ra il ricco e il povero, fra il padrone e l`operaio è proprio la libertà

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ra il ricco e il povero, fra il padrone e l`operaio è proprio la libertà
F
ra il ricco e il povero,
fra il padrone e l’operaio
è proprio la libertà che opprime
e la legge che libera.
ISSN 2037-4240
(Jean-Baptiste Henri Lacordaire, 1848)
Emanuele Rossi
RIFORME
COSTITUZIONALI
E “MITOLOGIA
SOSTITUTIVA”
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXXI (2011)
n. 4
Marco Andreatta
SCIENZIATI
E CHIESA
NEI 150 ANNI
DELL’UNITÀ
D’ITALIA
Giuseppe Morotti
Giovanni Giudici
ODISSEA
DALLA
POLITICA
Barbara De Poli
Periodico mensile - Anno XXXI, n. 4, aprile 2011 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale
- d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz.. e ammin.: 38122 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
http://www.il-margine.it/it/rivista
LA SORGENTE DI
ETTY HILLESUM
Giampiero Girardi
LA “CONVERSIONE” DI OSCAR
ARNULFO
ROMERO
RIVOLTE
ARABE 2011:
Marco Furgeri
VERSO UNA
L’ITALIANO PER I
TRANSIZIONE
DEMOCRATICA? NUOVI ITALIANI
IL MARGINE
4
APRILE 2011
Giovanni Giudici
3
Odissea dalla politica.
Comunicato stampa
del presidente di Pax Christi Italia
Barbara De Poli
5
Rivolte arabe 2011:
verso una transizione democratica?
Emanuele Rossi
13
Riforme costituzionali
e “mitologia sostitutiva”
Marco Andreatta
22
Scienziati e Chiesa
nei 150 anni dell’Unità d’Italia
Giuseppe Morotti
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La sorgente di Etty Hillesum
Giampiero Girardi
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La “conversione”
di Oscar Arnulfo Romero
Marco Furgeri
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L’italiano per i nuovi italiani
L’origine del potere: cambio di data
Per il terzo anno “Il Margine” propone un momento di riflessione e dibattito: un volo alto e libero del pensiero, per guardare panorami vasti con
vastità di sguardo. Nei primi due anni lo abbiamo chiamato pomeriggio escatologico: la prospettiva che si è voluta adottare è stata quella del compimento, del fine e della fine (28 febbraio 2009 e 20 febbraio 2010). In questo
terzo anno l’ampiezza dello sguardo rimarrà la stessa ma la prospettiva sarà
rovesciata: non più pomeriggio escatologico ma pomeriggio archeo-logico.
Non più dall’eschaton ma dall’origine, dal fondamento dell’arché. La tematica scelta è quella del rapporto fra potere e cristianesimo, con il desiderio
di pensare questo intreccio dal suo inizio, di come si possa viverlo prima
delle inevitabili complicazioni e implicazioni che lo rendono un nodo inestricabile.
L’appuntamento non si terrà sabato 28 maggio, come scritto nel numero precedente, ma martedì 21 giugno, alle ore 20.30, a Trento, presso la
sede della casa editrice Il Margine (via Taramelli 8). Chi fosse interessato a
intervenire o a inviare una sua riflessione scriva a [email protected].
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Documenti
Odissea dalla politica
Comunicato stampa
del presidente di Pax Christi Italia
GIOVANNI GIUDICI
presidente di Pax Christi Italia
M
entre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona vo-
lontà.
Il regime di Gheddafi ha sempre mostrato il suo volto tirannico. Pax
Christi, con altri, ha denunciando le connivenze di chi, Italia in testa, gli forniva una quantità enormi di armi senza dire nulla, anche dopo la sua visita in
Italia «sui diritti umani violati in Libia, sulla tragica sorte delle vittime dei
respingimenti, su chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche. Il dio interesse è un dio assoluto, totalitario, a cui tutto va immolato. Anche a costo di
imprigionare innocenti, torturarli, privarli di ogni diritto, purché accada lontano da qui. In Libia» (Pax Christi 2 settembre 2010). Il Colonnello era già
in guerra con la sua gente anche quando era nostro alleato e amico!
Non possiamo tacere la triste verità di un’operazione militare che, per
quanto legittimata dal voto di una incerta e divisa comunità internazionale,
porterà ulteriore dolore in un’area così delicata ed esplosiva, piena di incognite ma anche di speranze. Le operazioni militari contro la Libia non ci avvicinano all’alba, come si dice, ma costituiscono un’uscita dalla razionalità,
un’“odissea” perché viaggio dalla meta incerta e dalle tappe contraddittorie
a causa di una debolezza della politica.
Di fronte a questi fatti, vogliamo proporre cinque passi di speranza e
uno sguardo di fede.
1) Constatiamo l’assenza della politica e la fretta della guerra. È evidente a tutti che non si sono messe in opera tutte le misure diplomatiche,
non sono state chiamate in azione tutte le possibili forze di interposizione.
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L’opinione pubblica deve esserne consapevole e deve chiedere un cambiamento della gestione della politica internazionale.
2) Si avverte la mancanza di una polizia internazionale che garantisca il
Diritto dei popoli alla autodeterminazione.
3) Non vogliamo arrenderci alla logica delle armi. Non possiamo accettare che i conflitti diventino guerre. Teniamo desto il dibattito a proposito
delle azioni militari, chiediamo che esse siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione. Perché si sceglie sempre e
solo la strada della guerra? Ce lo hanno chiesto più volte in questi anni i tanti amici che abbiamo in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Iraq.
4) Operiamo in ogni ambito possibile di confronto e di dialogo perché
si faccia ogni sforzo così che l’attuale attacco armato non diventi anche una
guerra di religione. In particolare vogliamo rivolgerci al mondo musulmano
e insieme, a partire dall’Italia, invocare il Dio della Pace e dell’Amore, non
dell’odio e della guerra. Ce lo insegnano tanti testimoni che vivono in molte
zone di guerra.
5) Come Pax Christi continuiamo con rinnovata consapevolezza la
campagna per il disarmo contro la produzione costosissima di cacciabombardieri F-35. Inoltre invitiamo tutti a mobilitarsi per la difesa della attuale
legge sul commercio delle armi, ricordiamo anche le parole accorate di don
Tonino Bello: «dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di
guerra” ma come “arca di pace”»
Giovanni Paolo II per molti anni ha parlato dei fenomeni bellici contemporanei come “avventura senza ritorno”, “ spirale di lutto e di violenza”,
“abisso del male”, “suicidio dell’umanità”, “crimine”, “tragedia umana e
catastrofe religiosa”. Per lui «le esigenze dell’umanità ci chiedono di andare
risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace
come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono
essere subordinati» (12 gennaio 1991).
In questa prospettiva Pax Cristi ricorda ai suoi aderenti che il credente
riconosce nei mali collettivi, o strutture di peccato, quel mistero dell’iniquità
che sfugge all’atto dell’intelligenza e tuttavia è osservabile nei suoi effetti
storici. Nella fede comprendiamo che di questi mali sono complici anche
l’acquiescenza dei buoni, la pigrizia di massa, il rifiuto di pensare. Chi è discepolo del Vangelo non smette mai di cercare di comprendere quali sono
state le complicità, le omissioni, le colpe. E allo stesso tempo con ogni mezzo dell’azione culturale tende a mettere a fuoco la verità su Dio e sull’uomo.
(21 marzo 2011)
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Oltrefrontiera
Rivolte arabe 2011: verso
una transizione democratica?
BARBARA DE POLI
anno della terza rivolta araba1 raffigura nell’immaginario collettivo
una svolta epocale per i paesi del Nord Africa e Vicino Oriente che,
grazie a una sequenza di movimenti popolari, sembrano traghettati verso
un’irreversibile opzione democratica. Ma davvero “niente sarà più come
prima”?
I movimenti di piazza scatenati in Tunisia dal drammatico suicidio del
giovane Muhammad Bou’zizi, che hanno condotto alla fulminea quanto imprevista caduta di Ben ‘Alì, hanno presto contagiato l’Egitto, la vicina Algeria, la Libia, il Marocco, il Bahrein, lo Yemen, l’Arabia Saudita, la Siria con
esiti vari e incerti. Le vicende tunisine hanno tuttavia fornito il mero innesco
alla rabbia sociale, da tempo covata o espressa nei diversi paesi attraverso
manifestazioni il più delle volte duramente represse: le ragioni del dissenso
ai regimi arabi hanno invero radici lontane e profonde, intrecciate a tensioni
di ordine economico ma soprattutto politico, che i fenomeni di globalizzazione dell’ultimo decennio hanno contribuito ad acuire.
Indubbiamente, la recente crisi economica internazionale ha investito
anche il Vicino Oriente, comportando l’aumento del costo dei generi alimentari di base nei paesi poveri di risorse estrattive, come la Tunisia e
l’Egitto; nondimeno, a monte del generale collasso dei regimi arabi si individua lo stallo dei sistemi allocativi, basati sulla parziale redistribuzione delle rendite petrolifere e/o sull’assorbimento occupazionale di grossa parte
della popolazione diplomata negli ipertrofici uffici dei settori pubblici. Tali
modelli hanno garantito a lungo un sostegno popolare sufficiente alla con-
L’
1
La prima fa riferimento alle rivolte antiottomane del 1916, la seconda alle rivoluzioni
che negli anni cinquanta abbatterono i regimi monarchici post-coloniali per costituire
le basi delle odierne repubbliche.
5
servazione delle leadership in carica, ma hanno anche soffocato la libera iniziativa privata e sfavorito una crescita economica che fosse motore di sviluppo. A questo dato va associata la distribuzione clientelare delle grandi
ricchezze, concentrate nelle mani dei pochi potenti secondo criteri clanici
(che si tratti delle famiglie vicine all’autorità, degli apparati del partito unico
o del partito dominante, dei militari o di gruppi tribali), con la conseguente
stagnazione o depauperazione delle classi medie, bloccate nella mobilità sociale. In tal senso, la globalizzazione – con l’espansione virtuale dei mercati
finanziari e con l’ingresso di nuovi attori internazionali interessati a vendere
manufatti a basso costo, importare risorse energetiche e investire in svariati
settori (fra tutti la Cina) – è intervenuta accrescendo le già enormi sperequazioni: in queste aree, in cui circa metà della popolazione ha meno di venticinque anni, l’ultimo decennio ha visto i tassi di disoccupazione raggiungere
anche il 30%.
Le problematiche economiche sono tuttavia intimamente legate a quelle
politiche. Gran parte dei paesi attraversati dalla contestazione popolare sono
governati (o lo sono stati sino al loro rovesciamento) da leader in carica da
decenni: Mubarak era presidente dal 1981, Ben Alì dal 1987, Gheddafi governa dal 1969; in Yemen, ‘Abdallah Saleh è al potere dal 1978. Quanto alla
Siria, la continuità del Governo di Hàfiz al-Asad (1971-2000) è stata garantita dal figlio Bashàr, che ha sancito così l’inedito ordinamento della repubblica ereditaria.
