Dal pensabile al possibile

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Dal pensabile al possibile
Dal pensabile al possibile
Relazione sul Primo Seminario Internazionale sulla Giustizia Minorile Restaurativa
La Paz - Bolivia
Premessa
Prima di diventare possibile, un’idea, deve poter essere pensabile: deve girare senza freni nella mente del
suo creatore, essere plasmata e modificata, fino a quando non trova la forma desiderata, capace di potersi
trasformare in realtà. È da questo principio che nasce il nuovo, con cui la società va avanti e indietro. Il
pensabile richiede dunque uno spazio ed un momento ben preciso; per tutti gli amanti del possibile è
fondamentale dedicare tempo e spazio al pensabile.
È a partire da questa riflessione che proverò a narrare lo stato della Giustizia Minorile in Bolivia, passando
dall’esperienza concreta derivata da un viaggio in un ambiente nuovo, e attraverso una riflessione teorica
nata dalla partecipazione al Primo Seminario sulla Giustizia Minorile Restaurativa a La Paz, Organizzato
dall’Associazione Progettomondo MLAL nel novembre del 2010.
L’impensabile: i contesti
La realtà boliviana sembra profondamente solcata da contraddizioni e disuguaglianze incredibili; le radici di
questa problematica si possono ritrovare in alcuni luoghi simbolo dove la realtà, a volte, diventa
impensabile. Il Carcere di San Pedro, a La Paz, è ancora oggi la rappresentazione esplicita di una assenza:
assenza di diritti, di pensiero democratico, di reale possibilità di cambiamento.
Un carcere cessa di essere tale, se al suo interno non vengono rispettate quelle stesse leggi per la quale
infrazione un individuo è stato condannato. Se il luogo adibito alla trasformazione dell’uomo e del sistema,
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non si contrappone nei fatti al sistema stesso, che spesso mette gli individui nella condizione di delinquere,
come poter pensare al cambiamento della persona? Tutto questo è impensabile; il carcere perde allora la
sua ragione di esistere, sommandosi a quei non-luoghi, a quei nidi del cuculo, che spesso hanno segnato la
storia di molte esperienze che credevano di essere rieducative e che di fatto sono state fonte di esclusione
ed emarginazione sociale.
Tre elementi che avvalorano questa analisi.
Il primo dato allarmante è che, di fatto, l'ingresso in carcere di ogni detenuto è soggetto al pagamento di
una quota. Questo implica una diversità del servizio, a seconda della disponibilità economica di chi è
incarcerato: infatti, in primo luogo, i criminali più abbienti posso ottenere trattamenti privilegiati, mentre i
più disperati, al contrario, vivono in condizioni disumane, a metà strada tra un campo di concentramento e
una sistemazione cimiteriale (a partire dal posto letto che somiglia, per usare esempi occidentali, a un
loculo); inoltre, tutto ciò non fa che riconfermare, anche all'interno del carcere, le condizioni “gerarchiche”
della piramide criminale: chi era ricco e potente fuori, continua ad esserlo, nonostante la detenzione,
mantenendo, molto spesso dall'interno, la gestione e l'organizzazione di traffici criminali.
La seconda considerazione inquietante è questa: il carcere di San Pedro, fino a qualche anno fa, era
considerata una meta molto apprezzata per i turisti stranieri, addirittura inserita nei percorsi di visita della
Lonely Planet. Questo sistema, al limite della corruzione, permetteva, ed in una certa misura permette
ancora oggi, che la quota di ingresso venga pagata direttamente alla guardia carceraria di turno. Una pratica
del genere è l’esempio lampante della considerazione che si ha dei luoghi di detenzione: l'aspetto
economico, privilegio di pochi in una posizione dominante, prevale sui diritti dei detenuti, in barba ad ogni
proposito rieducativo o umano, calpestando ogni principio di rispetto per chi vive la condizione carceraria.
L’assurdità di questo fenomeno si amplifica se si pensa al fatto che in questo modo è possibile ottenere
somme molto consistenti (l’ingresso al carcere può valere circa un quarto della paga di un sorvegliante),
senza curarsi dell'aspetto vergognoso che questa operazione rappresenta.
