CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS di

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CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS di
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[Ho segnato in rosso le correzioni, in rosso le ripetizioni e i
passaggi dubbi, in verde la spiegazione della mia
annotazione.] GISELDA
CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS
di Dario Fo
testo e traduzione a cura di Franca Rame e Giselda Palombi
Collaborazione alla stesura dei testi Carlotta Colli.
Revisione Roberto Shaw.
Collaborazione alle immagini Michela Casiere.
Antonio Allegri (supposto autoritratto), meglio conosciuto come il Correggio, oggi nella
memoria di chi si occupi di pittura, in particolare di quella del Rinascimento italiano, lo
troviamo sistemato in una classifica mediana. Anzi va sottolineato che già nella prima metà del
secolo passato, senza i dirompenti studi e saggi di Roberto Longhi e Federico Zeri a riscoperta
del Correggio, egli si ritroverebbe ad arricchire la pletora degli pseudo ignorati.
Infatti all’inizio del secolo l’attribuzione di opere al grande pittore padano si limitava a pochi
dipinti scelti fra i meno importanti. La sua vasta produzione era stata letteralmente sottratta
all’autentico autore e pitture straordinarie come L’educazione di Cupido con Venere ignuda o la
stessa dea dormiente spiata dal satiro o Giove che si tramuta in nube per godersi la splendida Io,
Il ratto di Ganimede, Danae posseduta da Giove che si è trasformato in monete d’oro, erano
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state impunemente tolte al Correggio per passare ad arricchire la produzione di Tiziano, di
Lotto, di Giorgione e perfino di Raffaello.
Per restituire il maltolto al legittimo autore ci vollero veri e propri raid di riscatto combattuti da
un tenace esercito di critici italici e stranieri. Per quanto poi riguarda l’opera oggi più
conclamata del Correggio, cioè a dire i giganteschi affreschi delle cupole di Parma (immagine
cupole 2), essa era letteralmente finita nell’oblio, spazzata via da un uragano di vuoto culturale.
Senza la follia di un vasto gruppo di cittadini del Parmigiano, pardon, parmensi, prima fra tutte
la sovrintendente Lucia Fornari Schianchi, l’ultima operazione di ripristino del valore
dell’Allegri non sarebbe mai stata compiuta.
Stiamo parlando della spericolata messa in opera delle torri d’acciaio realizzata nella cupola;
macchine che, nei primi anni del XXI secolo, hanno permesso al pubblico di raggiungere i 18
metri d’altezza dentro la cattedrale (impalcature tav 3). Grazie a quel marchingegno, migliaia di
visitatori si sono così trovati all’istante sotto quell’immenso cielo sfondato da angeli che
impunemente svolazzavano intorno a dozzine di santi spaparanzati su nubi e putti che
apparivano all’istante fra le gambe dei beati in uno scorrazzo festoso. Senza quell’impianto
d’ascensione tutta l’opera sarebbe rimasta unica fonte di piacere solo per uccelli sperduti entrati
per errore nella cattedrale e per qualche pipistrello ubriaco a causa di tanti svolazzi senza senso.
Tornando alle origini di Antonio Allegri, dobbiamo costatare che egli non ha goduto di ciò che
normalmente si dice un’infanzia facile e serena: venne al mondo nel 1489 a Borgovecchio di
Correggio in un’angusta dimora (casa 4) posta su due piani nella quale la famiglia degli Allegri
aveva ricavato poche stanze dentro le quali si ammassava una numerosa famiglia composta dal
padre Pellegrino, la madre, un suo fratello, lo zio Lorenzo con moglie e numerosa prole, cinque
ragazzini, che si aggiungevano ai fratelli e alle sorelle del piccolo Correggio (famiglia 5).
Il padre s’arrangiava battendo la piana nelle vesti di venditore di stoffe rustiche e altri manufatti
di basso valore e prezzo, i cosiddetti “Reverendoli e Bochari”(immagine 6), termini che
alludono al rivenditore anche di capi dismessi, aggiunto a quello di “vociante” corretto in
“bocharo”, cioè l’ambulante che dà la voce della sua presenza urlando nelle vie dei borghi per
ottenere l’attenzione di possibili clienti: insomma, una specie di vo’ cumprà dell’epoca! Un
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mestiere di cui non esisteva protezione di corporazione alcuna tanto che Pellegrino, nome che
indica già un programma, se ne inventò una, quella di mercante de bòn prèscio.
Quindi abbiamo stabilito che Antonio nacque in un borgo in zona bassa. Anche Giorgio Vasari
testimonia che Allegri e la sua famiglia fossero di modeste origini, ricchi solo di prole. La
presenza numerosa di ragazzini, maschi e femmine, era una costante nel mondo contadino così
come in quello dei girovaghi di quel tempo e Correggio, che ebbe a sua volta quattro figli, fu
certamente condizionato da quella perenne presenza festosa di fratelli, nipoti e figlioli.
Lo zio Lorenzo era pittore e Antonio ragazzino di certo imparò i primi rudimenti della pittura
da quel maestro di casa, un maestro di doti minime tant’è che il nipote, ancora giovanissimo,
come assicura il Vasari, lo sorpassò ben presto nell’arte.
Eppure, in tanta difficoltà, il mercante dai prezzi stracciati esibiva un carattere del tutto positivo
tanto che veniva soprannominato “el Domàn”, a intendere qualcuno che proietta a un prossimo
futuro la propria fortuna. Evidentemente il figlio, apprendista pittore, gli assomigliava, tant’è
che a sua volta veniva chiamato “el Domàn”. Ma il Correggio non era certo propenso ad
attendere con speranza che la fortuna arrivasse per conto proprio. E qui ci viene in mente un
geniale discorso poetico-filosofico di un altro grande personaggio nato in difficoltà e poi
cresciuto, contro ogni previsione, a livelli umani e d’arte straordinari: stiamo parlando di
Angelo Beolco, detto il Ruzzante (ritratto 7), contemporaneo del Correggio, nato esattamente
nell’anno 1500, generato da un ricco rampollo di nobile famiglia lombarda e partorito dalla
madre, una servetta, in piena campagna perché non si sapesse della sua vergognosa nascita. Il
brano che vi proponiamo ha un titolo curioso: “La vita” (immagine La vita 8). Eccovi il
discorso in questione.
Non conoscete gente al mondo che vivendo una vita lunga sia giunta ai cento anni? La
conoscete? E ci sono persino di quelli che hanno passato i cento anni di qualche anno. Vi dirò
che ce ne sono di questi “campa a lungo” una grande quantità, che si sono accorti che sono stati
al mondo solamente quando sono morti. E loro stessi, finalmente, si sono accorti d’esser stati
vivi solo nel momento in cui l’anima loro tornava al creatore. Dunque è la morte che li ha fatti
accorgere della vita. Ma non sapendo quelli d’essere mai stati vivi quando lo erano, vuoi tu
chiamar campare questo loro transitar in vita? No di sicuro. Anche se tu aggiungessi un
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centinaio di vite a questa prima vita, un’altra vita aggiunta all’altra e un’altra ancora, quelli non
avrebbero mai avuto una vita sola da chiamare vita. Di contro, se uno stesse al mondo giusto il
tempo della giovinezza e in questo breve passaggio ognuno di lui e del suo stare in vita si fosse
accorto per il suo valore e peso, e quindi alla sua dipartita tutti provassero duolo, non si
dovrebbe chiamare maggior vita la sua? Ordunque, come nel grappolo d’uva non è la grande
abbondanza degli acini che rende il vino meraviglioso e vivo, e nemmeno l’estensione dei filari
che fa sembrare pregno di spirito profumato alla follia questo liquido stregato... così non è tanto
il numero dei giorni che stiamo vivendo la ragione che ci rende consci di star campando una
vita degna, quanto piuttosto il nettare nel nostro graspo spremuto carico di ingegno, sapore,
follia e conoscenza impregnate di una «stramberia fantasticante», così generosa da far sì che
quando all’istante finisce la tua vita, similmente nella vita degli altri viene all’improvviso a
mancare qualcosa della loro vita. Gran sorte è quindi una vita piena di stralunamenti come un
albero che butta mille fiori e i rami si distendono a pettinare l’aria e giocano a danzare col vento
e non gli importa di spampanarsi intorno, sperdere fiori e far risate che paion di spavento.
Questo albero si sogna di essere albero maestro di una nave grande con le vele di trinchetto e
rande gonfie e piene come pance di femmine ingravidate. Così follia e allegrezza, aggiunte alla
ragione, spingono a più lunga vita, se questa tua vita non la vai vivendo di nascosto, ma con gli
altri legato, così generoso che non t’importa di spendere tutto questo tuo campare per far sì che
ci sia giocondità, libertà e giustizia per la gente tutta.
È da lì che nasce l’eternità della vita.
E io vado sperando che il giorno in cui me ne andrò morendo, la gente dica: «Peccato che abbia
finito di campare: era così vivo, da vivo!»
Antonio era fortemente dotato e così carico d’ansia del sapere non solo nella pittura, ma anche
nell’apprendimento di ogni conoscenza, dalla geometria alla matematica, dalla meccanica alla
filosofia. Il vantaggio nell’apprendere le basi regalatogli dalla sorte, per il Correggio era quello
di trovarsi nel pieno della sua infanzia in una famiglia povera di mezzi, ma dotata di un grado di
alfabetizzazione piuttosto avanzato. Per di più uno dei figli dello zio pittore, maggiore di lui, in
quel tempo si laureò a Bologna nel collegio degli studi poveri ed esercitò la professione medica.
Inoltre due suoi zii, Cristoforo e Giacomo, erano insegnanti. Da questa favorevole condizione
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nasce la straordinaria predisposizione dell’Allegri per il sapere, da quello umanistico allo
scientifico, (tav 9) anche avanzato e rivoluzionario, del tempo. Ancora in tenera età, godette
dell’occasione che lo portò a incontrare Giovanni Berni, noto umanista piacentino, il quale fu il
suo primo insegnante di scrittura e scienze letterarie. Altro suo maestro fu Battista Marastoni
che gli insegnò l’arte dell’eloquenza e della poesia.
A 14 anni, il Correggio va a Modena alla scuola di Francesco Bianchi Ferrari, maestro
tecnicamente preparato, ma scarso di personalità e idee nuove. Lavora con grande passione ma
non tralascia lo studio delle scienze. È in quel momento che incontra il medico Gianbattista
Lombardi docente all’università di Ferrara che lo istruisce sulla medicina, la dialettica e la
logica.
Intanto il DNA ereditato dal padre Pellegrino, ambulante, lo spinge a cambiare spesso luoghi e
maestri. Infatti di lì a poco il giovane Allegri che ha appena compiuto 15 anni si trasferisce a
Mantova, città del Mantegna, dove dipinge con Francesco, figlio del grande maestro dello
scorcio, (tav 10) morto qualche anno prima. Partecipa alla realizzazione degli affreschi nella
cappella tombale del maestro su progetto dello stesso Andrea Mantegna, seguendo i disegni
preparatori già realizzati da lui stesso qualche tempo prima di morire.
A Mantova ha l’occasione di vedere per la prima volta dal vivo i dipinti su parete del Mantegna
sistemati nel Palazzo Ducale e nelle varie chiese da lui affrescate. Nella casa dello stesso
Mantegna (tav 11 palazzo Mantegna) potrà perfino toccare sculture, le prime stampe incise e un
gran numero di disegni preparatori di famose opere tra le quali lo scorcio di Cristo deposto
dalla croce (tav 12 Cristo morto di Mantegna). Inoltre nei palazzi dei Gonzaga e negli
appartamenti di Isabella d’Este grazie all’intercessione di Francesco Mantegna ha l’occasione
di godersi i giganteschi dipinti su tavola dedicati al Trionfo di Cesare che di certo lo lasciano
senza fiato. E’ qui che l’ancor giovane Correggio capisce d’aver incontrato un suo
incomparabile maestro. Infatti tutti i successivi dipinti di lì a dieci anni testimonieranno, seppur
anche sotto pelle, la presenza del grande pittore di Padova.
A testimonianza basta osservare un’opera dell’ancor giovane Allegri di notevoli dimensioni
dove è raccontato il Trionfo di David (tav13 Trionfo di Davide libro: Correggio pag 53): qui
notiamo subito l’analogia compositiva di questo dipinto con le tavole dedicate proprio al
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Trionfo di Cesare (tav 14 trionfo di Cesare) del Mantegna a partire dalla positura in cui ci
appaiono i protagonisti in primo piano. Come nella tela dedicata a Giulio Cesare, i personaggi
principali si ritrovano quasi in equilibrio lungo la cornice dell’opera.
Il punto di vista in tutta la sequenza di Mantegna e nella sfilata trionfale di Davide è situato in
basso, sotto il livello della base dei dipinti. In particolare, la tavola dedicata al re biblico
riproduce atteggiamenti, situazioni e perfino animali, bandiere e drappi collocati con grande
evidenza anche dal Mantegna in quella sua imponente pittura.
L’allievo qui ripropone lo stesso clima scenico dove una caterva di oggetti arraffati nel
saccheggio sono presentati l’uno sull’altro fra un toro, spade esibite da guerrieri e trombe a
corno trionfali, mentre lassù si affacciano, lungo la collina, palazzi, chiese, torri, campanili in
condizioni precarie: è l’allegoria del mondo decrepito che bisogna abbattere e abbandonare.
Ma oltre a Mantegna ecco apparire un’importante citazione dal dipinto I tre filosofi del
Giorgione (tav15) grazie ad un personaggio quasi identico, il filosofo arabo con zuccotto
contorto che sta appresso al sapiente cristiano avvolto in un mantello riccamente panneggiato, e
che ritroviamo nelle vesti di un personaggio analogo in un altro dipinto della prima maturità
dell’Allegri, cioè nel San Girolamo insieme a un folto gruppo di beati e di martiri, fra i quali
San Sebastiano e Sant’Elena che regge una grande croce (tav. 16). L’insieme dell’incontro fra i
santi è situato di fronte a un paesaggio incorniciato da alberi di un fitto bosco attraverso il quale
il cielo viene rigato come da inferriate di rami e fronde: anche questo particolare compositivo
ha origine da Giorgione e da altri pittori veneti e lombardi del tempo, quali lo stesso Mantegna
e Dosso Dossi.
Nel suo ricercare con costanza e caparbietà opere degne di essere studiate, il giovane Correggio
scopre di possedere una grande dote: una memoria visiva davvero eccezionale. Di lui i suoi
contemporanei del mestiere dicevano che fosse una vera e propria spugna: gli bastava uno
sguardo su un dipinto per essere in grado di ridisegnare immagini e personaggi per intero.
Del resto, in tutta la storia dell’arte si incontrano allievi fortemente dotati che all’inizio del loro
percorso d’apprendistato si sono giovati di grandi maestri, vedi Tiziano con Giorgione,
Leonardo con il Verrocchio, Giotto con Cimabue e Cavallini, Michelangelo con il Ghirlandaio;
ma in tutto il Rinascimento ci imbattiamo in altrettanti smisurati talenti che non trovando una
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bottega che li ospiti sono costretti ad apprendere il mestiere andando intorno per musei e
collezioni. Così succede anche al nostro Correggio che si ritrova a vagare come una trottola in
ogni dove e a rubare immagini, idee e soluzioni studiando sulle copie stampate o incise di artisti
inavvicinabili di persona come Leonardo, Raffaello o maestri della scuola ferrarese e
veneziana. Per cui quando osserviamo un dipinto dell’Allegri eseguito nei primi anni del suo
apprendistato scopriamo tavole e tele la cui composizione delle figure ci appare di continuo
organizzata quasi all’azzardo traendo idee e soluzioni da autori diversi.
Ma per aver prove più chiare di quanto andiamo asserendo, ci basta leggere il commento
analitico che ci offrono alcuni affermati critici circa un ben noto dipinto eseguito dall’Allegri
ancora ragazzo: si tratta della Madonna del San Francesco tavola ad olio di grandi dimensioni
(299 x 245) del 1514 (tav 17). Correggio non era ritenuto un artista precoce e fino ad un secolo
fa quasi nessuno fra tutti critici accettava che questa grande tavola fosse opera sua: si parlava di
pittori lombardo-veneti, specie di Mantova e Ferrara.
Il Morelli, ottimo studioso, a proposito di quest’opera, mette addirittura in dubbio la formazione
mantegnesca da tutti normalmente accettata, per collegarla invece al Costa (caposcuola dei
maestri ferraresi) puntando soprattutto sulle caratteristiche del monocromo del basamento.