Tali governi non si fondano sulla legittimazione popolare attraverso libere elezioni, ma sulla distribuzione clientelare del potere, associata alla repressione e all’annientamento del dissenso politico, che periodiche scadenze
elettorali, dagli esiti manipolati o ininfluenti, non sono in grado di mascherare. Da questo punto di vista, anche le rivendicazioni dei manifestanti presentano un denominatore comune: la richiesta di democrazia e diritti sorretti da
uno sviluppo economico ed istituzionale. E in questo ambito la globalizzazione ha svolto il suo ruolo forse più significativo, contribuendo ad acuire la
consapevolezza politica delle masse grazie ai canali satellitari prima (con
l’accesso all’informazione internazionale trasmessa dalle reti europee ed arabe – fra tutte al-Jazeera), e ad internet poi. Il web ha oltremodo fornito gli
strumenti per una comunicazione anche attiva, in grado di eludere l’occhio
vigile delle intelligence locali, favorendo l’organizzazione diffusa
dell’opposizione. In tal senso, la portata delle proteste, la massiccia partecipazione di uomini e donne di qualsiasi condizione e origine sociale o regio-
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nale, espressione di un’unica rabbia che diviene aperta sfida ai regimi, davvero rappresenta un momento cardine nella storia del Vicino Oriente.
Analogie e differenze
Il quadro descritto, se è generalizzabile nei tratti sostanziali, si presenta
tuttavia a un’analisi più dettagliata estremamente complesso, conoscendo
ogni paese percorsi storici e specificità istituzionali proprie, che determinano la natura, l’evoluzione e gli esiti delle proteste: ad esempio, in Libia non
si è mai strutturato uno Stato nelle sue articolazioni istituzionali moderne e
Gheddafi ha fondato il suo potere sui particolarismi tribali; in Egitto e in Algeria l’autorità poggia essenzialmente sui militari, mentre in Tunisia Ben
‘Alì contava piuttosto sull’ausilio delle forze di sicurezza e Asad in Siria è
ancora forte degli apparati del partito Ba’th; l’Arabia Saudita è invece dominata dal wahabismo e da sistemi socio-politici arcaici, analogamente lo
Yemen stagna in un immobilismo di impronta medievale.
Un confronto anche epidermico tra, ad esempio, le rivolte tunisina, egiziana e libica esemplificherà analogie e differenze delle evoluzioni politiche
in corso.
Nel primo paese a implodere, la Tunisia, il tragico gesto di Bou’zizi
non era stato il primo né l’unico, mentre manifestazioni e scontri con le autorità da tempo si susseguivano. Nello Stato considerato uno dei più laici e
stabili della regione, dagli anni Novanta, la classe media aveva assistito impotente al proprio progressivo indebolimento mentre Ben Alì riduceva la sua
leadership ad uno sfruttamento familistico del paese. Nondimeno, al di là
delle difficoltà economiche, ad esasperare i tunisini erano soprattutto
l’assenza di democrazia, la corruzione diffusa e la mancanza di libertà di
espressione, soffocata dalla stretta sorveglianza sui cittadini e
dall’immediata repressione di ogni dissenso (di qualsiasi segno politico) attraverso arresti arbitrari e torture. Così la rivolta, partita da una regione economicamente emarginata, ha dilagato rapidamente della capitale e nei centri
più importanti grazie al tam-tam dei social network, trovando il sostegno
delle gerarchie militari. La rapidità del crollo del regime, in misura da sorprendere gli stessi tunisini, è in larga parte imputabile ai pochi margini di
trattativa che Ben ‘Alì poteva concedersi con l’esercito, poco integrato nel
suo sistema clientelare. Il rifiuto del generale Rashìd ‘Ammàr di ottemperare
gli ordini del Presidente di intervenire contro i manifestanti fu per i rivoltosi
7
il segnale della svolta e sancì il destino di Ben ‘Alì stesso, che all’età di settantacinque anni non trovò evidentemente insensato barattare il potere con
un varco aereo per lasciare incolume il paese.
Anche in Egitto il seme della rivolta maturava da tempo.
Un’opposizione extraparlamentare si stava strutturando da almeno sei anni,
con un incremento della mobilitazione negli ultimi tre-quattro, attraverso
diversi movimenti popolari. Tra questi, Kifaya (Basta!), il Movimento 6 aprile2 e Siamo tutti Khalìd Sa’id3, i quali diffondevano i loro messaggi principalmente tramite pagine Facebook, che superavano nell’ultimo anno il milione di iscritti.
Queste realtà, dal carattere sostanzialmente a-ideologico e per questo
capaci di coagulare forze eterogenee laiche della sinistra e dell’ala riformista
dei radicali islamici, furono le principali promotrici delle manifestazioni del
25 gennaio, il cui obiettivo era lineare: la realizzazione di riforme costituzionali che ridimensionassero il potere del Presidente e portassero ad un radicale mutamento del quadro politico. I movimenti, costituiscono tuttavia
solo un segmento dei diversi attori che hanno contribuito alla capitolazione
del regime. Tra questi si contano, su fronti opposti ma accidentalmente convergenti, sia i lavoratori operai, organizzati dai sindacati indipendenti, sia
settori dell’alta borghesia imprenditoriale, che vedevano erodere le loro prerogative dalle politiche ultraliberiste avanzate recentemente da Mubarak4.
Il ruolo decisivo, anche in Egitto come in Tunisia, fu tuttavia svolto
dall’esercito5, che nei primi giorni della protesta assunse una posizione sostanzialmente attendista (non sparò sulla folla ma neppure la difese dagli
attacchi delle forze di sicurezza), determinata dalle trattative interne agli alti
ranghi militari e tra questi e Mubarak, sino alla capitolazione di quest’ultimo
in favore dei primi.
2
I leader trentenni del gruppo, già tre anni prima della rivoluzione, avevano preso contatto col movimento pacifista serbo Otpor, le cui istruzioni sulle modalità di manifestazione non violenta si riveleranno strategiche nell’organizzazione delle proteste che
porteranno alla caduta di Mubarak. Sull’azione di questi gruppi nel corso della rivolta
si veda http://www.youtube.com/watch?v=QrNz0dZgqN8video
3
In memoria di un giovane blogger arrestato e pestato a morte dalle forze dell’ordine –
che non operavano in Egitto con sistemi meno brutali dei colleghi tunisini, benché la
libertà di espressione avesse maggiori margini.
4
In particolare con l’apertura dei mercati interni ad imprese internazionali fortemente
concorrenziali – cinesi ma anche europee e statunitensi.
5
Lo schieramento dell’esercito è e sarà determinante in tutte le aree di crisi.
8
In Libia la radicalizzazione del dissenso al regime ha invece condotto a
una svolta più drammatica. L’assenza di una strutturazione statuale forte e di
un percorso ideologico e politico moderno – per quanto imperfetto – analogo a quello dei paesi arabi confinanti hanno favorito la frammentazione del
paese in fazioni pro e contro Gheddafi, anche in risposta alle politiche clientelari da egli stesso poste in essere nell’ultimo decennio a favore di alcune
tribù e regioni a scapito di altre. La mancanza di un esercito nazionale ha poi
agevolato la disgregazione delle milizie all’avvio del conflitto, riconducendo
i combattenti nei ranghi dei rispettivi clan: oggi si contrappongono, da un
lato, l’esercito professionale e in gran parte mercenario del leader della rivoluzione, dall’altro la compagine disarticolata, male equipaggiata e peggio
addestrata, facente capo al governo provvisorio di Bengasi. Nel caso libico
però, gli interessi internazionali, in cui si intersecano le apprensioni per la
sorte delle risorse petrolifere, il protagonismo francese, le incertezze statunitensi, nonché le preoccupazioni dell’Italia (stretta tra l’imbarazzante amicizia con Gheddafi, la tutela degli interessi nazionali in Libia e i timori di
un’invasione di immigrati dalle coste nordafricane), si sono confusamente
coagulati in un ambiguo interventismo militare dalle conseguenze imprevedibili, che potrebbe anche produrre le condizioni per un’instabilità prolungata.
Questioni nodali
Gli scenari sono dunque tutti diversi (e altrettanto diversificati e specifici sono i sommovimenti che stanno destabilizzando gli altri paesi della regione); nondimeno, così come in riferimento alle ragioni di tali fermenti,
anche in riferimento agli esiti, possono essere individuate alcune questioni
nodali trasversali.
Una problematica particolarmente incisiva è di ordine politico e riguarda l’assenza decennale di libertà di espressione e reale dialettica politica in
sistemi pluralisti, associata all’assuefazione delle masse arabe all’uomo forte, capace di integrare la nazione e legittimare di per sé lo Stato. È innegabile che tali sovvertimenti stiano liberando le energie positive di una società
civile compressa, che da troppo tempo attendeva di diventare protagonista
del proprio tempo: al Cairo i giorni di incertezza e paura erano anche giorni
di festa nei quartieri, dove i cittadini autogestivano la sicurezza e insieme
condividevano la gioia della speranza per la fine di un’epoca che non avreb-
9
bero rimpianto. Tuttavia, autoritarismo e autocrazia, supportati da sistemi
educativi poveri di contenuti e fortemente ideologizzati a sostegno dei regimi, hanno gravemente compromesso la capacità di azione politica dei cittadini, da sempre privati dell’esperienza della pratica democratica: non è un
caso che in Egitto, ad esempio, la rivolta sia stata innescata da giovani in
gran parte formati all’Università Americana o dai sindacati. Ma la massa dei
manifestanti, che si presentavano come una compagine uniforme, composta
da musulmani e cristiani trasportati da un obiettivo condiviso, se aveva ben
chiaro cosa non voleva, aveva poco chiara l’alternativa, se non nei termini
generici di democrazia e libertà, e aveva ancora meno chiaro quale fosse il
percorso per conseguirle.
Il 77% di sì registrati al referendum che ha approvato le cosmetiche riforme costituzionali volute dal governo militare di transizione e dagli islamisti – fermamente quanto vanamente osteggiate dagli stessi gruppi che avevano guidato la piazza – è forse il più chiaro indice del disorientamento
politico degli egiziani.
Non diversa in questo senso si presenta la situazione tunisina. A distanza di qualche mese dalla caduta di Ben ‘Alì l’entusiasmo e l’orgoglio rivoluzionario rimangono palpabili nelle strade delle città, ma tra gli attivisti politici l’euforia sta lasciando piano il passo all’inquietudine sull’immediato
futuro. Mentre l’esercito sembra conservare una posizione defilata a garanzia della transizione, alle elezioni del prossimo luglio per la nomina
dell’Assemblea Costituente si presenteranno cinquantuno partiti, in maggioranza fondati all’indomani della rivoluzione, molti dei quali senza collocazione determinata o vagamente orientati6. Dissolta, insieme al regime poliziesco, la cappa sulla libertà di espressione, la politica è divenuta
l’argomento che domina le conversazioni dei tunisini in famiglia, nei luoghi
di lavoro, per le strade, ma pochi di questi partiti sembrano presentare agli
elettori chiari progetti di società né hanno precisa cognizione del loro possibile peso elettorale, e la situazione – al momento in cui si scrivono queste
pagine – appare del tutto fluida e incerta.
