IL CORREGGIO Dario Fo Antonio Allegri, meglio conosciuto come il

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IL CORREGGIO Dario Fo Antonio Allegri, meglio conosciuto come il
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IL CORREGGIO
Dario Fo
Antonio Allegri, meglio conosciuto come il Correggio, oggi nella
memoria di chi si occupi di pittura, in particolare di quella del
Rinascimento italiano – forse uno dei momenti più alti e gloriosi di tutta
l’intera storia dell’arte – si ritrova in classifica mezzana. Anzi va
sottolineato che già nella prima metà del secolo passato senza i
dirompenti studi e saggi di Roberto Longhi e Federico Zeri a riscoperta
del Correggio, egli si ritroverebbe ad arricchire la pletora degli pseudo
ignorati. Infatti all’inizio del secolo l’attribuzione di opere al grande
pittore padano si limitava a pochi dipinti scelti fra i meno importanti. La
sua vasta produzione era stata letteralmente sottratta all’autentico autore
e pitture straordinarie come L’educazione di Cupido con Venere ignuda
o la stessa dea dormiente spiata dal satiro o Giove che si tramuta in nube
per godersi la splendida Io, Il ratto di Ganimede, Danae posseduta da
Giove che si è trasformato in monete d’oro erano state impunemente
tolte al Correggio per passare ad arricchire la produzione di Tiziano, di
Lotto, di Giorgione e perfino di Raffaello. Per restituire il maltolto al
legittimo autore ci vollero veri e propri raid di riscatto combattuti da un
tenace esercito di critici italici e stranieri. Per quanto poi riguarda l’opera
oggi più conclamata del Correggio, cioè a dire i giganteschi affreschi
delle cupole di Parma, essa era ben presto finita nell’oblio, spazzata via
da un uragano di vuoto culturale. Senza la follia di un vasto gruppo di
cittadini del Parmigiano, pardon, parmensi, l’ultima operazione di
spericolato intervento portato a compimento nel 2006 con la costruzione
imponente di torri d’acciaio, macchine che hanno permesso al pubblico
di raggiungere i 18 metri d’altezza dentro l’enorme cupola, non avrebbe
mai avuto esito. Migliaia di visitatori non si sarebbero mai ritrovati
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all’istante dentro quell’immenso cielo sfondato da angeli che
impunemente svolazzano intorno a dozzine di santi spaparanzati su nubi
e putti che appaiono all’istante fra le gambe dei beati in uno scorrazzo
festoso. Tutta l’opera sarebbe rimasta unica fonte di piacere solo per
uccelli sperduti entrati per errore nella cattedrale e per qualche
pipistrello ubriaco a causa di tanti svolazzi senza senso.
Di certo il giovane Antonio Allegri non ha goduto di ciò che
normalmente si dice un’infanzia facile e serena: venne al mondo nel
1489 in Borgovecchio di Correggio in un’angusta dimora posta su due
piani nella quale la famiglia degli Allegri aveva ricavato poche stanze
dentro le quali si ammassava una numerosa famiglia composta dal padre
Pellegrino, la madre, un suo fratello, lo zio Lorenzo, con moglie e
numerosa prole, cinque ragazzini, che si aggiungevano ai fratelli e alle
sorelle del piccolo Correggio. Il padre s’arrangiava battendo la piana
nelle vesti di un venditore di stoffe rustiche e altri manufatti di basso
valore e prezzo, i cosiddetti “reverendoli e bochari”, termini che
alludono al rivenditore anche di capi dismessi, aggiunto a quello di
“vociante” corrotto in “bocharo”, cioè l’ambulante che dà la voce della
sua presenza urlando nelle vie dei borghi per ottenere l’attenzione di
possibili clienti: insomma, una specie di vo’ cumprà dell’epoca! Un
mestiere di cui non esisteva protezione di corporazione alcuna tanto che
Pellegrino, nome che indica già un programma, se ne inventò una, quella
dei mercanti de bòn prèscio.
Quindi abbiamo stabilito che Antonio nacque in un borgo in zona bassa.
Anche Giorgio Vasari testimonia che Allegri e la sua famiglia erano di
modeste origini, ricchi solo di prole. La presenza numerosa di ragazzini,
maschi e femmine, era una costante nel mondo contadino e in quello dei
girovaghi di quel tempo e Correggio, che ebbe a sua volta quattro figli,
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fu certamente condizionato da quella perenne presenza festosa di fratelli,
nipoti e figlioli. Lo zio Lorenzo era pittore e Antonio ragazzino di certo
imparò i primi rudimenti della pittura da quel maestro di casa, un
maestro di doti minime tant’è che il nipote, ancora giovanissimo, come
assicura il Vasari, lo sorpassò ben presto nell’arte.
Eppure, in tanta difficoltà, il mercante dai prezzi stracciati esibiva un
carattere del tutto positivo tanto che veniva soprannominato “el Doman”,
a intendere qualcuno che proietta a un prossimo futuro la propria
fortuna. Evidentemente il figlio, apprendista pittore, gli assomigliava
tant’è che a sua volta veniva chiamato “el Doman”. Ma il Correggio non
era certo propenso ad attendere con speranza che la fortuna arrivasse per
conto proprio. E qui ci viene in mente un geniale discorso poetico di un
altro grande personaggio nato in difficoltà e poi cresciuto, contro ogni
previsione, a livelli umani e d’arte straordinari: stiamo parlando di
Angelo Beolco, detto il Ruzzante, contemporaneo del Correggio, nato
esattamente nell’anno 1500, generato da un ricco rampollo di nobile
famiglia lombarda e partorito dalla madre, una servetta, in piena
campagna perché non si sapesse della sua vergognosa nascita. Il brano
che vi proponiamo ha un titolo strambo: La vita. Eccovi il discorso in
questione.
Non conoscete gente al mondo che
vivendo una vita lunga sia giunta ai cento anni? La conoscete?
E ci sono persino di quelli che hanno passato i cento
anni di qualche anno. Vi dirò che ce ne sono di questi
campa-a-lungo una grande quantità, che si sono accorti che sono
stati al mondo solamente quando sono morti. E loro stessi,
finalmente, si sono accorti d’esser stati vivi solo nel momento
in cui l’anima loro tornava al creatore.
Dunque è la morte che li ha fatti accorgere della vita. Ma
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non sapendo quelli d’essere mai stati vivi quando lo erano,
vuoi tu chiamar campare questo loro transitar in vita? No di
sicuro. Anche se tu aggiungessi un centinaio di vite a questa
prima vita, un’altra vita aggiunta all’altra e un’altra ancora,
quelli non avrebbero mai avuto una vita sola da chiamare vita.
Di contro, se uno stesse al mondo giusto il tempo della
giovinezza e in questo breve passaggio ognuno di lui e del
suo stare in vita si fosse accorto per il suo valore e peso, e
quindi alla sua dipartita tutti provassero duolo, non si dovrebbe
chiamare maggior vita la sua?
Ordunque, come nel grappolo d’uva non è la grande abbondanza
degli acini che rende il vino meraviglioso e vivo,
e nemmeno l’estensione dei filari che fa sembrare pregno di
spirito profumato alla follia questo liquido stregato ... così
non è tanto il numero dei giorni che ci rende consci di star
vivendo una vita degna, quanto piuttosto il nettare nel nostro graspo
spremuto carico di ingegno, sapore, follia e conoscenza
impregnate di una "stramberia fantasticante", così
generosa da far sì che quando all’istante finisce la tua vita,
similmente nella vita degli altri viene all’improvviso a mancare
qualcosa della loro vita.
Gran sorte è quindi una vita piena di stralunamenti
come un albero che butta mille fiori e i rami si distendono
a pettinare l’aria e giocano a danzare col vento e non
gli importa di spampanarsi intorno, sperdere fiori e far risate
che paion di spavento. Questo albero si sogna di essere
albero maestro di una nave grande con le vele di trinchetto
e rande gonfie e piene come pance di femmine ingravidate.
Così follia e allegrezza, aggiunte alla ragione, spingono a
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più lunga vita, se questa tua vita non la vai vivendo di nascosto,
ma con gli altri legato, così generoso che non t’importa
di spendere tutto questo tuo campare per far sì che ci
sia giocondità, libertà e giustizia per la gente tutta.
È da lì che nasce l’eternità della vita.
E io vado sperando che il giorno che me ne vado morendo,
la gente dica: "Peccato che abbia finito di campare:
era così vivo, da vivo!".
Antonio era fortemente dotato e così carico d’ansia del sapere non solo
nella pittura, ma anche nell’apprendimento di ogni conoscenza, dalla
geometria alla matematica, dalla meccanica alla filosofia.
Il vantaggio nell’apprendere le basi regalatogli dalla sorte, per il
Correggio era quello di trovarsi nel pieno della sua infanzia in una
famiglia povera di mezzi, ma dotata di un grado di alfabetizzazione
piuttosto avanzato. Per di più il figlio dello zio pittore più vecchio di lui
in quel tempo si laureò a Bologna nel collegio degli studi poveri ed
esercitò la professione medica. Inoltre due suoi zii, Cristoforo e
Giacomo, erano insegnanti. Da questa favorevole condizione nasce la
straordinaria predisposizione dell’Allegri per il sapere, da quello
umanistico a quello scientifico, anche avanzato e rivoluzionario, del
tempo.
Ancora, in tenera età godette dell’occasione che lo portò a incontrare
Giovanni Berni, noto umanista piacentino, il quale fu il suo primo
insegnante di letteratura e scienze letterarie.
