il lascito di bruno callieri e le “grammatiche” del corpo, fra

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il lascito di bruno callieri e le “grammatiche” del corpo, fra
SAPIENZA, UNIVERSITÀ DI ROMA
DIPARTIMENTO DI STORIA, CULTURE, RELIGIONI
LAURA FARANDA*
IL LASCITO DI BRUNO CALLIERI E LE “GRAMMATICHE”
DEL CORPO, FRA ANTROPOLOGIA E PSICOPATOLOGIA
THE HERITAGE OF BRUNO CALLIERI AND THE CRITICAL CONFLUENCES OF
BODY IN ANTHROPOLOGY AND PSYCHOPATHOLOGY
RIASSUNTO
L'articolo ripercorre, nel segno del corpo, il lascito intellettuale dello
psicopatologo Bruno Callieri e le potenziali confluenze critiche che questa categoria
dell’“essere” apre a due discipline come l’antropologia e la psicopatologia. Nel segno
di una appartenenza che si muove tra psiche e culture, il corpo diventa risorsa, gesto,
esito di uno sforzo, strumento di contatto o desiderio, e in ultima istanza uno dei
migliori addestramenti clinici per la costruzione dell’incontro interumano tra mondi
vissuti e rappresentazioni sensibili.
SUMMARY
The article retraces the intellectual heritage of the psychiatrist Bruno Callieri, as
well as the critical confluences that the concept of body opens in two disciplines such as
anthropology and psychopathology. As an element that moves between psyche and
culture, the body becomes resource, gesture, result of an effort, contact tool or desire,
and ultimately one of the best clinical training to build interpersonal encounter between
lifeworlds and sensible representations.
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Professore ordinario di Antropologia culturale
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Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2015
Nel corso della mia esperienza di studi e di ricerche, con un profilo
accademico ormai consolidato nell’antropologia culturale, alla fine degli anni
‘90 ho avuto la fortuna di incontrare un Maestro della statura di Bruno Callieri.
Le grammatiche del corpo – ma forse più estesamente il lessico, il linguaggio,
la sintassi di corpi plasmati nelle molteplici culture – materia viva della mia
ricerca, si sono così dispiegate, in una ricca stagione riflessiva condivisa, come
piste e indizi privilegiati per un dialogo interdisciplinare che a mio avviso
meriterebbe di essere riattualizzato.
In questa prospettiva, partendo dalla mia postazione disciplinare
cercherò anzitutto di esplicitare in che misura il confronto serrato con Bruno
Callieri abbia influito sul mio modo di guardare il corpo e sulle potenziali
confluenze critiche che questa categoria dell’essere apre a due discipline come
l’antropologia e la psicopatologia.
La mia formazione antropologica si è consumata tra la fine degli anni
‘70 e l’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, in un contesto fortemente
influenzato dal pensiero dell’etnologo napoletano Ernesto De Martino (forse la
figura più presente nelle scienze della psiche, per il suo profilo flessibile alla
ricerca filosofica e ai nuovi modelli di indagine etnopsichiatrica). Ero iscritta al
corso di laurea in Lettere con indirizzo filologio-classico quando, sulla via di
Damasco, lo incontrai virtualmente attraverso un suo libro dedicato a Morte e
pianto rituale (De Martino, 1958). Fu una rivelazione che mi valse un transito
convinto verso gli studi antropologici. Nel suo lavoro potei sorprendere, infatti,
quei corpi immaginali che la letteratura antica mi restituiva dentro le maglie
spesso strette di un testo, come corpi vissuti, emancipati dalla cifra letteraria,
ritrovati e riconosciuti in un presente etnografico ancora vivo, iscritti nel pathos
radicale di una perdita, di un lutto, di un vuoto esistenziale che la cultura
impone di domesticare. E il pianto rituale si faceva veicolo di un processo
complesso di riacquisizione di una presenza al mondo, di riconquista culturale
dell’orizzonte storico pregiudicato dallo scacco della morte. Corpi in cordoglio,
corpi piegati dalla cultura al registro del rito, corpi restituiti alla storia sotto la
rigida sorveglianza della comunità.