Sia in Egitto che in Tunisia, motivo di timore per le forze laiche locali
come per gli osservatori internazionali è che, paradossalmente, rivolte di
piazza mosse da motivazioni economiche e politiche di natura più pragmatica che ideologica si risolvano a favore degli attori politici che vi hanno svolto il ruolo più marginale se non ininfluente: quei radicali islamici che invece
6
Fonte: http://www.businessnews.com.tn/pdf/Partis040411.pdf
10
hanno in agenda progetti di società molto chiari e strutture organizzative radicate sui territori, i cui appetiti politici sono proporzionali alla loro capacità
strategica. In tal modo l’ideologia islamista, estranea alla maturazione della
‘terza rivolta araba’, dopo decenni di repressione potrebbe trarre enorme
vantaggio dagli avvenimenti e, forte del suo populismo organico, emergere
come attore decisivo nei prossimi governi, legittimata da un sostegno popolare espresso da libere elezioni. Ciononostante rimane incontrovertibile che
se la democrazia riuscirà a prevalere in questi paesi, la sua costruzione dovrà
passere anche attraverso l’inclusione nella competizione politica di quei partiti mossi da ideologie religiose che vorranno aderire alle regole del pluralismo – ed eventualmente attraverso la prova del loro governo.
Timori e speranze
I timori più seri si collocano tuttavia altrove: se in Tunisia l’ingresso
nell’agone elettorale del partito islamista al-Nahda è accolta con diffidenza
dalle compagini politiche di matrice socialista (di cui risulta anche il più forte antagonista), in Egitto sembra profilarsi una saldatura tra militari e Fratelli musulmani, come accennato entrambi favorevoli all’approvata riforma
costituzionale. Il dato non sarebbe si per sé preoccupante se non fosse accompagnato da decreti del governo militare di transizione atti a proibire
scioperi e manifestazioni di piazza; dalla brutale repressione del dissenso,
nonché dalle gravi molestie testimoniate dagli attivisti fermati dai militari
(in particolare le donne): tutti segnali che inducono a supporre la rapida riorganizzazione di un regime che, dopo aver eliminato le componenti più
compromesse ed ingombranti, stia elaborando la propria riaffermazione sotto rinnovate spoglie.
Non va soprattutto dimenticato che le riforme economiche, vera conditio sine qua non dei processi di democratizzazione politica nei diversi paesi,
implicherebbero la rinuncia a innumerevoli privilegi da parte delle oligarchie scampate alle (blande) epurazioni di rito, che cavalcano le stesse rivolte
per rinsaldare, consolidare o recuperare le proprie posizioni; come non va
dimenticato che a queste oligarchie sono strettamente legati gli interessi internazionali nell’area. L’Occidente non ha solo a cuore i mercati locali: ancor più, guarda con apprensione alle risorse energetiche e ai delicati equilibri regionali garantiti dalle stesse leadership autoritarie che – si ricordi – fino all’istante prima della loro caduta, con l’Occidente concludevano lucrosi
11
affari e stabilivano importanti accordi politici. Se le sanguinose repressioni
delle recenti rivolte saudite o del Bahrein sono passate sotto il silenzio dei
media è, ad esempio, difficile non considerare gli enormi interessi degli
USA in quei paesi che, pur configurandosi come i più illiberali e oscurantisti
dell’area vicino orientale, essi annoverano come ‘moderati’. Altrettanto delicate per gli equilibri regionali appaiono le sorti della polveriera siriana, ai
cui sommovimenti interni le potenze internazionali guardano con immobilista apprensione; senza considerare i timori di Israele, che ricordiamolo, nei
giorni di Piazza Tahrir non esitava a manifestare il pieno appoggio a Mubarak, temendo non solo una svolta islamista regionale, ma forse ancor più le
ripercussioni politiche che un Medio Oriente democratizzato potrebbe avere
sul proprio nazionalismo oltranzista.
Il percorso del mondo arabo verso la democrazia sostanziale si presenta
dunque irto di ostacoli e soprattutto necessita di tempi lunghi per la decantazione del vecchio, l’affermazione e sedimentazione del nuovo che attraverso
riforme strutturali dovrebbe consentire a questi paesi di ricostruire un tessuto politico sano e debellare la corruzione endemica. La sfida è transitare sistemi basati sui favori e privilegi di pochi a sistemi fondati sui diritti e doveri di tutti, percorsi forieri anche di fisiologiche instabilità che forse la regione, e chi ne osserva l’evoluzione, non può o non vuole permettersi.
12
Politica
ché quello che si poteva e si doveva ottenere si è già ottenuto con l’“effettoannuncio”: non so quale delle due sia vera o sia più vera. In ogni caso questa
è la situazione.
Riforme costituzionali
e “mitologia sostitutiva”
Riforme immaginarie
EMANUELE ROSSI
N
elle vicende politico-istituzionali del nostro Paese periodicamente si
affaccia, quasi come un fiume carsico che poi scompare per ricomparire chissà quando, il tema delle riforme della Costituzione. Senza peraltro che
nessuna di queste proposte dia l’impressione di arrivare all’obiettivo che
dovrebbe esserle proprio, ovvero di essere approvata ed entrare in vigore:
sembra anzi che basti l’“effetto annuncio”, talvolta limitato addirittura alla
conferenza stampa di presentazione, senza che nemmeno ci si preoccupi di
depositare la proposta in Parlamento.
Ricordate ad esempio la riforma dell’art. 41 della Costituzione? Quella
che il Consiglio dei Ministri approvò il 9 febbraio scorso dopo una relazione
dello stesso Presidente del Consiglio, il quale ne illustrò «gli obiettivi di liberalizzazione e di sviluppo dell’economia nazionale», e che il Ministro del
Lavoro definì «una riforma storica», perché «segna davvero il passaggio
dall’antropologia negativa a quella positiva nel rapporto tra lo Stato e la società»?
Oppure ricordate la riforma dell’ordinamento giudiziario, approvata dal
Consiglio dei ministri il 10 marzo, e consistente in un disegno di legge di
revisione della Costituzione composto da 17 articoli, che dovrebbero modificare un cospicuo numero di disposizioni della nostra Costituzione, e ridisegnare quasi interamente il Titolo IV di essa (Titolo che non sarebbe più
chiamato “Magistratura”, come è ora, ma “Giustizia”)?
Ebbene, di queste due fondamentali riforme, dichiarate della massima
importanza ed urgenza, a fine marzo ancora non vi è ancora traccia in Parlamento, come ha puntualmente segnalato, con una specifica interrogazione,
il senatore Stefano Ceccanti. Esse risultano approvate dal Consiglio dei ministri, e sebbene la procedura vorrebbe che esse fossero immediatamente
presentate in Parlamento (previa autorizzazione del Capo dello Stato), al
momento questo ancora non si è realizzato: evidentemente per uno dei seguenti motivi. O perché qualcosa si è inceppato nel meccanismo oppure per-
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Ma vediamo nel merito il significato delle riforme costituzionali presentate dal Governo. Come detto, sono due quelle più importanti: la riforma
dell’art. 41 (e di altri articoli in qualche modo ad esso collegati) e quella
dell’ordinamento giudiziario.
Partiamo dalla prima. L’obiettivo di fondo di questa riforma è stato indicato dal Presidente del Consiglio, per il quale occorre «riscrivere l’articolo
41 della Costituzione che in materia di lavoro e impresa è datato, in quanto
parla molto di lavoratori e quasi mai di impresa e mercato». L’obiettivo sarebbe di «arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più
permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», in quanto i controlli attualmente previsti dalla Costituzione sarebbero «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Al di là della bontà dell’obiettivo indicato, che a mio parere andrebbe
comunque contrastato fortemente, prendiamo per buono ciò che il Presidente vuole ottenere e domandiamoci se per realizzare tale scopo sia proprio
necessario modificare l’art. 41. Ovvero che, cambiandolo nel senso indicato
dal Governo, sia possibile raggiungere l’obiettivo auspicato.
Leggiamo l’articolo in questione (composto da tre commi) e le proposte
di riforma che il Governo ha approvato, per provare a rispondere a questi
interrogativi.
L’attuale primo comma stabilisce che «L’iniziativa economica privata è
libera»; la proposta del Governo è di modificarlo così: «L’iniziativa e
l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato dalla legge». Si tratta di una differenza significativa?
Per rispondere positivamente bisognerebbe ritenere che la formulazione attuale non contenga già quella proposta: in sostanza, che con la formulazione
attuale non sia vero che tutto ciò che non è vietato è permesso. Ma questo è
tutto da dimostrare: anzi, la giurisprudenza costituzionale ha precisato che i
limiti devono essere puntualmente previsti. Nella sentenza n. 548/1990, ad
esempio, la Corte costituzionale, pronunciandosi su un caso relativo a una
concessione che rigettava l’istanza di autorizzazione al trasporto merci in
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conto terzi di un semi-rimorchio, ha affermato che in forza dell’art. 41 Cost.
(attuale!) «l’intervento legislativo non possa essere tale da condizionare le
scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la
funzionalizzazione dell’attività economica di cui si tratta, sacrificandone le
opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle
stesse scelte organizzative».
Proseguendo l’analisi dell’art. 41, il secondo comma afferma che la libertà enunciata nel primo comma «non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana». Su questo punto la riforma è addirittura più restrittiva della
formulazione attuale, perché tra i limiti per la libertà d’iniziativa economica
vengono inseriti anche i «principi fondamentali della Costituzione»: mentre
per tutto il resto la formulazione resterebbe come l’attuale. Ora, al di là della
necessità di stabilire che la libertà di iniziativa non possa contrastare con i
principi fondamentali della Costituzione (forse che con quelli non fondamentali sì?), quasi che oggi questo già non sia, ma indipendentemente da
tutto questo, dicevo, è evidente che questa previsione non consente di superare il regime da «Stato totalitario» - come con la consueta misura lo ha definito il nostro Premier – che caratterizzerebbe la situazione attuale: ma, casomai, lo rafforzerebbe.
Resta dunque il terzo comma: «La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Su questa previsione la riforma
del Governo sarebbe netta (almeno nella formulazione): «La legge si conforma ai principi di fiducia e leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni ed i cittadini prevedendo di norma controlli successivi».