Infine, occorre rilevare un ultimo dato: oltre all’incapacità della politica di rendere le carceri, luoghi di
detenzione umana e riabilitazione dei prigionieri, c’è l’aspetto bestiale di alcune pratiche, ancora presenti
nella società boliviana. Esiste, infatti, una sorta di giustizia privata, chiamata “comunitaria”: viene tollerata,
per i cittadini di determinati quartieri, la macabra pratica di impiccare fantocci ai pali della luce. Questo
funge da avvertimento per i potenziali delinquenti, soprattutto i minori, e come promessa di vendetta
privata, qualora il monito venga ignorato. Questa usanza dovrebbe far riflettere, anche per un dato
semantico: che accezione si dà alla parola “comunità”, in questo caso? Ci si riferisce, sembrerebbe,
solamente al luogo dove non c’è apertura e accoglienza, ma dove invece vigono contrapposizione e
chiusura, verso individui considerati nemici, dove si arriva a lapidare o uccidere sommariamente ragazzi,
colti nell’atto di delinquere, come spesso ancora avviene.
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Il pensabile: il seminario
Inserito in questo scenario, il Primo Seminario sulla Giustizia Giovanile Restaurativa, avvenuto a La Paz dal
29 novembre al primo dicembre 2010, rappresenta la volontà di fermarsi a pensare il possibile, a dare più
ampio respiro a quelle riflessioni che portano il seme del cambiamento sociale. Società civile, associazioni
socio-educative, esperti ed istituzioni boliviane si sono incontrate per ripensare la realtà.
In Bolivia, ad oggi, non esiste un programma effettivo e differenziato per i giovani che delinquono, ed il
sistema penitenziario nel suo insieme rappresenta ancora una realtà complessa, incapace di garantire il
reale recupero della persona. Eppure c’è chi, sognando un’alternativa, si adopera per costruire il
cambiamento: l’Associazione Progetto Mondo MLAL lavora da anni al progetto Qalauma, che rappresenterà
il primo centro di recupero per i minori in conflitto con la legge; in questa direzione è stato organizzato il
seminario, per approfondire e rilanciare i temi della giustizia per i minori e della loro riabilitazione.
Nella prima giornata di lavori, dopo i saluti istituzionali e la presentazione del convegno, gli interventi che si
sono susseguiti sono stati quelli degli addetti ai lavori: sociologi, educatori e difensori dei diritti umani, nel
campo della giustizia minorile. Sono attualmente oltre 600, i minori tra il 16 e i 21 anni che scontano una
pena nelle carceri per adulti, in Bolivia; la legge penitenziaria boliviana (n. 2298), in realtà, proibisce che i
minori siano detenuti insieme agli adulti, tuttavia non esistono le strutture necessarie per permettere
questa divisione effettiva. Se a questo dato si somma il fatto che moltissimi di questi ragazzi si trovano a
ricevere pene detentive enormi, senza possibilità di revisione o indulto, la situazione diventa insostenibile.
A seguito di questo quadro tracciato, la parola è stata lasciata alle testimonianze dirette.
La prima, quella di un giovane detenuto, condannato a 30 anni, scortato e in permesso speciale per poter
parlare al Seminario: questa esperienza ha evidenziato il dramma dell’immutabilità di pene estremamente
severe, che se imposte a giovani boliviani arrestati, si trasformano nella negazione del futuro di questi
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giovani, nell’impossibilità di riabilitarli, o addirittura nel fattore di degenerazione e peggioramento dei loro
comportamenti.
La seconda, quella di una madre di un giovane detenuto appartenente ad un movimento di madri, che cerca
di difendere i giovani figli detenuti, nel far sì che vengano tutelati i loro diritti e che le pene mirino alla
rieducazione dei condannati, senza essere disumane. La visione emersa è stata, in primis, quella di un
genitore che, per natura, ha l’intenzione e l’obiettivo di accudire e insegnare le regole e i comportamenti a
un figlio. Questo movimento di madri, infatti, non vuole essere uno strumento per chiedere la scarcerazione
dei figli, ma una leva politica per alimentare un dibattito costruttivo sul tema. Il fatto di avere creato un
soggetto, le cui componenti sono esclusivamente donne, è fondamentale in quanto sviluppa una
comunione di intenti, per la condizione comune che esse vivono, e produce forza e passione per far sì che
questa forma di lotta continui.
Nel secondo giorno di lavori si è dato spazio ad altre esperienze internazionali, che lavorano nel campo della
giustizia minorile, per offrire nuovi spunti per la riflessione e per confrontarsi sulla replicabilità, con le
dovute correzioni, di quei modelli in Bolivia.
E’ intervenuto il dottor Antonio de Carvalho, presidente del Centro FBAC (Fraternidade Brasileira de
Assistencia aos Condenados), raccontando l'esperienza del modello “APAC” in Brasile, che consiste nella
valorizzazione umana dei condannati, mirando ad offrire le condizioni per auto-recuperarsi. Il lavoro svolto
serve a far capire al detenuto che egli è portatore anche di valori e pregi, che possono emergere ed essere
messi a servizio del prossimo e dell'intera collettività. Questo modello permette, in base a criteri specifici, e
se il condannato lo desidera, di lasciare il carcere per entrare in apposite strutture, adibite per il progetto: la
volontà di riabilitazione e il comportamento del detenuto, oltre che la tipologia di crimine commesso, sono
fondamentali per questa opzione.