Ma il Venturi nel 1915 già analizza le varie esperienze culturali che ritiene presenti nell’opera:
a suo dire, la Madonna col Bambino deriva direttamente dalla Madonna della Vittoria del
Mantegna (tav. 18 Correggio di Skira, pag. 123), la figura del Battista situata a destra della pala
sarebbe quasi identico al Battista in Organo a Verona, i cherubini sembrano la riproduzione
precisa di quelli della tavola della Madonna in trono con i santi Girolamo e Sebastiano del
Bianchi Ferrari ( tav. 19 cfr. Correggio di Skira, pag. 47) di cui il Correggio è stato allievo agli
esordi. L’impianto compositivo del trono senza schienale è tratto senz’altro da un analogo
dipinto del Francia, così come l’immagine della Santa Caterina a destra della Vergine e le
decorazioni dei capitelli. A questo proposito, lo stesso Venturi dichiara: “la pala dell’Allegri è il
risultato compositivo e pittorico di un centone1 di motivi quattrocenteschi”. Ricci, altro noto
critico, aggiunge ai giudizi del Venturi l’annotazione di alcuni elementi leonardeschi per la
figura del San Giovanni nonché l’inserto di modelli assunti dal Perugino. E per finire il Longhi
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Il centone è una composizione musicale composta all’ingrosso di diversi autori scelti a caso.
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individua nell’opera una vera e propria “crisi culturale” accentuata dall’eccessiva quantità di
riferimenti a più che noti pittori compreso Raffaello di cui, dice, si sente l’eco della Madonna di
Dresda, in quel tempo a San Sisto di Piacenza dove il nostro Allegri ha avuto senz’altro
occasione di conoscerla dappresso. A questo punto non ci resta che alzarci in piedi e gridare in
coro: ladro! Ma questo insulto ci viene subito serrato nella gola da una dichiarazione di Picasso
in persona che a questo proposito dichiara: “Il pittore comune di buon mestiere quando scopre
un’opera di gran prestigio vi coglie l’ispirazione, il grande pittore invece non se ne accontenta:
ruba tutto!”
Ma a parte il lazzo e il ghiribizzo ci dobbiamo rendere conto che quel metodo spesso caotico di
usare delle genialità altrui, a lungo andare, diede notevoli frutti tanto sul piano del mestiere che
della creatività.
Oltretutto, un’altra notevole dote procurava vantaggio al giovane pittore: era quella determinata
dalla giocondità del suo carattere, il cognome di Allegri gli era assolutamente appropriato
giacchè egli fin da ragazzo dimostrava una forte predisposizione al gioco ironico e scherzoso e
strada facendo ve ne daremo dimostrazione trattando delle sue opere.
Torniamo al problema della sua crescita sul piano culturale e cerchiamo di andare a fondo di
come il Correggio riuscì ad arricchirsi della conoscenza e del sapere. ????
La spinta determinante raccoglie l’abbrivio dall’incontro dei monaci benedettini nel convento di
San Paolo a Parma. Si può ben dire che per tutto il Medioevo e il Rinascimento questi monaci
furono preziosi detentori della cultura in Europa. A pochi chilometri da Piacenza esiste ancora
il monastero benedettino di Broni che, con quello di Benevento, hanno raccolto per secoli un
numero incredibile di codici, scritti e documenti provenienti da tutte le civiltà mediterranee, a
partire dai Sumeri fino ai Greci e oltre. In più, in quel periodo i monaci benedettini (tav. 20
disegno con i monaci al lavoro in biblioteca), spesso in duro conflitto con la curia romana,
partecipavano alla ricerca umanistica, allo studio di filosofie non omologate e soprattutto
ponevano grande attenzione allo sviluppo della nuova scienza, specie quella sulle teorie
eliocentriche che avevano il loro fulcro di studio nelle università di Bologna e Ferrara.
Guarda caso, in queste due Università, aggiunta quella di Padova, era studente agli inizi del
‘500 proprio Copernico (tav. 21 ritratto). Suo maestro diretto era Domenico Maria Novara che
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aveva tradotto dal greco le intuizioni e le deduzioni di Aristarco da Samo, Ipparco di Nicea e
Claudio Tolomeo (tav. 22 ritratto): tre grandi figure della storia del pensiero, modernissime,
tanto che si fatica a collocarle a quasi diciotto secoli di distanza da Copernico. Questi scienziati
dell’antica Grecia utilizzarono in maniera estesa la geometria e la matematica per analizzare i
fenomeni astronomici: arrivarono a misurare, servendosi della proiezione delle ombre prodotte
dall’astro solare al suolo, la distanza dalla Terra al Sole e di conseguenza quella dal satellite
terrestre al Sole e alla Terra (tav. 23 disegno del sistema copernicano).
Correggio viene letteralmente coinvolto dalle idee assolutamente sconvolgenti che quei monaci
gli propinano a valanga e nello stesso tempo la reazione del giovane artista così entusiasta
produce una grande simpatia e ammirazione nei suoi riguardi da parte dei monaci che
immediatamente lo ingaggiano per progetti immediati di pittura, soprattutto in affresco, dei
quali tratteremo tra poco.
Nello stesso momento l’Allegri lavora al monastero delle suore benedettine dove viene in
contatto per la prima volta con la famosa badessa Giovanna da Piacenza, una donna di
eccezionale cultura oltre che di fascino, di cui pare fosse notevolmente dotata (tav 24).
La nobildonna gli commissiona di affrescare la famosa Camera Alchemica, in particolare la
volta che il Correggio propone di dividere in lunette fitte come raggi proiettati dal sole. Egli qui
ha l’idea di dar volume alle figure illuminandole dal basso come se un gran numero di candele
sistemate su un grande tavolo centrale da pranzo spargesse luce all’insù. Nella volta, inserite
nello spazio fra i raggi (tav 25), ci sono quindici monete sulle quali sono raffigurati putti che
giocano fra loro e si divertono tenendo fra le braccia cuccioli di cani e altri piccoli animali. Le
figure dei bimbi sono di ottima fattura tanto che subito vengono in mente le immagini di
fanciulli dipinte da Raffaello (tav. 26 particolare putti di Raffaello). E’ da qui che alcuni critici
con giusto intuito hanno ventilato per la prima volta l’idea che senz’altro il Correggio già prima
di allora dovesse aver visitato Roma e là avesse osservato con straordinaria attenzione gli
affreschi e le tele del maestro di Urbino. Lo stesso discorso vale per le immagini inserite nei
semitondi (tav 27 + 27 bis) presentati come fossero piatti da portata che nel mezzo illustrano
scene dei miti più famosi della cultura greco-romana come il giovane uomo che toglie un
serpente da un vaso (immagine 28), la Fortuna con la cornucopia (immagine 29) e per finire nel
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triangolo che sovrasta il caminetto Diana col suo cocchio (immagine 30). Alcune immagini
delle decorazioni restano misteriose, solo la badessa ormai avvolta nei panni di una profetessa
alchemica avrebbe potuto forse svelarcene il mistero.
Abbiamo detto e visto la cupola della Camera Alchemica dai raggi solari delle quindici
monete che roteano intorno a un immaginario Sole.
E’ di certo in quella occasione che l’Allegri conobbe la figura di Aristarco (tav 31), lo
scienziato che per primo intuì la nuova idea del sistema planetario. Le straordinarie intuizioni
dello scienziato nato nel IV secolo a.C. in un’isola dell’Egeo, nel ‘500 furono studiate e
divulgate in gran parte delle università italiane, prime tra tutte, oltre quelle di Bologna e
Ferrara, quelle di Pavia e Napoli. A proposito della Campania e dei religiosi vogliamo ricordare
che uno dei più appassionati fautori di questa idea, che capovolgeva la teoria geocentrica, fu
Giordano Bruno (tav 38), un domenicano nato a Nola. Fra gli intellettuali umanisti la
rivoluzione copernicana era seguita con grande interesse. Leonardo aveva dichiarato: “Di certo
non è la Terra al centro del sistema, piuttosto al centro sta il Sole e intorno roteano i pianeti con
la Terra posta in disparte con essi”.
Non soltanto del nuovo sistema se ne parlava sottovoce in qualche università del Nord, ma
addirittura se ne faceva spettacolo in alcune corti come quella di Ludovico il Moro a Milano,
dove Leonardo (disegno del progetto leonardesco 33) aveva addirittura ideato e messo in opera
uno spettacolo agito per mezzo di uno straordinario impianto scenico mosso da ruote, argani e
ingranaggi che muovevano sfere galleggianti nello spazio dove il tutto proiettava una fantastica
idea del creato.
Scorrendo la vita dei grandi pittori come il Correggio ci rendiamo conto del ripetersi di una
costante quasi identica: la straordinaria importanza che ha avuto nell’evolversi della loro
personalità la presenza di donne eccezionali.
Anche per il nostro Antonio le figure femminili che hanno contato come catalizzatori assoluti
della sua evoluzione sono state almeno quattro: la prima è senz’altro Giovanna da Piacenza,
badessa del Monastero di San Paolo in Parma, che vi abbiamo appena presentato, una figura di
grande prestigio e intelligenza oltre che cultura: è lei che commissionò ad Antonio Allegri
l’affresco della Camera Alchemica e sicuramente gli suggerì anche i temi della
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rappresentazione, a cominciare dalle allegorie scientifiche legate ai miti ellenici per poi
raggiungere la sequenza dei simboli.
Certo non capita tutti i giorni di incontrare una badessa (tav 34) che s’è posta come compito
primario quello di allevare e indurre al distacco dal mondo e dalla vanità un numero cospicuo di
tenere fanciulle e che impieghi un metodo tanto spregiudicato, ma, - guarda tu! - l’inconsueta
educatrice per raggiungere questo scopo si avvale di figure mitiche, cariche di ambigui
significati pagani: il pittore è invitato a presentare satiri che producono armonie soffiando in
conchiglie, (tav 35) Amore che offre luminose passioni (tav 36), la Purezza che avanza
danzando e sollevando la gonna (tav 37), quasi a sottolineare che la danza non è solo simbolo di
vanità e di peccato, ma anche e soprattutto di sacra armonia. Il tutto scorre su trabeazioni e
semicerchi sorretti da capitelli decorati con teste d’ariete (tav 38), segno della potenza costante
del pensiero. Quindi ancora induce l’affrescatore a presentare una fanciulla simbolo della
Verginità (tav 39), che non teme il gesto di sollevare le vesti sopra le ginocchia e agita una
verga sulla quale è spuntato un bianco fiore, e appresso una ninfa che allude al buon Governo e
che va offrendo una cornucopia per indicare fortuna e fecondità. Ancora vediamo sfilare
Minerva che mostra una torcia fiammeggiante e s’appoggia all’asta della potestà. Chiude il
ciclo una conca con le tre Grazie, le tre figlie di Giove ignude che rappresentano splendore,
gioia e prosperità (tav 40): la fanciulla che allude alla Gioia, nel centro, ci volge la schiena e
mostra due possenti glutei, alla sua sinistra lo Splendore che si guarda bene dal ricoprirsi il
pube e i seni, e la Prosperità che si volge quasi indignata nell’atto di insultare l’immaginario
pubblico che la sta spiando con eccessiva morbosità.
Insomma, siamo alla rappresentazione scenica dove la finzione allegorica è segnata dalle
maschere dei montoni di una commedia non necessariamente classica, ma piuttosto della farsa
giullaresca dove i vari arieti ci osservano ammiccanti e spesso irridenti.
Abbiamo già notato come in una delle decorazioni appaia un cranio mozzato e una scure
simbolo del sacrificio atellanesco dove l’immolato purificante si preoccupa di creare ironia e
giocondità. Questa, ormai l’abbiamo già accennato, è la costante fondamentale dell’Allegri, un
nome che è una garanzia: il grande senso dell’umorismo.
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Nel centro la badessa ha chiesto fosse rappresentata una dea che conduce un carro decorato con
ferro e rame, trainato da due possenti cavalli, dei quali si scorgono solo le terga. Naturalmente
quella femmina risoluta rappresenta Diana cacciatrice, (tav 41 diana cacciatrice) armata di arco
e frecce, una figura evidentemente allegorica dedicata alla stessa nobildonna Giovanna: non a
caso l’atteggiamento della dea è tipico di una persona che se ne sta in posizione frontale per
essere ritratta e ci sta guardando senza alcun turbamento. Ci viene naturale l’idea che a posare
per questa Artemide sia stata proprio lei, l’ancor giovane badessa.
Lo stesso volto e sguardo lo ritroviamo nella Maddalena realizzato nello stesso periodo dove la
donna ritenuta dalla tradizione l’innamorata di Gesù ci guarda con la stessa espressione ed
intensità (tav 42). Qui la giovane sta leggendo un libro, atteggiamento che la indica fortemente
incline al sapere. Come è costante in tutte le immagini che rappresentano Maria Maddalena
ritirata in una grotta nella foresta, la donna se ne sta seminuda con un solo grande drappo che le
scende dal capo e le avvolge il petto. È la prima volta che scopriamo una così minuta e
straordinaria verzura dentro un dipinto del Correggio (tav 43): qui sembra che il pittore voglia
misurarsi con Leonardo nella perfezione riproduttiva delle fronde che fanno da cornice alla
santa.
Ma tornando alla dea cacciatrice ci viene logico chiederci perché di questa allegoria. Si può
arguire che, ancora in tenera età, Giovanna per situazioni legate alle solite imposizioni
dinastiche fosse stata costretta a prendere i voti e che da ragazza amasse particolarmente le
battute di caccia e il clima festante che qui la accompagna. Infatti nel pergolato trapuntato da
medaglioni illustrati, leggiamo scene che alludono vivamente all’arte venatoria: si tratta di
bimbi che giocano con piccoli cani da caccia che reggono teste di prede da imbalsamare come
trofei (tav 44). I ragazzini, presentati in numero notevole, ci portano subito a ricordare: quelli di
fattura rinascimentale, mostrano lo stesso incarnato e scoppiano di salute, ma qui nell’affresco
di Correggio, sia i gesti che i volti dei putti non appaiono mai come stereotipi di convenzione,
anzi ad ognuno corrisponde un diverso ritratto ripreso dal vero. A questo realismo l’Allegri era
portato fortemente dalla presenza, nella sua casa, come abbiamo già accennato, di una
strabordante quantità di nipoti che invadevano ogni spazio con i loro giochi e le immancabili
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caciare. E così possiamo sottolineare che il tema del dipinto rientra nel mito, ma la
realizzazione è tradotta nella quotidiana realtà.
La messa in opera architettonica delle stanze della badessa fu evidentemente progettata sotto la
sua direzione: Giovanna s’era anche assunta l’onere finanziario. Era lei quindi che gestiva
quello spazio e che invitava personaggi che partecipavano ai convegni con il dibattito e lo
studio.
Ma quella insolita autonomia non doveva far molto piacere a certi personaggi di potere nella
città tant’è che nel momento in cui la gestione politica e amministrativa di Parma diveniva
totale diritto della chiesa vaticana fu imposto alla badessa di chiudere a tutti gli estranei
l’accesso alle sue stanze. La ormai famosa Camera veniva a far parte della zona riservata alla
clausura; per di più alla nobildonna venne tolto anche l’intero patrimonio di cui disponeva,
denaro che dal quel momento entrava nella regola della comunità dei beni.
L’altra figura femminile che notevolmente ha inciso sulla preparazione intellettuale e umana di
Correggio è stata senz’altro Veronica Gambara (1485-1550) (tav 45).
Antonio Correggio era ancora un ragazzo quando la signora, maggiore di lui di quattro anni,
gestiva con suo marito Giberto X la signoria della città di Correggio. Colta e letterata di valore,
era ritenuta poetessa di notevole talento. Nel suo palazzo ospitò i più famosi scrittori del tempo,
fra i quali Bembo, Ariosto e Tasso. Inoltre ebbe modo di accogliere a corte per ben due volte
l’imperatore Carlo V. La nobildonna era rimasta da poco vedova di Giberto X, che ella amava
appassionatamente, nello stesso tempo in cui incontrò il Correggio presentatogli da Giovanni
Battista Lombardi, il più stimato frequentatore di quel circolo, legato da profonda amicizia col
pittore. Il 3 settembre del 1521 quando il primo figlio di Correggio, Pomponio, venne
battezzato, Lombardi gli fece da padrino. Che il Correggio chiamasse deliberatamente il figlio
col nome del celebre umanista Pomponius Laetus ci dice quanto fosse intenso l’interesse che il
pittore manifestava per la conoscenza e il sapere, passione che di certo gli veniva dal
frequentare personalità quali il Lombardi, la Veronica Gambara e tutta quella corte di poeti e
umanisti che abbiamo testé nominato. Questa è certo l’ovvia ragione che fa dichiarare a
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Ekserdjian2, uno dei maggiori studiosi della pittura rinascimentale, che l’Allegri sia da ritenersi
la personalità più colta fra tutti i pittori del suo tempo.
Di certo la Gambara, donna di straordinaria cultura e fascino, fu determinante nel coinvolgere
l’ancor giovane Antonio nel mondo della ricerca totale per acquisire conoscenza sia dell’antico
che del pensiero novo.
La frequentazione fra l’Allegri e la nobildonna fu costante e intensa tanto che per molto tempo
si ritenne certo che il quadro dedicato ad una nobile signora altri non fosse che il ritratto della
malinconica amica del pittore. Più di un particolare rendeva certa l’attribuzione: le perle che
pendono dal velo sul capo, il tono e la maestà del suo abbigliamento e soprattutto la dicitura sul
bordo della tazza in proscenio dove in lettere greche è scritto “nepenthè”, nome di una bevanda
che reca l’oblio alla memoria e al dolore: è inteso chiaro che quella sofferenza per lei era
impossibile potesse svanire.