Questo punto dovrebbe essere il cuore della proposta riformatoria del
Governo: ma anche in questo caso mi pare che l’obiettivo che si vorrebbe
raggiungere verrebbe mancato. La disposizione attuale indica infatti un fine,
sul quale credo non si debba discutere (il perseguimento da parte delle imprese di un «fine sociale»); per il resto rinvia alla legge la determinazione di
programmi e controlli, che potrebbero benissimo essere variamente previsti
ed organizzati, e che in ogni caso non impongono quei «permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze» che il nostro Premier denuncia. Tanto è vero
che in un recente manuale si afferma che «la generalità, se non genericità,
delle previsioni dell’art. 41 si presta a scelte di politica economica diametralmente opposte: consentendo sia un marcato interventismo pubblico
nell’economia, sia scelte liberistiche». In sostanza, con l’art. 41 attuale, alla
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libertà di impresa si possono porre molte limitazioni ma anche pochissime: e
se lo scopo è di prevederne meno, che bisogno c’è di modificarlo? Basta
darne un’applicazione nella seconda delle direzioni possibili.
Come dunque valutare il comunicato del Governo al riguardo, quando
afferma che «lo spirito che informa la proposta di riforma è improntato, per
quanto riguarda gli articoli 41 e 118, alla rimozione degli ostacoli che si
frappongano fra l’imprenditore e la realizzazione dell’intrapresa, esaltando
la responsabilità personale, nonchè il ruolo dei livelli territoriali di governo
nel concorso e nell’impulso alla realizzazione dell’iniziativa economica»?
Un’ultima notazione: sempre secondo il Premier, come si è detto, l’art.
41, considerato nel suo insieme, «parla molto di lavoratori e quasi mai di
impresa e mercato». Lascio ciascuno giudicare su due domande: leggendo
l’attuale art. 41, questa osservazione è esatta? E leggendo le proposte del
Governo, cambierebbero le cose?
All’inseguimento di certi particolari…
Veniamo alla seconda proposta di riforma costituzionale presentata dal
Governo: la «riforma costituzionale della giustizia», le cui linee di fondo
sarebbero le seguenti.
In primo luogo, una riduzione del ruolo costituzionale della stessa Magistratura, complessivamente intesa. Essa non sarebbe più «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», come stabilisce ora l’art. 104
primo comma: ma «i giudici» (e soltanto essi, come subito dirò) verrebbero
definiti come «un ordine autonomo e indipendente da ogni potere». Non deve sfuggire la quasi nascosta ma significativa modifica: togliendo
l’espressione «altro» prima di «potere», si vuole affermare che i giudici non
sarebbero più un «potere» come gli altri, ma che invece i poteri sarebbero
soltanto gli altri (Parlamento, Governo, ecc.). È una modifica che era già
contenuta nella proposta della Commissione bicamerale D’Alema, e che già
allora era stata assai criticata per la violazione dell’effettiva indipendenza
del potere giudiziario. Ora però si fa di più: perché quello che rimarrebbe
dell’indipendenza non sarebbe riferito a tutta la magistratura, ma soltanto ai
«giudici», cioè a una parte soltanto della «magistratura», in quanto i magistrati, come sancirebbe il nuovo art. 104, si distinguerebbero in «giudici» e
«pubblici ministeri». Quindi la magistratura non sarebbe più un potere, e la
garanzia costituzionale di indipendenza sarebbe affermata soltanto per i giu-
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dici, mentre per i pubblici ministeri l’autonomia e l’indipendenza riguarderebbe soltanto i loro uffici, e sarebbe per di più rimessa ad una legge (che
quindi avrebbe un forte margine di discrezionalità). Può sembrare che questi
aspetti siano meramente formali e perciò privi di effetti sul piano sostanziale: posso garantire che così non è, anche perché altrimenti avrebbe poco senso modificare la Costituzione, se non si volessero ottenere risultati concreti.
Ricordo a questo proposito che tutti gli Stati liberali e di diritto, a partire
dalla rivoluzione francese, si fondano sul principio della separazione dei poteri, il che significa che le tre principali funzioni pubbliche (legislazione,
amministrazione, giurisdizione) devono essere attribuite a poteri distinti e
tra loro indipendenti (il potere legislativo, quello esecutivo e, appunto il
«potere» giudiziario).
L’altro aspetto significativo della riforma proposta è la separazione netta tra i ruoli (oltre che tra le funzioni, come già avviene oggi) di giudici e
pubblici ministeri. Sebbene le riforme di questi ultimi anni abbiano già segnato una netta distanza tra essi (oggi è assai difficile per un magistrato
transitare da una funzione di giudice ad una di pubblico ministero o viceversa), questa divisione sarebbe assai netta: non solo per quanto si è appena
detto sulle garanzie di indipendenza, ma anche per la significativa riduzione
dei poteri del pubblico ministero e per la creazione di due distinti Consigli
superiori.
Con riguardo a quest’ultimo punto, vale a dire la riforma della composizione dell’organo di autogoverno della magistratura, la riforma fa luce sulla evidente volontà del Governo di affermare la superiorità del potere politico sulla giurisdizione. L’attuale CSM verrebbe infatti, in primo luogo, diviso in due: non ci sarebbe più infatti un unico CSM (come oggi), ma due, uno
per i giudici e uno per i pubblici ministri, con l’aggiunta di un terzo organo,
cioè la «Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente», che
sembra richiamare quella situazione che Montanelli chiamò, in relazione ad
altro contesto, «due Camere e un camerino». Ma tralasciando questo terzo
collegio, in entrambi i Consigli superiori verrebbe aumentata la componente
politica: i membri non sarebbero più, infatti, due terzi di magistrati e un terzo di membri eletti dal Parlamento, ma metà e metà (oltre ai membri di diritto). Detti organi collegiali cesserebbero pertanto di essere organi di autogoverno (peraltro nelle forme già mitigate dalla presenza di membri di espressione politica, come avviene oggi), ma diventerebbero organi di governo “misti”: metà magistrati e metà politici, con un risultato netto, dunque, di
avanzamento dell’influenza della politica sulla giurisdizione.
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Vanno poi nella stessa direzione di un aumento del ruolo della politica
sulla magistratura sia il previsto aumento dei poteri del Ministro della giustizia, cui sarebbe espressamente riconosciuta anche la funzione ispettiva,
sia il venir meno del principio dell’obbligatorietà della legge penale. Con
riguardo a questo secondo punto, che in sostanza significa che i pubblici ministeri devono sempre, a fronte di qualsiasi notizia di reato, svolgere delle
indagini e richiedere il processo (salvo il caso di archiviazione), la riforma
contiene una strana formulazione: l’obbligatorietà, infatti, dovrebbe essere
esercitata «secondo i criteri stabiliti dalla legge». La singolarità della previsione è data dal fatto che i due concetti sembrano difficilmente conciliabili
(o una cosa è obbligatoria, infatti, o non lo è: una cosa «obbligatoria secondo criteri» sembra un ossimoro); ma, soprattutto, essa indica che il pubblico
ministero dovrà perseguire soltanto alcuni reati e non altri, con tutte le conseguenze, facilmente intuibili, che ciò comporta.
Se a tutto ciò si aggiunge l’aumento dei poteri del Ministro della giustizia, cui sarebbe riconosciuta anche la funzione ispettiva (che già esercita, ma
il suo esplicito riconoscimento avrebbe effetto simbolico e di rafforzamento), nonché la previsione della responsabilità dei magistrati, diventa di chiara evidenza il vero significato della riforma: sancire la superiorità della politica sulla magistratura, con tutti i messaggi relativi – espliciti e impliciti – ad
essa collegati. Per affermare questa, passano in secondo piano non solo le
esigenze proprie dello Stato di diritto (che richiederebbero l’assoluta indipendenza della magistratura), ma anche quelle relative alla sicurezza dei cittadini: l’assoluzione in primo grado sarà infatti definitiva, e se un delinquente la scampa in primo grado sarà salvo definitivamente. Un garantismo a
giorni alterni, verrebbe da dire, da parte di chi fa della sicurezza uno spauracchio per colpire i povericristi (ad esempio gli immigrati o i ladri di polli),
ma sembra dimenticarla quando gli imputati sono “altri”.
Ed infine una considerazione su ciò che non verrebbe toccato dalla riforma: la giurisdizione civile e tutte le giurisdizioni speciali (quella amministrativa, quella contabile, ecc.). Ciò pone alcuni interrogativi, in ordine ai
quali ciascuno può valutare il significato della proposta. Il primo: se i problemi della giustizia oggi in Italia siano soltanto di quella penale o non anche – e forse soprattutto – di quella civile o amministrativa (a cominciare dai
tempi di giudizio): e come mai si interviene solo su quella penale e non anche sulle altre? La seconda: anche considerando la sola giustizia penale, il
suo vero problema è la scarsa soggezione di essa alla politica?
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Dalla risposta che ciascuno può dare a tali domande dipende la valutazione complessiva della riforma proposta dal Governo.
Per quale governabilità?
Un cenno merita infine una terza proposta di legge di revisione costituzionale, questa volta non proveniente dal Governo bensì da 101 autorevoli
esponenti del centro-destra (primo firmatario Calderisi, ma tra gli altri ci sono anche Scajola, La Loggia, Boniver, Brancher, Lunardi, Stanca), allo scopo di introdurre alcune «modifiche alla parte seconda della Costituzione per
assicurare governabilità al Paese».
Quali sarebbero le riforme ritenute necessarie per assicurare la stabilità
mancante? In primo luogo una riduzione del numero dei parlamentari (i deputati scenderebbero da 618 a 500, i senatori da 315 a 250), senza altra riforma del bicameralismo. Dirò dopo del possibile significato di questa previsione. In secondo luogo la modifica dell’art. 68, re-introducendo la necessità dell’autorizzazione a procedere per sottoporre a procedimento penale un
parlamentare (per qualsiasi tipo di reato, ovviamente). In terzo luogo la previsione di tempi certi per l’esame in Parlamento dei disegni di legge presentati dal Governo; inoltre, il divieto per il Parlamento di approvare leggi o
emendamenti che comportino nuove spese (se il Governo non sia
d’accordo). Ancora, la previsione, nel caso in cui il Parlamento voti la sfiducia al Governo, che quest’ultimo possa non dimettersi, ma richiedere elezioni anticipate al Presidente della Repubblica, il quale avrebbe l’obbligo di
indirle. In conclusione si prevederebbe l’istituzione del «capo
dell’opposizione», più un paio di disposizioni sulle Regioni sostanzialmente
ridondanti (in quanto sarebbero soltanto l’esplicitazione di quanto già oggi
avviene in via di giurisprudenza o di prassi applicativa).
Dunque, in sostanza, secondo i presentatori della proposta i problemi
della insufficiente governabilità del Paese sarebbero imputabili alla Costituzione, e nella specie sarebbero i seguenti: il fatto che i parlamentari siano
troppi; che siano troppo impegnati a difendersi nei processi e non possano
quindi lavorare bene; che la maggioranza parlamentare non sia in grado di
discutere in tempi rapidi le proposte di legge del Governo; che approvi troppe leggi o emendamenti comportanti nuove spese, impedendo al Governo di
tenere sotto controllo le spese complessive; che il Parlamento sia troppo libero nel decidere se votare o meno la sfiducia al Governo: invece deve sape-
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re che se la vota poi va casa, così prima di farlo ci pensa due volte (e poi non
lo fa).