Altro suo maestro fu Battista Marastoni che gli insegnò l’arte
dell’eloquenza e della poesia.
A 14 anni, il Correggio va a Modena alla scuola di Francesco Bianchi
Ferrari, maestro tecnicamente preparato, ma scarso di personalità e idee
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nuove. Lavora con grande passione, ma non tralascia lo studio delle
scienze. È in quel momento che incontra il medico Gianbattista
Lombardi docente all’università di Ferrara, che lo istruisce sulla
medicina, la dialettica e la logica.
Il DNA del padre Pellegrino, ambulante, lo spinge a cambiare spesso
luoghi e maestri. Infatti di lì a poco il giovane Allegri, che ha appena
compiuto 15 anni, si trasferisce a Mantova, città del Mantegna, dove
dipinge con Francesco, figlio del grande maestro morto qualche anno
prima. Partecipa alla realizzazione degli affreschi nella cappella tombale
del maestro su progetto dello stesso Andrea Mantegna, seguendo i
disegni preparatori già realizzati da lui stesso qualche tempo prima di
morire.
A Mantova ha l’occasione di vedere per la prima volta dal vivo i dipinti
su parete del Mantegna sistemati nel Palazzo ducale e nelle varie chiese
da lui affrescate.
Nella casa dello stesso Mantegna potrà perfino toccare sculture, le prime
stampe incise e un gran numero di disegni preparatori di famose opere
tra le quali lo scorcio di Cristo deposto dalla croce. Inoltre nei palazzi
dei Gonzaga e negli appartamenti di Isabella d’Este, grazie
all’intercessione di Francesco Mantegna, ha l’occasione di godersi i
giganteschi dipinti dedicati al Trionfo di Cesare che di certo lo lasciano
senza fiato. È qui che l’ancor giovane Correggio capisce d’aver
incontrato un suo incomparabile maestro. Infatti tutti i successivi dipinti
di lì a dieci anni testimonieranno, seppur anche sotto pelle, la presenza
del grande pittore di Padova.
A testimonianza basta osservare un’opera di notevoli dimensioni
dell’ancor giovane Allegri dove è raccontato il Trionfo di David: qui
notiamo subito l’analogia compositiva di questo dipinto con le tavole
dedicate proprio al Trionfo di Cesare del Mantegna a partire dalla
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positura in cui ci appaiono i protagonisti in primo piano. Come nella tela
dedicata a Cesare, i personaggi principali si ritrovano quasi in equilibrio
lungo la cornice dell’opera. Il punto di vista in tutta la sequenza di
Mantegna e nella sfilata trionfale di Davide è situato in basso, sotto il
livello della base dei dipinti. In particolare la tavola dedicata al re biblico
riproduce atteggiamenti, situazioni e perfino animali, bandiere e drappi
collocati con grande evidenza dal Mantegna in quella sua imponente
pittura. L’allievo qui ripropone lo stesso clima scenico dove una caterva
di oggetti arraffati nel bottino sono presentati l’uno sull’altro fra un toro
e spade esibite da guerrieri, trombe a corno trionfali mentre lassù si
affacciano, lungo la collina, palazzi, chiese, torri, campanili in
condizioni precarie: è l’allegoria del mondo decrepito che bisogna
abbattere e abbandonare. Ma oltre a Mantegna ecco apparire
un’importante citazione dal dipinto I tre filosofi di Giorgione: un
personaggio quasi identico rappresentante il filosofo arabo con zuccotto
contorto che sta appresso al sapiente cristiano avvolto in un mantello
riccamente panneggiato e che ritroviamo nelle vesti di un personaggio
analogo in un altro dipinto della prima maturità dell’Allegri, cioè nel San
Girolamo che offre il proprio sapere a Gesù Bambino e a sua madre
insieme a un folto gruppo di beati e di martiri, fra i quali san Sebastiano
e sant’Elena che regge una grande croce (Correggio, Skirà, pag. 126).
L’insieme dell’incontro fra i santi è situato di fronte a un paesaggio
incorniciato da alberi di un fitto bosco attraverso il quale il cielo viene
rigato come da inferriate di rami e fronde: anche questo particolare
compositivo ha origine da Giorgione e da altri pittori veneti e lombardi
del tempo, quale lo stesso Mantegna e Dosso Dossi.
Nel suo ricercare con costanza e caparbietà opere degne di essere
studiate il giovane Correggio scopre di possedere una grande dote: una
memoria visiva davvero eccezionale. Di lui i suoi contemporanei del
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mestiere dicevano che fosse una vera e propria spugna: gli bastava uno
sguardo su un dipinto per essere in grado di ridisegnare immagini e
personaggi per intero.
Del resto, in tutta la storia dell’arte si incontrano allievi fortemente dotati
che all’inizio del loro percorso d’apprendistato si sono giovati di grandi
maestri, vedi Tiziano con Giorgione, Leonardo con il Verrocchio, Giotto
con Cimabue e Cavallini, Michelangelo con il Ghirlandaio, ma in tutto il
Rinascimento ci imbattiamo in altrettanti smisurati talenti che non
trovando una bottega che li ospiti sono costretti ad apprendere il
mestiere andando intorno per chiese e collezioni. Così succede anche al
nostro Correggio che si ritrova a vagare come una trottola in ogni dove e
a rubare immagini, idee e soluzioni studiando sulle copie di artisti
inavvicinabili di persona come Leonardo o Raffaello o maestri della
scuola ferrarese e veneziana. Per cui quando osserviamo un dipinto
dell’Allegri eseguito nei primi anni del suo apprendistato scopriamo
tavole e tele la cui composizione delle figure ci appare di continuo
organizzata quasi all’azzardo traendo idee e soluzioni da autori diversi.
Ma per aver prove più chiare di quanto andiamo asserendo, ci basta
leggere il commento analitico che ci offrono alcuni affermati critici circa
un ben noto dipinto eseguito dall’Allegri ancora ragazzo: si tratta della
Madonna del San Francesco, tavola a olio di grandi dimensioni (299 x
245) del 1514. Correggio non era ritenuto un artista precoce e fino a un
secolo fa quasi nessuno fra tutti critici accettava che questa grande
tavola fosse opera sua: si parlava di pittori lombardo-veneti, specie di
Mantova e Ferrara. Morelli, ottimo studioso, a proposito di quest’opera
mette addirittura in dubbio la formazione mantegnesca da tutti
normalmente accettata per collegarla invece al Costa (caposcuola dei
maestri ferraresi) puntando soprattutto sulle caratteristiche del
monocromo del basamento. Ma Venturi nel 1915 già analizza le varie
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esperienze culturali che ritiene presenti nell’opera: a suo dire, La
Madonna col Bambino deriva direttamente dalla Madonna della Vittoria
del Mantegna (Correggio di Skira, pag. 123), la figura del Battista situata
a destra della pala sarebbe quasi identica al Battista in Organo a Verona,
i cherubini sembrano la riproduzione precisa di quelli della tavola della
Madonna in trono con i santi Girolamo e Sebastiano del Bianchi Ferrari
(cfr. Correggio di Skira, pag. 47) di cui il Correggio è stato allievo agli
esordi. L’impianto compositivo del trono senza schienale è tratto
senz’altro da un analogo dipinto del Francia, così come l’immagine della
santa Caterina a destra della Vergine e le decorazioni dei capitelli. A
questo proposito, lo stesso Venturi dichiara: “la pala dell’Allegri è il
risultato
compositivo
e
pittorico
di
un
centone1
di
motivi
quattrocenteschi”. Ricci, altro noto critico, aggiunge ai giudizi del
Venturi l’annotazione di alcuni elementi leonardeschi per la figura del
san Giovanni nonché l’inserto di modelli assunti dal Perugino. E per
finire Longhi individua nell’opera una vera e propria “crisi culturale”
accentuata dall’eccessiva quantità di riferimenti a più che noti pittori
compreso Raffaello di cui, dice, si sente l’eco della Madonna di Dresda,
in quel tempo a San Sisto di Piacenza dove il nostro Allegri ha avuto
senz’altro occasione di conoscerla dappresso.
A questo punto non ci resta che alzarci in piedi e gridare in coro: ladro!
Ma questo insulto ci viene subito serrato nella gola da una dichiarazione
di Picasso in persona che a questo proposito dichiara: “Il pittore comune
di buon mestiere quando scopre un’opera di gran prestigio vi coglie
l’ispirazione, il grande pittore invece non se ne accontenta: ruba tutto!”.
Ma a parte il lazzo e il ghiribizzo ci dobbiamo rendere conto che quel
metodo spesso caotico di usare delle genialità altrui a lungo andare diede
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Il centone è una composizione musicale composta all’ingrosso di diversi autori scelti a caso.
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notevoli frutti tanto sul piano del mestiere che della creatività. Oltretutto
un’altra notevole dote procurava vantaggio al giovane pittore: era quella
determinata dalla giocondità del suo carattere, il cognome di Allegri gli
era assolutamente appropriato giacché egli fin da ragazzo dimostrava
una forte predisposizione al gioco ironico e scherzoso e strada facendo
ve ne daremo dimostrazione trattando delle sue opere.
Torniamo al problema della sua crescita sul piano culturale e cerchiamo
di andare a fondo su come il Correggio riuscì ad arricchirsi della
conoscenza e del sapere.