Ma più tardi sorge una giusta obiezione: la donna ritratta è di certo legata ai francescani. Lo si
deduce dallo scapolare e soprattutto dal cordone dell’ordine suddetto che le cinge la vita.
Quindi si tratta di Ginevra Rangone, terziaria francescana, che ancor giovane a sua volta perse
il marito Giangaleazzo da Correggio deceduto nel 1517. Dal ritratto si evince chiaramente che
si tratta di una donna di fresco e dolce aspetto. Ginevra, a differenza di Veronica Gambara, è
risaputo, riuscì a superare quella sua disperata tristezza tant’è che si risposò di lì a un anno.
L’inserimento di un’iscrizione greca in un quadro di pittore italiano è a questa data
estremamente insolito. La conoscenza del greco non era per niente diffusa, persino fra i più
istruiti. La scritta è tratta dall’Odissea. Certo, non è di tutti i giorni scoprire che un pittore del
‘500 nato da una famiglia di venditori ambulanti nel piccolo comune di Reggio fosse in grado
di leggere e tradurre tranquillamente un testo di Omero in greco attico.
Ma se è per questo è altrettanto stupefacente, come scopriremo fra poco, che questo figlio di
paesani minori avesse appreso a manovrare un astrolabio così da rilevare le proiezioni delle
distanze e i punti focali sistemati in una cupola a 18 metri d’altezza, che potesse dialogare con i
più colti rettori di Università e che si potesse dichiarare il maggiore fra gli scienziati della
prospettiva e dello scorcio con Piero della Francesca e Andrea Mantegna.
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David Eksedjian, Correggio, Silvana Editoriale, 1997.
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Ora ci coglie un pensiero: fu la colta modella a suggerire al pittore quella dicitura o egli per
proprio conto decise di farne uso?
La stessa immagine del ritratto di Ginevra la ritroviamo nel dipinto dedicato al Riposo durante
la fuga in Egitto (tav 46): qui la Madonna ha lo stesso suo volto e il suo stesso sguardo mesto e
malinconico.
Ma tornando all’altra signora della malinconia, Veronica Gambara, veniamo a sapere che essa
teneva una fitta corrispondenza con Isabella d’Este (tav 47), signora di Mantova. In una di
queste lettere la duchessa, conversando d’arte, chiama il Correggio familiarmente con
l’espressione “il nostro Antonio” e si intuisce come entrambe le due dame mostrassero
ammirazione e stima per il pittore: questo prova a che livello fosse giunta la sua fama e
credibilità.
È risaputo del resto che gli interessi di questa straordinaria signora riguardo alle arti del suo
tempo fossero addirittura proverbiali: fu la prima in Europa a fondare ed organizzare un teatro
con tanto di macchine sceniche e naturalmente una compagnia di attori di professione
anticipando così i famosi comici dell’Arte, trattava con poeti e musici fra i più famosi, per non
parlare della sua passione per la pittura. La duchessa conobbe l’Allegri ancora ragazzo, ma più
tardi ebbe qualche difficoltà ad incontrarsi con lui: la causa di tanta crisi era dovuta alle
avventure galanti del marito Francesco II (tav 48) che l’amava intensamente tanto da renderla
madre per ben nove volte (cinque femmine e quattro maschi), ma nello stesso tempo andava a
scaricare la propria passione anche con altre numerose amanti. Queste continue performance
dell’insaziabile Gonzaga la mortificavano profondamente. Quindi viveva sempre più appartata,
non amava più incontrare chicchessia.
Qualche anno dopo la famosa battaglia di Fornovo presso Parma, l’irrefrenabile Francesco,
comandante della coalizione degli eserciti italiani viene ingaggiato dai veneziani perché
prendesse il comando delle truppe della Serenissima.
Nel frattempo si rende conto d’aver contratto una malattia tipica di chi frequenta prostitute che
normalmente seguono gli eserciti, la sifilide, un morbo terribile e infamante. Isabella ne rimane
sconvolta e non ne vuole più sapere di incontrarsi col marito, ma come si dice, le disgrazie
arrivano sempre a grappolo. Il doge di Venezia scopre che il loro generale, il marchese di
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Mantova, sta tramando con i nemici della Serenissima: il maneggione fa appena in tempo a
fuggire e rifugiarsi presso le truppe della coalizione antiveneziana. Ma il Gonzaga viene
catturato e portato a Venezia, processato e costretto in galera a vita con la condanna di
tradimento.
Le vicissitudini provocano a Isabella un dolore che la porta a gonfiarsi come affetta da obesità
straripante al punto da non riuscire più a salire le scale, perciò è costretta a vivere al pian
terreno del castello dei Gonzaga. Ciononostante si butta con disperato impegno a scrivere
lettere e inviare messaggeri presso la Repubblica veneta e perfino dal papa per fare sì che il
traditore venga perdonato e tolto di galera. Dopo numerosi tentativi andati a vuoto Isabella
riesce a ridare al marito la libertà. Dopo qualche anno, nel 1519, Francesco, consumato dalla
orrenda malattia, muore.
Siamo nella primavera del 1517, una data per l’Allegri fondamentale, diremmo magica, quando
gli viene messa a disposizione un’enorme stanza nel complesso del monastero dei benedettini di
Parma perché egli possa eseguire i cartoni per l’affresco che dovrà decorare l’intera cupola del
San Giovanni Evangelista.
Il Correggio ha deciso di far apparire Cristo lassù nel centro della cupola dentro un immenso
catino lungo 9 metri e largo 8 (tav 49 e tav 50). Nel cielo il corpo di Gesù alluderà nei gesti a un
lento volo. Intorno a lui centinaia di teste di bimbi si vedranno affiorare appena illuminati da
una luce dorata proiettata dalla figura del figlio di Dio che qui, come nella metafisica socratica,
rappresenterà il Sole.
Intorno appariranno i dodici apostoli sdraiati su nubi sorrette e spinte da putti che agiranno
come in una grande giostra. Ogni figura si muove sottolineata dal vento che agita i capelli, le
vesti e i mantelli dei santi. La luce costante che dà vita agli apostoli, alle nubi e ai putti,
proviene da Cristo. Qui l’idea del turbinare astronomico si sviluppa con una forza allegorica
sconvolgente.
Naturalmente la trasposizione metaforica permetteva di celare l’esplicito discorso scientifico
rivoluzionario dell’universo. Siamo nel 1517, proprio negli anni in cui si organizza la
Controriforma, e in quel clima non era molto agevole e conveniente dichiararsi entusiasti del
capovolgimento che negava la teoria tolemaica. Infatti Copernico, proveniente da Varsavia,
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trovandosi all’università di Ferrara, invitato dal Papa Leone X a Roma a illustrare la propria
idea del creato, glissò decisamente l’invito e ritornò nella sua Polonia più tranquilla, per non
scendere mai più in Italia. Quando si dice: il terrore di scoprirsi inquisiti dal Santo Tribunale.
Ma protetto come si sentiva l’Allegri dai suoi fratelli benedettini, il timore di trovarsi sotto
indagine non lo sfiorava nemmeno.
È la prima volta nella storia della pittura che un artista riesce a realizzare una serie d’opere
tanto azzardate, quasi impossibili: stiamo parlando tanto della cupola di San Giovanni (tav 51)
che quella nel Duomo di Parma (tav 52). Va ricordato che la Cappella Sistina e le sue volte
furono affrescate da Michelangelo circa 15 anni dopo e il Giudizio Universale tra il 1536 e il
1541, cioè 18 anni più tardi. E ancora, prima dell’Allegri nessuno mai aveva realizzato un
affresco su una cupola posta così in alto. Nel primo grande affresco di Parma, su un lato, nel
cerchio di base, è evidente la figura di San Giovanni. Infatti la scena è dedicata al racconto della
sua visione, evento accaduto poco prima della morte. Sembra quasi di udire la voce del quarto
evangelista che narra la nascita dell’universo, noi abbiamo scelto di pubblicarla nella traduzione
dall’originale greco proposta dal Diodati, uno dei primi traduttori in volgare della Bibbia, alla
fine del ‘500:
“Nel principio la Parola era, e la parola era appresso Dio, e la Parola era Dio. In lei era la vita, e
la vita era la luce degli uomini. E la luce riluce nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno
compresa. Colui che è la luce vera, la quale allumina ogni huomo che viene nel mondo, era”.
Per dipingere la visione di San Giovanni narrata sull’intera conca della cupola, il Correggio
impiegò due anni, dall’inizio del 1520 alla fine del 1521. Per riuscirvi inventò macchine e si
servì di apparecchiature inusitate. Innanzitutto, è quasi certo disegnò l’intera azione scenica sul
pavimento quasi a specchio della cupola. Per riportare sul piano di base dell’arcata le distanze e
le collocazioni dei personaggi che avrebbe dovuto dipingere lassù, realizzava sul pavimento i
calcoli per mezzo dell’astrolabio, (tav 53 e tav 54) l’apparecchio a cerchi intersecati e
concentrici di cui si servivano i marinai per orientarsi misurando la distanza che intercorre fra le
stelle.
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A questo punto sul testo viene mostrata una paradossale allusione scenica del progetto
dell’impalcatura che sale per l’intera cupola, voluta e gestita dai monaci che a Parma sono
anche gli impresari del Duomo, anch’esso in ristrutturazione. (tav 55)
Parma da ormai mezzo secolo è diventata un solo enorme cantiere, non si progettano e
costruiscono solo chiese, ma anche un gigantesco ed altamente operativo ospitale, più numerosi
edifici pubblici per la gestione amministrativa dell’intera città. (tav 56)
Ma dove e in conseguenza di che situazione è nato e sta sviluppandosi questo particolare
momento positivo di Parma?
Tutto ha origine e si propaga nell’intera Lombardia grazie ad un nobile decesso, o se preferite,
al decesso di un nobile… nonché principe: costui è Filippo Maria Visconti (tav 57) che muore
nel palazzo ducale della capitale lombarda nel 1447 creando un impressionante vuoto di potere
nella città e nell’intera regione. Dopo un attimo di sgomento la popolazione di Milano proclama
l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Lo stato visconteo si era esteso in quel tempo fino a Parma,
Bologna, Pisa, Siena, Lucca e Perugia e all’istante si sparge anche nel nucleo più antico delle
città lombarde.
Parma diventa la proclamatrice della “libertas comunalis”, acquistando, come Mantova,
Cremona, Brescia e tutte le città della piana del Po, una completa autonomia politica e
giuridica: riappare la “libera magistratura della ragione” gestita con il ritorno degli anziani
‘rettori’ dei Comuni (tav 58). Nel governo della città rientrano i mercanti e gli artigiani, i
popolari e i meccanici (tav 59).
In questa situazione ancora incerta, i veneziani cercano di approfittare dell’empasse politico e
amministrativo per appropriarsi dei terreni e delle città meno protette nei territori dei nuovi
liberi.
Ma nel nuovo territorio i ‘liberati’ non ne vogliono sapere di questa prepotente ingerenza e
organizzano la resistenza. Nel 1448 a Casalmaggiore i lombardi con Francesco Sforza
sconfiggono i veneziani, ma vedremo che, come succede spesso, gli alleati, guerrieri di
professione, riusciranno a mangiarsi terre e autonomia degli insorti.
Come ci spiega Marzio Dell’Acqua nel testo Correggio e le sue cupole, la creazione della
Repubblica parmigiana, la fragilità politica e militare delle nuove strutture, le contraddizioni fra
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il ripristino dell’antico e le difficoltà di dare forma al nuovo, spingono capitani che avevano
militato nelle armate di Filippo Maria Visconti a portarsi a Parma con proprie truppe e cercare
di riconquistarla per poi guadagnarsi una signoria di dominio del contado e della città. Il più
aggressivo di questi è senz’altro Pier Maria Rossi. Ma gli attacchi e le aggressioni continuano
finché ecco finire la breve ma intensa parentesi della libertà parmigiana che non è riuscita a
neutralizzare le potenti e consolidate aristocrazie del contado. Ciononostante, il biennio
libertario ha avuto un grande pregio, quello cioè di far conoscere alle classi della nobiltà
cittadina, soprattutto ai mercanti e agli artigiani nonché al popolo minuto, una forza che non
credevano o non sapevano di avere, una possibilità di autonomia e riscatto dalle antiche fazioni.
Così anche per questa nuova classe dirigente cittadina si apre una possibilità autonoma di far
crescere il proprio potere.
Com’era prevedibile, nel 1450 Francesco Sforza entra a Milano sopprimendo la Repubblica
Ambrosiana e ripristinando totalmente il ducato. Nel 1454 la pace di Lodi tra Milano, Venezia,
Firenze e il Papa sancisce una “Santissima Lega Italica” che garantisce un equilibrio politico tra
le potenze della penisola e assicura un lungo periodo di non belligeranza.
Il Concilio di Firenze del 1439 e la fuga degli intellettuali da Costantinopoli porteranno l’Italia
alla scoperta dell’antica letteratura greca e dei trattati scientifici di cui abbiamo già parlato, cioè
inerenti alla teoria eliocentrica. All’interno delle città lombarde si comincia a sperimentare il
nuovo sapere umanistico affermando la nuova fresca visione architettonica e prospettica.
Il rapporto fra i nobili dominanti e la condizione dei dominati cambia di valore e proporzione, il
che dà impulso straordinario allo sviluppo della città. Si aprono nuovi cantieri, si costruiscono
palazzi comunali e di giustizia, una sequenza di poli universitari e scuole primarie e perfino
nuove prigioni. Ancora, finalmente, ci si occupa di ristrutturare i canali e gli argini del fiume
maggiore. Ma l’opera davvero colossale che si metterà in atto alla fine del secolo sarà il teatro
Farnese che ospiterà più di cinquemila spettatori e dove si organizzeranno perfino battaglie
navali, dopo aver naturalmente riempito l’enorme conca d’acqua pompandola per giornate da
tre fiumi che attraversano e lambiscono la città.
I prìncipi intendono chiaramente il valore dell’architettura ed imparano anche ad apprezzare chi
sa progettare e costruire, dal che gli artisti si confrontano con loro alla pari e non è un caso che i
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più apprezzati da questi signori siano proprio gli ingegneri idraulici, gli architetti, e non ultimi
pittori e scultori, insomma gli artisti che si occupano della trasformazione urbana, territoriale e
delle opere figurative.
E’ nella metà del secolo XV che Gutenberg a Magonza inventa la stampa a carattere mobile. In
Italia, questa rivoluzionaria tecnica del riprodurre gli scritti giunge prima a Venezia poi a
Firenze e Napoli; qualche anno dopo raggiunge anche la Lombardia. A Parma l’editoria
guadagna una forte presenza in città: fra le prime stampe viene eseguito l’atto costitutivo che
sancisce i diritti e i doveri fra i contraenti, cioè gli amministratori e le organizzazioni
corporative della città. A Parma Angelo Ugoleto è il primo tipografo che stampa le traduzioni
di testi dal latino e dal greco, tra le quali l’opera del poeta latino Decimo Magno Ausonio. A
fianco delle stamperie, dobbiamo ricordare le fabbriche di carta, lungo il rio dei Folli, che
costituiscono una fondamentale industria locale. Queste due attività portano alla creazione di
una biblioteca pubblica presso la cattedrale di Parma, con il sostegno dei canonici. All’inizio la
Chiesa appoggiò la nuova tecnologia che permetteva la rapida moltiplicazione dei testi e
soprattutto la divulgazione grazie a una spesa meno onerosa specie da parte dei ceti meno
abbienti, mentre i principi guardavano con certo sospetto ad una rivoluzione che permetteva a
nuove classi sociali di accedere alla cultura, al sapere e ad un’informazione diversificata. In un
secondo tempo, accortisi di questo pericoloso valore democratico e dialettico, oggi diremmo
liberale, il clero, visto che quella innovazione permetteva anche ai “semplici” di accedere a testi
di cui era proibita la divulgazione letteraria, perfino alla Bibbia e al Vangelo, magari anche in
volgare, impose divieti e censura nei riguardi di tutta la stampa in genere.
Nel 1495 si assiste allo scontro fra l’esercito francese di Carlo VIII e la lega composta da truppe
dei vari principati italiani e dalle truppe del papa Alessandro VI e la Spagna. Nello scontro in
verità non ci sono né vinti né vincitori, specie per le armate italiane di cui restano sul terreno
circa duemila uomini.
La lega però grida vittoria e in quell’occasione viene chiesto a Mantegna di dipingere una pala
dedicata appunto alla Madonna della Vittoria che Correggio assunse come modello assoluto.
(vedi immagine 14)
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Da quell’evento si susseguono altre battaglie fino a quella di Ravenna nella quale i francesi non
vengono battuti, ma inaspettatamente abbandonano l’Italia lasciando le città e i feudatari in
balia dell’esercito papale schierato con la Spagna cosicché Parma diventa territorio della Chiesa
che ne rivendica il possesso con papa Giulio II.
La Roma vaticana impone il proprio dominio, ma il fatto straordinario è che ciononostante
Parma riesce a realizzare un’incredibile ripresa sia economica che culturale.