Ognuno può valutare se questi siano davvero i problemi delle nostre istituzioni o non ve ne siano altri di prioritari (ad esempio: la riforma del Senato su base federale, per completare quella riforma federale ormai da tutti
considerata come la panacea di tutti i mali, come mai non c’è?). Così come
bisognerebbe valutare la compatibilità di tali proposte con altre disposizioni
costituzionali (ad esempio, il potere di scioglimento del Parlamento affidato
di fatto al Governo, sarebbe compatibile con i poteri del Presidente della
Repubblica?).
Anche una proposta interessante e senz’altro necessaria, come quella di
prevedere tempi certi per l’esame dei disegni di legge presentati dal Governo, anche al fine di evitare l’abuso nel ricorso alla decretazione d’urgenza
come ora avviene, andrebbe collocata all’interno di un ripensamento del sistema delle fonti, a iniziare proprio da una rivisitazione dell’art. 77 Cost. E
in ogni caso si dovrebbe prevedere che il Parlamento possa discutere ed esaminare, con la stessa certezza di tempi del decreto-legge, anche altre proposte di legge, non soltanto di iniziativa governativa: questo sì che potrebbe
allentare la tensione attualmente gravante sull’uso della decretazione
d’urgenza nonché sul disegno di legge di conversione, e garantire equilibrio
nei poteri tra maggioranza ed opposizioni.
Ma al di là di tutto questo, emerge un forte sospetto: che dentro la proposta ci siano un obiettivo vero e una norma “civetta”. L’obiettivo vero è
ripristinare l’autorizzazione a procedere, eliminata nel 1989, per mettere una
volta di più i parlamentari sopra la legge (e non sotto, come tutti). Obiettivo,
tra l’altro, che non c’entra nulla con l’esigenza di «assicurare governabilità
al Paese», come è del tutto evidente. La norma civetta è la riduzione del
numero di parlamentari: ricordo che ogni riforma costituzionale, qualora
non sia approvata dalla maggioranza dei due terzi in Parlamento, deve essere sottoposta a referendum. E quale potrebbe essere un richiamo per allodole
migliore di questo per nascondere le altre polpette da far ingoiare al corpo
elettorale?
Per coprire altri problemi
Sebbene dunque la situazione politica continui a mostrarsi assai incerta
e sempre più indebolita, e sebbene allo stesso tempo continuino a mancare
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risposte adeguate sui versanti nei quali l’intervento riformatore dovrebbe
essere maggiore, sebbene tutto questo, dunque, continuano a fiorire proposte
di revisione della Costituzione, come se fosse più facile e necessario, in questo momento, riformare la Costituzione (con questa maggioranza così debole, poi), che non introdurre con legge ordinaria le misure che aiutino a risolvere i problemi più urgenti dei cittadini. È ancora di stretta attualità il paradosso enunciato da Gustavo Zagrebelsky quasi vent’anni fa: quanto più la
motivazione della riforma è la mancanza della capacità di decidere, tanto più
la riforma è difficile. Al contrario, se il sistema è capace di decidere, la riforma è facile, ma anche superflua.
Ed allora si ha l’impressione che, ancora una volta, si voglia usare la
(modifica della) Costituzione come pretesto per coprire altri problemi: come
sottolineava Giuseppe Dossetti, il Patto costituzionale «è divenuto facile
pretesto non dell’impossibilità, ma alla incapacità di governare e di avviare
gradualmente la nostra comunità nazionale verso più pacati e già possibili
passi di trasformazioni reali. Si tratta di una mitologia sostitutiva».
Una mitologia di sempre più stretta attualità, purtroppo.
Il prossimo incontro di formazione estiva dell’associazione “Rosa
Bianca”, il primo organizzato congiuntamente alla Casa editrice “Il Margine”, si terrà dal 24 al 28 agosto 2011, nel suggestivo Convento di Terzolas
(Tn). Dopo aver riparlato, nel 2010, di Libertà, si è pensato di riprendere anche il tema dell’uguaglianza. Il titolo provvisorio è Dis eguaglianze – in differenze – mer canti. La bella politica addormentata nell’incantesimo globale. Per aggiornamenti, consultare il sito www.rosabianca.org.
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Storia
Scienziati e Chiesa
nei 150 anni dell’Unità d’Italia
MARCO ANDREATTA
1
uest’anno festeggiamo i 150 anni dell’unità d’Italia . Vorrei accostare a
Qquesta
impresa un’altra, non meno epica, avvenuta pure nell’Ottocento:
l’inizio della scienza contemporanea.
La Storia la fanno gli uomini, in particolare quelli che con il loro operare collegano campi diversi e creano quindi innovazione. Prenderò ad esempio un personaggio per molti versi emblematico, scienziato e politico, per
ricordare alcuni momenti cruciali della nostra Storia e rapportarli ai giorni
nostri. Parlerò di Luigi Cremona, nato a Pavia nel 1830, matematico, professore, gran maestro della Massoneria, senatore del regno d’Italia e ministro
della Pubblica Istruzione (per un solo mese).
Da giovane, infatuato di Garibaldi, anche per via di una profonda amicizia con i fratelli Cairoli, combatté nella prima guerra di indipendenza. Iniziò quindi da subito, mettendo anche in gioco la sua vita, un’azione convinta
e fattiva a favore dell’unità d’Italia.
Formatosi come matematico, Cremona fu in grado di coniugare la geometria proiettiva italiana, iniziata da Leon Battista Alberti e Piero della
Francesca, con le nuove teorie che venivano dal nord, in particolare con
l’analisi complessa di B. Riemann (illustre matematico tedesco). È uno degli
artefici, nella matematica, di quella grande rivoluzione scientifica ottocentesca che, volendo sintetizzare, porta lo studio dei fenomeni “non lineari” al
centro della ricerca e delle scoperte. Il teorema di Cremona sull’invarianza
1
Questa riflessione nasce da un contributo al X Forum Culturale CEI dal titolo “Nei 150
anni dell’Unità d’Italia”. Per i riferimenti alla figura storica di Luigi Cremona si rimanda ad un interessante articolo di Aldo Brigaglia e Simonetta Di Sieno, L’opera politica di Luigi Cremona attraverso la sua corrispondenza, in La Matematica nella Società e nella Cultura, Unione Matematica Italiana, Dicembre 2009 e Agosto 2010.
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del genere analitico per proiettività è a tutt’oggi un risultato fondamentale
della geometria contemporanea. Con altri colleghi scienziati dell’epoca riorganizza e rilancia la matematica italiana in una nuova visione nazionale, ma
al tempo stesso europea.
Professore dapprima a Bologna, collega e amico tra l’altro di Carducci,
così esprime le sue convinzioni su come la scienza debba costituire la spina
dorsale della nuova cultura nazionale nella prolusione al corso nel novembre
1860:
«O giovani felici … se le armi posano, tornate agli studi perocché anche con questi
servite e glorificate l’Italia … Ancora una volta dunque, o giovani, io vi dico: non la
turpe inerzia che sfibra anima e corpo, ma i militari e scientifici studi vi faranno aiutatori alla grandezza di questa nostra Italia, che sta per rientrare al cospetto
dell’attonita Europa, nel consorzio delle potenti e libere nazioni».
Si trasferisce quindi al Politecnico di Milano e poi a Roma. In queste
sedi si voleva realizzare una laurea in ingegneria basata su una solida preparazione matematica, perseguendo la tradizione italiana di Leonardo da Vinci. Cremona è cruciale nello sviluppo di tecniche di calcolo grafico che caratterizzeranno la formazione e il lavoro di generazioni di ingegneri italiani:
quelli che eccelleranno nel made in Italy, rappresentati, ad esempio, dagli
ingegneri della Ferrari e che sulla modellizzazione matematica hanno basato
il loro successo. Ecco cosa scrive anni dopo lui stesso al riguardo:
«L’Italia può gloriarsi di avere, per la prima, data ospitalità alle nuove idee, e
coll’insegnamento e con pubblicazioni originali ed illustrative. In breve volgere
d’anni la geometria proiettiva e la statica grafica divennero tra noi materia di studio
ordinario, ed oggi non vi ha più alcun ingegnere, laureato dopo il 1870, che non sia
padrone de’ metodi grafici».
Il suo trasferimento a Roma non è solo finalizzato alla costruzione di
una scuola di ingegneria, ma anche alla voglia di contribuire politicamente
alla nascita di uno stato italiano, assieme ad altri uomini di cultura come
Mamiani, Scialoja, De Sanctis, Quintino Sella e il suo grande amico Benedetto Cairoli. Nominato senatore per meriti scientifici e patriottici, direttore
a più riprese del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, fu anche, per
un periodo brevissimo, Ministro della Pubblica Istruzione. La sua opera è
fondamentale per la creazione di un sistema scolastico nazionale: nel giro di
pochi anni vengono integrati sistemi diversi, creando programmi ministeriali
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e libri di testo unici per tutto il Regno, usati con successo e validi fino ai
giorni nostri. Un’impresa epica: un ardore politico e una disciplina, la Matematica, che nella ricerca, nella formazione primaria, nell’università risveglia e crea l’Italia, nazione che si imporrà come grande potenza anche nella
cultura scientifica.
Le difficoltà erano tante e i problemi strutturali si intrecciano agli sforzi
personali. Nel 1877 Cremona, nel pieno delle sue energie, soffre molto per
aver abbandonato la ricerca pura. Vorrebbe quindi chiudere con la politica e
trasferirsi a Pisa per riprendere le sue ricerche matematiche. Lo ferma una
lettera di Quintino Sella, ministro delle finanze, che, con una accorata supplica, lo prega di servire la patria a Roma, che «qui deve essere un centro
scientifico di luce, una Università principalissima, informata soprattutto ai
principi delle osservazioni sperimentali, che sono sempre imparziali e senza
idee preconcette». Nella lettera si coglie la preoccupazione di fronte alla
possibile egemonia delle università pontificie e di un tipo di pensiero ben
radicato che si oppone allo sviluppo scientifico:
«abbiamo tutti dei grandi doveri verso la patria … non basta avere cacciato gli stranieri ed essere giunti a Roma. Bisogna avere la virtù necessaria perché quelli non
tornino ed almeno perché il papa stia nella sua chiesa. Per tale scopo è indispensabile che a Roma si raccolga una eletta schiera di forti ingegni che tengano con onore il
corso delle scienze moderne. Se vi raccogliete solo degli infelici travet, e per qualche mese deputati … finiremo per non starci a Roma».
Cremona non può rimanere insensibile a questo progetto politico e risponde con un garibaldino “obbedisco!”