Demartiniano di formazione era il mio primo docente universitario di
riferimento, Diego Carpitella, con cui mi sono laureata nel 1981 e che ha
partecipato lungo tutto il corso degli anni ‘50 come etnomusicologo alle
spedizioni etnografiche di De Martino nel Sud d’Italia. Da quella esperienza
memorabile Carpitella aveva mutuato uno sguardo vigile e accorto sul corpo e i
suoi ritmi, sui “corpi e le storie”, che lo indirizzò negli anni verso ricerche
pionieristiche dedicate alla cinesica culturale, ovvero allo studio del gesto come
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tratto distintivo di un corpo in azione dentro la cultura che lo ha plasmato
(Carpitella, 1976).
Demartiniano non meno fedele e tenace è stato il mio Maestro,
l’antropologo Luigi Lombardi Satriani, che sempre nel meridione d’Italia ha
tracciato i suoi percorsi di ricerca, sul calco metodologico e tematico di De
Martino (Lombardi Satriani, 1980): così nei suoi lavori l’ideologia della morte
(Lombardi Satriani, Meligrana, 1982), il linguaggio del sangue (Lombardi
Satriani, 1984) la cultura contadina calabrese e i suoi scenari narrativi si
rivestivano di senso, tanto più se declinati nella dialettica ineludibile corpocultura.
La mia prima pubblicazione, di taglio divulgativo, fu dedicata alle
Tradizioni popolari in Puglia (Faranda, 1983), ovvero a quel Salento che
pervaderà l’ultima stagione di ricerca sul campo di De Martino, dedicata al
tarantismo; mentre la prima monografia scientifica, frutto del lavoro condotto
nel triennio dottorale, si intitolava Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella
Grecia antica (Faranda, 1992). La ricerca era ispirata al motivo culturale del
pianto e quindi al rapporto tra corpo-pianto-identità nel mondo antico.
Affiorava già in quel lavoro la pregnanza di uno sguardo antropologico sul
lungo processo di plasmazione e di antropo-poiesi che le culture mettono in
opera per disciplinare i corpi che siamo e farne strumenti privilegiati di
relazione con il mondo. In quella Grecia “selvaggia”, sottratta alla compostezza
letteraria e restituita nel mio studio a un regime di oralità primaria, il corpo
dell’eroe diventava infatti axis mundi, centro propulsivo dell’azione e modello
simbolico da emulare, da imitare, da com-prendere, soprattutto quando sapeva
farsi ostaggio del pathos.
Quel libro ha avuto il merito di riavvicinarmi nel 1994 a Bruno Callieri,
che dieci anni prima era stato il terapeuta di mio padre e che fu un generoso
estimatore della mia ricerca, di questa mia prima avventura nel corpo e nel
linguaggio della sofferenza. Da allora non ci siamo più persi di vista: tra il ‘94 e
il ‘96 Callieri fu testimone partecipe di alcuni miei incontri seminariali sul
pianto e sulle dimore esplorabili del corpo femminile (Faranda, 1996)
organizzati da Rocco Pisani presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche
dell’Università “Sapienza”; e dal 1998 al 2011 fu in diverse occasioni ospite
generoso dei miei corsi di Antropologia culturale nella Facoltà di Lettere e
Filosofia dello stesso Ateneo.
Non esito a riconoscere che fu proprio la mia formazione antropologica e
il mio immutato debito teorico nei confronti di Ernesto De Martino ad
alimentare i nostri incontri e a incoraggiarne un dialogo che trovava ragione,
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soprattutto nei primi tempi, proprio nell’esigenza di rimeditare quella comune
cornice epistemologica, quell’universo di intersezioni e di consonanze
riflessive, ma soprattutto quella fantasia di un dialogo interdisciplinare che a
metà degli anni Cinquanta del secolo scorso fu all’origine dell’incontro tra
Bruno Callieri ed Ernesto De Martino, e i cui esiti sono stati a più riprese
sintetizzati in sede critica (Leoni, 2005).