Nella gestione della città vengono rappresentate tutte le diverse classi sociali quasi al completo,
fra queste i dottori e i cavalieri, i piazzesi, i mercanti e gli artisti, fra i quali erano in gran
numero gli artigiani. Ogni proposta innovativa veniva discussa e votata: esistevano le fazioni
politiche e perfino i voti d’accatto, cioè comprati sottobanco. La votazione avveniva servendosi
di fave per approvare e, al contrario, di fagioli, per bocciare una decisione. Questo espediente
venne però abbandonato dal momento che i consiglieri corrotti pur di rendere nulla la votazione
arrivavano a mangiarsi tanto le fave che all’occorrenza i fagioli. Ai legumi vennero sostituiti
piccole pietre di fiumi tonde e colorate tanto che venne messo in circolo un detto popolare che
recitava: “Quel consejèr gh’è tant balord ché pur ad sguadagnèr al s’magnarebb anca al so
balèt… quei de pedra!”.
In tutto questo conflitto, di volta in volta tragico o grottesco, chi continuava a gestire la propria
posizione di vantaggio e di rispettoso consenso della popolazione erano i monaci, che
nell’ultimo mezzo secolo erano riusciti a rimontare una loro pesante crisi sia organizzativa che
qualitativa nell’ambito religioso. I loro storici monasteri rischiavano di crollare causa la
dissipazione organizzata dai commendatari imposti dai vari papi. All’inizio del Quattrocento
Ludovico Barbo aveva riformato una parte dell’ordine riuscendo a riaffilare i vari monasteri
sparsi qua e là della zona: le loro sedi tornarono a vivere una situazione di recupero
dell’originale spirito benedettino. Il dibattito e il confronto sia culturale che religioso è alla base
di questo innovamento: i benedettini si danno anche una struttura dove i posti di comando sono
gestiti con il benestare e controllo dell’intera comunità monacale. Il loro motto, che da sempre
era rimasto “Ora et labora” si arricchisce di un’ulteriore regola: conosci e confronta, non far
uso del dogma per negare qualsiasi nuovo pensiero.
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E’ in questo clima che Correggio opera e si arricchisce d’ogni nuova cognizione e guadagna
massimo rispetto e ammirazione dai monaci tutti, tanto che viene a sua volta eletto conventuale
di quell’ordine. Di certo, senza i monaci di Parma il nostro Antonio pittore non avrebbe avuto
la fortuna di poter salire fin alla cima delle due cupole per realizzare questo suo indiscusso
capolavoro.
Ma tornando d’appresso al Paradiso di Correggio, figure di santi se ne stanno a spaparanza su
morbide nubi delle quali altri santi (tav 34, tav 35), soprattutto femmine e fanciulle alate, vanno
agitando tamburelli e suonando viole e abbracciandosi a cirri gonfi come cuscini tenuti in
grembo nel tentativo di nascondere almeno in parte la figura rimasta ignuda: sembra di sentir
recitare le rime di una spumeggiante epigramma satirico di Marziale che descrive una ragazza
immersa nell’acqua di una tiepida fonte che vuol risalire all’asciutto (tav 36). Un’amica le
lancia un largo lenzuolo che la fanciulla agilmente acchiappa risalendo per una scala, il
lenzuolo le sfugge per cui va mostrando due splendidi seni nudi: con uno scatto manda un grido
pudico e, svelta, raccoglie il drappo ricoprendosi il petto, ma, ahimé, lascia scoperto il ventre e
il pube. Altro grido, questa volta lanciato dai giovani che stanno sulla cornice della fonte.
Nuovo scatto di braccia, mani e fianchi per nascondere le nudità. Finalmente la fanciulla è del
tutto abbigliata, si volta ed esplode un altro grido compiaciuto: la ragazza sta mostrando schiena
e sedere nudi per la gioia festosa di ognuno. Più o meno è la stessa allegrezza che vediamo
ripetersi nelle progressioni di questo santo baccanale giocato nel cielo.
(tav 37) Dalle mani dei festanti spuntano tamburelli e dalle bocche flauti, agitati nel dare il
ritmo a un concerto dove musici, maschi e femmine, danzando soffiano nei loro strumenti.
Da una nebbia appena accennata sorgono immagini di cherubini e di figliole che via via si
fanno più nitide e riconoscibili. (tav 38) L’Allegri, qui, ha badato bene di non ripetere mai
identiche sembianze. Infatti ogni ragazza mostra carattere e fisionomia diversi: evidentemente
appartengono a differenti modelle alcune delle quali di certo s’accompagnavano volentieri con
l’ancor giovane maestro.
A questo proposito, è risaputo che i monaci e gli amici d’ambo i sessi spesso chiedessero
all’Allegri: “Antonio, cosa aspetti a mettere capo a buon partito? Ormai sei in giusta età per
prender moglie e aver figli. Con tutte le ragazze che ti stanno intorno non hai che deciderti…”,
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e pare il pittore rispondesse immancabilmente: “Aspetta. Non subito, ci penserò domani…”, e
quel “domani”, che era già il nomignolo di suo padre Pellegrino, così divenne così l’appellativo
dell’artista ripetuto da tutti. Allegri, detto Correggio, trascritto in “Ilare”, soprannominato “Sì,
ma domani”. (tav. 39)
Ma ogni rimando, è risaputo, ha il proprio tempo definitivo e nell’anno stesso in cui si spalanca
il doppio cantiere per le cupole (1517-18), ecco che per incanto, a tempo giusto, appare la
splendida compagna che il destino gli sta proponendo, Girolama. (tav. 40)
Antonio ogni tanto ha bisogno di uscire da quella gabbia celeste stracolma di beati che gli sta
diventando alquanto ossessiva, così se ne torna al paese per cercare di ritrovare una situazione
finalmente famigliare: sta passeggiando per un vicolo nel centro della città di Correggio,
quando viene all’improvviso travolto da un gruppo di ragazze che, sciamando, si rincorrono per
gioco (tav. 41). In particolare va a scontrarsi con una di quelle figliole che lo getta letteralmente
a terra e gli si frana addirittura addosso: (tav. 42) seduti per terra, dopo un primo momento
d’impaccio, entrambi scoppiano in una fragorosa risata.
È un incontro quasi magico, che trasforma e sconvolge interamente la vita di entrambi, maschio
e femmina, completamente e per sempre. Appena Girolama, con quella sua presenza piena di
timore e luminosa al tempo, si incontra col pittore appare confusa, non si sarebbe mai aspettata
che il personaggio più noto e famoso della piccola città (Correggio a quel tempo faticava a
raggiungere i mille abitanti) dimostrasse tanta attenzione per lei e la invitasse addirittura a
passeggiarle appresso. (tav. 43)
Antonio e Girolama si danno spesso appuntamento e di certo di lì a poco lui vuol conoscere i
suoi genitori: scopre che il padre della ragazza, un armigero del duca di Correggio, è rimasto
ucciso in uno scontro in battaglia nel primo anno di vita della piccola Girolama, mentre della
madre di lei non si sa nulla.
Ma Antonio ha intenzione di stupire quella figliola fino allo stordimento e così la conduce con
sé a Parma, e con l’aria di compiere una normale visita alla basilica di San Giovanni, le fa
strada fino alla base della cupola trasformata in cantiere. Girolama rimane a dir poco sconvolta.
Subito sul pavimento incontra, distesi uno appresso all’altro, grandi cartoni sui quali sono
disegnate figure volanti di santi e bambini fra le nuvole (tav. 44). Antonio prende per mano la
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ragazza e la invita a camminare su quell’immenso abbozzo. “Perché – chiede – hai steso tutto il
progetto sul terreno?”
E Antonio le risponde: “Per poterlo osservare dall’alto senza torcere il collo in aria rischiando
un coccolone.”
“Non capisco…”
Antonio la riprende per mano e la conduce verso un’impalcatura dalla quale partono scale che
s’arrampicano verso l’alto (tav 45). Montano lassù, raggiungono una specie di poggiolo dal
quale ci si può affacciare.
“Guarda in basso – la invita Antonio – ecco, di qua puoi immaginare come si presenteranno le
figure una volta dipinte nella cupola. Chiudi gli occhi per un attimo prima di volgere lo sguardo
in basso e riaprili immaginando di aver rovesciato il tuo corpo così da trovarti con il viso volto
verso l’alto.” (tav 46)
Girolama chiede: “Cos’è, un gioco?”
“Tu fai come ti dico…”
La ragazza esegue e quindi esclama: “E’ vero, così si può immaginare come sarà il dipinto
terminato. E’ stupendo!”
Antonio si fa portare da un collaboratore un aggeggio meccanico con archi in metallo rotanti, lo
consegna alla ragazza dicendole: “Ora poniti lo strumento davanti agli occhi e puntalo in alto.”
“Cos’è?” chiede.
“E’ un astrolabio: se ne servono i marinai per misurare la distanza fra le stelle e la Terra così da
potersi orientare in mare.”
“Meraviglioso! E come funziona?”
“Non è semplice. – dice Antonio – Prima di tutto devi appoggiare questa stampella alla spalla
sinistra, poi far scorrere la struttura a cerchi fino a raggiungere il livello degli occhi. Ora torci
l’astrolabio e guarda dentro questa piccola apertura.”
La lezione dura per un certo tempo, poi entusiasta la ragazza grida: “Ci sono riuscita! La tacca
qui dice 15 piedi.”
“Brava!”
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E senza rendersene conto si abbracciano. Per fortuna il macchinario impedisce loro di baciarsi
proprio davanti al sopraggiunto maestro generale dell’Ordine che commenta: “Aah, caro
Antonio, vedo che ti sei portato appresso una nipote... oppure si tratta di una tua figliola
segreta?”
Antonio rimane un attimo impacciato, poi risponde con espressione compunta: “Maestro, la
ragazza si chiama Girolama: me ne sono innamorato e l’ho portata qui per farvela conoscere
prima che ci uniate in matrimonio.”
“Bravo! – esclama il padre benedettino – Ma la prossima volta porta con lei anche la balia così
l’accudisce più comoda.”
Ad ogni modo lo spettacolo non è ancora finito. L’Allegri chiama i suoi collaboratori che
salgono sull’impalcatura come se si arrampicassero sugli alberi di una grande nave, poi si fa
consegnare una specie di piccolo flauto dentro il quale soffia traendone fischi da nostromo: tutti
gli operatori insieme iniziano a roteare mangani e strattonar funi in ogni direzione. All’istante
da ogni lato scendono e salgono personaggi che sembrano vivi, in verità si tratta di marionette a
grandezza naturale realizzate usando paglia impastata con gesso e colla, in modo che risultino
le più leggere possibile: per eseguirle, l’Allegri ha ingaggiato un gruppo di scultori adibiti a
quel solo compito.
“Ecco, così puoi farti l’idea di come sarà la cupola una volta terminata.”
La manovra giunge al termine: gli argani s’arrestano, i pupazzi continuano ad oscillare ancora
per un po’.
“E’ incredibile, è uno spettacolo magico!” (tav. 47)
Girolama si sente rotare la testa e deve appoggiarsi ad Antonio per poi sedersi sui gradini della
scala esclamando: “Oh, è troppo! Scusate, ma ogni volta che dipingete una cupola montate un
simile macchinamento?”
“No, - le risponde il grande maestro dei benedettini - succede per la prima volta: è Antonio, che
s’è inventato tutto quello che vedi. E’ lui, qui, il grande artefice d’ogni cosa.”
E di rimando un altro monaco aggiunge: “Di fatto è il nostro maestro, è lui il creatore di questo
universo, seppur immaginario. Stava già al servizio del Padreterno quando il Creatore montò
l’universo.”
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Scendendo dai ponteggi, i due innamorati senza rendersene conto sulle scale spesso si
abbracciano l’uno l’altro e all’istante lei sussurra: “Antonio, ho paura di essermi innamorata del
creatore.”
È ovvio che preso com’è dal fascino vivo e ammaliante della ragazza, lo sposo non le tolga mai
gli occhi di dosso e non possa fare a meno di dedicarle ritratti uno appresso all’altro; e rapido
com’è nel disegno continua ad abbozzare ritratti della fanciulla sotto forma di cartoni che userà
per gli affreschi. (tav. 39)
Tre anni fa mi è capitata la fortuna di vedere un’immagine di Girolama, non classificata fra i
dipinti conosciuti. Si trattava di un’opera proveniente dalla collezione privata della famiglia
Fucci di Fano: la pittura era su tavola e piuttosto malridotta. Mi sono rivolto a un’amica, Pinin
Brambilla, che senz’altro è riconosciuta come una delle più dotate fra tutti i restauratori di un
certo valore. Nel suo studio è stato eseguito un vero e proprio salvataggio e ripristino di questo
dipinto che ho pensato fosse giusto pubblicare. (tav. fotografia Girolama)
E qual è l’immagine di Girolama dentro queste pitture su muro? Beh, non c’è che puntar bene
lo sguardo ed eccola: è lì, in mezzo a una brigata di figliole festanti che accompagnano Eva, che
è il ritratto di Girolama ragazzina, naturalmente ignuda che non si cura certo di nascondere le
sue grazie (tav. 40 e tav. 41) . E’ felice e libera come appena venuta al mondo e assomiglia
straordinariamente ai ritratti di dee e di ninfe che fra poco le dedicherà, così ecco che il viso di
Girolama appare in dipinti dedicati, oltre che ad Eva, anche alla Vergine e alla Maddalena (tav.
48, tav. 49), nonché nel volto di Santa Caterina nel matrimonio mistico con Gesù (tav. 50).
Finalmente anche in queste nuove figure vive e che sembrano respirare, ogni immagine di
femmine beate solleva come per incanto le palpebre, lasciando intravedere sguardi luminosi
(tav. 51), anzi, spesso gli occhi, nel caso della Vergine, si spalancano nel comunicare una gran
gioia verso il piccolo Gesù che festosamente contraccambia.
Volti e figure femminili hanno perso definitivamente quel loro atteggiamento da icona, si fanno
sempre più vivi e slanciati, e soprattutto affiora nei gesti e negli sguardi una tenera festosità
espressa nel gioco fra madre e bimbo al quale partecipano spesso angeli, il san Giovannino e
fanciulle beate.
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La produzione di Allegri in quel tempo si fa addirittura febbrile, ormai la sua ragazza è assunta
al ruolo di protagonista di episodi tra i più svariati, sia sacri che profani. La riconosciamo col
bimbo in braccio ne Il riposo durante la fuga in Egitto (vedi tav. 51), mentre Giuseppe si
preoccupa di abbassare i rami di un albero di datteri che raccoglie per offrire alla Vergine e al
suo bimbo. Sullo stesso tema è il dipinto detto de La Zingarella (tav. 52) dove la Madonna se
ne sta accovacciata ai piedi di una grande palma con il bambino dormiente; in alto un gruppo di
angeli si aggrappa ai rami in modo da spingerli verso il basso, così da permettere alla Vergine
di cogliere i frutti per il figliolo. Se confrontiamo il volto della Zingarella (tav. 53), oggi a
Capodimonte a Napoli, eseguito nel 1517-18 con quello della Madonna Campori (tav. 54) a
Modena dello stesso periodo nel palazzo Estense, ci rendiamo conto che l’immagine di una è
l’esatto pendant dell’altra e che nella loro gestualità la donna e il bambino sono una madre e un
figlio autentici: il gesto con cui la cosiddetta zingarella raccoglie sul proprio petto il figlio non
può essere che ritratto dal vero, come reale è il gesto con cui il bimbo nella Madonna Campori
rifiuta il latte che la madre gli offre dal suo seno.
Ma da dove nasce l’ispirazione e l’argomento che vede una raccolta di datteri da donare al
figlio di Dio affamato nel viaggio? Guarda caso il Vangelo apocrifo dello pseudo–Matteo (I
secolo d.C.) ci parla della disperazione di Giuseppe e Maria, che attraversando una zona
desertica, vanno cercando una fonte per dissetare se stessi e il bambino. Scorgono un’alta palma
i cui frutti sono irraggiungibili. All’istante appaiono tre piccoli angeli. I cherubini s’aggrappano
alle lunghe foglie e strattonandole riescono a curvare tutto un ramo tanto da fargli lambire il
suolo. La Madonna solleva il bimbo cosicché egli possa staccare i datteri e portarseli alla bocca
per suggerne la polpa.
La scena ha ispirato pittori famosi, fra i quali appunto il Correggio. Ma da qualche anno ci si è
accorti che il dipinto de La zingarella è stato pesantemente modificato dai sovraintendenti del
museo negli anni 1922-23. È incredibile constatare che censori bigotti e prude abbiano imposto
una così brutale censura a quel capolavoro: hanno fatto sparire dal dipinto uno dei due angeli,
quello che curvava la palma per spingere i datteri verso la Madonna3. Questa correzione
cancellava il gesto di porgere i frutti. Ma perché? È proprio vero che l’imbecillità dei censori è
3
Cfr. Dario Fo, Gesù e le donne, Rizzoli, 2007, p.72.
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infinita, specie quando vestono la tonaca del rigore. Infatti, l’aggressione alla pittura è diretta
proprio ai datteri che in un brano poetico del Cantico dei Cantici4 alludono ai seni dell’amata.
Eccovelo: (tav. 55)
Quanto sei bella e quanto vaga,
carissima mia adorata.