Da allora ai tempi nostri, dalla prima Italia a quella odierna; che potremmo definire quarta Italia (dopo la seconda, quella fascista, e la terza,
quella del dopoguerra). E se da un lato la seconda Italia ci porta nel buio
della guerra e delle leggi razziali, nondimeno, almeno in un primo tempo,
prosegue l’opera di costruzione di un’Italia scientifica, con la creazione di
grandi enti nazionali (l’Istituto Nazionale di Alta Matematica e molti altri).
L’Italia del dopoguerra è una storia di successi, ma anche di “rivoluzioni
mancate”: in particolare la scienza non riesce ad imporsi sufficientemente a
livello sociale, politico e culturale. Tra le grandi potenze l’Italia è quella che
oggi ha la più scarsa diffusione della cultura scientifica nella società e nella
sua classe politica. E questo dà origine da un lato a diffidenza e scarsi investimenti, dall’altro alla fuga di cervelli e di idee all’estero.
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L’Italia di oggi non sembra in grado di gestire e promuovere un sistema
di formazione e ricerca nazionale competitivo. Vuoi per incapacità o per
convinzione, la politica e la società si indirizzano verso uno smantellamento
di questo sistema unitario vecchio 150 anni. La riforma Gelmini, ad esempio, è chiara: nell’art. 1 (“Principi ispiratori della riforma”) leggiamo: «Sulla
base di accordi di programma con il Ministero … le università … possono
sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese modalità di composizione e costituzione degli organi di governo e forme sostenibili
di organizzazione della didattica e della ricerca su base policentrica, diverse
da quelle indicate nell’articolo 2» (ovvero dalla legge nazionale). In generale l’attuale governo nazionale ed in particolare il ministro delle finanze non
hanno certamente la visione di Sella, non puntano sulle scienze per creare
sviluppo. Il rischio che questa fase di transizione ci porti verso miseria e regresso è molto forte.
Il ruolo della scienza, e della matematica in particolare, è invece sempre più cruciale in questa società basata sulla conoscenza. Probabilmente il
messaggio forte che la scienza oggi porta è quello dell’universalità e trasversalità. Oggi i problemi (scientifici e non) sono universali e globali e la loro
soluzione si basa sull’utilizzo di risultati e tecniche trasversali a più teorie
(scientifiche). E la matematica, guarda caso, è sempre più il collante ideale
di questo convergere di scienze diverse alla soluzione dei problemi.
Vorrei ora collegare queste riflessioni a due temi di grande attualità. Il
primo è quello della attuazione di questa politica di smembramento di una
università statale italiana, in atto ad esempio nell’università di Trento, come
decretata nell’“accordo di Milano”. L’ateneo trentino è entrato tra gli ultimi
nel sistema nazionale e probabilmente sarà il primo ad uscirne. L’opera di
creazione e di accreditamento dell’ateneo è avvenuta con successo attraverso l’azione di persone che si sono basate su tradizioni e pratiche nazionali
vincenti. In particolare nel campo delle scienze esatte, dove è facile ritrovare
l’impostazione di Cremona ed altri.
Una rifondazione di un sistema formazione-ricerca in termini non più
nazionali e statali ma locali e, magari, supportato dall’aiuto di imprese private, deve avere una forte visione, ovvero una capacità di coniugare passato
con futuro. Si dovrà sì far sistema con la realtà locale, per coinvolgerla nel
progetto e nelle sue ricadute (nel caso della formazione questo è piuttosto
ovvio) e per minimizzare i costi. Ma soprattutto si dovranno tenere in conto
le caratteristiche universali e trasversali della ricerca odierna e avere una
prospettiva internazionale; occorrerà in particolare garantire opportunità di
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sviluppo alle scienze di base, tutelandone libertà ed autonomia. Come ben
pensarono 150 anni fa i politici che costruirono l’Italia.
L’altro tema, che interviene con frequenza nella storia, è quello dei
rapporti della scienza e degli scienziati con la Chiesa. Questa ha regolarmente interagito con lo sviluppo della ricerca scientifica e della formazione,
in particolare in Italia negli ultimi 150 anni; non sempre queste interazioni
sono state positive. Anche in campo scientifico l’unità d’Italia è stata fatta
dunque in contrapposizione alla Chiesa. Con le opportune eccezioni, che
vengono soprattutto nella Chiesa che parte dal basso. Un bell’esempio lo ho
sentito raccontare dal sacerdote e professore Tanzella-Nitti: per diffondere
l’uso del sistema metrico decimale nel Piemonte dell’Ottocento si decise di
distribuire attraverso le parrocchie un manuale di metrometria a tutte le famiglie.
Io credo che oggi la Chiesa possa e debba essere aperta nei confronti
della scienza. La Chiesa dal basso, dai parroci ai missionari, vede la scienza
come fondamento, economico e culturale, della nostra società. Al tempo
stesso capisce come essa sia una formidabile occasione di dialogo con la società, soprattutto con i giovani. Il messaggio universale della scienza ha in
ultima analisi forti analogie con quello universale della Chiesa: il relativismo oggi da combattere, nella scienza come nella fede, è proprio la mancanza di universalità, qualità sempre più necessaria in un mondo globalizzato. 26
Testimoni
La sorgente di Etty Hillesum
GIUSEPPE MOROTTI
E
tty Hillesum nasce il 15 gennaio 1914 a Middelburg in Olanda, in una
famiglia della borghesia intellettuale. Il padre, Louis, insegnante di lingue classiche e poi preside del ginnasio municipale di Deventer, è un uomo
solerte e ricercatore, mentre Rebecca, la madre, ebrea russa rifugiata in Olanda, è una donna caotica e passionale. I due fratelli di Etty, Mischa e Jaap,
sono eccezionalmente dotati l’uno nel campo della musica e l’altro nelle
scienze.
Etty è una ragazza brillante, intensa, che ha la passione della lettura e
degli studi di filosofia e una notevole predisposizione per la scrittura. Ad
Amsterdam prende la prima laurea in giurisprudenza, si iscrive alla facoltà
di lingue slave interessandosi anche agli studi di psicologia e dando lezioni
di russo. Legge con passione Jung, Rilke, Dostoevskij, mentre all’università
entra in contatto con la resistenza studentesca di sinistra. È una ragazza inquieta, alla continua ricerca di se stessa, di un equilibrio psicologico ed umano che in un primo tempo cerca di raggiungere attraverso relazioni spregiudicate con uomini più anziani di lei.
Nel gennaio 1941 conosce Julius Spier, allievo di Jung oltre che iniziatore della psicochirologia, cioè della diagnosi psicologica fatta a partire dalla
lettura della mano. È una personalità carismatica che colpisce e stimola Etty,
che diventa sua paziente ed assistente e poi amante e compagna intellettuale.
Questo incontro dà il via all’evoluzione della sua sensibilità in direzione
sempre più marcatamente spirituale, sebbene laica e aconfessionale. Una
spiritualità profondamente ancorata nel suo vissuto quotidiano ed in sintonia
totale con l’umano. Scrive nel suo diario: «Sono alla ricerca dell’essenziale
e del veramente umano».
Etty lavora per un breve periodo in una sezione del Consiglio ebraico di
Amsterdam, un’organizzazione che per volontà dei nazisti fa da comodo cuscinetto tra loro e la massa ebraica e che lei definisce come un “inferno”.
Quando si ebbe la prima retata di ebrei destinati a essere rinchiusi nel campo
di smistamento di Westerbork, in attesa di essere poi instradati per Auschwitz, coraggiosamente, vi chiese il trasferimento.
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Dall’agosto 1942 lavora nel campo come assistente sociale, dando prova di grande coraggio e di profonda umanità e ponendo se stessa senza riserve al servizio della propria gente. Il 7 settembre 1943, Etty, suo padre,
sua madre e Mischa vengono caricati su un treno e deportati in Polonia. Dal
finestrino di quel treno Etty riesce a gettare una cartolina che viene raccolta
e spedita dai contadini: «Abbiamo lasciato il campo cantando». Muore nella
camera a gas di Auschwitz, il 30 novembre 1943 all’età di 29 anni.
Conosciamo Etty e la sua esperienza soprattutto dal diario e dalle lettere, scritti vibranti a testimonianza di un percorso caratterizzato dal crescere
di una inesorabile e meravigliosa tendenza ad amare, amare sempre più globalmente la vita, amare Dio, amare la creazione, amare se stessa come donna, amare l’essenza umana. Quando Etty inizia la stesura del diario la guerra
è nel pieno del suo svolgimento ed il cerchio comincia a stringersi intorno
agli ebrei olandesi. Sono sottoposti a brutali restrizioni, radunati nel ghetto
di Amsterdam, poi inviati nei campi di smistamento in un’attesa più o meno
lunga di deportazione nei campi di sterminio.
La vita di Etty sta tutta tra le parole che annota giovedì 10 novembre
1941: «Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di
fiducia in me stessa. Repulsione. Paura», e le parole di venerdì 3 luglio
1942: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò
amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Continuo a
lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca
di significato».
Etty esamina a fondo tutto ciò che accade tra quelle due date e le annota con grande trasparenza, franchezza e intensità: i suoi rapporti di amicizie
e d’amore, quelli con la famiglia e i colleghi, gli stati d’animo, le sensazioni,
le riflessioni sull’ebraismo, le donne, la passione, lo sfacelo sempre più evidente del mondo che la circonda.
Per non perdere ogni appiglio con quel mondo sconvolto, Etty si mette
alla ricerca delle origini della propria esistenza e alla sorgente trova un atteggiamento verso la vita la cui definizione migliore è “altruismo radicale” e
che l’accompagnerà fino all’ultimo suo respiro: «ho spezzato il mio corpo
come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini … erano così affamati e da
tanto tempo… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite».
Un altruismo, il suo, che non passa necessariamente per un fare continuamente qualcosa per gli altri ma che si riduce il più delle volte ad un “esserci”, ad uno “stare con”. «Dovunque si è, esserci, al cento per cento. Il mio
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fare consisterà nell’essere … È aumentato il mio silenzio ... soltanto attraverso il silenzio si possono trovare le parole».
Per Etty il modo migliore per migliorare gli altri rimane quello di migliorare sé stessi rendendosi più umani: «Il marciume che c’è negli altri c’è
anche in noi, non vedo nessun’altra soluzione che quella di raccoglierci in
noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte
dentro di noi».
L’atteggiamento positivo, ottimista ed assoluto che Etty ha nei confronti della vita la rende in grado di definirsi nei lunghi soggiorni al campo di
Wersterbork «il cuore pensante della baracca».
L’esame introspettivo portato avanti con serietà e coraggio ed il lavoro
di elaborazione psicologica nel quale è stata guidata da Spier, porta Etty
all’acquisizione di un atteggiamento di straordinaria apertura in una situazione storica estrema: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente
come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da
qualche parte, trovare un luogo dove possono combattere e placarsi. E noi,
piccoli uomini, dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza fuggire».