La spinta determinante raccoglie l’abbrivio grazie all’incontro con i
monaci benedettini nel convento di San Paolo a Parma. Si può ben dire
che per tutto il Medioevo e il Rinascimento questi monaci furono
preziosi detentori del sapere in Europa. A pochi chilometri da Piacenza
esiste ancora il monastero benedettino di Broni che con quello di
Benevento raccoglie un numero incredibile di codici, scritti e documenti
provenienti da tutte le civiltà mediterranee a partire dai Sumeri fino ai
Greci e oltre. In più in quel periodo i monaci benedettini (disegno con i
monaci al lavoro in biblioteca), spesso in duro conflitto con la curia
romana, partecipavano alla ricerca umanistica, lo studio di filosofie non
omologate e soprattutto ponevano grande attenzione allo sviluppo della
nuova scienza specie quella sulle teorie eliocentriche che avevano il loro
fulcro di studio nelle università di Bologna e Ferrara. Guarda caso, in
queste due Università aggiunta quella di Padova, era studente agli inizi
del ‘500 proprio Copernico (ritratto). Suo maestro diretto era Domenico
Maria Novara che aveva tradotto dal greco le intuizioni e le deduzioni di
Aristarco da Samo, Ipparco di Nicea e Claudio Tolomeo. Queste tre
grandi figure della storia del pensiero sono modernissime, assai più
avanzate delle idee pur grandi di Copernico. Questi scienziati dell’antica
Grecia utilizzarono in maniera estesa la geometria e la matematica per
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analizzare i fenomeni astronomici: arrivarono a misurare, servendosi
della proiezione delle ombre prodotte dall’astro solare al suolo, la
distanza dalla Terra al Sole e di conseguenza quella dalla Luna al Sole e
alla Terra (disegno del sistema copernicano, vedi Michelangelo).
Correggio viene letteralmente coinvolto dalle idee assolutamente
sconvolgenti che quei monaci gli propinano a valanga e nello stesso
tempo la reazione del giovane artista così entusiasta produce una grande
simpatia e ammirazione da parte dei monaci che letteralmente lo
ingaggiano per progetti immediati di pittura, soprattutto in affresco, dei
quali tratteremo tra poco.
Nello stesso momento l’Allegri lavora al monastero delle suore
benedettine dove viene in contatto per la prima volta con la famosa
badessa Giovanna da Piacenza, una donna di eccezionale cultura oltre
che di fascino di cui pare fosse notevolmente dotata. La nobildonna gli
commissiona di affrescare la famosa Camera Alchemica, in particolare
la volta che il Correggio propone di dividere in lunette fitte come raggi
proiettati dal sole. Egli qui ha l’idea di un’illuminazione proveniente dal
basso come se un gran numero di candele sistemate su un grande tavolo
centrale da pranzo spargesse luce all’insù. Nella volta, inserite nello
spazio fra i raggi, ci sono quindici monete sulle quali sono raffigurati
putti in quantità che giocano fra loro e si divertono tenendo fra le braccia
cuccioli di cani e altri piccoli animali. Le figure dei bimbi sono di ottima
fattura tanto che subito vengono in mente le immagini di fanciulli
dipinte da Raffaello (particolare putti di Raffaello). È da qui che alcuni
critici con giusto intuito hanno ventilato per la prima volta l’idea che
senz’altro il Correggio già prima di allora dovesse aver visitato Roma e
là avesse osservato con straordinaria attenzione gli affreschi e le tele del
maestro di Urbino. Lo stesso discorso vale per le immagini inserite nei
semitondi (immagine12) presentati come fossero piatti da portata che nel
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mezzo illustrano scene dei miti più famosi della cultura greco-romana
con le tre Grazie (immagine) che si tengono abbracciate, il giovane
uomo che toglie un serpente da un vaso (immagine), la Fortuna con la
cornucopia (immagine) e per finire nel triangolo che sovrasta il
caminetto Diana col suo cocchio (immagine). Alcune immagini delle
decorazioni restano misteriose, solo la badessa ormai avvolta nei panni
di una profetessa alchemica avrebbe potuto forse svelarcene il mistero.
Abbiamo detto della cupola della Camera Alchemica dai raggi solari
delle quindici monete che roteano intorno a un immaginario Sole
(immagine 13). È di certo in quella occasione che l’Allegri conobbe la
figura di Aristarco (immagine 14), lo scienziato che per primo intuì
l’idea del nuovo sistema planetario. Le straordinarie intuizioni dello
scienziato nato nel IV secolo a.C. in un’isola dell’Egeo, nel Cinquecento
furono studiate e divulgate in gran parte delle università italiane, prime
tra tutte, oltre quelle di Bologna e Ferrara, quelle di Pavia e Napoli. A
proposito di Napoli e dei benedettini vogliamo ricordare che uno dei
più appassionati fautori di questa idea, che capovolgeva la teoria
geocentrica, fu Giordano Bruno (immagine 15), guarda caso di
origine e cultura benedettina. Fra gli intellettuali umanisti la
rivoluzione copernicana era seguita con grande interesse. Leonardo
aveva dichiarato: “Di certo non è la Terra al centro del sistema, piuttosto
al centro sta il Sole e intorno roteano i pianeti con la Terra posta in
disparte con essi”.
Non soltanto del nuovo sistema se ne parlava sottovoce in qualche
università del nord, ma addirittura se ne faceva spettacolo in alcune corti
come quella di Ludovico il Moro a Milano dove Leonardo (disegno del
progetto leonardesco 16) aveva addirittura ideato e messo in opera uno
spettacolo agito per mezzo di uno straordinario impianto scenico mosso
da ruote, argani e ingranaggi che muovevano sfere galleggianti nello
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spazio dove il tutto proiettava una fantastica idea del creato.
Siamo nella primavera del 1517, una data per l’Allegri fondamentale,
diremmo magica, quando gli viene messa a disposizione un’enorme
stanza nel complesso del monastero dei benedettini di Parma perché egli
possa eseguire i cartoni per l’affresco che dovrà decorare l’intera cupola
del San Giovanni Evangelista. Il Correggio ha deciso di far apparire
Cristo lassù nel centro della cupola dentro un immenso catino lungo 9
metri e largo 8. Nel cielo tutto il suo corpo alluderà nei gesti a un lento
volo. Intorno a lui centinaia di teste di bimbi si vedranno affiorare
appena illuminate da una luce dorata proiettata dalla figura del figlio di
Dio che qui, come nella metafisica socratica, rappresenterà il Sole.
Intorno appariranno i dodici apostoli sdraiati su nubi sorrette e spinte da
putti che agiranno come in una grande giostra. Ogni figura si muove
sottolineata dal vento che agita i capelli, le vesti e i mantelli dei santi.
Costante, la luce che dà vita agli apostoli, alle nubi e ai putti, proviene
da Cristo. Qui l’idea del turbinare astronomico si sviluppa con una forza
allegorica sconvolgente. Naturalmente la trasposizione metaforica
permetteva di celare l’esplicito discorso scientifico rivoluzionario
dell’universo. Siamo nel 1517, proprio negli anni in cui si organizza la
Controriforma, e in quel clima non era molto agevole e conveniente
dichiararsi entusiasti del capovolgimento che negava la teoria tolemaica.
Infatti Copernico, che si trovava all’università di Ferrara, proveniente da
Varsavia, invitato dal papa Leone X a Roma a illustrare la propria idea
del creato, glissò decisamente l’invito e ritornò nella sua Polonia più
tranquilla, per non tornare mai più in Italia. Quando si dice: il terrore di
ritrovarsi inquisiti dal Santo Tribunale.
Ma protetto come si sentiva l’Allegri dai suoi fratelli benedettini, il
timore di trovarsi sotto indagine non lo sfiorava nemmeno.
È la prima volta nella storia della pittura che un artista riesce a realizzare
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una serie d’opere tanto azzardate, quasi impossibili: stiamo parlando
tanto della cupola di San Giovanni che di quella nel Duomo di Parma.
Va ricordato che la Cappella Sistina e le sue volte furono affrescate da
Michelangelo circa 15 anni dopo e il Giudizio Universale tra il 1536 e il
1541, cioè 18 anni più tardi. E ancora prima dell’Allegri nessuno mai
aveva dipinto un cielo così in alto e in così ampio spazio.
Nel primo grande affresco di Parma, su un lato, nel cerchio di base, è
evidente la figura di San Giovanni. Infatti la scena è dedicata alla sua
visione, evento accaduto poco prima della morte. Sembra quasi di udire
la sua voce che descrive la nascita dell’universo così come è
precisamente scritta nel Vangelo di Giovanni, tradotto dall’originale
greco nel Cinquecento dal Diodati, uno dei primi traduttori in volgare
della Bibbia:
“Nel principio la Parola era, e la parola era appresso Dio, e la Parola era
Dio. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce riluce
nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compresa. Colui che è la luce
vera, la quale allumina ogni huomo che viene nel mondo, era.”
Per dipingere la visione di San Giovanni narrata sull’intera conca della
cupola, il Correggio impiegò due anni, dall’inizio del 1520 alla fine del
1521. Per riuscirvi inventò macchine e si servì di apparecchiature
inusitate. Innanzitutto è quasi certo che disegnò l’intera azione scenica
sul pavimento quasi a specchio della cupola. Per riportare sul piano di
base dell’arcata le distanze e le collocazioni dei personaggi che avrebbe
dovuto dipingere lassù, realizzava sul pavimento i calcoli per mezzo
dell’astrolabio, l’apparecchio a cerchi intersecati e concentrici di cui si
servivano i marinai per orientarsi misurando la distanza che intercorre
fra le stelle.