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Successivamente hanno parlato due direttori di istituti penitenziari minorili: Enrique De Caso, spagnolo, e
Raùl Màrquez Albujar, peruviano, illustrando la nuova gestione delle carceri da loro guidate, con l'attenzione
a modalità innovative di sorveglianza e attenzione alla persona, come per esempio l'affidamento della
gestione dei detenuti ad educatori, in prima battuta, piuttosto che a guardie carcerarie. Questo modello,
detto riparativo, tende a cercare una mediazione tra reo e vittima, nella salvaguardia della certezza della
pena per il colpevole e, allo stesso tempo, nel risarcimento della vittima; in questa dinamica non è
indifferente il contesto sociale, dove si muovono i soggetti in campo: la comunità è attore fondamentale
della riabilitazione del condannato, perchè questa non può avvenire in astratto e può basarsi più
saldamente su un consorzio umano partecipe dell'azione.
Infine, a conclusione della mattinata, è stata presentata l’esperienza italiana della rete di Libera, Associazioni
Nomi e Numeri Contro le Mafie, con il caso particolare del protocollo di intesa firmato tra Libera Piemonte
ed il Dipartimento per la Giustizia Minorile del Piemonte, Valle D’Aosta e Liguria. Il protocollo è volto alla
progettazione ed attuazione di percorsi che possano creare possibilità di inserimento sociale e prelavorativo per i ragazzi in messa alla prova del Carcere Minorile Ferrante Aporti di Torino, che effettueranno
periodi di stage formativi nei beni confiscati alla mafia. Questo rappresenta per i ragazzi un’occasione non
solo di valore simbolico, ma anche una possibilità per conoscere e vivere un’esperienza di reale
trasformazione, in positivo, della realtà: infatti, come un bene appartenuto alla mafia ora è a disposizione e
riutilizzato dalla collettività a fini sociali, allo stesso modo un’errore e una violazione della legge nella
propria giovane esistenza, possono essere superati e lasciati alle spalle, con l’obiettivo di reintegrarsi nella
società. Inoltre, l’esperienza di Libera rappresenta la possibilità dell’associazionismo organizzato, di incidere
nelle scelte politiche di un Paese. La legge 109 del ’96 (per la confisca e il riutilizzo a fini sociali dei beni dei
mafiosi) fu il primo atto pubblico che Libera scelse di compiere, coinvolgendo più di un milione di persone,
che firmarono per la richiesta della legge stessa. Su questa scorta, nulla impedisce di auspicare un percorso
simile, che la società boliviana intraprenda per indurre la politica nazionale a colmare le carenze e i vuoti
normativi, oltre che le applicazioni degli stessi.
La giornata si è conclusa con una sessione di lavori a gruppi, dove cittadini e relatori sono stati protagonisti
di una riflessione comune: a partire dagli spunti offerti in mattinata, sono state sottoposte e approfondite
alcune questioni di ordine pratico, volte alla risoluzione delle problematiche specifiche per il contesto
boliviano. La partecipazione eterogenea e attiva di questa sessione di lavoro, è stata ulteriore conferma che
il problema è percepito come comune, ma allo stesso tempo che c'è anche la volontà di e la possibilità di
contribuire alla soluzione collettiva della questione.
Nella giornata conclusiva, si sono susseguiti gli interventi dei rappresentanti delle Istituzioni boliviane, tra
cui Dr. Ramiro Llanos, della Confraternidad Carcelaria, e Cesar Cocarico, Governatore di La Paz, il quale ha
preso formale impegno, per conto della politica, a partecipare alla nascita e crescita del progetto per la
realizzazione del primo carcere boliviano per detenuti minorenni.
Il convegno è stato una straordinaria dimostrazione che il cambiamento ha bisogno dell'impegno di
ciascuno: era la prima volta, in assoluto, che in Bolivia si teneva un seminario del genere che ha segnato
l'interazione virtuosa, almeno sulla carta, tra soggetti diversi e complementari (mondo politico e delle
istituzioni, associazionismo locale e straniero, società boliviana nelle sue varie articolazioni).
La prospettiva ora sarà quella di un cammino lungo e complesso e sarà necessario richiamare ogni soggetto
coinvolto alla sue responsabilità, per trasformare una scommessa, forse folle, in una realtà consolidata.