Questa profonda compassione che nutre per le sofferenze che la circondano è sostenuta e corroborata da un rapporto sempre più lucido ed appassionato con Dio. Prima ancora che Etty cominci a nominare Dio e a rivolgerglisi direttamente (questa sarà l’eredità di Spier, che l’aiuterà a trovare
«il coraggio di pronunciare il nome di Dio»), già annota la percezione di un
rapporto intimo con Qualcuno in lei che l’accompagna: «D’un tratto avevo
avuto la sensazione di non essere sola ma “in due”: come se fossi composta
di due persone che si stringessero affettuosamente e che stessero bene così,
al caldo». Poi la rivelazione in lei finalmente trova parola: «Dentro di me
c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio». Fino a farle
esclamare: «Mi sono resa conto come sia Dio a rinnovare continuamente le
mie forze e vi sono momenti in cui mi sento come un uccellino in una grande mano che mi protegge».
Un Dio che, come avviene in tutti i percorsi spirituali più autentici,
proprio quando hai l’impressione di raggiungerlo definitivamente, ti sfugge,
lasciandoti nuovamente solo, nel dubbio e nell’oscurità… «A volte riesco a
raggiungerlo, più sovente Egli è coperto di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto e bisogna dissotterrarlo di nuovo… Bisogna anche accettare i momenti
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non creativi; più li si accetta onestamente e più passano in fretta. Bisogna
avere il coraggio di fermarsi, di essere talvolta vuoti e scoraggiati».
È l’inizio di una intensa relazione mistica, di un rapporto reciproco
d’amore tra due che sono già uno, lei e Dio, in cui ognuno ha bisogno che
l’altro ci sia, vivo e attivo. Etty giunge al punto di esclamare con spregiudicatezza: «E se Dio non mi aiuterà allora sarò io ad aiutare Dio».
Etty è sempre più certa che tutto può andare perso ma non questa relazione amorosa che le fa presentire un profondo senso di leggerezza ed al
contempo infonde un sapore d’eternità ad ogni attimo della sua esistenza:
«Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, continua passeggiata». Una passeggiata fatta a due, con Lui: «La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te o mio Dio … La mia forza creativa si traduce in continui colloqui interiori con Te e le ondate del mio cuore diventano più lunghe, mosse e
tranquille».
Se è vero che l’intimità con Dio impregna tutta la sua vita, anzi si nutre
di ogni suo istante, Etty si rende conto di quanto questa intimità, in particolar modo nei suoi momenti più cruciali, abbia bisogno di spazi e di tempi più
intensi, più esclusivi, di cuore a cuore con l’Amato. «E quando la burrasca è
troppo forte e non so più come uscirne, mi rimangono sempre due mani
giunte ed un ginocchio piegato … È il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo». Dal di dentro del campo di concentramento scrive: «Chi mi chiede come faccio a vivere così intensamente, non
sa che mi posso ritirare ad ogni momento in una preghiera che diventa per
me come la cella di un convento e ne esco fuori più raccolta, concentrata e
forte... Dappertutto ci sono cartelli che vietano la strada della campagna ma
sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pure il cielo, tutto il cielo, tutto quanto… ed essi [i nazisti] non possono farci nulla… nulla».
Quello che è certo è che la sua, come ogni autentica spiritualità, non la
porta ad isolarsi dal mondo e non ha niente a che vedere con la fuga e
l’illusione. Il suo Dio è in piena consonanza con la sua volontà di essere
donna, fino in fondo, con la sua capacità di vedere la verità, di assumerla su
di sé e, dal di dentro, redimerla con tutto quel sangue che è necessario versare per sconfiggere quell’odio che c’è in noi innanzitutto e poi intorno a noi,
in vista della creazione di una nuova umanità.
Infatti la relazione continua ed appassionata che vive con Dio non la
porta a convogliare tutti i suoi problemi personali e i problemi che la circondano verso la sublimazione religiosa. Non la distrae né la distoglie minima-
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mente dalla tragicità che la circonda diventando una contemplativa solitaria
ma la rende sempre più solidale e universale.
«Un barlume di eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni
quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza, malattia, tristezza o paura, ma insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita che è
pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se vi si fa posto per tutto e se la si
sente come una unità indivisibile … Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un
insieme compiuto; ma si fa veramente assurda non appena se ne accetta o rifiuta una
parte a piacere, proprio perché essa perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria».
La spiritualità incarnata e sempre aderente alla cruda realtà di Etty ce la
fa sentire molto vicina, una compagna di viaggio pronta ad ogni momento a
passarci il testimone, restituendoci tutta la responsabilità del nostro esserci:
«La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare
e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è
in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo
sempre meglio, così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegarlo agli altri.
Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo per poterlo fare e se questo non mi sarà
concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al mio posto, continuerà la mia vita dove
essa è rimasta interrotta. Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima
convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo e con tanta fatica. Non è anche questa un’azione per i posteri?»
Gli amici di Amsterdam cercano di convincere Etty a nascondersi, e
una volta tentano persino di rapirla ma lei rifiuta con determinazione. Prima
di salire sul treno per Auschwitz, lucida come sempre, presagendo che non
sarebbe più tornata, Etty chiede ad una sua amica di conservare i suoi diari,
otto quaderni, fittamente ricoperti da una scrittura minuta e quasi indecifrabile. A guerra finita li avrebbe dati ad un certo Klaas Smelik, l’unico scrittore che conosce, sperando che sarebbe riuscito a farli pubblicare. Spera così
di poter condividere con altri le intuizioni che hanno sorretto e motivato la
propria vita. Ma per quanti tentativi faccia, Smelik non ottiene alcun risultato e finalmente si arrende non riuscendo a pubblicare i diari.
Nel 1980 suo figlio chiede all’editore De Haan di dare un’occhiata ai
quaderni. Ne rimane affascinato e sconvolto fin dalle prime frasi. Si convince ben presto di avere in mano uno dei documenti più importanti del nostro
tempo. E lo pubblica nel 1982 sotto il titolo di Il cuore pensante della ba-
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racca. Dopo appena un anno e mezzo la sola edizione in lingua olandese
giunge alla quattordicesima edizione e da allora viene pubblicato in numerosissimi altri paesi. Comunità cristiane, università, scuole, centri culturali e
migliaia di lettori laici usano ormai questo libro come un vademecum.
Etty è sentita come molto vicina ai molti che al giorno d’oggi, pur non
essendo chiamati ad appartenere ad una singola confessione, avvertono il
profondo bisogno di una autentica spiritualità. Vivendo con estrema radicalità e coerenza e rimanendo fedele fino in fondo al suo essere donna e laica,
dà a tutti noi una grande lezione di autentica spiritualità: la scoperta di Dio
dentro di sé e l’avvio di un dialogo intimo ed appassionato con Lui, resiste e
diventa sempre più fecondo durante l’esperienza più drammaticamente assurda ed insensata che l’umanità abbia conosciuto: il genocidio. «Io credo
che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze,
ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge
alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro
zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati», scrive Etty nell’ultima
sua lettera agli amici.
La storia che ci racconta Etty, in definitiva, non è quella degli oppressi
e degli aguzzini ma quella della rinascita interiore di una giovane donna, il
fiorire di una consapevolezza di sé, tanto genuina e profonda, da permettere
di scorgere il perseguitato dietro la maschera del persecutore e riconoscere
nella vittima la possibilità di emanciparsi dal proprio ruolo.
«Alla sera tardi, quando il sole si è inabissato, dietro di noi, mi capita spesso di
camminare di buon passo lungo il filo spinato ed allora dal mio cuore s’innalza
sempre una voce: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire
un mondo completamente nuovo. Ad ogni crimine ed orrore dovremo opporre un
nuovo pezzetto d’amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi.
Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo a questo
tempo, corpo ed anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita».
Siamo veramente di fronte ad una vita che è stata nel suo insieme una
autentica celebrazione del Mistero Pasquale...
Sono stati consultati e sono state prese citazioni da: Etty Hillesum, Diario, a cura di
J.G. Garlant, Adelphi 1999; Etty Hillesum, Lettere, a cura di Chiara Passanti, prefazione
di J.G. Garlant, Adelphi 1998; Nadia Neri, Un’estrema compassione, Mondadori 1999;
Cristiana Dobner, Etty Hillesum. Pagine mistiche, Ancora 2007.
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Libri
La “conversione”
di Oscar Arnulfo Romero
GIAMPIERO GIRARDI
C
onfesso che finora non avevo molto approfondito le mie conoscenze
circa la figura di mons. Oscar Arnulfo Romero e mi ero sempre accontentato di considerarlo una figura di rilievo, un eroe, un martire
dell’impegno per la giustizia. Appartengo, infatti, a quella generazione che
ha considerato (e considera tutt’ora) mons. Romero come un riferimento di
valori e di impegno.
La lettura del bel volume di Anselmo Palini (Oscar Romero: «Ho udito
il grido del mio popolo», Ave, Roma, 2010) mi ha consentito un approccio
più consapevole alla figura del sacerdote martire e mi ha dato l’opportunità
di conoscerlo più a fondo. In particolare di capire che Romero è stato
tutt’altro che un “prete rosso”, uno di quegli sperimentatori militanti che
hanno tentato vie nuove, sia nel pensiero sia nell’azione.
Romero ha avuto una formazione del tutto tradizionale, come decisamente ispirato alla tradizione era il suo pensiero e la sua spiritualità. Ha studiato a Roma per 6 anni, dal 1937 al 1943, frequentando la Pontificia università gregoriana e vivendo al Collegio pio latinoamericano, gestito dai Gesuiti. In questo periodo ha prestato servizio pastorale in alcune borgate della
capitale.
«Il privilegio di aver studiato a Roma non fu valido tanto per il suo aspetto scientifico, quanto per l’apporto morale di una educazione sacerdotale
completa nell’ambiente romano»: così egli ricorda quel periodo. E in effetti
la sua attenzione non è rivolta alla ricerca teologica, non è attratto dalle
nuove correnti di pensiero, come quelle di Chenu e di De Lubac. Il giovane
Romero si dedica pienamente alla crescita spirituale, che egli intende come
adesione totale al Magistero della Chiesa. Lo svolgimento dei doveri di pietà
religiosa è puntiglioso, come del resto ben si attaglia ad una personalità un
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po’ introversa, piuttosto chiusa, molto esigente, prima di tutto verso se stesso.
Dai Gesuiti ha assimilato il dovere di fedeltà al Papa e ha respirato il
senso della Chiesa universale, centrato sul primato di Pietro. Si può dire che
per Romero essere cattolici significa essere “romani” e questa adesione alla
chiesa universale fondata su Roma rimarrà sempre un elemento essenziale
del suo essere credente e prete.