A questo punto sul testo viene mostrato il progetto dell’impalcatura
originale che sale per l’intera cupola voluta e gestita dai monaci che
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a Parma sono anche gli impresari del Duomo anch’esso in
ristrutturazione. (immagine)
Parma da ormai mezzo secolo è diventata un solo enorme cantiere, non
si progettano e costruiscono solo chiese, ma anche un gigantesco e
altamente operativo ospitale più numerosi edifici pubblici per la gestione
amministrativa dell’intera città. (immagini di Parma da trovare)
Ma dove e in conseguenza di che situazione è nato e sta sviluppandosi
questo particolare momento positivo di Parma?
Tutto ha origine e si propaga nell’intera Lombardia grazie a un nobile
decesso, o se preferite, al decesso di un nobile … nonché principe: costui
è Filippo Maria Visconti che muore nel palazzo ducale della capitale
lombarda nel 1447 creando un impressionante vuoto di potere nella città
e nell’intera regione. Dopo un attimo di sgomento la popolazione di
Milano proclama l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Lo stato visconteo si
era esteso in quel tempo fino a Parma, Bologna, Pisa, Siena, Lucca e
Perugia e all’istante si sparge anche nel nucleo più antico delle città
lombarde. Parma diventa la proclamatrice della “libertas comunalis”,
acquistando, come Mantova, Cremona, Brescia e tutte le città della piana
del Po, una completa autonomia politica e giuridica: riappare la libera
magistratura della “ragione” gestita con il ritorno degli anziani “rettori”
dei comuni. Nel governo della città rientrano i mercanti e gli artigiani, i
popolari e i meccanici.
In questa situazione ancora incerta, i Veneziani cercano di approfittare
dell’empasse politico e amministrativo per appropriarsi dei terreni e
delle città meno protette nei territori dei nuovi liberi.
Ma nel nuovo territorio i “liberati” non ne vogliono sapere di questa
prepotente ingerenza e organizzano la resistenza. Nel 1448 a
Casalmaggiore i Lombardi con Francesco Sforza sconfiggono i
Veneziani, ma vedremo che, come succede spesso, gli alleati, guerrieri
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di professione, riusciranno a mangiarsi terre e autonomia degli insorti.
Come ci spiega Marzio Dell’Acqua nel testo Correggio e le sue cupole,
la creazione della Repubblica parmigiana, la fragilità politica e militare
delle nuove strutture, le contraddizioni fra il ripristino dell’antico e le
difficoltà di dare forma al nuovo, spingono capitani che avevano militato
nelle armate di Filippo Maria Visconti a portarsi a Parma con proprie
truppe e cercare di riconquistarla per poi guadagnarsi una signoria di
dominio del contado e della città. Il più aggressivo di questi è senz’altro
Pier Maria Rossi. Ma gli attacchi e le aggressioni continuano finché ecco
finire la breve ma intensa parentesi della libertà parmigiana che non è
riuscita a neutralizzare le potenti e consolidate aristocrazie del contado.
Ciononostante il biennio libertario ha avuto un grande pregio, quello
cioè di far conoscere alle classi della nobiltà cittadina, soprattutto ai
mercanti e agli artigiani nonché al popolo minuto, una forza che non
credevano o non sapevano di avere, una possibilità di autonomia e
riscatto dalle antiche fazioni. Così anche per questa nuova classe
dirigente cittadina si apre una possibilità autonoma di far crescere il
proprio potere.
Come era prevedibile, nel 1450 Francesco Sforza entra a Milano
sopprimendo la Repubblica Ambrosiana e ripristinando totalmente il
ducato. Nel 1454 la pace di Lodi tra Milano, Venezia, Firenze e il papa
sancisce una “santissima lega italica” che garantisce un equilibrio
politico tra le potenze della penisola e assicura un lungo periodo di non
belligeranza.
Il concilio di Firenze del 1439 e la fuga degli intellettuali da
Costantinopoli porteranno l’Italia alla scoperta dell’antica letteratura
greca e dei trattati scientifici di cui abbiamo già parlato, cioè inerenti alla
teoria eliocentrica. All’interno delle città lombarde si comincia a
sperimentare il nuovo sapere umanistico affermando la nuova visione
1
architettonica e prospettica. Il rapporto fra i nobili dominanti e la
condizione dei dominati cambia di valore e proporzione, il che dà
impulso straordinario allo sviluppo della città. Si aprono nuovi cantieri,
si costruiscono palazzi comunali e di giustizia, una sequenza di poli
universitari e scuole primarie e perfino nuove prigioni. Ancora,
finalmente, ci si occupa di ristrutturare i canali e gli argini del fiume
maggiore. Ma l’opera davvero colossale che si metterà in atto alla fine
del secolo sarà il teatro Farnese che ospiterà più di cinquemila spettatori
e dove si organizzeranno perfino battaglie navali dopo aver naturalmente
riempito l’enorme conca d’acqua pompandola per giornate da tre fiumi
che attraversano e lambiscono la città.
I principi intendono chiaramente il valore dell’architettura e imparano
anche ad apprezzare chi sa progettare e costruire, dal che gli artisti si
confrontano con loro alla pari e non è un caso che i più apprezzati da
questi signori siano proprio gli ingegneri idraulici, gli architetti, e non
ultimi pittori e scultori, insomma gli artisti che si occupano della
trasformazione urbana, territoriale e delle opere figurative.
È nella metà del secolo XV che Gutenberg a Magonza inventa la stampa
a carattere mobile. In Italia, questa rivoluzionaria tecnica del riprodurre
gli scritti giunge prima a Venezia poi a Firenze e Napoli; qualche anno
dopo raggiunge anche la Lombardia. A Parma l’editoria guadagna una
forte presenza in città: fra le prime stampe viene eseguito l’atto
costitutivo che sancisce i diritti e i doveri fra i contraenti, cioè gli
amministratori e le organizzazioni corporative della città. A Parma
Angelo Ugoleto è il primo tipografo che stampa le traduzioni di testi dal
latino e dal greco tra le quali l’opera del poeta latino Decimo Magno
Ausonio. A fianco delle stamperie, dobbiamo ricordare le fabbriche di
carta, lungo il rio dei folli, che costituiscono una fondamentale industria
locale. Queste due attività portano alla creazione di una biblioteca
1
pubblica presso la cattedrale di Parma, con il sostegno dei canonici.
All’inizio la Chiesa appoggiò la nuova tecnologia che permetteva la
rapida moltiplicazione dei testi e soprattutto la divulgazione grazie a una
spesa meno onerosa specie da parte dei ceti meno abbienti, mentre i
principi guardavano con certo sospetto a una rivoluzione che permetteva
a nuove classi sociali di accedere alla cultura, al sapere e a
un’informazione diversificata. In un secondo tempo, accortisi di questo
pericoloso valore democratico e dialettico, oggi diremmo liberale, il
clero visto che quella innovazione permetteva anche ai “semplici” di
accedere a testi di cui era proibita la divulgazione letteraria, perfino della
Bibbia e del Vangelo, magari anche in volgare, impose divieti e censura
nei riguardi di tutta la stampa in genere.
Nel 1495 si assiste allo scontro fra l’esercito francese di Carlo VIII e la
lega composta da truppe dei vari principati italiani e dalle truppe del
papa Alessandro VI e la Spagna. Nello scontro in verità non ci sono né
vinti né vincitori, specie per le armate italiane di cui restano sul terreno
circa duemila uomini.
La lega però grida vittoria e in quell’occasione viene chiesto a Mantegna
di dipingere una pala dedicata appunto alla Madonna della Vittoria che
Correggio assunse come modello assoluto. (immagine)
Da quell’evento si susseguono altre battaglie fino a quella di Ravenna
nella quale i Francesi non vengono battuti, ma inaspettatamente
abbandonano l’Italia lasciando le città e i feudatari in balia dell’esercito
papale schierato con la Spagna cosicché Parma diventa territorio della
Chiesa che ne rivendica il possesso con papa Giulio II.
La Roma vaticana impone il proprio dominio, ma il fatto straordinario è
che ciononostante Parma riesce a realizzare un’incredibile ripresa sia
economica
che
culturale.
Nella
gestione
della
città
vengono
rappresentate tutte le diverse classi sociali quasi al completo, fra queste i
1
dottori e i cavalieri, i piazzesi, i mercanti e gli artisti, fra i quali erano in
gran numero gli artigiani. Ogni proposta innovativa veniva discussa e
votata: esistevano le fazioni politiche e perfino i voti d’accatto, cioè
comprati sottobanco. La votazione avveniva servendosi di fave per
approvare e, al contrario, di fagioli, per bocciare una decisione. Questo
espediente venne però abbandonato dal momento che i consiglieri
corrotti pur di rendere nulla la votazione arrivavano a mangiarsi tanto le
fave che all’occorrenza i fagioli. Ai legumi vennero sostituiti piccole
pietre di fiumi tonde e colorate tanto che venne messo in circolo un detto
popolare che recitava: “Quel consejèr gh’è tant balord chè pur ad
sguadagner al smargnarebb anca al so balèt … quei de pedra!”.
In tutto questo conflitto, di volta in volta tragico o grottesco, chi
continuava a gestire la propria posizione di vantaggio e di rispettoso
consenso della popolazione erano i monaci che nell’ultimo mezzo secolo
erano riusciti a rimontare una loro pesante crisi sia organizzativa che
qualitativa nell’ambito religioso. I loro storici monasteri rischiavano di
crollare causa la dissipazione organizzata dai commendatari imposti dai
vari papi. Nell’inizio del Quattrocento Ludovico Barbo aveva
riformato una parte dell’ordine riuscendo a riaffilare i vari monasteri
sparsi qua e là della zona: le loro sedi tornarono a vivere una situazione
di recupero dell’originale spirito benedettino. Il dibattito e il confronto
sia culturale che religioso è alla base di questo innovamento: i
benedettini si danno anche una struttura dove i posti di comando sono
gestiti con il benestare e controllo dell’intera comunità monacale. Il loro
motto, che da sempre era rimasto “Ora et labora”, si arricchisce di
un’ulteriore regola: conosci e confronta, non far uso del dogma per
negare qualsiasi nuovo pensiero.
