittore ad una visione più composta, ritmata
ed intimistica della vita che, alfine, incontrò il cristianesimo per inderogabile necessità. Il precedente gusto per la chiarità mediterranea, che è poi un senso panico e pagano della natura, riconfluisce così in una visione interiore che, pur conservando i valori di solarità, di virilità, di ascetismo, li inquadra in una forza vi-
(48) DE CHIRICO, op. cit., passim.
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tale ecatar Lica, qual'è appunto, il cristianesimo; concepito come unica possibilità
resurrezionale, pur nel superamento di ritualismi esteriori e di dogmatismi fideistici, di un'epoca in dissoluzione.
L'intento evangelico di alcuni dipinti ferraresi si spinge — come in questa
Purezza di un sogno del 1915 ( fig. 21) a ritrarre edifici accatastati uno sull'altro, in modo simile alle città dipinte da Cimabue, o all'Arezzo giottesco del ciclo francescano; a simboleggiare il ritrovamento di una unità sociale nel ripristino
di val ori affini a quelli della Respubblica Christiana. L'intento dechirichiano di
sollevar l'uomo verso un mondo di gioiosa fratellanza, assume così un valore profetico riecheggiante i temi degli utopisti cristiani fino al Dostoievskij di « Sogno
d'un pazzo »: quando l'uomo supererà le imposture di una civiltà materialistica, le
convenzioni, i principi d'autorità, i tabù, allora potrà riguardare, con animo risollevato, al valore filadelfico del suo esser nel mondo.
Non dissimilmente si svolgeva, in quegli anni, la problematica letteraria pirandelliana. Spinto, come De Chirico dalla necessità d'esprimere la tragicità d'un
mondo senza libertà, i personaggi senza volto dello scrittore agrigentino richiamano le muse inquietanti del nostro. E nelle novelle e nelle commedie sue ritrovi la
stessa ricerca d'una atmosfera dissolta, affocata, affranta, creata per esprimere lo
stato di quieto delirio, di dolorosa costrizione, di afranta impotenza di una umanità al bivio di un rinnovamento. Il romanticismo, nella angosciosa ricerca di un
divino trascendente, s'era disperso in fantasticherie, perdendo la visione oggettiva
della natura. Per ultimo i tardo-romantici avevano imbrigliato l'esistere in leggi
le quali arguivano il divino solo in quanto fisse, eterne e immutabili. La ferrea
Wille della natura, palese frutto di cristallizzazione ideologica, condannava l'evo
contemporaneo ad una staticità mortale. Contro di essa, prima individuandone i dolorosi effetti, poi suggerendo un possibile superamento mosse la cultura europea postdecadente; e, massimamente i due nostri grandi artisti che dalla comune impostazione di studi — ambedue risentirono in gioventù delle suggestioni della grecità
ed ambedue completarono i loro studi in Germania — trassero l'avvio per un
destruam et aedificabo delle posizioni ottocentesche sostanzialmente parallelo.
Principalmente, per rinnovare i canoni di comportamento della società, essi intesero superare le prevenzioni romantiche verso la ragione, servendosi di quei
metodi di analisi razionale della psiche che il positivismo aveva scoperto, materialisticamente equivocando nel tenerli per fini d'evoluzione. Ed attraverso la certezza dell'uso scientifico dell'intelletto, essi pervennero allo scoperta delle perenni mutazioni della realtà esterna ponendosi al di fuori di esse: individuando così
nella forma il senso di quella Icheit prima adombrata solo dai filosofi. I numerosissimi ritratti dechirichiani, da quello del 1908 a quello del 1922, sotto il quale
l'artista scrisse il motto: « Nulla sine tragedia gloria » e le tre autobiografie al
pari di romanzi come Uno, nessuno e centomila, testimoniano lo sforzo congiunto
dei due artisti d'invenire un elemento positivo, una certezza immutabile, al di
sopra delle fugaci cristallizzazioni della forma, dei « veli di Maja » che imprigionano la realtà vera, quella che l'uomo deve conquistare con sforzo autocosciente.
Di ciò sopratutto, al pari di Pirandello — meno disincagliato, però, dal pesProMA di Lecce - Mediateca - Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)
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simismo tardo-romantico — dobbiamo andar grati a De Chirico, « argonauta alla
ricerca di se stesso, esploratore — per usare una felice espressione dello Helwig —
del suo foro interiore ». La sua pittura è tuttora gustata solo da un ristretto numero di specialisti. Ma noi crediamo fermamente ch'essa rappresenti tuttora —
poichè siamo ancor lungi dall'aver superato la fase di transizione post-romantica — un validissimo stimolo per un proseguimento figurativo non tendenzioso
e non superficiale.
ENRICO MONTANARI
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