È un sacerdote molto tradizionale, dunque, quello che viene ordinato il
4 aprile 1942 e che, di lì a poco, nonostante i pericoli della guerra in pieno
svolgimento, fa ritorno in Salvador. Egli sembra avviato ad una brillante
carriera ecclesiastica: dopo pochi mesi di gavetta in una parrocchia di montagna, diventa, infatti, segretario del vescovo e parroco in città, oltre che direttore del settimanale diocesano. Le sue preoccupazioni riguardano in particolare la cura dei doveri spirituali e liturgici, la disciplina ecclesiastica, il
contrasto alla diffusione del protestantesimo, la lotta contro la massoneria, la
denuncia del comunismo che vuole allontanare l’uomo da Dio. Non manca
in lui l’attenzione ai poveri e agli emarginati, ma sempre in una visione spiritualista e, si può dire, puramente assistenziale. Ovviamente non è interessato alla teologia della liberazione, che, grazie a Gustavo Gutierrez, sta
muovendo i primi passi e cerca di dare un significato alla vita e alla presenza della chiesa in un contesto di forti tensioni sociali come l’America centro-meridionale.
Il libro di Palini fa rivivere, con un approccio cronologico incalzante,
l’evolversi della situazione socio-politica del Salvador. È un crescendo di
violenza, di repressione, di sottrazione di libertà, di annullamento dei più
elementari diritti umani. L’oligarchia agraria del paese fa fronte comune con
l’esercito e la polizia e trasforma El Salvador in un luogo chiuso di morte.
Non passa giorno senza che si scoprano morti ammazzati, persone torturate,
desaparecidos. L’opposizione di sinistra sceglie la lotta armata, non così i
cattolici, ma coloro che sono impegnati nel sociale e nel sindacato a favore
dei contadini poveri e sottomessi vengono fatti oggetto di continue calunnie,
violenze, ritorsioni, torture e assassini.
L’escalation sembra ad un punto estremo quando Romero diventa inaspettatamente, nel 1977, arcivescovo di San Salvador e primate del Paese.
Viene preferito a Rivera Damas perché considerato più moderato e gradito
ai militari e ai latifondisti.
Ma ben presto lui “cambia”, non è più lo stesso, prende posizione, si
schiera. Che cosa ha “convertito” l’arcivescovo? (Il verbo viene usato da lui
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stesso nel diario). Il fatto che segna la svolta è l’uccisione di un prete a lui
molto caro, padre Rutilio Grande, che conosceva molto bene. Ma in realtà è
stato il contatto continuo con la sofferenza, la miseria, il dramma della popolazione più povera a far comprendere che la chiesa non può restare indifferente. Romero continua a mantenersi fedele al Magistero. Le su idee fondamentali su Dio, sulla fede, sulla chiesa restano immutate. Ciò che cambia
è il ruolo che egli assume nella chiesa e nel paese. La novità è il suo atteggiamento fermo di fronte al potere politico ed economico. I sacerdoti e i religiosi del Salvador, che fino ad allora erano stati per lo meno tiepidi nei
suoi confronti, ora si stringono attorno a lui, riconoscendolo come propria
autorevole guida.
È proprio la fedeltà alla Chiesa a portare Romero su posizioni coraggiose, di cui restano memorabili le prediche domenicali nella cattedrale, anche due ore di lettura e analisi dei casi di omicidio, tortura e rapimento avvenuti nella settimana. Il Concilio vaticano II non è passato invano e il vento
della novità, dell’apertura, dell’attenzione al mondo che esso porta, arriva
anche in Salvador. Anche la riflessione che viene sviluppata a Medellin
nell’estate del 1968 da parte della seconda Conferenza generale dei vescovi
latinoamericani lascia tracce in Romero. Nei testi approvati si dichiara la
“scelta preferenziale per i poveri” e si sottolinea la necessità che la chiesa si
impegni in modo concreto nella denuncia delle ingiustizie sociali, presenti in
America latina in forme strutturali. Per Romero, Medellin rappresenta un
segno di unità della chiesa latinoamericana, un’applicazione dello spirito del
Vaticano II all’America latina.
Alla terza Conferenza generale dei vescovi latinoamericani (gennaiofebbraio 1979) Romero è presente e vive intensamente e da protagonista
l’esperienza. Le conclusioni confermano la scelta di Medellin e non sconfessano (come la destra chiedeva) la teologia della liberazione.
La semplice fedeltà, messa in atto con coerenza coraggiosa, a ciò che la
comunità ecclesiale riunita ha deciso fa di Romero una personalità diversa
semplicemente perché gli apre gli occhi e lo matura all’esigenza di non tacere di fronte alla situazione del suo Paese.
Lo zelante e pio Oscar Romero diventa un implacabile accusatore dei
crimini commessi dall’establishment salvadoregno, muovendo non già dagli
assunti forse marxisteggianti della teologia della liberazione, ma dal più genuino senso della chiesa che ama i poveri e che propugna la dignità della
persona umana.
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Succede così che un vescovo di un paese piccolo, poco più grande della
Sicilia, con soli 4 milioni di abitanti (nel 1977), un punto sulla carta geografica mondiale, diventi un caso internazionale e un riferimento non solo interno per chi lotta per la giustizia.
È una lotta impari, che, come quella di tanti testimoni, costa la vita.
Romero, infatti, viene messo a tacere il 24 marzo 1980, colpito da una fucilata sull’altare mentre sta celebrando la messa.
Il volume di Anselmo Palini, vero e proprio “esperto” delle figure profetiche del Novecento (ha al suo attivo numerose pubblicazioni in merito),
rende conto con grande precisione e documentazione (basti pensare alle ben
281 note, che senza appesantire la lettura forniscono a chi lo desidera la possibilità di molti approfondimenti) del percorso umano, religioso e culturale
di Romero. E lo fa anche lasciando spesso a lui la parola: oltre un terzo del
testo riporta scritti del martire, che rendono in modo diretto, a volte con
drammaticità, lo spirito del tempo e il vissuto umano del sacerdote.
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Libri
L’italiano per i nuovi italiani
MARCO FURGERI
C
on una operazione inedita e ambiziosa, la casa editrice Il Margine si
apre alla manualistica. Italiani anche noi è un corso di lingua italiana,
rivolto a ragazzi e adulti stranieri di recente immigrazione, diverso da tanti,
pur validi, che capita di leggere. Non è infatti un semplice manuale di
italiano L2: si presenta bensì come un piccolo libro d’arte, capace di unire,
in maniera affatto originale, glottodidattica e narrativa. Obiettivo del testo
non è soltanto quello di insegnare la lingua italiana – obiettivo che, peraltro,
persegue con notevole finezza metodologica – ma anche, per quanto
possibile, quello di farne gustare il sapore, di instillarne l’amore. Fin dalle
prime pagine, la lingua è porta allo studente/lettore come un bene vitale e
prezioso. Come dice nella prefazione Eraldo Affinati, autore dei 25 racconti
inediti che accompagnano ciascuna lezione e che raccontano le storie vere e
toccanti dei nuovi italiani, «questo libro nasce da un sogno: insegnare la
lingua italiana agli stranieri, come se parlare, leggere e scrivere fossero
acqua, pane e vino. Senza voti. Senza registri. Senza burocrazie. Lavorando
sul presente con chi c’è, con quello che abbiamo. Cercando di dare a ognuno
ciò di cui lui, o lei, ha bisogno». L’idea è quella di trasmettere una lingua
viva, attuale, e tuttavia non semplificata o immiserita. Accanto agli esercizi
sui fonemi e a quelli per imparare a scrivere da sinistra a destra, utilissimi
per i ragazzi che conoscono soltanto l’arabo, troviamo dunque esercizi, non
meno accurati, sul futuro anteriore, sul trapassato remoto, sull’arduo (anche,
sempre più, per gli italiani) congiuntivo... I “nuovi italiani”, secondo gli
autori, meritano, se lo vogliono (se hanno la possibilità di approfondirlo),
“tutto” l’italiano.
Il libro mette a frutto la straordinaria esperienza didattica delle scuole
per stranieri “Penny Wirton”, gestite da volontari e diffuse in tutta Italia, da
Sud a Nord, dalla Calabria al Piemonte... Il nome Penny Wirton è ispirato al
protagonista di una favola composta da un grande scrittore italiano, Silvio
D’Arzo. La storia è quella di un ragazzo che non ha mai conosciuto suo
padre e che, dopo alterne avventure, si riconcilia col proprio passato (il
padre assente) e con il proprio presente. Come spiega ancora Eraldo
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Affinati, «Penny oggi si chiama Omar, Faris, Arif, Mustafà, Kabil, Assad».
Nel testo, i bellissimi, e coloratissimi, disegni della pittrice Emma
Lenzi danno un corpo e un volto ai molti Penny Wirton, alle prese con l’
“avventura” dell’apprendimento dell’italiano, e con la sfida, ancor più
ostica, dell’integrazione... Proprio come un’avventura sembra, d’altra parte,
essere concepito l’intero percorso del libro, disseminato di prove e cimenti
(il testo è ricchissimo di esercizi, distribuiti in 25 lezioni, cui si aggiungono
un’Anticamera, per chi parte da zero, e un’appendice di test), ma anche di
chiari e preziosi ausilii grammaticali, ideati e approntati da Anna Luce
Lenzi, che è anche la curatrice del libro, felicemente realizzato a più mani.
In un periodo in cui, a chi disperatamente chiede pane, non si esita da
più parti a proporre (dentro e fuor di metafora) che si diano pietre, il testo di
Anna Luce Lenzi, Emma Lenzi ed Eraldo Affinati appare invece un (piccolo) pane, fragrante e caldo, preparato ed offerto con generosità ed
ammirevole passione.
Nuove proposte per l’abbonamento a “Il Margine”
Coloro che sono in regola con l’abbonamento 2011 potranno già ora richiedere, scrivendo all’indirizzo [email protected], che venga loro inviato il file pdf
dei singoli numeri, all’indomani della chiusura in tipografia.
Per i nuovi abbonamenti, a partire dal marzo 2011, vi sono invece tre possibilità: si può come sempre sottoscrivere un abbonamento cartaceo tradizionale a 20
euro (o 30, come quota sostenitore); si può abbonarsi alla rivista cartacea, ma richiedere anche l’invio del pdf del numero, a 22 euro annui; si può anche accontentarsi
di ricevere per un anno solo il pdf nella propria casella di posta elettronica, a 8 euro
all’anno (specificare l’indirizzo e-mail nella causale del versamento).
Gli abbonati in forma parzialmente o totalmente elettronica si impegnano moralmente a non inviare sistematicamente ad altri il file ricevuto, e soprattutto a non
ripubblicare elettronicamente o fisicamente gli articoli in alcun modo senza esplicita
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Ricordo che i versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il
Margine», c.p. 359 – 38122 Trento o sul conto corrente bancario con le seguenti coordinate: IBAN: IT25J 07601 01800 000010285385. Speriamo in questo modo di
riuscire a far conoscere in nostri articoli in modo più tempestivo e di ampliare il numero di coloro che seguono la nostra rivista. (E.C.)
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