È in questo clima che Correggio opera e si arricchisce d’ogni nuova
cognizione e guadagna massimo rispetto e ammirazione dai monaci tutti,
2
tanto che viene a sua volta eletto conventuale di quell’ordine. Di certo,
senza i monaci di Parma il nostro Antonio pittore non avrebbe avuto la
fortuna di poter salire fin alla cima delle due cupole per realizzare questo
suo indiscusso capolavoro.
Ma tornando d’appresso al paradiso di Correggio, figure di santi se ne
stanno a sparapanza su morbide nubi delle quali altri santi, soprattutto
femmine, vanno abbracciandosi a cirri gonfi come cuscini tenuti in
grembo nel tentativo di nascondere almeno in parte la figura rimasta
ignuda: sembra di sentir recitare le rime di una spumeggiante satira di
Marziale che descrive una ragazza immersa nell’acqua di una tiepida
fonte che vuol risalire all’asciutto. Un’amica le lancia un largo lenzuolo
che la fanciulla agilmente acchiappa risalendo per una scala, il lenzuolo
le sfugge per cui va mostrando due splendidi seni nudi: con uno scatto
manda un grido pudico e, svelta, raccoglie il drappo ricoprendosi il
petto, ma, ahimé, lascia scoperto il ventre e il pube. Altro grido, questa
volta lanciato dai giovani che stanno sulla cornice della fonte. Nuovo
scatto di braccia, mani e fianchi per nascondere le nudità. Finalmente la
fanciulla è del tutto abbigliata, si volta ed esplode un altro grido
compiaciuto: la ragazza sta mostrando schiena e sedere nudi per la gioia
festosa di ognuno. Più o meno è la stessa allegrezza che vediamo
ripetersi nelle progressioni di questo santo baccanale giocato nel cielo.
Dalle mani dei festanti spuntano tamburelli agitati nel dare il ritmo a un
concerto dove musici, maschi e femmine, danzando soffiano dentro
trombe e flauti. Più in là spuntano viole e chitarre mosse con grande
voluttà. Da una nebbia appena accennata sorgono immagini di cherubini
e di figliole che via via si fanno più nitide e riconoscibili. L’Allegri, qui,
ha badato bene di non ripetere mai identiche sembianze. Infatti ogni
ragazza
mostra
carattere
e
fisionomia
diversi:
evidentemente
appartengono a differenti modelle alcune delle quali di certo
2
s’accompagnavano volentieri con l’ancor giovane maestro.
A questo proposito è risaputo che i monaci e gli amici d’ambo i sessi
spesso chiedevano all’Allegri: “Antonio, cosa aspetti a mettere capo a
buon partito? Ormai sei in giusta età per prender moglie e aver figli. Con
tutte le ragazze che ti stanno intorno non hai che deciderti …”, e pare il
pittore rispondesse immancabilmente: “Aspetta. Non subito, ci penserò
domani …”, e quel “Domani” che era già il nomignolo di suo padre
Pellegrino così divenne l’appellativo dell’artista ripetuto da tutti. Allegri,
detto Correggio trascritto in “ilare” soprannominato “Sì, ma domani”.
Ma ogni rimando, è risaputo, ha il proprio tempo definitivo e nell’anno
stesso in cui si spalanca il doppio cantiere per le cupole (1517-18), ecco
che per incanto, a tempo giusto, appare la splendida compagna che il
destino gli sta proponendo, Girolama, una creatura appena fiorita, ma
che proponeva già un carattere vivo e stupefacente. “Antonio ma
domani” trasforma il suo essere in “oggi e subito”: cerca in ogni
occasione di provocare in lei stupore, curiosità e allegrezza, e rapido
com’è nel disegno continua ad abbozzare ritratti della fanciulla sotto
forma di cartoni che userà per gli affreschi.
E qual è l’immagine di Girolama dentro queste pitture su muro? Beh,
non c’è che puntar bene lo sguardo ed eccola: è lì, in mezzo a una
brigata di figliole festanti che accompagnano Eva, che è il ritratto di
Girolama ragazzina, naturalmente ignuda che non si cura certo di
nascondere le sue grazie. È felice e libera come appena venuta al mondo
e assomiglia straordinariamente ai ritratti delle ninfe e Madonne che
l’innamorato Domani le ha già dedicato. Ma andiamo per ordine e
torniamo all’incontro fra il pittore e la fanciulla.
Antonio ogni tanto ha bisogno di uscire da quella gabbia celeste
stracolma di beati che gli sta diventando alquanto ossessiva, così se ne
torna al paese per cercare di ritrovare una situazione finalmente
2
famigliare: sta passeggiando per un vicolo nel centro della città di
Correggio quando viene all’improvviso travolto da un gruppo di ragazze
che, sciamando, si rincorrono per gioco. In particolare va a scontrarsi
con una di quelle figliole che lo getta letteralmente a terra e gli si frana
addirittura addosso: seduti per terra dopo un primo momento di
impaccio, entrambi scoppiano in una fragorosa risata.
È un incontro quasi magico, che trasforma e sconvolge interamente la
vita di entrambi, maschio e femmina, completamente e per sempre:
appena incontra Girolama con quella sua presenza piena di timore e
luminosa al tempo; lei è confusa, non si sarebbe mai aspettata che il
personaggio più noto e famoso della piccola città (Correggio a quel
tempo faticava a raggiungere i mille abitanti) dimostrasse tanta
attenzione per lei e la invitasse addirittura a passeggiarle appresso.
Antonio e Girolama si danno spesso appuntamento e di certo di lì a poco
lui vuol conoscere i suoi genitori: scopre che il padre della ragazza, un
armigero del duca di Correggio, è rimasto ucciso in uno scontro in
battaglia nel primo anno di vita della piccola Girolama, mentre della
madre di lei non si sa nulla.
Ma Antonio ha intenzione di stupire quella figliola fino allo stordimento
e così la conduce con sé a Parma, e con l’aria di compiere una normale
visita alla basilica di San Giovanni, le fa strada fino alla base della
cupola trasformata in cantiere. Girolama rimane a dir poco sconvolta.
Subito sul pavimento incontra distesi uno appresso all’altro grandi
cartoni sui quali sono disegnate figure volanti di santi e bambini fra le
nuvole. Antonio prende per mano la ragazza e la invita a camminare su
quel immenso abbozzo. “Perché – chiede – hai steso tutto il progetto sul
terreno?”.
E Antonio le risponde: “Per poterlo osservare dall’alto senza torcere il
collo in aria rischiando un coccolone”.
2
“Non capisco …”.
Antonio la riprende per mano e la conduce verso un’impalcatura dalla
quale partono scale che s’arrampicano verso l’alto. Montano lassù,
raggiungono una specie di poggiolo dal quale ci si può affacciare.
“Guarda in basso – la invita Antonio – Ecco, di qua puoi immaginare
come si presenteranno le figure una volta dipinte nella cupola. Chiudi gli
occhi per un attimo prima di volgere lo sguardo in basso e riaprili
immaginando di aver rovesciato il tuo corpo così da trovarti con il viso
volto verso l’alto”.
Girolama chiede: “Cos’è, un gioco?”.
“Tu fai come ti dico …”.
La ragazza esegue e quindi esclama: “È vero, così si può immaginare
come sarà il dipinto terminato. È stupendo!”.
Antonio si fa portare da un collaboratore un aggeggio meccanico con
archi in metallo rotanti, lo consegna alla ragazza dicendole: “Ora poniti
lo strumento davanti agli occhi e puntalo in alto”.
“Cos’è?”, chiede.
“È un astrolabio: se ne servono i marinai per misurare la distanza fra le
stelle e la Terra così da potersi orientare in mare”.
“Meraviglioso! E come funziona?”.
“Non è semplice – dice Antonio – Prima di tutto devi appoggiare questa
stampella alla spalla sinistra, poi far scorrere la struttura a cerchi fino a
raggiungere il livello degli occhi. Ora torci l’astrolabio e guarda dentro
questa piccola apertura”.
La lezione dura per un certo tempo, poi entusiasta la ragazza grida: “Ci
sono riuscita! La tacca qui dice 15 piedi”.
“Brava!”. E senza rendersene conto si abbracciano. Per fortuna il
macchinario impedisce loro di baciarsi proprio davanti al sopraggiunto
maestro generale dell’Ordine che commenta: “Aah, caro Antonio, vedo
2
che ti sei portato appresso una nipote oppure si tratta di una tua figliola
segreta?”.
Antonio rimane un attimo impacciato, poi risponde con espressione
compunta: “Maestro, la ragazza si chiama Gerolama: me ne sono
innamorato e l’ho portata qui per farvela conoscere prima che ci uniate
in matrimonio”.
“Bravo! – esclama il padre benedettino – Ma la prossima volta porta con
lei anche la balia così l’accudisce più comoda”.
Ad ogni modo lo spettacolo non è ancora finito. L’Allegri chiama i suoi
collaboratori che salgono sull’impalcatura come se si arrampicassero
sugli alberi di una grande nave, poi si fa consegnare una specie di
piccolo flauto dentro il quale soffia traendone fischi da nostromo: tutti
gli operatori insieme iniziano a roteare mangani e strattonar funi in ogni
direzione. All’istante da ogni lato scendono e salgono personaggi che
sembrano vivi, in verità si tratta di marionette a grandezza naturale
realizzate usando paglia impastata con gesso e colla in modo che
risultino il più leggere possibile: per eseguirle l’Allegri ha ingaggiato un
gruppo di scultori adibiti a quel solo compito.