Mi sono soffermata su alcuni passaggi autobiografici della mia
formazione non certo per un sussulto narcisistico, ma perché mi premeva
orientare l’attenzione su quel luogo di soglia anzitutto empirica che è il corpo,
su come le sue grammatiche possano rappresentare degli strumenti di
connessione preziosi e ancora oggi ineludibili nel confronto tra due discipline
congeneri – l’antropologia e la psicopatologia fenomenologica – che si nutrono
entrambe di una comune matrice filosofica e che oggi più che mai si trovano a
condividere, sia pure con diverse modalità di approccio, spazi, territori, persone
percorse dal pathos, persone che “incorporano” la sofferenza, per farne uno
strumento di sapere da accogliere ed elaborare in uno spazio collettivo. Alcuni
frutti di questa condivisione li stiamo raccogliendo, proprio con un allievo di
Bruno Callieri, lo psichiatra Giovanni Martinotti, in uno spazio interdisciplinare
di formazione e sperimentazione guidato da Filippo Maria Ferro, che ha
previsto la raccolta di storie di vita e la trascrizione etnografica di “corpi e
storie” dei pazienti di una casa di cura romana a indirizzo neuropsichiatrico.
Corpi, anzitutto, come rappresentazioni culturali dell’esserci nel quadro
estensivo della psicopatologia antropo-fenomenologica (Callieri, 2007): corpi,
esistenze, mondi a partire da una voce chiave (il da-sein) che rinvia a una
plurima ibridazione epistemologica. Dove l’esserci, la presenza al mondo
nell’approccio fenomenologico si trova, tanto più oggi, ad essere contaminato
non tanto dall’antropologia filosofica quanto dalle teorie e pratiche
dell’antropologia culturale tout court: a partire dalle nuove patologie dello
schema corporeo (anoressia, bulimia, dismorfofobie), per arrivare alle
trasformazioni plastiche dell’identità di genere (modificazioni genitali
transgender e non, euroculte e non), al nomadismo senza radici di migranti
senza meta, alla dilatazione della famiglia “triangolare” e alla dissoluzione dei
ruoli intra-familiari, alla creolizzazione delle culture e ai meticciati etici ed
estetici.
I corpi che noi siamo e che de-scrivono al mondo, già nelle evidenze di
un costrutto anatomico, il nostro trascorrere, la nostra storia, si configurano
così come esperienza primaria di presenza al mondo; e lo schema corporeo si
dilata come schema del sé in uno “spazio vissuto” da intendere come coscienza
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di uno “spazio abitabile”, come percezione dinamica di una spazialità in
situazione.
In questa prospettiva il mio corpo – lo ricorda a più riprese Bruno
Callieri – non è un corpo: né è casuale che la lingua tedesca proponga una
eloquente distinzione tra Körper (il corpo anatomico) e Leib (il corpo vissuto e
mondanizzato).
La nozione di presenza – non necessariamente vincolata a un approccio
nosografico – riveste del resto un ruolo fondante tanto in antropologia culturale
quanto nella corrente fenomenologica, ancor più se declinata nella sua
conversione clinica e rivisitata nella sua tradizione italiana. Ed è significativo
che, proprio sul crinale riflessivo della crisi della presenza, Callieri e De
Martino abbiano condotto negli anni ‘50 del secolo scorso un dialogo serrato e
ricco di reciproche suggestioni. Così, pionieristicamente, già al Congresso di
Psicologia tenutosi a Bruxelles nel 1953, Callieri dichiarava:
non c’è esistenza che non sia esser-nel-mondo, situazione, esserci-con-qualcuno,
intermediarietà (il metaxu degli stoici). Ne consegue che la psicologia centrata su di un soggetto
avulso dal mondo in cui si è declinato cede il passo all’antropologia, intesa come lo studio
dell’essere umano aderente per essenza al mondo in cui esso è. [...] L’oggetto centrale
dell’odierna psicologia filosofica non è né l’individuo né la collettività, ma l’uomo con l’uomo e,
propriamente l’Io quale si fa dal rapporto al Tu. [...] Questa immagine dell’essere umano ci
permette l’apertura verso il modo esistenziale di essere-oltre-il mondo, l’apertura verso il
“dialogico”, verso il “religioso” (Callieri, 1953: 195).
Sempre in questa prospettiva, lo scorrere dell’esistenza quotidiana può
essere avvertito come costante movimento dialettico tra due poli: avere un
corpo ed essere un corpo: un corpo che è anche sorgente primaria di significato,
se è vero che la relazione tra gli umani e il mondo si avvia nel primo contatto
col calore del corpo materno, con il confine della sua pelle, quando già nei
primi mesi di vita il nostro corpo, perimetrato dalle carezze materne, prende
forma come corpo dell’appartenenza: è solo allora che il neonato riesce a
“vedere” e quindi a riconoscere il corpo materno come altro da sé; e solo se è
riconoscibile una madre si può ambire ad avere una madre-patria culturale,
sociale, affettiva, emotiva.