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Il possibile: Qalauma
In realtà, dopo le considerazioni teoriche, si può affermare che esiste già la materializzazione concreta delle
stesse. Il progetto Qalauma, con il suo nuovo centro, vuole offrire un’alternativa psico-socio-educativa ai
giovani in coflitto con la legge, che attualmente vivono mescolati agli adulti, nei quattro penintenziari di La
Paz. A Qalauma si propone un modello educativo volto alla riabilitazione della persona che ha sbagliato e ad
un suo adeguato reinserimento sociale. Perciò, al suo interno, non è prevista la presenza di polizia;
responsabilità e mutuo rispetto diventano i pilastri di questo modello. Nodo essenziale di questo progetto,
vuole essere la relazione con i genitori, dei giovani detenuti: dunque il lavoro degli educatori non sarà
rivolto esclusivamente al ragazzo, ma anche alla sua famiglia.
Per permettere ciò, il progetto si articola in tre fasi. L’accoglienza, in primis, che dura circa un mese e si
rivolge agli adolescenti che entrano per la prima volta a Qalauma e ha come spazio fisico una parte separata
dal resto della struttura. La seconda fase, quella comunitaria, si caratterizza per le attività formative di
laboratorio, educazione, responsabilizzazione e per un programma di visite esterne. Infine, la terza fase,
cioè quella del reinserimento: i ragazzi svolgono durante il giorno, attività professionali presso istituzioni
esterne al centro; in questo modo, si punta a facilitare l’inserimento sociale e lavorativo.
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A livello di struttura, il nuovo centro, occupa quattro ettari di terreno e si divide in più costruzioni. In
accordo con le autorità pubbliche, la polizia penitenziaria è dislocata esclusivamente lungo il perimentro
dell’area. In particolare, all’interno della struttura, sono previsti ambienti diversi, oltre alla normale
divisione residenziale, tra maschi e femmine: uno spazio di infanzia, per i bambini delle madri detenute;
l’area di lavoro (falegnameria, coltivazione, allevamento e artigianato) con l’obiettivo di creare
autosufficienza economica per la collettività della struttura, oltre che una formazione rivolta al singolo; una
biblioteca, un centro informatico per la formazione scolastica superiore; un’area polifunzionale per le
attività sportive e ricreative; un’area spirituale, per le diverse credenze religiose; infine, un’area speciale,
destinata agli adolescenti che possono presentare difficoltà di socializzazione, crisi di astinenza dovute al
consumo di droga e alcool, o che esprimono qualche scompenso psicologico per cui è richiesto
un’accompagnamento specifico.
Un progetto di così ampio respiro sembra quasi un miraggio se si pensa alla cornice descritta in precedenza.
Eppure, cambiando luoghi e tempi, anche lo scenario Italiano è stato protagonista di enormi cambiamenti
su questo fronte; a Torino pensiamo al lavoro del Gruppo Abele, che iniziò il suo impegno sociale proprio sul
tema della giustizia minorile agli inizi degli anni ottanta. Anche sul territorio italiano infatti, il sistema penale
ha attuato e sta attuando nuove modalità d’intervento. A partire dal modello punitivo retributivo, finalizzato
sostanzialmente a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica, si sono succeduti altri modelli di risposta
penale: da quello rieducativo (volto a favorire la risocializzazione e il reinserimento sociale del soggetto
deviante, ad es. attraverso l’acquisizione di competenze professionali) al più recente modello riparativo.
Quest’ultimo intende risanare il conflitto tra le parti (vittima e reo) sia trovando una modalità di restituzione
materiale alla vittima per il danno arrecato, sia individuando percorsi orientati alla solidarietà che avrebbero
lo scopo di riavvicinare il ragazzo infrattore al tessuto sociale invece di separarlo.
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Interessante constatare che, a distanza di tempo e di spazio, sia in Italia che in Bolivia ci siano movimenti
con l’obiettivo da un lato di evitare, o ridurre, i rischi di una stigmatizzazione causata da un contatto con le
strutture penali, dall’altro di contribuire all’educazione del minore attraverso un’acquisizione di
responsabilità e favorire percorsi di socialità.
I diritti e la reale possibilità di partecipare alla vita comunitaria devono poter partire proprio da quei luoghi
che rappresentano la marginalità, per non rischiare che la Democrazia venga vissuta solo da qualcuno. Per
questo motivo pensare al possibile rappresenta una sfida continua, “di impossibile c’è solo ciò che non
tentiamo”.
Marco Maccarrone
Educatore di ACMOS e Libera Piemonte
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