“Ecco, così puoi farti l’idea di come sarà la cupola una volta terminata”.
La manovra giunge al termine: gli argani s’arrestano, i pupazzi
continuano ad oscillare ancora per un po’.
“È incredibile, è uno spettacolo magico!”.
Girolama si sente rotare la testa e deve appoggiarsi ad Antonio per poi
sedersi sui gradini della scala esclamando: “Oh, è troppo! Scusate, ma
ogni
volta
che
dipingete
una
cupola
montate
un
simile
macchinamento?”.
“No, – le risponde il grande maestro dei benedettini – succede per la
prima volta: è Antonio, che s’è inventato tutto quello che vedi. È lui, qui,
il grande artefice d’ogni cosa”.
2
E di rimando un altro monaco aggiunge: “Di fatto è il nostro maestro, è
lui il creatore di questo universo, seppur immaginario. Stava già al
servizio del Padreterno quando il Creatore montò l’universo”.
Scendendo dai ponteggi, i due innamorati senza rendersene conto sulle
scale spesso si abbracciano l’uno l’altro e all’istante lei sussurra:
“Antonio, ho paura di essermi innamorata del creatore”.
È ovvio che preso com’è dal fascino vivo e ammaliante della ragazza, lo
sposo non le tolga mai gli occhi di dosso e non possa fare a meno di
dedicarle ritratti uno appresso all’altro; così ecco che il viso di Girolama
appare in dipinti dedicati, oltre che a Eva, anche alla Vergine e alla
Maddalena (immagine), nonché nel volto di Santa Caterina nel
matrimonio mistico con Gesù (immagine). Finalmente anche in queste
nuove figure, vive e che sembrano respirare, ogni immagine di femmine
beate solleva come per incanto le palpebre, lasciando intravedere sguardi
luminosi, anzi spesso gli occhi, nel caso della Vergine, si spalancano nel
comunicare una gran gioia verso il piccolo Gesù che festosamente
contraccambia.
Volti e figure femminili hanno perso definitivamente quel loro
atteggiamento da icona, si fanno sempre più vivi e slanciati, e soprattutto
affiora nei gesti e negli sguardi una tenera festosità espressa nel gioco fra
madre e bimbo al quale partecipano spesso angeli, il san Giovannino e
fanciulle beate.
La produzione di Allegri in quel tempo si fa addirittura febbrile, ormai la
sua ragazza è assunta al ruolo di protagonista di episodi tra i più svariati,
sia sacri che profani. La riconosciamo col bimbo in braccio ne Il riposo
durante la fuga in Egitto (immagine), mentre Giuseppe si preoccupa di
abbassare i rami di un albero di datteri che raccoglie per offrire alla
Vergine e al suo bimbo. Sullo stesso tema è il dipinto detto La
Zingarella (immagine) dove la Madonna se ne sta accovacciata ai piedi
2
di una grande palma con il bambino dormiente, in alto un gruppo di
angeli si aggrappa ai rami in modo da spingerli verso il basso, così da
permettere alla Vergine di cogliere i frutti per il figliolo. Se
confrontiamo il volto della Zingarella oggi a Capodimonte in Napoli,
eseguito dal 1517-18 con quello della Madonna Campori (immagine) a
Modena dello stesso periodo nel palazzo Estense, ci rendiamo conto
che l’immagine di una è l’esatto pendant dell’altra e che nella loro
gestualità la donna e il bambino sono una madre e un figlio autentici: il
gesto con cui la cosiddetta zingarella raccoglie sul proprio petto il figlio
non può essere che ritratto dal vero, come reale è il gesto con cui il
bimbo nella Madonna Campori rifiuta il latte che la madre gli offre dal
suo seno.
Ma da dove nasce l’ispirazione e l’argomento che vede una raccolta di
datteri da donare al figlio di Dio affamato nel viaggio? Guarda caso il
Vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo (I secolo d.C.) ci parla della
disperazione di Giuseppe e Maria, che attraversando una zona desertica
vanno cercando una fonte per dissetare se stessi e il bambino. Scorgono
un’alta palma i cui frutti sono irraggiungibili. All’istante appaiono tre
piccoli angeli. I cherubini s’aggrappano alle lunghe foglie e
strattonandole riescono a curvare tutto un ramo tanto da fargli lambire il
suolo. La Madonna solleva il bimbo cosicché egli possa staccare i datteri
e portarseli alla bocca per suggerne la polpa.
La scena ha ispirato pittori famosi, fra i quali appunto il Correggio. Ma
da qualche anno ci si è accorti che il dipinto La zingarella è stato
pesantemente modificato dai sovraintendenti del museo negli anni 192223. È incredibile constatare che censori bigotti e prude abbiano imposto
una così brutale censura a quel capolavoro: hanno fatto sparire dal
dipinto uno dei due angeli, quello che curvava la palma per spingere i
datteri verso la Madonna. Questa correzione cancellava il gesto di
2
porgere i frutti. Ma perché? È proprio vero che l’imbecillità dei censori è
infinita, specie quando vestono la tonaca del rigore. Infatti l’aggressione
alla pittura è diretta proprio ai datteri che in un brano poetico del
Cantico dei Cantici2 alludono ai seni dell’amata. Eccovelo:
Quanto sei bella e quanto vaga,
carissima mia adorata.
Il tuo corpo s’allunga come una palma
e i tuoi seni sembrano pomi di dattero.
E io assaggerò con le mie labbra
quei frutti che di sicuro saranno più dolci del miele.
È chiaro che questo stupendo frammento lirico l’Allegri innamorato lo
abbia voluto dedicare alla sua giovane prossima sposa, protagonista nel
ritratto, e c’è da pensare che forse il bambino in realtà non sia altro che il
piccolo figliolo di Girolama partorito qualche mese dopo il matrimonio.
Ma ecco che ci si presenta una nuova osservazione: si tratta
dell’incombere fin troppo palese nell’affresco delle cupole dei più grandi
maestri della pittura rinascimentale per cui ci è facile, quasi ovvio,
riconoscere in San Giovanni l’immagine dipinta da Raffaello nelle
Stanze vaticane e poco più in là la positura e la potenza di alcuni
personaggi dipinti da Michelangelo. Naturalmente non mancano
soluzioni viste a scorcio tratte da Mantegna e putti ispirati da Leonardo e
Raffaello e per finire allusioni ai Carracci, al Beccafumi e ai ferraresi.
Ma cos’è, il trionfo dell’appropriazione indebita? Eh no, perché questa
volta non si tratta semplicemente di plagio: in questo caso ogni
personaggio, sia protagonista o elementi del coro, ha subito una
profonda elaborazione e ora ci appaiono riproposti attraverso un
2
a.C.
Il Cantico dei Cantici è un testo poetico contenuto nella Bibbia ebraica e risalente al V-III secolo
2
linguaggio e uno spirito del tutto sconosciuto. Tanto per cominciare,
l’intera messa in scena è impregnata di un sottile umorismo per cui
anche le forme più grottesche ci vengono sempre proposte con
andamento leggero e addirittura poetico, specie quelli della cattedrale.
Ancora tutta l’azione, anche la più vorticosa, si trova immersa in una
trasparenza che esalta e rende più leggere le immagini.
Abbiamo detto di Eva fresca e ridente e della somiglianza con il viso di
Girolama: intorno a lei si muovono altre ragazze che l’accompagnano
con gesti di danza nel coro, a loro volta ciascuna ci riporta al viso
dell’innamorata di Antonio ‘Domani’. Alcuni noti pittori ci fanno
osservare che i visi riprodotti appaiono leggermente più paffuti di quelli
che più tardi rappresenteranno Madonne e ninfe, ma l’osservazione cade
immediatamente appena ci si rende conto che qui ci troviamo proprio nel
tempo in cui l’amore ha dato un secondo frutto, infatti la sposa
dell’Allegri ora aspetta una femminuccia. Questo ci spiega l’incarnato
paffutello dei ritratti di alcune protagoniste.
L’intera opera doveva essere realizzata con l’apporto di altri quattro
artisti: il Parmigianino, l’Anselmi, il Rondani e l’Araldi. Il grandioso
schema del Duomo fin dall’inizio incontrò innumerevoli difficoltà: per
cominciare il Parmigianino prima ancora che si iniziassero i lavori
dovette suo malgrado abbandonare il cantiere per recarsi a Roma dove
aveva stipulato un precedente contratto di lavoro. Più tardi l’Anselmi
dopo aver appena realizzato alcuni affreschi tratti dai suoi cartoni si vide
crollare le pareti dipinte. Qualche tempo dopo, uno dei pittori morì
all’improvviso. Pascasio Belliardi, rappresentante dei Canonici che
dovevano seguire i lavori, fu eletto Segretario di Pio III che intendeva
farlo cardinale: l’elezione andò a monte in conseguenza dell’avvenuto
decesso del pontefice regnante per soli ventisei giorni.