Corpo, quindi come primo veicolo verso il ritmo esistenziale dell’estasi
della temporalità. Ma anche corpo come spazio primario di inter-mediazione,
dell’inter-mediarietà della relazione nell’incontro con l’altro; corpo che si fa
mimesi anche semplicemente ascoltando, e che ci svela la potenza del contagio
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emotivo, sia nella vita sociale che nella cornice diagnostica (Apolito, 2015:
157).
Corpo come pelle psichica che prelude a una pelle sociale: essere in
relazione, anzitutto con il corpo materno, consente infatti a un soggetto di
guadagnare progressivamente l’acquisizione di un tempo della vita, quindi di
una coscienza temporale, intesa prima come spazio intermittente di una
presenza e di un’assenza, poi contenitore di memoria.
Corpo-pelle, pelle psichica come come membrana e filtro tra il dentro e
il fuori, se è vero che la pelle non è solo il luogo del tatto, ma allude a un
preciso confine corporeo, che perimetra ed estende la percezione dell’io.
Né è un caso che la pelle diventi metafora linguistica delle emozioni più
profonde: sentire “a pelle”, “salvare la pelle”, “rimetterci la pelle”, essere
“amici per la pelle”, essere “nella pelle” di qualcuno, “fare la pelle” a qualcuno.
Emozioni di cui la pelle traduce metaforicamente proprio le pressioni fra un
dentro e un fuori: e allora “non si sta più nella pelle” o “si ride a crepapelle”; si
hanno “i nervi a fior di pelle” o bisogna avere “la pelle dura” (Franciosi, 1955).
Ho fin qui elencato alcune regole preliminari e implicite di una
grammatica del corpo: e come si potrà facilmente avvertire, spesso è proprio la
lingua a farsi spia eloquente di quell’universo di emozioni, umori, sentimenti
che convocano il corpo a metafora della vita psichica.
Così, nel segno di una appartenenza che si muove tra psiche e culture, il
corpo esperito come il mio corpo si fa risorsa, gesto, esito di uno sforzo,
strumento di contatto o desiderio; ma al tempo stesso mi garantisce l’abitualità
di una appartenenza in virtù della quale il corpo che sono rimane per me
invariato, non muta con lo scorrere del tempo, ad onta del corpo che ho.
È su queste sponde di riflessione, condivise e vigilate dalla generosa
vicinanza di Bruno Callieri, che le grammatiche di un corpo declinato nei
saperi antropologici hanno lasciato emergere la “sintassi” che ne regolamenta il
lessico anche all’interno della psicopatologia fenomenologica.
Così, ad esempio, nel volume a due voci Medusa allo specchio.
Maschere fra antropologia e psicopatologia, proprio giocando sul doppio
registro semantico di una maschera-persona, con Bruno Callieri abbiamo
ripensato gli spazi polisemici delle maschere etnologiche tradizionali, costruite
secondo codici rigorosi e spesso segreti, che disdegnano l’individuazione e la
personalizzazione, che si affidano alla ricca costellazione rituale delle culture
che li attivano. E che in ultima istanza si dissolvono nei corpi che le indossano,
per consentirne la conquista di nuovi spazi culturalmente protetti. Di quelle
maschere abbiamo provato a decifrare l’enigma, deportandole nella
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caleidoscopica mutevolezza di un volto segregato nel ritiro psicotico, di un
corpo che si camuffa nella narrazione istrionica o che si smaschera attraverso la
simulazione cosciente o ancora si perde nei labirinti di un delirio di sosia
(Callieri - Faranda, 2001).
La maschera divenne nel nostro lavoro un luogo esemplare di
intermediarietà, ma anche una cerniera esemplare verso l’altro. La sua cifra
fenomenologica si dilatava ben oltre l’idea di un manufatto o di una appendice
corporea, per esplicitare l’elemento condiviso sui due fronti osservativi, vale a
dire l’apofania di un mondo nel quale non si dà ordine senza caos, non si dà
logos senza pathos.