Il tuo corpo s’allunga come una palma
e i tuoi seni sembrano pomi di dattero.
E io assaggerò con le mie labbra
quei frutti che di sicuro saranno più dolci del miele.
È chiaro che questo stupendo frammento lirico l’Allegri innamorato lo abbia voluto dedicare
alla sua giovane prossima sposa, protagonista in quest’altro ritratto (tav. 56 Madonna della
cesta), e c’è da pensare che forse il bambino in realtà non sia altro che il piccolo figliolo di
Girolama partorito qualche mese dopo il matrimonio.
Ma tornando alle cupole, più di un ricercatore ha notato l’incombere fin troppo palese in quegli
affreschi dei più grandi maestri della pittura rinascimentale; per cui ci è facile, quasi ovvio,
riconoscere in San Giovanni l’immagine dipinta da Raffaello nelle Stanze vaticane e poco più
in là la positura e la potenza di alcuni personaggi dipinti da Michelangelo. Naturalmente non
mancano soluzioni viste a scorcio tratte da Mantegna e putti ispirati da Leonardo e Raffaello e
per finire allusioni ai Carracci, al Beccafumi e ai ferraresi.
Ma cos’è, il trionfo dell’appropriazione indebita? Eh no, perché questa volta non si tratta di una
semplice emulazione, Correggio qui sta accogliendo una vera e propria lezione di stile e
sviluppo pittorico dai più grandi maestri del suo tempo: in questo caso ogni personaggio, sia
protagonista o elementi del coro, ha subito ognuno una profonda elaborazione e ora ci appaiono
riproposti attraverso un linguaggio e uno spirito del tutto sconosciuto. Tanto per cominciare,
l’intera messa in scena è impregnata di un sottile umorismo per cui anche le forme più
grottesche ci vengono sempre proposte con andamento leggero e addirittura poetico, specie
4
Il Cantico dei Cantici è un testo poetico contenuto nella Bibbia ebraica e risalente al V-III secolo a.C.
29
quelli della cattedrale, anzi qui l’azione, anche la più vorticosa, si trova immersa in una
trasparenza che esalta e rende più leggere le immagini.
Abbiamo detto di Eva (tav. 57- 58), fresca e ridente, e della somiglianza con il viso di
Girolama: intorno a lei si muovono altre ragazze, che l’accompagnano con gesti di danza nel
coro; a loro volta ciascuna ci riporta al viso dell’innamorata di Antonio ‘Domani’. Alcuni noti
pittori ci fanno osservare che i visi riprodotti appaiono leggermente più paffuti di quelli che più
tardi rappresenteranno Madonne e ninfe, ma l’osservazione cade immediatamente appena ci si
rende conto che qui ci troviamo proprio nel tempo in cui l’amore ha dato un secondo frutto,
infatti la sposa dell’Allegri ora aspetta una femminuccia. Questo ci spiega l’incarnato paffutello
dei ritratti di alcune protagoniste.
L’intera opera doveva essere realizzata con l’apporto di altri quattro artisti: il Parmigianino,
l’Anselmi, il Rondani e l’Araldi.
Il grandioso schema del Duomo fin dall’inizio incontrò innumerevoli difficoltà: per cominciare,
il Parmigianino prima ancora che si iniziassero i lavori dovette suo malgrado abbandonare il
cantiere per recarsi a Roma dove aveva stipulato un precedente contratto di lavoro. Più tardi
l’Anselmi, dopo aver appena realizzato alcuni affreschi tratti dai suoi cartoni, si vide crollare le
pareti dipinte. Qualche tempo dopo, uno dei pittori morì all’improvviso. Pascasio Belliardi,
rappresentante dei Canonici che dovevano seguire i lavori, fu eletto Segretario di Pio III che
intendeva farlo cardinale: l’elezione andò a monte in conseguenza dell’avvenuto decesso del
pontefice regnante per soli ventisei giorni.
Al di fuori di qualche solenne e tragico avvenimento come l’improvvisa morte di un papa
appena eletto e la dipartita di qualche artista operandi, tutto il lavoro proseguiva con rapida
facilità. I Fabbricieri ed i Canonici si dimostravano entusiasti della resa di tutta l’opera e di
giorno in giorno, sull’onda di tanto successo, l’Allegri proponeva soluzioni pittoriche sempre
più azzardate che mandavano in crisi i più conservatori fra i committenti, finché senza alcun
preavviso ecco esplodere un contenzioso che provocò una vera e propria rottura fra l’Allegri e i
responsabili giuridici e amministrativi della cattedrale. Come da progetto, per di più stipulato e
firmato, Antonio il Correggio, aveva dipinto nell’abside una splendida Madonna nell’atto di
essere benedetta dal figlio suo. All’istante i Canonici della Cattedrale decisero di abbattere le
30
pareti su cui era stato eseguito l’affresco per creare un percorso più facile all’ingresso della
Cattedrale. E’ inutile sottolineare che nel ritratto di quella Madonna si riproduceva il volto di
Girolama. Qualcuno sospetta che quel gesto abbastanza brutale fosse dettato dall’intento di
ridimensionare il troppo potere che il Correggio si stava conquistando da sé. Una rimessa in
riga, insomma. Antonio reagì indignato e abbandonò su due piedi la cattedrale lasciando
incompiuti gli affreschi di cui si era impegnato nel contratto. Quel suo gesto fu giudicato dai
più come sconsiderato e arrogante giacchè egli non teneva protettori fra i nobili e grandi
mercanti. Ora poi perdeva anche la protezione dei monaci e del comune, ma alla fine l’orgoglio
e la caparbietà, fondamenti rischiosi del suo carattere, gli furono di gran vantaggio in quella
situazione.
Per fortuna nel tempo in cui Correggio si era impegnato nella messa in scena pittorica delle
cupole, non cessò di aver rapporti con committenti privati. Fra i suoi estimatori forse la più
importante era la vedova di Bergonzi, Briseide Colla, che gli commissionò un grande quadro, la
Madonna di San Gerolamo, raffigurante la Vergine con alcuni santi e al centro, sdraiata quasi
voluttuosamente sul bambino, la Maddalena. Per quest’opera il Correggio ricevette
quattrocento lire imperiali, due carri di fascine, alcune staia di frumento e un maiale. Si tratta di
una pittura davvero straordinaria, sia per l’impianto compositivo, che per i temi che svolge: è
una delle prime volte nelle quali vediamo la Maddalena vicino a Gesù bambino in una
situazione capovolta nello spazio e nel tempo. Maddalena dimostra più o meno la stessa
giovane età della Madonna, e Gesù, che nella tradizione popolare è l’uomo della Maddalena,
invece è putto, bimbo, ma nella composizione e negli atteggiamenti dei protagonisti, scopriamo
una passione con una grande carica di sensualità. Inoltre c’è un elemento che non è nascosto e
che anzi viene a sottolineare questa passione, tanta dolcezza: il gesto della Maddalena che
teneramente tiene nelle sue mani il piede del bambino, e il bambino che accarezza i capelli della
Maddalena.
In questi gesti è facile leggere il riferimento ai Vangeli canonici dove si rappresenta la
situazione in cui la Maddalena lava i piedi di Gesù e quindi li asciuga con i propri capelli, quelli
che ora Gesù accarezza. Il putto che sta alle sue spalle mostra una piccola brocca, simbolo della
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sessualità femminile, e nello stesso tempo si allude al prezioso unguento che la Maddalena
userà per il lavacro dei piedi di Gesù.
Un elemento cromatico di grande importanza è il piano della luce. Lassù in alto è stesa
un’ampia tenda che serve a calmare, ad abbassare il calore della luce del sole, ma ecco che i
personaggi non appaiono protetti dall’ombra anzi sono tutta luce, ma si ritrovano, nello stesso
tempo, in controluce. È un’invenzione pittorica straordinaria. Il fondo è la luce. È come se ci
fossero due soli che illuminano: un sole che se ne va al tramonto di là e uno che spunta davanti
e che illumina tutti.
Alla fine del ‘700 la tela viene inserita nel bottino napoleonico, onore riservato solo alle grandi
opere rapinate. Rimane in Francia per vent’anni. Molti critici fanno notare come la Maddalena,
per il suo tessuto cromatico-pittorico, ricordi alcuni famosi dipinti muliebri del Tiziano.
Fra i committenti privati senz’altro uno dei maggiori clienti collezionista d’arte è il duca figlio
di Isabella d’Este che cominciò ad ordinare al Correggio l’Educazione di Amore. E’ un tema
completamente nuovo per lui tanto che prima di affrontarlo esegue numerosi disegni e bozzetti
preparatori. Fra il ‘600 e il ‘700 quest’opera fu attribuita a vari grandi maestri della pittura
veneta e lombarda, come Tiziano e Dosso Dossi.
Nella lezione d’amore dove di fronte ad una splendida Afrodite completamente nuda, Eros
bambino impara a leggere un testo sui giochi amorosi aiutato da Ermes che regge un foglio e gli
corregge gli strafalcioni. Come di tradizione, Venere non indossa abito alcuno, nemmeno un
drappo (con lei le sartorie d’alta moda fallivano immancabilmente): basta immaginare la dea
dell’amore, qui rappresentata, all’impiedi, sdraidata su un letto e noteremo subito le
concomitanze con le Veneri di Giorgione e di Tiziano, però con il viso che costantemente ritrae
quello di Girolama che è sempre di più l’unica modella di Antonio Allegri. Oltre il viso, l’unico
particolare che distingue la dea del Correggio da quella dei veneziani sono le due fragili ali che
le spuntano dalle spalle, ali che qualche critico ha ritenuto produrre emozioni di grande
erotismo... non abbiamo capito perché: purtroppo non abbiamo mai avuto la fortuna di ricevere
carezze alate.
Questa tela vince senz’altro il record degli spostamenti e dei cambi di proprietà. Dal Gonzaga,
passa a Carlo I d’Inghilterra; quindi viene acquistata dal duca d’Alba per ottocento sterline
32
giunge in Spagna, dove poi passa di proprietà al principe De la Pace; nel 1808 viene trasportata
a Napoli e diventa di proprietà del Murat, il capitano napoleonico fatto re dall’Imperatore. Pare
che costui se la tenesse sempre appresso, perfino quando si trovò a partecipare alla campagna di
Russia, anzi durante la ritirata si dice spogliasse il quadro, Venere compresa, dalla grossa tela
che lo avvolgeva per coprirsene a sua volta, riuscendo così a salvarsi dal gelo. Dopo il disastro
militare, la Venere ancora raffreddata venne venduta a Carolina Buonaparte a Vienna, senza la
tela di copertura: si racconta che la splendida moglie di Napoleone era solita confrontarsi a sua
volta nuda con Venere, davanti a uno specchio, ma si accorse ben presto che il confronto
andava a tutto vantaggio della dea, quindi decise di venderla al marchese di Londonderry, che
la cedette allo stato britannico. In conseguenza di tali traversie, l’opera accusò notevoli guasti e
l’intervento dei restauri si rivelò purtroppo inadeguato. Il peggior danno venne apportato
probabilmente dagli ultimi proprietari, gli inglesi: costoro ridurono la tavola nei due fianchi di
almeno 15 centimetri per parte; ne danno testimonianza le riproduzioni della fine del ‘500 dove
si nota chiaramente il più vasto spazio laterale del dipinto. In poche parole, per far entrare la
tavola in una cornice muraria preesistente, il possessore risolse tranquillamente di segare due
strisce laterali in eccedenza. Questa di subìte riduzioni o addirittura amputazioni è sorte ben
nota che si ripete spesso in pittura. Infatti un’altra opera di Allegri sita nella Cattedrale di Parma
ha dovuto sopportare addirittura un vero e proprio massacro: a una serie di figure femminili in
tutta la loro stupenda nudità e rappresentanti personaggi mitici della tradizione antica sono state
tranquillamente mozzate la testa e una parte del tronco per lasciar spazio a una serie di finestre
riccamente decorate.5
A parte le vicissitudini, il dipinto l’Educazione d’Amore ebbe tale successo che il giovane
Francesco Gonzaga ordinò all’Allegri tutta una serie di tavole ad argomento erotico.
Qui vediamo Giove trasformato in fauno, pronto a gettarsi sulla ninfa dormiente. Vedremo nelle
prossime pitture, dedicate al padre degli dei e ai suoi amori, come Jupiter arrivasse a
trasformarsi di volta in volta nelle sue performance erotiche in cigno, in aquila e perfino in
monete d’oro. E’ risaputo come per Giove la metamorfosi fosse incentivo erotico di cui non
5
D. Ekserdjian, Correggio, op.cit., pag. 260
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poteva fare a meno… una metamorfosi e oplà, eccolo eccitato da Dio! Insomma, questo era il
viagra degli dei!
Ma fermi tutti: purtroppo molti critici d’arte non sono d’accordo con quest’ultimo ruolo
assegnato ai personaggi. Sembra trattarsi piuttosto di una Venere addormentata con Cupido e
spiata da un satiro.
Ma c’è un particolare che manda in crisi: il cosiddetto ombreggiato, del quale il Correggio era
grande maestro. In poche parole sulla tavola è stata eseguita una ripulitura piuttosto pesante che
ha letteralmente cancellato il gioco dei chiari e degli scuri, fondamentale per sottolineare lo
scorcio. Sono sparite l’ombra propria e quella proiettata dalle figure cosicché s’è appiattito lo
scorcio, a partire dall’ombreggiato del busto e del ventre.
Lo scorcio dello stato originale è percepibile da un disegno preparatorio dello stesso Correggio
di una figura di Venere che si trova al Windsor Castle che riproduce ancora una Venere
dormiente vista dal basso, cioè dalla stessa posizione da cui si osservano il fauno e la dea
addormentata. Nel 1628 l’opera originale fu venduta a Carlo I d’Inghilterra insieme
all’Educazione di Amore: molto probabilmente fu proprio lui l’inglese che mozzò i lati del
primo dipinto con la figura di Venere. Non fece in tempo a produrre lo stesso scempio con la
Venere dormiente, poiché scoppiò la guerra civile e stavolta la testa fu mozzata al re. Questo
succede a chi fa violenza alle donne, anche se solo ritratte, specie se nei confronti di sono una
divinità!
A proposito di disgrazie e decessi, a ‘sto punto della storia del Correggio siamo nel 1528, mi
imbatto in una notizia che mi rattrista e sconvolge al tempo. Molti ricercatori mi assicurano che
più o meno in quel periodo muore la moglie dell’Allegri, Girolama. E da che si evince
l’avvenuto decesso? Dal fatto che da quella data in poi, della dolce e ancor giovane donna non
si hanno più notizie. D’istinto immediatamente esclamo: “Ma come può succedere una cosa del
genere?” Non parlo della dipartita, ma del fatto che l’Allegri, uno dei più grandi pittori del
secolo, in piena vedovanza, sorpassando tranquillamente il tragico dolore della perdita di quella
creatura che amava alla follia, continua a dipingerla ritraendola completamente nuda
nell’atteggiamento di sguazzare con Giove travestito da nubi scatenate, da satiri montanti, da un
cigno scurrile e addirittura da una pioggia d’oro. Ancora, lungi da me fare del moralismo, ma
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ciò che maggiormente mi indigna, è il constatare che la donna amata venga rappresentata
nell’atto di partecipare tanto piacevolmente a quegli amplessi, gemendo di piacere e lasciandosi
trasportare dentro una vera e propria tempesta erotica al limite della pornografia. Andiamo, un
po’ di rispetto per le anime defunte!
Quindi quasi disperato mi butto a organizzare un’inchiesta coinvolgendo studiosi dell’intiera
Emilia, ricevo da un professore di Modena la fotocopia di alcuni testi dedicati a Girolama, fra i
quali addirittura un dramma teatrale di qualche secolo fa dove, parlando in rime endecasillabe,
il Correggio a sua volta disperato se ne sta in ginocchio presso l’amata stesa sul letto di morte,
che sta per abbandonarlo. Non cedo. Caparbio, telefono all’ex presidente della Fondazione
dedicata al Correggio, Giuseppe Adani che di lì a poco mi dà la stupenda notizia attraverso
Patrizia Pecchini. Nella città di Correggio è stato ritrovato l’atto autentico della sepoltura di
Girolama Merlini avvenuta nel 1545, quindi di tutta la famiglia, Girolama è stata la più
longeva. Infatti il marito Antonio è deceduto 6 anni prima della reale morte della moglie ed
egualmente qualche anno avanti sono deceduti il padre di lui, alcuni zii e nipoti comprese le due
giovani figlie di Antonio e Girolama Allegri. “Allegri! Grottesco destino di un cognome!”. Tiro
un gran respiro: ora finalmente potrò tornare a godermi le scene erotiche con Veneri in amore
senza soffrire di lascivia repressa dall’indegnità delle situazioni. Evviva, Girolama è viva!
Distacchiamoci un attimo dalle avventure di Giove per considerare un’altra tela del Correggio
dello stesso tempo, determinante per valutare lo stupefacente lavoro di ricerca pittorica
dell’Allegri nella sua maturità.