Al di fuori di qualche solenne e tragico avvenimento come l’improvvisa
2
morte di un papa appena eletto e la dipartita di qualche artista operandi,
tutto il lavoro proseguiva con rapida facilità. I Fabbricieri e i Canonici si
dimostravano entusiasti della resa di tutta l’opera e di giorno in giorno
sull’onda di tanto successo l’Allegri proponeva soluzioni pittoriche
sempre più azzardate che mandavano in crisi i più conservatori fra i
committenti, finché senza alcun preavviso ecco esplodere un
contenzioso che provocò una vera e propria rottura fra l’Allegri e i
responsabili giuridici e amministrativi della cattedrale. Come da
progetto, per di più stipulato e firmato, Antonio il Correggio, aveva
dipinto nell’abside una splendida Madonna nell’atto di essere benedetta
dal figlio suo. All’istante i Canonici della Cattedrale decisero di
abbattere le pareti su cui era stato eseguito l’affresco per creare un
percorso più facile all’ingresso della Cattedrale. È inutile sottolineare
che nel ritratto di quella Madonna si riproduceva il volto di Girolama.
Qualcuno sospetta che quel gesto abbastanza brutale fosse dettato
dall’intento di ridimensionare il troppo potere che il Correggio si stava
conquistando da sé. Una rimessa in riga, insomma. Antonio reagì
indignato e abbandonò su due piedi la cattedrale lasciando incompiuti gli
affreschi di cui si era impegnato nel contratto. Quel suo gesto fu
giudicato dai più come sconsiderato e arrogante giacchè egli non teneva
protettori fra i nobili e grandi mercanti. Ora poi perdeva anche la
protezione dei monaci e del comune, ma alla fine l’orgoglio e la
caparbietà, fondamenti rischiosi del suo carattere, gli furono di gran
vantaggio in quella situazione.
Per fortuna nel tempo in cui Correggio si era impegnato nella messa in scena
pittorica delle cupole non cessò di aver rapporti con committenti privati. Fra
i suoi estimatori forse la più importante era la vedova di Bergonzi, Briseide
Colla, che gli commissionò un grande quadro, la Madonna di San Gerolamo,
raffigurante la Vergine con alcuni santi e al centro, sdraiata quasi
3
voluttuosamente sul bambino, la Maddalena. Per quest’opera il Correggio
ricevette quattrocento lire imperiali, due carri di fascine, alcune staia di
frumento e un maiale. Si tratta di una pittura davvero straordinaria, sia per
l’impianto compositivo che per i temi che svolge: è una delle prime volte
che vediamo la Maddalena vicino a Gesù bambino in una situazione
capovolta nello spazio e nel tempo. Maddalena è donna come la madre, e
Gesù, che nella tradizione popolare è l’uomo della Maddalena, invece è
putto, bimbo, ma nella composizione e negli atteggiamenti dei protagonisti,
scopriamo una passione con una grande carica di sensualità. Inoltre c’è un
elemento che non è nascosto e che anzi viene a sottolineare questa passione,
tanta dolcezza: il gesto della Maddalena che teneramente tiene nelle sue
mani il piede del bambino, e il bambino che accarezza i capelli della
Maddalena.
In questi gesti è facile leggere il riferimento ai Vangeli canonici dove si
rappresenta la situazione in cui la Maddalena lava i piedi di Gesù e quindi li
asciuga con i propri capelli, quelli che ora Gesù accarezza. Il putto che sta
alle sue spalle mostra una piccola brocca, simbolo della sessualità
femminile, e nello stesso tempo si allude al prezioso unguento che la
Maddalena usò per il lavacro dei piedi di Gesù.
Un elemento cromatico di grande importanza è il piano della luce. Lassù in
alto è stesa un’ampia tenda che serve a calmare, ad abbassare il calore della
luce del sole, ma ecco che i personaggi non appaiono protetti dall’ombra
anzi sono tutta luce, ma si ritrovano, nello stesso tempo, in controluce. È
un’invenzione pittorica straordinaria. Il fondo è la luce. È come se ci fossero
due soli che illuminano: un sole che se ne va al tramonto di là e uno che
spunta davanti e che illumina tutti.
Alla fine del Settecento la tela viene inserita nel bottino napoleonico, onore
riservato solo alle grandi opere rapinate. Rimane in Francia per vent’anni.
Molti critici fanno notare come la Maddalena, per il suo tessuto cromatico-
3
pittorico, ricordi alcuni famosi dipinti muliebri del Tiziano.
Fra i committenti privati senz’altro uno dei maggiori clienti collezionista
d’arte è il duca figlio di Isabella d’Este che cominciò ad ordinare al
Correggio l’Educazione di Amore. È un tema completamente nuovo per lui
tanto che prima di affrontarlo esegue numerosi disegni e bozzetti preparatori.
Fra il Seicento e il Settecento fu attribuita a vari grandi maestri della pittura
veneta e lombarda, come Tiziano e Dosso Dossi.
Nella lezione d’amore di fronte a una splendida Afrodite completamente
nuda Eros bambino impara a leggere un testo sui giochi amorosi aiutato da
Ermes che regge un foglio e gli corregge gli strafalcioni. Come di tradizione,
Venere non indossa abito alcuno, nemmeno un drappo (con lei le sartorie
d’alta moda fallivano immancabilmente): basta immaginarla sdraidata su un
letto e noteremo subito le concomitanze con le Veneri di Giorgione e di
Tiziano, però con il viso che costantemente ritrae quello di Girolama che è
sempre di più l’unica modella di Antonio Allegri. Oltre il viso, l’unico
particolare che distingue la dea del Correggio da quella dei veneziani sono le
due fragili ali che le spuntano dalle spalle, ali che qualche critico ha ritenuto
produrre emozioni di grande erotismo ... non abbiamo capito perché:
purtroppo non abbiamo mai avuto la fortuna di ricevere carezze alate.
Questa tela vince senz’altro il record degli spostamenti e dei cambi di
proprietà. Dal Gonzaga passa a Carlo I d’Inghilterra; quindi, acquistata dal
duca d’Alba per ottocento sterline, giunge in Spagna, dove poi passa di
proprietà al principe de la Pace; nel 1808 viene trasportata a Napoli e diventa
di proprietà del Murat che pare se la tenesse sempre appresso, anche
quando faceva il bagno: dopo qualche anno di convivenza con la dea
dell’Amore, viene pugnalato dentro una vasca di rame da una
congiurata che si era finta massaggiatrice ambulante. Dopo la tragica fine
del tiranno, la Venere viene venduta a Carolina Buonaparte a Vienna, senza
la vasca: si racconta che la splendida moglie di Napoleone si confrontasse a
3
sua volta nuda con Venere davanti a uno specchio, ma si accorse ben presto
che il confronto andava a tutto vantaggio della dea, quindi decise di venderla
al marchese di Londonderry, che la cedette allo Stato britannico. In
conseguenza di tali traversie, l’opera accusò notevoli guasti e l’intervento dei
restauri si rivelò purtroppo inadeguato. Il peggior danno viene apportato
probabilmente dagli ultimi proprietari, gli inglesi: costoro riducono la tavola
nei due fianchi di almeno 15 centimetri per parte; ne danno testimonianza le
riproduzioni della fine del Cinquecento dove si nota chiaramente il più vasto
spazio laterale del dipinto. In poche parole, per far entrare la tavola in una
cornice muraria preesistente, il possessore risolse tranquillamente di segare
due strisce laterali in eccedenza. Questa di subite riduzioni o addirittura
amputazioni è sorte ben nota che si ripete spesso in pittura. Infatti un’altra
opera di Allegri sita nella Cattedrale di Parma ha dovuto sopportare
addirittura un vero e proprio massacro: a una serie di figure femminili in tutta
la loro stupenda nudità e rappresentati personaggi mitici della tradizione
antica sono state tranquillamente mozzate la testa e una parte del tronco per
lasciar spazio a una serie di finestre riccamente decorate. (Correggio, Silvana
editoriale, pag. 260).
A parte le vicissitudini, il dipinto ebbe tale successo che il giovane Federico
Gonzaga ordinò all’Allegri tutta una serie di tavole ad argomento erotico.
La scena dedicata a Giove e Antiope è ritenuta da molti ricercatori il pendant
alla Educazione di Amore. Infatti è dimostrato che all’origine entrambe le
opere erano della stessa misura, cioè 190 x 124. Oggi esse sono di diversa
dimensione per la ragione appena svelata. Qui vediamo Giove trasformato in
fauno, pronto a gettarsi sulla ninfa dormiente. Vedremo nelle prossime
pitture, dedicate al Padre degli Dei e ai suoi amori, come Jupiter arrivasse a
trasformarsi di volta in volta nelle sue performances erotiche in cigno, in
aquila e perfino in monete d’oro. È risaputo come per Giove la metamorfosi
fosse incentivo erotico di cui non poteva fare a meno … una metamorfosi e
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oplà, eccolo eccitato da dio! Insomma, questo era il viagra degli dei!
Ma fermi tutti: purtroppo molti critici d’arte non sono d’accordo con
quest’ultimo ruolo assegnato ai personaggi. Sembra trattarsi piuttosto di
Venere addormentata con Cupido e spiata da un satiro.
Ma c’è un particolare che manda in crisi: il cosiddetto ombreggiato di cui il
Correggio era grande maestro. In poche parole sulla tavola è stata eseguita
una ripulitura piuttosto pesante che ha letteralmente cancellato il gioco dei
chiari e degli scuri fondamentali per sottolineare lo scorcio. Sono sparite
l’ombra propria e quella proiettata dalle figure cosicché s’è appiattito lo
scorcio a partire dall’ombreggiato del busto e del ventre. Lo scorcio dello
stato originale è percepibile da un disegno preparatorio dello stesso
Correggio di una figura di Venere che si trova al Windsor Castle che
riproduce ancora una Venere dormiente vista dal basso, cioè dalla stessa
posizione da cui si osservano il fauno e la dea addormentata. Nel 1628
l’opera originale fu venduta a Carlo I d’Inghilterra insieme all’Educazioni di
Amore: molto probabilmente fu proprio lui l’inglese che mozzò i lati del
primo dipinto con la figura di Venere. Non fece in tempo a produrre lo stesso
scempio con la Venere dormiente, poiché scoppiò la guerra civile e stavolta
la testa fu mozzata al re. Questo succede a chi fa violenza alle donne, anche
se solo ritratte, specie se nei confronti di una divinità!