Dopo un’avventura così densa nel mondo multiplo della maschera, altri
corpi e altre storie mi hanno avvicinata, da un osservatorio antropologico, al
mondo del pathos. A cominciare dai corpi vissuti dei numerosi bambini
stranieri scolarizzati in Italia, che ho incontrato con i miei allievi in più di
cinque anni di ricerca nelle scuole romane (Faranda, 2004). Corpi abitati da
mondi immaginali portati dentro e preservati nel silenzio, oppure traditi con
l’audacia di una maschera mimetica; corpi naufraghi, nelle molteplici stanze di
passaggio in cui si negozia l’identità di un bambino straniero impegnato nella
fatica autorappresentativa. Corpi di colore sui quali si esercita il pensiero logico
e metaforico dei compagni italiani: corpi nei quali si annida la diversità, come
un’ombra, una maschera, un miasma che contamina e percorre le ansie di chi
per avventura vi si affianca.
Corpi sorpresi nelle tensioni ludiche o nel disordine sensoriale,
nell’eccentricità dei richiami o negli idiomi cinesici; corpi impegnati nel
contatto con l’ambiente o nella fisicità di un incontro, corpi opacizzati, tacitati,
autoconfinati, “naturalizzati”; corpi gravanti (Cargnello, 1977) che in un’aula
scolastica diventano icone del dolore e progressivamente si piegano allo stigma
della diversità, attraverso la ineludibile tendenza, nella scuola dell’obbligo, a
una “psichiatrizzazione” del disagio.
Corpi che reclamano una sorveglianza antropologica incalzante,
orientata su zone di “intersezione empirica” in qualche modo limitrofe a quelle
delle scienze della psiche e consonanti con le matrici fenomenologiche di una
psichiatria sensibile alla pratica interpretativa dell’incontro. Identità sospese
che, se riscattate da ogni implicazione clinica, potrebbero incoraggiarci alla
ricerca di una proficua coabitazione interdisciplinare tra antropologia e
psicopatologia (Faranda, 2014).
È con questo intento anche epistemologico che l’antropologo Ernesto De
Martino, nel lontano 1954, ha voluto incontrare Bruno Callieri (Callieri, 2009),
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proprio perché sollecitato da un suo primo studio sui sei casi psichiatrici
connessi con l’esperienza di fine del mondo, nei quali i vissuti di derealizzazione e di de-personalizzazione dei suoi pazienti diventavano brucianti
esperienze vissute, figure in carne e ossa, corpi in figura di una crisi della
presenza che rendeva irrimandabile il confronto – ma sarebbe meglio dire il
“corpo a corpo” – dell’antropologia con la psicopatologia (Callieri, 1955).
Il dialogo tra i due studiosi fu seguito da altri incontri, in una stagione
breve ma densa, poi interrotta per qualche anno, quindi ripresa concretamente e
progettualmente, almeno nelle intenzioni di De Martino (Di Donato, 1999) 1,
dopo il ritorno dal Salento, dove il vissuto corporeo delle sue tarantate gli
imponeva un bilancio teorico e di metodo urgente e irrimandabile. C’è infatti
una pagina memorabile con cui De Martino chiude la sua monografia sul
tarantismo – siamo nel 1960 – che dà la misura di quanto La terra del rimorso
denunciasse già le insidie di un corpo vissuto, quello delle tarantate, che
rischiava di eclissarsi nella sintomaticità di un corpo malato e negli spazi
medicalizzati di un reparto psichiatrico. Ne riporto alcuni passaggi eloquenti:
La diciottenne Carmela di S. Pietro Vernotico aveva patito il “primo morso” in
connessione con il periodo della pubertà. A 13 anni, in autunno, e quindi fuori di stagione, ebbe il
primo segno preoccupante: d’un tratto si mise ad abbaiare proprio come un cane.[...] Nell’estate
successiva il disturbo ricomparve accompagnato da un corteo di altri sintomi: mal di stomaco,
dolori localizzati, intolleranza per certi cibi e per certi odori. Alla vista di questi cibi o quando era
colpita da questi odori Carmela fuggiva abbaiando e si recava dalle vicine. [...] Un medico locale
consigliò i familiari di procurarle uno zito, cioè un fidanzato. [...] Carmela fu portata da uno
psichiatra di Lecce: ma intanto cominciarono a manifestarsi segni sempre più prossimi al quadro
simbolico tradizionale. La notte del 20 giugno 1956 Carmela sognò molti scorzoni, che sono una
sorta di serpentelli [...]. Da allora in poi ogni estate Carmela provava una irresistibile inclinazione
per il ballo. [...] La passione per la danza spesso coincideva con il periodo catameniale. [...] Nelle
pause fra ballo e ballo, durante il riposo sul letto, Carmela parlava col suo scorpione, ne subiva le
minacce, si accordava sulla durata del ballo e sulla data della prossima crisi, e in rapporto ai vari
episodi piangeva, rideva, gridava. [...] Tutta la famiglia era concorde nell’affermare che mentre
Carmela danzava gli scorpioni si avvicinavano alla casa dal prossimo orto, come fascinati dalla
musica, e anzi l’ultima volta uno scorpione era entrato nella stanza e si era messo a danzare sul
pavimento insieme a Carmela. [...]