Si tratta de La notte. Nell’adorazione dei pastori al presepio, l’Allegri sviluppa un nuovo
impiego della luce già sperimentato nella tela Madonna di San Gerolamo. Qui non c’è il cielo
chiaro del fondo, ma un tenero tramonto che prelude al buio notturno. È il bambino Gesù che
proietta luce tutt’intorno illuminando di sé la madre e i pastori nonché gli angeli in alto. L’unico
che resta nell’ombra scura è il padre putativo, Giuseppe. Più di uno studioso ha ravvisato
l’influsso dei fiamminghi ma qui la particolare invenzione è rappresentata dalla fonte luminosa
sparsa dal bambino. Più verosimile è la similitudine di quest’opera con la pala Pesaro del
Tiziano che si rifà alle rappresentazioni teatrali di quel tempo. In entrambi i dipinti si può
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leggere l’uso della luce alla maniera scenica del teatro dove in proscenio gli attori vengono
illuminati dalle sole lampade a terra o dall’alto grazie ad un enorme lampadario che esibisce il
chiarore di cento candele.
Ma torniamo al ciclo dedicato agli amori di Giove. Questo che vi presentiamo è certamente uno
dei capolavori dipinti ad olio del Correggio. Vediamo Danae, splendida ninfa, languidamente
quasi distesa sul letto. La fanciulla è stata rinchiusa in una torre per impedire a Giove, che la
desidera follemente, di arrivare a possederla attraverso i suoi mirabolanti trucchi. Il padre degli
dei non può raggiungerla né trasformato in cigno o toro né tanto meno in satiro. Non gli resta
che tradursi in un calabrone ammaliandola con il suo ronzio, ma non è cosa da dei, andiamo!
Quindi sceglie di tramutarsi in pioggia d’oro, “Questa sì che è una trovata divina!” un’aurea
nube di polvere, che trasportata dal vento, entra dall’unica finestra spalancata. Danae, pudica, si
copre il pube con un lenzuolo.
Ma c’è Amore che da ruffiano cerca di procurare a Giove il suo vantaggio: ecco che il divino
fanciullo allarga il lenzuolo per raccogliere tutta la pioggia d’oro e lo solleva in modo che arrivi
nel grembo di Danae. Qui ha già delle monete d’oro in mano e cerca di buttarle verso il pube
della ragazza.
A questo punto dobbiamo allontanarci di qualche passo dal dipinto per poterlo inquadrare in
tutta la sua dimensione e considerare il particolare inusitato dell’impianto scenico e prospettico:
scopriamo l’esistenza di ben tre prospettive con punti di fuga diversi, una sovrapposta all’altra.
Abbiamo un livello maggiore che permette la visione di tutto ciò che avviene dall’alto: lo
spettatore è proiettato in aria a guardare giù. Poi di colpo si trova costretto a scendere e
osservare dal basso: ci appare il letto pesantissimo che si pone in contrapposizione alla
leggerezza del corpo di Danae che pare sospeso nel vuoto. Le lenzuola su cui è semisdraiata la
splendida ninfa, quasi si trasformano in tappeto volante e la sollevano per favorire la pioggia di
monete d’oro.
Ma l’effetto più sorprendente di magico erotismo è determinato da un uso inconsueto dei chiari
tanto spregiudicato da apparire quasi un errore. Infatti, nel suo impianto scenico l’Allegri
introduce addirittura due opposte fonti di luce: una proveniente dall’alto fuori proscenio, l’altra
dal basso di taglio, sul fondo. All’estrema sinistra della parete scorgiamo una finestra e, con
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tutto che quell’apertura ci appaia completamente spalancata e se ne scorga un cielo limpido, di
lì non proviene nessun accenno del giorno: una finestra assolutamente cieca! Strano! È un
arbitrio, ma c’è un perchè: quella finestra è solo un elemento compositivo, un respiro luminoso
nell’ombra del fondale. Quindi tutto l’assetto è perfettamente teatrale.
E per finire osservate la nube dalla quale scende l’oro: dovrebbe essere leggera e vaporosa
invece sembra ritagliata in una tavola di legno, non è adeguatamente mascherata proprio perché
vuol essere scenografica, cioè viene riprodotto un elemento tipico del teatro: la sagoma di
quinta.
Proseguiamo con un’altra avventura amorosa di Giove: ecco l’opera che racconta di Ganimede
rapito dall’aquila, l’ennesimo travestimento di Giove assatanato. Il padre degli dei si è
invaghito del ragazzino, ma non riesce mai ad avvicinarlo senza rischiare di essere scoperto
dagli aggressivi famigliari del fanciullo. Così, travestito, tramutato in aquila, ecco Giove alato
che può afferrarlo, prenderlo e portarlo nel cielo. Non è nemmeno tanto dispiaciuto Ganimede.
L’unico ad accorgersi del rapimento è il cane, che sta a terra e abbaia disperato. Ancora ci
troviamo dinanzi a un ulteriore espediente scenografico: se vogliamo leggere la posizione del
cane dobbiamo immaginare di vederlo dall’alto. Noi siamo in alto come Ganimede: è più o
meno lo stesso punto di vista del ragazzo che vede il cane in basso, sotto di lui. Ma per
osservare correttamente la figura del rapito sospeso nel vuoto dobbiamo porci al livello del cane
e guardare attraverso i suoi occhi. Di qua avremo l’idea dello scorcio perfetto del ragazzino che
sta salendo trasportato dall’aquila.
Questa magia dello scorcio prospettico è dovuta all’insistito esercizio del realizzare scorci a
centinaia sulle due cupole di Parma, conoscenza che gli ha procurato una ineguagliabile
dimestichezza nel realizzare immagini viste da ogni luogo e un’agilità pittorica davvero
straordinaria.
Chiudiamo l’esposizione nell’ultima sala dedicata alle opere del Correggio che hanno subito
sconci e manomissioni causate da restauri sconsiderati e da interventi censori che rasentano la
follia. “Il sonno della ragione genera mostri” diceva Francisco Goya. Bisognerebbe aggiungere:
“Quel torpore della mente causa anche massacri di opere d’arte”.
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Nel caso dell’Ecce Homo siamo di fronte a una vera e propria ri-pittura eseguita allo scopo di
addolcire, secondo la moda tardo seicentesca, l’immagine di Cristo incatenato mostrato alla
folla. Ce ne rendiamo conto soprattutto osservando la lastra della radiografia eseguita sul
dipinto grazie alla quale scopriamo l’autentica stesura pittorica che ci propone una
drammaticità figurativa di ben altro valore. Il viso di Cristo ci offre tutt’altra potenza
espressiva; le sue dita che nel restauro così come lo vediamo oggi, sono esageratamente
allungate, quasi femminili, nella lastra ci appaiono finalmente mani virili di giusta fattura.
Ancora, la figura della Vergine che nell’odierna pittura è convenzionalmente melodrammatica,
nel dipinto sommerso ci rivela un volto di sofferenza che si pietrifica nel dolore. Insomma due
pitture: quella nascosta di gran potenza, l’altra di uno stereotipo convenzionale.
Naturalmente sul nostro testo le due diverse immagini verranno poste a confronto una appresso
all’altra così da intendere immediatamente la palese mistificazione.
Passiamo al Noli me tangere, tela nella quale vediamo una donna, tradizionalmente la
Maddalena, che ha afferrato un lembo dell’abito di Gesù per attirare la sua attenzione. La
posizione di Maria Maddalena è ancora in scorcio, cioè chi guarda si trova in basso al di sotto
della cornice. La figura protesa verso il Messia risorto esprime una passione di straordinaria
forza emotiva: non a caso più di uno scultore e numerosi incisori si sono serviti di quel dipinto
e dei disegni preparatori come modello per realizzare a loro volta opere di valore. Anche Gesù
che con un gesto perentorio le impedisce di abbracciarlo è visto dal basso ma solo dal tronco in
su, l’altra parte del corpo compresi i piedi sono visti dall’alto. La Maddalena sta seduta a terra
quasi inginocchiata davanti a lui che le si rivolge indicando il cielo: “Non mi trattenere. E’
lassù, da mio padre che devo innanzi tornare!” come recita il Vangelo di Giovanni. Ma
osservando con attenzione il dipinto basta un minimo di conoscenza di pittura per capire che i
due personaggi così come sono raccontati nel diverso tessuto cromatico e pittorico non hanno
niente a che vedere l’uno con l’altro. Alcuni tecnici del restauro ci comunicano che il dipinto è
stato manomesso soprattutto per quanto riguarda le velature in tempera, nello stesso modo in
cui sono state lavate nella Venere dormiente insieme al nero-fumo delle candele. Ecco la
ragione del perché il corpo di Cristo e il suo panneggio hanno perso la plasticità e il volume, e
soprattutto si è perduta la struttura dell’impianto e del disegno, al punto che il braccio alzato
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appare deformato, e il ventre sporge gonfio; ancora più sotto, la gamba destra resta priva di
appoggio.
Ma cosa ci dà tanta sicurezza nel dichiarare la deformazione fisica di certe figure come questa
di Cristo appena risorto del dipinto dell’Allegri?
È soprattutto un particolare assetto dell’impianto esecutivo che ci fa scoprire il difetto, cioè
quello che si può evincere solo ricordando la tecnica impiegata dal Correggio al momento di
impostare le figure: egli, come abbiamo già accennato poco fa, è uso disegnare i personaggi in
tutti i particolari immaginandoli completamente nudi così da studiare con esattezza l’equilibrio
degli appoggi, il movimento del busto, gli attacchi degli arti e la loro gestualità. Quindi solo
dopo questa preparazione il pittore inizia ad immaginare sul corpo nudo i panneggi delle vesti
indossate dai personaggi. Ora, se noi proviamo a togliere loro gli abiti scopriremo se le figure
spogliate stanno nel giusto equilibrio dinamico, oppure, come si dice in gergo, sballanzano, cioè
non mantengono il giusto equilibrio.
L’ultima opera della serie legata agli amori di Giove è senz’altro Leda con il cigno, forse la più
eroticamente provocatoria di quei racconti. Il figlio del duca d’Orléans, che dopo vari passaggi
divenne proprietario della tela, preso da furori moralistici, a metà del 1700 taglia a pezzi il
dipinto e distrugge la testa di Leda. L’opera è salvata dall’intervento del pittore di corte Coypel
che dà l’incarico ad un restauratore perché ricostruisca, oltre alle altre parti del dipinto, il viso
di Leda deturpato.
Anche qui, grazie alle incisioni a copia della Leda originale eseguite un paio di secoli prima
dello scempio regale ci rendiamo conto che i pur numerosi restauri non sono riusciti a salvare
del tutto il dipinto. Il viso della Leda ora appare piuttosto convenzionale: più una maschera
fissa che un volto carico di sessuale gaudio. Così come sono di fattura approssimativa le
immagini delle ancelle di Leda che si bagnano fra le acque di un ruscello. Osservando con
distacco quello che c’è rimasto della pittura originale, ci rendiamo conto che il Correggio qui
s’è lasciato andare ad uno sguazzo erotico-satirico piuttosto spinto, tant’è che non s’è
accontentato di presentarci la Leda posseduta dal volatile fornicante, ma ha aggiunto fanciulle
del coro che a tormentone vengono turbate dall’apparire costante e improvviso di nuovi cigni,
altrettanto ruzzanti che spuntano fra le terga delle ninfe come funghi scurrili della foresta. A
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‘sto punto ci nasce un moto di comprensione davanti al gesto isterico del giovane d’Orleans.
Ma come si può rimanere insensibile davanti a tanta provocazione? O ti masturbi o spacchi
tutto! Di fatti egli armato di spada si è lanciato con giusto furore verso quei colli rampanti di
cigni sorgenti da ogni dove, deciso a decapitare i pennuti zozzoni. Nella storia dell’arte non
conosciamo altri dipinti aggrediti da maniaci e fanatici del moralismo, sconciati in tal misura,
non conosciamo una situazione d’ansia così disperata di ricostruzione come è accaduto con
questa pittura dedicata alla ballata oscena dell’ultimo canto del cigno.
A questo punto è bene cercare di individuare il carattere di questo straordinario personaggio che
è il Correggio. ma Non tanto quello superlativo riguardante la sua indiscussa genialità nei
campi più diversi, abbiamo ormai stabilito che l’Allegri possedeva una preparazione riguardo la
meccanica dei ponteggi a dir poco superlativa, quasi al livello di Leonardo. Infatti, per le
cupole, aveva ideato specie di montacarichi che gli permettevano di salire fino a livelli di 18
metri e più; grazie ad argani sofisticati e contrappesi da orologeria riusciva a trasportare lassù,
fra le impalcature più alte, non solo persone ma anche strutture tecniche di notevole peso e
volume. Inoltre, per salire a dipingere sulle pareti concave aveva inventato imbragature appese
su piani scorrevoli che erano in grado di trasportare il pittore e i suoi aiuti nell’aria in tutte le
direzioni compreso in trasversale. Aveva imparato a servirsi di specchi coi quali raddoppiava il
valore della luce e la proiettava sulle immagini da riprodurre come si fa per mezzo dei moderni
riflettori. Insomma, sul piano dell’ingegno l’Allegri era da ritenersi un vero e proprio
scienziato.
Ma A noi interessa invece scoprire come si comportasse nelle situazione del vivere comune. Di
certo teneva un grande senso della famiglia: quel vivere fin dalla prima infanzia in quegli
angusti spazi in un clima da ammucchiata, tutti insieme, padre, madre, zii e nipoti, ognuno
appresso all’altro in un’unica stanza, dormire in chissà quanti nello stesso letto lo aveva
senz’altro condotto ad una solidarietà di gruppo indistruttibile dove il nucleo portante era la
famiglia col padre padrone che dettava le regole e amministrava quella misera comunità dei
beni. Quasi all’istante, appena raggiunta la pubertà ecco che Antonio comincia a portare a casa
quattrini in tal quantità da ribaltare completamente la situazione di vita dell’intiera famiglia.
Raggiunti i venticinque anni, Correggio godeva già di una notevole celebrità ed era in grado di
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farsi pagare cifre davvero consistenti per le sue opere, ma faceva ancora amministrare i suoi
lauti guadagni dal capo clan Pellegrino.
Ci si è chiesto, da parte di molti ricercatori cosa spinse ad un certo punto Girolama, moglie di
Antonio, maritata con lui da pochi anni, a stendere un testamento davanti al notaio che
specificasse a chi dei parenti e degli amici e in che misura dovessero essere concesse le sue
proprietà e i beni in caso di morte.
Ma cos’era successo? Quale tremenda crisi familiare era esplosa in casa Allegri per provocare
una simile situazione? Qualche ricercatore un po’ all’ingrosso ha immaginato che la giovane
sposa temesse a causa della sua fragilità fisica di perdere anzitempo la vita.
Ma abbiamo già visto come Girolama fosse in ottima salute e che l’idea di una sua morte
prematura è risultata del tutto falsa. Evidentemente la ragione che l’aveva indotta a stendere
quel documento è un’altra. In famiglia dev’essere esploso un problema serio: probabilmente
l’attaccamento al denaro che il padre del pittore mostrava di continuo in modo ossessivo
l’aveva preoccupata ed è del tutto possibile che, consigliata dai suoi parenti di sangue che
l’avevano allevata, fosse giunta a quel gesto di difesa con il quale imponeva alla famiglia
Allegri e quindi anche allo sposo di rispettare assolutamente i denari e le proprietà che aveva
portato con sé.
C’è un altro problema che a proposito della vita di Antonio Allegri è rimasto sospeso: il suo
viaggio a Roma. Ma di questo suo viaggio non abbiamo né un’indicazione né tanto meno un
documento che ce lo confermi. E’ indubbio che Correggio oltre che da Leonardo e Mantegna
abbia tratto ispirazione dalle opere di Raffaello e Michelangelo, entrambi ingaggiati per lungo
tempo dai pontefici dell’Urbe. La sua attenzione riguardo ai dipinti in questione sia nella
totalità che nei particolari più sottili è costante: da qui si può dedurre che il Correggio quelle
opere le abbia quasi toccate oltre che osservate dappresso, ma a questo proposito ci si dimentica
che in quegli anni, dai primi del ‘500 in poi si era creato in tutta Europa un vero e proprio
mercato delle copie e delle riproduzioni dei grandi maestri: a partire da quelle eseguiti su tela o
tavola, dipinti a tempera o ad olio per continuare con quelle realizzate attraverso la tecnica
dell’incisione senza dimenticarci di quelle ottenute per mezzo stampa.
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Queste riproduzioni venivano acquistate in gran numero sia dai collezionisti che dai pittori e
dalle accademie d’arte perché gli allievi potessero studiare dappresso i capolavori più famosi.
Di queste immagini ne sono giunte numerose a noi, perfino riprodotte da dipinti di fiamminghi
e grandi pittori francesi e spagnoli. Attento com’era ad ogni novità, Antonio Allegri a sua volta
ha immediatamente tratto vantaggio di questa nuova tecnica del riprodurre tanto con l’incisione
che con l’acquaforte6, e duplicò soprattutto le immagini dei propri lavori di maggior successo.