I familiari di Carmela erano tuttavia ingenuamente fiduciosi anche sulle possibilità della
scienza in questo campo, come mostrava non tanto il fatto che più volte si erano recati dai
La progettualità di un lavoro comune è attestata da un appunto dattiloscritto, firmato De Martino e datato a
mano 1960, rinvenuto tra le carte dell’Archivio Einaudi: vi si abbozza il progetto, mai esplicitato allo stesso
Callieri, di un volume a due voci dal titolo La esperienza della fine del mondo nella schizofrenia e nella vita
religiosa, che avrebbe dovuto avere come coautore Bruno Callieri. «Il saggio in questione – scriveva De
Martino in conclusione – sarà condotto con una rigorosa distinzione di campi fra lo psicopatologo e lo storico
della vita religiosa, ma al tempo stesso il reciproco scambio del materiale e la reciproca verifica delle
rispettive impostazioni assicureranno al volume una sostanziale unità». Cfr. in merito R. Di Donato, 1999.
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migliori psichiatri di Lecce quanto la commovente devozione con la quale cercavano di aiutarci
nella nostra indagine, segretamente sperando che avremmo trovato il modo di guarire la loro
ragazza e di metter fine a una vicenda che dissestava economicamente la famiglia e teneva ogni
estate gli animi sospesi. Quando l’équipe fece ritorno a Roma, ci raggiunse dopo pochi giorni un
telegramma che ci fece sentire tutta la responsabilità della nostra indagine, ricordandoci nel modo
più brutale che i tarantati erano non soltanto documenti di un’altra età, ma persone vive verso le
quali avevamo dei doveri attuali. Nel telegramma si leggeva: «Carmela balla. Venite.» (De
Martino, 1961: 90-93).
Carmela balla e De Martino, abbandonato il Salento, si avventura nei
labirinti antropologici de La fine del mondo, sua memorabile opera postuma
(De Martino, 1977): una via crucis di corpi scossi dal vissuto delirante,
dall’agitazione maniacale, dalla depersonalizzazione schizofrenica, in
quell’atmosfera da venerdì santo mutuata da una densa pagina di Callieri
(Callieri, 1955). La fine del mondo di Ernesto De Martino si alimenta infatti di
una teoria inesauribile di corpi mutuati dalla letteratura psichiatrica, di corpi in
crisi, catatonici, sviliti dal deflusso dell’io, imprigionati nelle ripetizioni
ecolaliche, ecomimiche, stereotipiche. Corpi dai quali forse egli attende un
indizio per riscattare dal rimorso lo scandalo dell’incontro etnografico.
Carmela balla e Callieri già da anni sperimenta quell’essere nel
naufragio di memoria jaspersiana, a partire dal quale prende forma la sua
psicopatologia antropologica del vissuto corporeo (Callieri, 2007):
un’avventura infaticabile nei corpi vissuti dei suoi pazienti, che lungo tutto
l’arco della sua vocazione clinica non ha mai cessato di assumere come uno dei
nodi centrali della psicopatologia, oltre che «uno dei problemi più
appassionanti
dell’indagine
antropologica
o,
più
esattamente,
antropofenomenologica» (Callieri, 1995: 67). E il lascito intellettuale di De
Martino lo incoraggerà implicitamente a esplorare a sua volta nuovi terreni,
riaffiorando, come un perturbante, nelle intersezioni tra natura e senso, tra
senso e crisi, tra corpi e mondi.
Corpi esistenze mondi, quelli dei suoi pazienti, che Callieri rimette in
forma “per una psicopatologia antropologica” nella sua produzione più matura,
dedicando la prima sezione dell’omonimo volume alla corporeità del corpo, del
pudore, dell’amore, del tramonto, della morte. Pagine esemplari, nelle quali
l’esperienza vissuta del corpo proprio si amplifica nella spazialità di situazione,
nell’appartenenza mondana, nell’abitualità emozionale e diventa la base
esperibile per una antropologia della cura strutturata sulla co-appartenenza di
paziente e terapeuta a un medesimo schema intenzionale, a una comune
tensione dialogica, concreta e coestensiva dell’io-Leib.
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Corpi-vissuti intesi come incarnazioni della soggettività, e per ciò stesso
intermediari preferenziali dell’incontro, esercizio propedeutico a ogni
psicoterapia:
Il lavoro degli occhi e quello dei gesti; il gioco delle pause e quello dei silenzi; le
sospensioni, le annuizioni; le espressioni allusive e interrogative; la postura. I tempi e i modi del
linguaggio, i timbri vocali; le lacrime; il gioco chiaroscurale di luci e di ombre. L’ascolto. Il senso
ed il non senso; la comprensione e l’incomprensibilità; la resa di fronte al bios; la contemplazione
dell’altro come puro essere-nel-mondo-della-diversità-altrui. Da parte dell’altro, i vissuti espressi
e quelli negati; vissuti solo abbozzati e pure compresi. La distanze a la vicinanza,
l’allontanamento a sfocare.... (Callieri, Maldonato, Di Petta, 1999: 245).
Chiunque eserciti la pratica della psicoterapia non può non riconoscere la
densità semantica di questi elementi. Analogamente a quanto accade
nell’incontro etnografico, l’altro che si incontra nel setting terapeutico legittima
così una dislocazione strategica dell’osservatore sul confine, in quella soglia
ermeneutica entro cui il corpo si apre anche a numerose possibilità di lettura
antropologica, tutte dense di valore, quasi tutte riconducibili alle stratificazioni
e alle variabili socio-culturali, al polimorfismo storico dell’io e dei suoi vissuti
liminari (Callieri, Maldonato, Di Petta, 1999).
Non si tratta, come si sarebbe portati a credere, di un’estetizzazione della
clinica: si tratta piuttosto di restituire alla predisposizione clinica uno dei
migliori addestramenti alla costruzione di rappresentazioni sensibili. Si tratta,
se si vuole, di saper cogliere sul piano gestaltico (della forma) l’elemento
panico dell’incontro, per predisporsi a tradurlo in configurazioni tragiche,
ludiche, liriche, estetiche, mitiche, non necessariamente nosografiche. In questa
prospettiva, e molto schematicamente, al pari dell’incontro etnografico
l’incontro clinico orientato in direzione fenomenologica potrebbe consentire di
sperimentarne quei momenti qualificativi, che per un verso stemperano le
specificità dei diversi indirizzi psicoterapeutici, per altro verso valorizzano la
struttura dell’incontro interumano tra corpi e mondi vissuti; anche quando
questi corpi e questi mondi sono profondamente distanti tra loro; anche quando
i loro vissuti invocano nuove piste intuitive, nuove verità interpretative, nuovi
testimoni.
È da qui che dobbiamo ripartire, a mio avviso, per interrogarci sul lascito
memorabile di uno psichiatra come Bruno Callieri e per farlo rivivere nel nostro
impegno quotidiano, nelle pratiche e nei transiti che ci consentono ancora oggi
di far coesistere l’antropologia e la psicopatologia, la formazione psichiatrica e
le scienze umane, per esorcizzare il silenzio che pesa e transita ancora oggi sui
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corpi nomadi di un centro di accoglienza o di un reparto psichiatrico, di una
scuola o di un SERT, nelle anse di una psicosomatosi o nelle paludi che
arrestano il passo di una giovane con un corpo troppo snello.
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