Ma il fenomeno davvero eccezionale si scopre analizzando il numero delle riproduzioni delle
sue opere eseguite dai copisti e incisori di professione di tutta Europa. A questo proposito vi
consigliamo di consultare il volume di Massimo Mussini intitolato il Correggio tradotto, edito
da Federico Motta Editore, che ci propone una quantità impressionante di acqueforti tratte da
dipinti dell’Allegri che invasero letteralmente il mercato nei successivi secoli fino ad oggi. Così
incontriamo le ninfe ignude che amoreggiano con Giove trasformato in nuvola o in cigno in
decine di copie stampate, e ancora frammenti di dipinti tratti dalle cupole del Correggio
disegnati con grande maestria in numero strabordante, da queste testimonianze veniamo anche a
scoprire una notevole quantità di opere originali dell’Allegri andate perdute e delle quali ci
sono pervenute soltanto incisioni realizzate qualche secolo fa. Fra le opere dell’Allegri rimaste
intonse c’è una Deposizione, quella che conosciamo come Compianto sul Cristo morto che
viene proposta in un centinaio di copie diverse e osservandole una dietro l’altra ci rendiamo
conto che queste immagini sono utilissime per decifrare particolari che presi come siamo dalla
pittura e dall’emozione cromatica che ci coglie spesso ci sfuggono. In quest’opera notiamo
subito che il dipinto, che misura 130x60 centimetri, è attraversato compositivamente da una
diagonale che parte dall’angolo di sinistra e raggiunge l’angolo di destra del quadro. In
contrapposizione notiamo un frammento di scala che s’appoggia al palo centrale della croce.
Gesù è deposto su terreno scosceso e il suo corpo è iscritto dentro il grande triangolo che si è
formato a sinistra. Se disegniamo due verticali a distanza eguale, ci troviamo col volto di Gesù
esattamente nel centro del primo spazio; mani e braccia delle donne, compresa la Vergine che
lo sorreggono, concorrono nella loro gestualità a creare un cerchio che raccoglie il volto di
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L’acquaforte è una soluzione acida dentro la quale s’immerge la lastra disegnata graffiando lo strato
preparatorio. La composto ha il potere di incidere così la lastra solo nei punti dove si è incisa la
copertura.
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Cristo in basso e le tre Marie compresa la madre. Non si tratta però di un’inquadratura
geometrica e fissa ma mobile, ed è proprio la gestualità delle tre donne che avvolge come in un
turbine il volto di Cristo. Dentro due linee parallele che attraversano il dipinto
longitudinalmente da destra a sinistra è inscritta anche la figura della Maddalena. La donna
tiene la nuca appoggiata alla base della croce, le mani raccolte in grembo e una disperata
espressione di dolore le solca il viso. La figura della Maddalena, quella di Cristo e quella della
Madonna si trovano collocate sullo stesso asse trasversale: questo andamento produce una
ritmica ossessiva che crea un’angoscia incontenibile. Un’altra figura geometrica importante è
quella disegnata dal braccio di Cristo abbandonato verso il suolo, seguito dal suo viso e poi
sormontato da quello della Madonna e dietro ancora quello di una delle Marie. L’incisione
sottolinea ancora di più la progressione dei valori compositivi delle figure: ci si rende conto che
il braccio di Cristo con le tre teste in sequenza è affiancato dalla posizione di gambe, braccia e
panneggi che partendo dalla mano abbandonata di Cristo producono una specie di raggiera a
timbro ossessivo. Ma ciò che sorprende maggiormente è il fatto che tutta questa struttura
portante della geometria compositiva non sovrasta mai la pura drammaticità della scena: linee
rette trasversali o a raggiera sono perfettamente celate dalla commozione disperata che
inarrestabile raggiunge il proscenio della pittura.
A proposito di opere perdute del Correggio, esistono una decina di copie di un dipinto originale
dell’Allegri di cui uno si trova nella Galleria di Parma, più qualche incisione. La pittura
originale, di cui esistono testimonianze nei secoli passati, è letteralmente scomparsa. Si tratta
del Giovane fuggente dalla cattura di Cristo: l’episodio è tratto dal Vangelo di Marco (14, 5152) che narra, appunto, del tradimento di Giuda a Cristo.
Questa versione del Vangelo che vi proponiamo è tratta dall’originale greco stampato agli inizi
del Seicento in volgare pistoiese da Diodati7.
“Hor colui che lo tradiva havéa dato loro [agli sbirri] un segnale: dicendo, Colui il quale io
havrò baciato è desso: pigliatelo, menatelo con voi sicuramente. E, come fu giunto, subito
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San Marco XIV, 44-52. La Bibbia di Diodati, Nuovo Testamento e Apocrifi. Edito da I Meridiani.
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s’accostò a lui, e disse: Bene stii, Maestro: e lo baciò. Allhora coloro gli misero le mani
addosso, e lo presero.
Ed uno dei seguaci ch’erano quivi presenti trasse uno coltellacio, e percosse il servidore del
Sommo Sacerdote, e gli spiccò l’orecchio.
E Iesu fece lor motto, e disse, Voi siete usciti con ispàde, e con haste, come contr’ad ladrone,
per pigliarmi. Io era tutto dì appresso di voi, insegnando nel Tempio, e voi non m’havete preso:
ma ciò è avvenuto, accioche le Scritture sieno adempiute.
E tutti [i seguaci suoi], lasciatolo, se ne fuggirono.
Ed un certo giovane lo seguitava, involto d’un panno di lino sopra la carne ignuda: ed i fanti lo
presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo.”
Nel testo si dice esplicitamente che il giovane coperto da un lenzuolo seguiva Gesù. Solo
quando sentì addosso le mani delle guardie capì che si trattava di una imboscata ed evitò la
cattura sciogliendosi dal drappo e ammollandolo ai fanti presi in contropiede. Molti
commentatori di fede cattolica hanno cercato di minimizzare il significato di quella presenza,
essi si chiedono: chi era quel ragazzo? Uno qualunque che si era svegliato nella casa in cui
dormiva Gesù e l’aveva seguito attratto dal frastuono, solo per curiosità? Impossibile: nel
Vangelo non si raccontano mai aneddoti inutili e senza senso. Infatti più di uno studioso, anche
credente, insinua senza alcuna malignità che si tratti di un giovane che dormiva con il Messia.
Diciamo subito che sono quasi inesistenti altri dipinti che illustrino questo episodio, ne
conosciamo solo uno di Durer e un altro eseguito da Ercole de Roberti, il cui originale sta a
Bologna: se Correggio lo ha dipinto e tanti altri pittori hanno ritenuto di eseguirne delle copie
non può essere solo per un valore pittorico, ma anche per la straordinaria situazione che vi si
racconta. Qualcuno ipotizza che il ragazzo rimasto ignudo sia Giovanni Evangelista, ma anche
questa versione non sta in piedi. Ma passiamo ad esaminare il dipinto: l’eleganza e la
leggerezza con cui il giovane si libera dal drappo sfuggendo all’aggressore e quindi scattando in
una corsa che lo porterà indubbiamente alla salvezza, ha dello straordinario. Fa venire in mente
un’azione da podista greco in gara nello stadio: è un gesto stilisticamente ineccepibile che ci è
capitato di scorgere solo rappresentato su vasi attici e in alcuni disegni di Giulio Romano; così
come qui viene espresso si traduce in un lazzo colmo di sottile umorismo raddoppiato dallo
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scorgere, alle spalle del fuggitivo, la figura del soldato che arranca in modo pesante e goffo. In
realtà non si tratta di un semplice soldato, infatti per l’elmo piumato che calza in capo ci fa
venire subito in mente lo stesso ufficiale romano che invade la tela nella Cattura di Caravaggio,
ma che qui proietta il braccio in avanti nell’ultimo tentativo di acchiappare il podista sfuggente
proprio mentre egli sembra irridere alla beffa riuscita a meraviglia.
C’è un altro dipinto di Correggio che produce enorme commozione per il tema e la dolcezza
che sa esprimere e che per il grande successo da cui è stato accolto, ha provocato una miriade di
riproduzioni d’ogni tipo. Stiamo parlando del cosiddetto Matrimonio mistico di Santa Caterina.
Le due donne, la Vergine e la giovane Santa, sono entrambe di profilo con i visi che quasi si
sfiorano: sembrano una lo specchio dell’altra. Infatti, quasi sicuramente, la modella è una sola:
l’immancabile dolcissima Girolama. Il bambino Gesù non è il solito putto nato da poco, qui ci
appare più grandicello e non viene mostrato ignudo, ma indossa un abito. Il volto della
Madonna proteso in avanti copre quasi per metà il viso del suo Bambino: questa soluzione
davvero insolita accresce enormemente il senso di complicità che affiora palese fra madre e
bimbo. Gesù sembra chiedere alla madre: “Ma davvero posso sposare questa stupenda
ragazza?” e la Madonna sembra rispondere: “Certo, anzi sbrigati a infilarle l’anello al dito. Non
vedi quanto lo desideri anche lei?” La straordinaria commozione che si legge sul viso di Santa
Caterina è amplificato dall’impiego della luce; la Madonna ha il volto in ombra, il suo profilo è
disegnato dal taglio di sole che illumina metà del viso di Gesù, mentre la figura della Santa è
completamente illuminata dal fascio luminoso che taglia la scena. Qui dobbiamo sottolineare
come siano pochi i pittori del Rinascimento, compresi i grandi veneti e toscani, che dimostrino
tanta sapienza nel gestire il chiaro e l’ombra producendo volumi e ritmi di tanta bellezza.
Naturalmente l’Allegri anche qui non si lascia sfuggire l’altra fra le sue doti da gran maestro:
alludiamo alla sapienza compositiva attraverso la quale riesce a collocare le figure. Questa
lettura ci viene facilitata se la deduciamo dalle acqueforti che riproducono in gran numero
questo dipinto: abbiamo detto che le due protagoniste sono poste una di fronte all’altra di
profilo. Se seguiamo l’arco che raccoglie i volti, le spalle e le schiene d’entrambe e quindi
risaliamo seguendo le braccia, otterremo due ellissi che si compenetrano e che appresso
continuano a rotare coinvolgendo i due corpi femminili che insieme avvolgono il piccolo Gesù.
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Come perno al movimento nel centro fra i due volti scende una lunga e sottile foglia di palma,
simbolo della purezza, segno che prosegue fino a raggiungere il panneggio della giovane
martire.
Ma di certo il dipinto di Correggio che ha sorpassato ogni altro nel numero delle copie dipinte e
in quelle in acquaforte e stampa è quello della Madonna con bambino e un piccolo Angelo.
Ancora, di certo è stato eseguito dall’Allegri qualche anno appresso l’aver incontrato e preso in
moglie la sua compagna per la vita. Infatti in questo ritratto Girolama è ancora molto giovane e
quel bimbo che tiene in braccio e al quale offre il seno gonfio di latte è suo: si tratta del
primogenito (Pomponio). La Vergine madre qui accenna ad un sorriso pieno di dolcezza:
evidentemente si sta divertendo nell’osservare l’impaccio del piccolo Gesù che non sa decidersi
se appoggiare le proprie labbra al capezzolo della madre o accettare il dono del bambino alato
che gli offre una manciata di datteri. Certo, anche qui ritorna il poema amoroso del Cantico dei
Cantici. Il bimbo alato che qualcuno ha identificato nel Giovannino che offre i succosi frutti
osserva con intensità di sguardo il seno della Vergine quasi fosse attratto dall’idea di suggerne
il latte a sua volta. Pare che l’angiolino stia facendo una proposta di scambio azzardato:
“Fammi assaggiare qualche goccia di latte della tua mamma e io in cambio ti do tutti i datteri
che tengo in pugno”. A quella proposta il Bambino Gesù sembra bloccare il gesto del
compagno di giochi e, ponendo la mano presso il seno della Madre, pare dica: “Eh no, il seno è
mio e non te lo do!”
Non possiamo fare a meno anche in questo caso di prendere in esame la struttura compositiva
di questo capolavoro: tutto, volti, braccia, mani, gambe e piedi della Santa Madre e dei bimbi
sono raccolti dentro una sequenza di cerchi della stessa dimensione che vanno roteando uno
dentro l’altro, creando una sensazione di festoso mercato fra i frutti di dattero e i seni della
Madre. Qui ci coglie la memoria delle grandi madri dell’antica e costante rappresentazione
della nostra cultura mediterranea con Demetra e i suoi figlioli che si disputano golosi i seni
turgidi per la gran quantità di latte che le sgorga intrattenibile dai capezzoli.
Osservando la serie finale dei disegni preparatori degli affreschi delle cupole di Correggio ci
rendiamo conto quasi a ritmo costante di una situazione della quale abbiamo già accennato
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l’imponente presenza: stiamo parlando delle gestualità che alludono a passi di danza e a
movimenti contrappuntati con braccia e corpo tutto.
Lassù incontriamo Gesù che sembra accennare un ballo nell’aria: intorno ritroviamo le amiche
di Eva ed ella stessa che danzano sfrenate e anche i bimbi nel loro gioco si sono trasformati in
piccoli danzatori, poi gambe e braccia si agitano uno appresso all’altro segnando ritmi da
tarantola e pavana. Ma anche Gesù nel Noli me tangere sembra accennare ad una danza e
presso a lui sembra sollevarsi all’impiedi anche la sua compagna Maddalena pronta a seguirlo
nel ballo. Quasi con logica obbligata, ci viene alla mente quello stupendo canto ritrovato nel
Vangelo apocrifo di Giovanni della seconda metà del II secolo d.C.
E’ Gesù che parla, quasi cantando:
Rispondi alla mia danza.
Non ho casa, eppure un tetto sempre mi protegge,
non tengo campi, eppure ogni podere posso attraversare
non ho templi coperti con cupole, ma ho per cupola tutto il cielo.
E’ inutile che tu cerchi uno specchio, affacciati al mio viso,
ti ci vedrai riflesso.
Una porta sono per te che bussi, strada sono per te che devi camminare
Rispondi ora alla mia danza, non c’è commento più eloquente
Di un corpo che si agita nell’aria.
Danzando mi dimostri che sai leggere ciò che vado dicendo.
Tu hai visto la mia sofferenza e, vedendo, non sei rimasto immobile,
hai torto il tuo corpo come un albero squassato dal vento.
Ti sei torto nella danza per diventare saggio.
Tu mi hai come un luogo di riposo, ora consolati in me,
danziamo e accompagniamoci con il sorriso.
Io ho deriso tutto con la parola e ho saltellato nella beffa dello sghignazzo.
E io stesso ho riso nell’essere deriso.
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A questo punto del percorso dell’Allegri, ci rendiamo conto dell’incredibile quantità di opere
prodotte dal maestro di Correggio: ne abbiamo contate più di cento di cui un gran numero di
Madonne col bimbo e altre dove la Vergine sovrasta gruppi di Sante e Santi più qualche putto
che non può mai mancare.
Ma lo spazio più esteso affrescato dal pittore è senz’altro quello delle aree concave delle cupole
con relative basi: si tratta di intonaci che coprono mura per centinaia di metri quadri con una
folla di personaggi mobili che galleggiano in un cielo profondo sfondato fra nubi dalle quali
spuntano volti e corpi di altre anime che fluttuano nella nebbia. Ciò che impressiona
maggiormente di quelle straordinarie scene è il movimento: non c’è figura che se ne stia assente
e beata in quello spazio, ognuno si muove agitando braccia e gambe che si sorpassano l’un
l’altra come una sequenza futurista di Balla, Boccioni e Severini.
Certo osservando d’appresso le varie fasi pittoriche, anche le più nascoste di quel doppio, triplo
paradiso, siamo portati ad immaginare scene sempre diverse che si susseguono come su un
enorme schermo rotante: ci puoi leggere la tragedia di Icaro che cerca di guadagnare alti spazi
navigando per mezzo di ali incollate con la cera, e poi ecco il sole che scioglie le piume e Icaro
che precipita urlando fino a schiantarsi. Ci vedi frammenti di disegni giganteschi di Leonardo
con scheletri di ali che attraversano l’affresco ad ogni lato, incrociando angeli appena abbozzati
e poi ancora le immagini acrobatiche inventate per gli spettacoli sacri dentro le cupole di
Firenze e Milano da Brunelleschi e dal Bramante, ecco le figliole che sbattono ali di carta e
vanno muovendosi appese a cerchi che rotolano nella grande macchina del cielo; ma dove ti
senti mancare il fiato è nella disputa che si svolge davanti ai tuoi occhi e alle tue orecchie come
davanti al fondale di un immenso cielo: i dialoganti sono un contadino e un grande sapiente, il
tema è quello sulla teoria geocentrica di Tolomeo opposta a quella di Copernico. All’inizio ti
pare che il contadino si esprima nel dialetto di Ruzzante, ma poi vieni a scoprire che quelle folli
teorie del “villan di Pava” sono sì ruzzatine, ma scritte da Galileo Galilei in persona. Proprio
lui, il grande scienziato pisano che insegnava a Padova, che impiegava il linguaggio del
Ruzzante per mascherare con quella lingua ostrogota le folli teorie nuove che per poco non gli
procurarono la prigione e anche il rogo.
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È un reperto spettacolare di scienza e teatro completamente sconosciuto, specie agli eruditi e ai
sapienti, ma di certo sarebbe piaciuto tanto all’Allegri e, se permettete, glielo dedichiamo.
Dunque da una parte c’è il contadino che si chiama Nale e dall’altra il dottore sapiente che tiene
lezione al villano. Per primo prende la parola il dottore:
DOTTORE: Ora, caro Nale, se tu mi presti attenzione, ti mostrerò come, grazie alla divina
intuizione di Aristotele, si reggono gli astri e i pianeti nel cielo. I pianeti e gli astri stanno
incastonati dentro cerchi e sfere immense
di vetro, anzi di cristallo purissimo, sfere e cerchi che si muovono in grande sincronia fra di
loro intorno alla terra, che per nostra fortuna sta fissa, immobile, nel centro dell’intero sistema.
NALE: Ah, ah, ah! I astri e i pianéta stan incastonó deréntro
el voltón de cristal compàgn che le campane trispàrenti per covrìr i santi? Nel balón de véder?!
DOTTORE: Sì, sì, esatto, esatto! Di queste sfere ce ne sta una in particolare, straordinaria,
dentro la quale è incastonato il sole.
NALE: Còssa? El Sole el sta incastonà deréntro al vetro? ’Sta fornàse brusànte che desléngua el
fèro, che desléngua el bronzo, che desléngua anco l’azàro… l’è incastonò dentro una capa de
cristal?! Ah, ah, ah! Ma per ’sto gran calór de fornàse che l’è ol Sol tüto l’andarèsse infondùo,
tüto infondùo andarésse ’sto vetro! Tüto stcioparèse come un gran lampadari e a nuioltri ghe
tocherèsse andar a sbalzolóni in per la Tèra con tüti i vetri che se inzòca dentra ai pie!
DOTTORE: Sentilo, il nostro sarcastico Nale! Ora dimmi, secondo il tuo grande ingegno, come
starebbero appesi gli astri lassù?
NALE: No’ sta miga pendùi i astri, no. I va rotolando pe’ l’àire!
DOTTORE: Rotolando?! Ivi compresa la Terra?!
NALE: Sì, pruòpri! Comprendùt ol nostro pianeta. Mi son sigùro che la Tèra no’ sta miga fissa
inciodàt come dise l’Aristotile, ma la va zizeràndo come ’na tròtola in gran zércolo… Gh’havìt
in ment la rùsola?
DOTTORE: Sì, la ruzzola… che poi sarebbe, se non erro, quella specie di formaggio asseccato
che i contadini della tua razza cingono con una lunga fune, quindi tirando la stessa lanciano il
formaggiotto rotante a srotolarsi lungo la china e spesso lo fanno volare.
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NALE: Ben… ecco, quèlo… o si ti vol, compàgn a ’na sfritàda de zentomìla milión de òvi…
’na sopressàda zigànte che va
zizzagàndo per ol ziél, donde ol Sol l’è ’na polenta… un polentón stragrande infogà… che nel
pindorlàr tremendo ol va intorno e sbròfa fòra gnòchi de polenta che po’ son le stèle che
sbrìgola in del firmamento!
DOTTORE: Ah, ah, ah! E quindi gli astri sarebbero proiettati nell’universo senza tracciare
un’elisse di ritorno?
NALE: Cosa sarèsse ’sto elisse de restórno?
DOTTORE: Intendo il vagar degli astri: quando la tua sfrittàta che lanci si ritrova a compier
parabole continue, essa tua ruzzola terrestre, rimane su per cento battiti di ciglia massimamente,
poi cala la tensione e finisce al
suolo. Ma gli astri reali, le sfrittàte nostre celesti, Luna e stelle, le nostre polente, rimangon su,
non calano manco di un grado e continuano nel loro vorticare infinito, costante. Come lo
spieghi? Come giustifichi la tensione
che le costringe a disegnar parabole perfette in eterno?
NALE: Beh, basta no’ desmentegàrse de la traziùn che végne de l’alta e basa marea e per il
tiramento de le misme.
DOTTORE: Cosa?! La trazione? Il tiramento? Bassa e alta marea nel firmamento? Cosa vuol
dire?
NALE: Ma sì… l’è semplize… coma quand la Luna e la Tèra in del loro zizzagàr, i arìva
pròxime l’una a l’óltra, èco che salta fóra l’alta marea. Gh’è ol mar che da la Tèra se spónza de
fóra come una panza de una dona ingravidàda…
squàsi ciuciàdo da la Luna, e anche i
sbotón, i zermògli che gh’è in de la Tèra, la Luna le tira. E gh’è anca i péssi che vorarèsse
tiràrse de fóra e sbotàr in ver la Luna… E anca ai animal ghe tira sgrogognà de vegnìr fóra, che
tüto in de l’universo l’è un gran tiramento: co gh’è la Luna che tira co’ la Tèra, a gh’è la Tèra
col Sol che tira, i pianeti se tiran l’un l’oltro.
Insoma, nasse un desìo passionàd compàgn de un magnàtismo maravegióso tremendo, chè i ghè
costrìnze a ziràr deréntro le orbite senza farse spudàr de fóra.
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Chè i pianeti vorsarìa slonzonàrse, andar de parabola, ma gh’è un altro subito che ol tira:
«Végne qua!» (Mima descrivendo in una specie di danza pavana l’attirarsi degli astri)
BRUUAAAM! Torna indrìo e de l’altro canto gh’è un altro ch’el tira: «El va, el va!!»
PLAAAK! Torna indrìo… e l’elisse se forma per i tiramenti: tira v’un che tira l’altro, tüto se
tira! Così no’ se dise forse che un òmo, quando l’è in amor, ghe tira? A l’òmo ghe tira sempre
per squasi tüte le fèmene... che noialtri semo plu zenerósi! E no’ se dise che una fèmena ghe tira
per ol sò òmo? E dònca tüti, astri e pianeti e le stèle stan dentro a un tiràrse vorticoso de
tiramenti passionàdi, che tüto ol desechilìbrio se stciaparèsse in un gran desastro fracasóso se
no’ ghe fuèsse ’sto tiramento… che po’ l’è
ol magnifico tiramento zeneràl de l’universo in amore!
DOTTORE: L’universo in amore? Ma questo tuo universo in amore è eterno?
NALE: Mah, nisciùno l’è eterno in tèl zièlo. No’ gh’è astri, no’ gh’è pianeti che i sìvia per
sempre. Solamente ol nostro Deo Padre l’è eterno... forse. E puranco ol nostro Sole
se retroverà un ziorno col tiramento che se smorza… ol sò magnetismo e astri che lo tira se
slasserà andar… se slabra ’sta arcada cilèste, se trova con venti de corénti de contro e...
teremendo!, se spénge ol gran falò de fògo, se
smorzerà ol Sol e la sòa lus… e una cóa luçente ’mé meteora infogàda se slogherà svortegànte
filante per ol çielo… cossì in de lo scuro despàre desolvéndose ol Sole.
«Ehi! L’è terminàt lo spectàcolo… Silénti!... Tüti dormienti in sempiterno! E no’ rompìt pì i
cojón!»9
DOTTORE: Oh, oh, oh! La fine dell’universo orrendo! È un giudizio universale proprio da
sghignazzare! Ah, ah, ah! Morir dal ridere!
NALE: No, no, l’è ol tò de universo che ol fa crepàr de’ ridàde, doctor, eh… con ’ste tòe volte
del ziélo in cristal, col Padreterno impatacàt in de la volta del firmamento
co’ in testa inciodàt un triangolo.
È che a vui dotóri ve fa spavento l’idea de un universo tròpo grando… Voàltri preferìt che ol
sìvia limità e calculàbile… No, mé despiàse dotóri, l’universo no’ l’è restrengiùo e no’ l’è
calculàbile… l’è tüto de un grand desórdene
emmensuràbele. L’è masa pi’ grande de quèlo
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che se pòl penzàre. L’universo l’è infinito... parchè l’è ol Deo Padre che no’ lo gh’ha finito! E
’sta solusión a vui àlter siòri doctóri ve porta spavento… Voàltri preferè de pensar a un Deo
Creadòr a vostra emmàzine, eguàl a vui… de la vostra misura, perché se ’sto Deo Padre ol
strarépa fora del normale, sbota un universo in del qual tüti se despèrde spampanà.
Ecco la rasón che ol va fàito enventàrve un creato de corta misura, in manéra che la Tèra sia
sempre lì ben piantàda intramèso al gran giardin, fermàda, co’ tüti i pianeti che i zira torno a
torno a noaltri, co’ la giunta del Sole osequieóso che zira come fuèsse deréntro a ’na giostra e
l’òmo intraméso sentà, coi astri che i zira: «Che bel tramonto che te m’è fàit ’stassera, gràsie!
Oh che bel’alba! Oh la Luna che la monta! Ohi, Marte, semo in ritardo! Venere, va’ soto e
covrete ’ste ciàpe,svergognà!»
Ma si ti vegni a descrovrìr, de incanto, che la giostra no’ gh’è miga... che la Tèra gira ’mé ’na
sfritàda che rùsola per ol çiél… e astri tüti a gh’hann ognun un sò ziraménto intorno al Sol e a
ogni momento te incòrgi che artri pianeti e artre stèle spunta dapartùto… Alora no’ gh’è più
devìna misura… l’onivèrso l’è sfrondàt e tüto devénta spropositàt, a comenzàr dal Padreterno…
un Deo che no’ ti
pol pì imazzinàrlo stravacà su ’na nuvola, trasportà de angiulìn co’ l’ali, no, anco lu, Deo, l’è
andàt fóra de norma e spampanàt in l’universo smoderàt. No’ esiste pì’ ni misura
ni proporzión. Cossì, a l’estànte, l’òmo devénta pìcol, ma cossì pìccol… picinìn, che al sò
confronto una pùresepidòcio la parèsse un eliofànte: «Oh, donde sèito ti, òmo?» (Con voce
sottile) «Son chi… In tel fondo...» «Che fondo? Indove?» (Camminando intorno alla ricerca
dell’invisibile creatura) Fàite védar… azzènde un fògo… Donde siii?… Donde siiiiii? Non te
sento pì… (Mima, per inciampo, dischiacciarlo col piede) GNACH!
«Ahiaoa!»
«Oh!… Scùsame… perdoname… te gh’ho schisciàdo!»
E l’è finìda tüta l’umanidàd!
TRADUZIONE DELLE BATTUTE DI NALE (da mettere in fronte pagine)
1 Ah, ah, ah! Gli astri e i pianeti stanno incastonati dentro il voltone di cristallo come le
campane trasparenti per coprire i santi? Nel pallone di vetro?!
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2 Cosa? Il Sole sta incastonato dentro al vetro? Questa fornace rovente che scioglie il ferro, che
scioglie il bronzo e scioglie anche l’acciaio… è incastonata in una cappa di cristallo?! Ah, ah,
ah! Ma per ’sto gran calore di fornace che è il Sole tutto andrebbe fuso, tutto fuso andrebbe
questo vetro! Tutto scoppierebbe come un gran
lampadario e a noialtri toccherebbe andar a saltelloni per la Terra con tutti i vetri che ci si
infilano nei piedi!
3 Non stanno mica appesi gli astri, no. Vanno rotolando nell’aria.
4 Sì, proprio! Compreso il nostro pianeta. Io sono sicuro che la Terra non sta fissa inchiodata
come dice l’Aristotile, ma va girovagando come una trottola in gran cerchio... Avete in mente la
«ruzzola»?
5 Bene... o se vuoi, come a una frittata di centomila milioni di uova... o una sopressata gigante
che va zigzagando per il cielo, dove il Sole è una polenta, un polentone stragrande infuocato
che nel vorticare tremendo va
intorno e spruzza fuori gnocchi di polenta che poi sono le stelle che brillano nel firmamento!
6 Cosa sarebbe questa ellisse di ritorno?
7 Beh, basta non dimenticarsi dell’attrazione che arriva
dall’alta e bassa marea e per il tiramento delle medesime.
8 Ma sì… è semplice… come quando la Luna e la Terra, nel loro zigzagare, arrivano vicine
l’una all’altra, ecco che salta fuori l’alta marea. C’è il mare che dalla Terra si spinge in fuori
come una pancia di donna ingravidata... quasi succhiato dalla Luna, e anche i germogli che
stanno nella terra, la Luna li attira. E ci sono anche i pesci che vorrebbero uscire e lanciarsi
verso la Luna… e anche agli animali gli tira la voglia di venir fuori, che tutto nell’universo è un
gran tiramento (tutto si attira): c’è la Luna che si attira con la Terra, c’è la Terra col Sole
che tira, i pianeti si attirano l’un l’altro. Insomma, nasce un desiderio appassionato come un
magnetismo meraviglioso tremendo, che li costringe a girare dentro le orbite senza farsi sputar
fuori. Che i pianeti vorrebbero
allontanarsi, andar di parabola, ma ce n’è un altro subito che li attira: «Vieni qua!» (Mima
descrivendo in una specie di danza pavana l’attirarsi degli astri) BRUUAAAM! Torna indietro
e dall’altro canto ce ne è un altro che lo tira: «Va, va!!» PLAAAK! Torna indietro…
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e l’ellisse si forma per i tiramenti: tira l’uno che tira l’altro, tutto si attira! Così non si dice forse
che un uomo, quando è in amore, gli tira? All’uomo tira sempre per quasi tutte le femmine…
ché noialtri siamo più generosi!
E non si dice che a una femmina le tira per il suo uomo? E dunque tutti, astri e pianeti e le
stelle, stanno dentro a un tirarsi vorticoso di tiramenti appassionati, che tutto l’equilibrio si
spaccherebbe in un grande disastro fracassoso se non ci fosse questo tiramento… che poi è il
magnifico tiramento generale dell’universo in
amore. Mah, nessuno è eterno in cielo. Non ci sono astri, né pianeti che siano per sempre.
Solamente il nostro Dio Padre è eterno… forse. Anche il nostro sole si ritroverà un giorno col
tiramento che si smorza... il suo magnetismo
e gli astri-pianeti che lo attirano si lasceranno andare…
si slabbra questa arcata celeste, si trova venti e
correnti contro e... tremendo!, si spegne il gran fuoco, si smorzerà il Sole e la sua luce… e una
coda lucente come una meteora infuocata si allungherà vorticando per il cielo… così nello
scuro scompare dissolvendosi il Sole. «Ehi! È terminato lo spettacolo… Silenzio!... Tutti
a dormire in sempiterno. E non rompete più i coglioni!»
9 No, no, è il tuo di universo che fa crepare dalle risate, dottore, eh… con ’ste tue volte del
cielo in cristallo col Padreterno appiccicato alla volta del firmamento, con in testa inchiodato un
triangolo. È che a voi dottori vi fa spavento l’idea di un universo troppo grande... Voialtri
preferite che sia limitato e calcolabile… No, mi dispiace dottori, l’universo non è stretto e non è
calcolabile… è tutto un gran disordine incommensurabile. È molto più grande di quello che si
può pensare. L’universo è infinito... perché è il Dio Padre che non l’ha finito! E questa
soluzione a voialtri signori
dottori vi spaventa… Voialtri preferite pensare a un Dio creatore a vostra immagine, uguale a
voi… della vostra misura, perché se ’sto Dio Padre straripa fuori dal normale, sbotta un
universo nel quale tutto si disperde spampanato.
Ecco la ragione che vi ha fatto inventare un creato di corta misura, in maniera che la Terra sia
sempre lì ben piantata in mezzo al gran giardino, ferma, con tutti i pianeti che girano attorno in
tondo a noi, con l’aggiunta del Sole ossequioso che gira come fosse dentro a una
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giostra e l’uomo seduto in mezzo, con gli astri che gli girano intorno: «Che bel tramonto che mi
hai fatto questa sera, grazie! Oh che bell’alba! Oh la Luna che la monta!
Ohi, Marte, siamo in ritardo! Venere, va’ sotto e copriti le chiappe, svergognata!»
Ma se vieni a scoprire, d’incanto, che la giostra non c’è... che la Terra gira come una frittata che
ruzzola per il cielo... e gli astri tutti hanno ognuno un loro giramento intorno al Sole e in ogni
momento ti accorgi che altri pianeti e altre stelle spuntano dappertutto… Allora non c’è più
divina misura… l’universo è sfondato e
tutto diventa spropositato, a cominciare dal Padreterno… un Dio che non puoi più immaginare
stravaccato su una nuvola, trasportato dagli angioletti con le ali, no,
anche lui, Dio, è andato fuori di norma e spampanato nell’universo
smoderato. Non esiste più né misura né proporzioni. Così, all’istante, l’uomo diventa piccolo,
ma così piccolo… piccino, che al suo confronto una pulce-pidocchio pare un elefante: «Oh,
dove sei tu, uomo?» (Con voce sottile) «Sono qui… nel fondo...» «Che fondo? Dove?
(Camminando intorno alla ricerca dell’invisibile creatura) Fatti vedere… accendi un fuoco…
Dove seii?… Dove seiiiiii? Non ti sento più… (Mima, per inciampo, di schiacciarlo col piede)
GNACH! «Ahiaoa!»
«Oh, scusami… perdonami, ti ho schiacciato!»
Ed è finita tutta l’umanità!