A proposito di disgrazie e decessi a ‘sto punto della storia del Correggio,
siamo nel 1528, mi imbatto in una notizia che mi rattrista e sconvolge al
tempo. Molti ricercatori mi assicurano che più o meno in quel periodo muore
la moglie dell’Allegri, Girolama. E da che si evince l’avvenuto decesso? Dal
fatto che da quella data in poi, della dolce e ancor giovane donna non si
hanno più notizie. D’istinto immediatamente esclamo: “Ma come può
succedere una cosa del genere?”. Non parlo della dipartita, ma del fatto che
l’Allegri, uno dei più grandi pittori del secolo, in piena vedovanza,
sorpassando tranquillamente il tragico dolore della perdita di quella creatura
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che amava alla follia, continua a dipingerla ritraendola completamente nuda
nell’atteggiamento di sguazzare con Giove travestito da nubi scatenate, da
satiri montanti, da un cigno scurrile e addirittura da una pioggia d’oro.
Ancora, lungi da me fare del moralismo, ma ciò che maggiormente mi
indigna è il constatare che la donna amata venga rappresentata nell’atto di
partecipare tanto piacevolmente a quegli amplessi, gemendo di piacere e
lasciandosi trasportare dentro una vera e propria tempesta erotica al limite
della pornografia. Andiamo, un po’ di rispetto per le anime defunte! Quindi
quasi disperato mi butto a organizzare un’inchiesta coinvolgendo studiosi
dell’intiera Emilia, ricevo da un professore di Modena la fotocopia di
alcuni testi dedicati a Girolama, fra i quali addirittura un dramma
teatrale di qualche secolo fa dove, parlando in rime endecasillabe, il
Correggio a sua volta disperato se ne sta in ginocchio presso l’amata
stesa sul letto di morte, che sta per abbandonarlo. Non cedo. Caparbio,
telefono all’ex presidente della Fondazione dedicata al Correggio, Giuseppe
Adani, che di lì a poco mi dà la stupenda notizia attraverso Patrizia ***.
Nella città di Correggio è stato ritrovato l’atto autenico della sepoltura di
Girolama Merlini avvenuta nel 1545, quindi di tutta la famiglia Girolama è
stata la più longeva. Infatti il marito Antonio è deceduto 6 anni prima della
reale morte della moglie (CONTROLLA!!!) ed egualmente qualche anno
avanti sono deceduti il padre di lui, alcuni zii e nipoti comprese le due
giovani figlie di Antonio e Girolama Allegri. “Allegri! Grottesco destino di
un cognome!”. Tiro un gran respiro: ora finalmente potrò tornare a godermi
le scene erotiche con Veneri in amore senza soffrire di lascivia repressa
dall’indegnità delle situazioni. Evviva, Girolama è viva!
Distacchiamoci un attimo dalle avventure di Giove per considerare una tela
dello stesso tempo, determinante per valutare lo stupefacente lavoro di
ricerca pittorica dell’Allegri nella sua maturità.
Si tratta de La notte. Nell’adorazione dei pastori al presepio, l’Allegri
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sviluppa un nuovo impiego della luce già sperimentato nella tela Madonna di
San Gerolamo. Qui non c’è il cielo chiaro del fondo, ma un tenero tramonto
che prelude al buio notturno. È il bambino Gesù che proietta luce tutt’intorno
illuminando di sé la madre e i pastori nonché gli angeli in alto. L’unico che
resta nell’ombra scura è il padre putativo, Giuseppe. Più di uno studioso ha
ravvisato l’influsso dei fiamminghi, ma qui la particolare invenzione è
rappresentata dalla fonte luminosa sparsa dal bambino. Più verosimile è la
similitudine di quest’opera con la pala Pesaro del Tiziano che si rifà alle
rappresentazioni teatrali di quel tempo. In entrambi i dipinti si può leggere
l’uso della luce alla maniera scenica del teatro dove in proscenio gli attori
vengono illuminati dalle sole lampade a terra o dall’alto grazie a un enorme
lampadario che esibisce il chiarore di cento candele.
Ma torniamo al ciclo dedicato agli amori di Giove. Questo che vi
presentiamo è certamente uno dei capolavori dipinti ad olio del Correggio.
Vediamo Danae, splendida ninfa, languidamente quasi distesa sul letto. La
fanciulla è stata rinchiusa in una torre per impedire a Giove, che la desidera
follemente, di arrivare a possederla attraverso i suoi mirabolanti trucchi. Non
può raggiungerla né trasformato in cigno o toro né tanto meno in satiro. Non
gli resta che la metamorfosi più azzardata: trasformarsi in una pioggia d’oro
che cade da una nube appena entrata dall’unica finestra spalancata. Danae,
pudica, si copre il pube con un lenzuolo.
Ma c’è Amore che da ruffiano cerca di far avere a Giove il suo vantaggio:
ecco che il divino fanciullo allarga il lenzuolo per raccogliere tutta la pioggia
d’oro e lo solleva in modo che arrivi nel grembo di Danae. Qui ha già delle
monete d’oro in mano e cerca di buttarle verso il pube della ragazza. A
questo punto dobbiamo allontanarci di qualche passo dal dipinto per poterlo
inquadrare in tutta la sua dimensione e considerare il particolare inusitato
dell’impianto scenico e prospettico: scopriamo l’esistenza di ben tre
prospettive con punti di fuga diversi, una sovrapposta all’altra. Abbiamo un
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livello maggiore che permette la visione di tutto ciò che avviene dall’alto: lo
spettatore è proiettato in aria a guardare giù. Poi di colpo si trova costretto a
scendere e osservare dal basso: ci appare il letto pesantissimo che si pone in
contrapposizione alla leggerezza del corpo di Danae che pare sospeso nel
vuoto. Le lenzuola su cui è semisdraiata quasi si trasformano in tappeto
volante e la sollevano per favorire la pioggia di monete d’oro.
Ma l’effetto più sorprendente di magico erotismo è determinato da un uso
inconsueto dei chiari tanto spregiudicato da apparire quasi un errore. Infatti
nel suo impianto scenico l’Allegri introduce addirittura due opposte fonti di
luce: una proveniente dall’alto fuori proscenio, l’altra dal basso di taglio, sul
fondo. All’estrema sinistra della parete scorgiamo una finestra e, con tutto
che quell’apertura ci appaia completamente spalancata e se ne scorga un cielo
limpido, di lì non proviene nessun accenno del giorno: una finestra
assolutamente cieca! Strano! È un arbitrio, ma c’è un perché: quella finestra è
solo un elemento compositivo, un respiro luminoso nell’ombra del fondale.
Quindi tutto l’assetto è perfettamente teatrale. E per finire osservate la nube
dalla quale scende l’oro: dovrebbe essere leggera e vaporosa invece sembra
ritagliata in una tavola di legno, non è adeguatamente mascherata proprio
perché vuol essere scenografica, cioè viene riprodotto un elemento tipico del
teatro: la sagoma di quinta.
Proseguiamo con un’altra avventura amorosa di Giove: ecco l’opera che
racconta di Ganimede rapito dall’aquila, l’ennesimo travestimento di Giove
assatanato. Il padre degli Dei si è invaghito del ragazzino, ma non riesce mai
ad avvicinarlo senza rischiare di essere scoperto dagli aggressivi famigliari
del fanciullo. Così travestito, tramutato in aquila, ecco Giove alato che può
afferrarlo, prenderlo e portarlo nel cielo. Non è nemmeno tanto dispiaciuto
Ganimede. L’unico ad accorgersi del rapimento è il cane, che sta a terra e
abbaia disperato. Ancora ci troviamo dinanzi a un ulteriore espediente
scenografico: se vogliamo leggere la posizione del cane dobbiamo
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immaginare di vederlo dall’alto. Noi siamo in alto come Ganimede: è lo
stesso punto di vista, più o meno, del ragazzo che vede il cane in basso, sotto
di sè. Ma per osservare correttamente la figura del rapito sospeso nel vuoto
dobbiamo porci al livello del cane e guardare attraverso i suoi occhi. Di qua
avremo l’idea dello scorcio perfetto del ragazzino che sta salendo trasportato
dall’aquila. Questa magia dello scorcio prospettico è dovuta all’insistito
esercizio del realizzare scorci a centinaia sulle due cupole di Parma,
conoscenza che gli ha procurato una ineguagliabile dimestichezza nel
realizzare immagini viste da ogni luogo e un’agilità pittorica davvero
ineguagliabile.
Chiudiamo l’esposizione nell’ultima sala dedicata alle opere del Correggio
che hanno subito sconci e manomissioni causate da restauri sconsiderati e da
interventi censori che rasentano la follia. “Il sonno della ragione genera
mostri” diceva Francisco Goya. Bisognerebbe aggiungere: “Quel torpore
della mente causa anche massacri di opere d’arte”.
Nel caso dell’Ecce Homo siamo di fronte a una vera e propria ri-pittura
eseguita allo scopo di addolcire, secondo la moda tardo seicentesca,
l’immagine di Cristo incatenato mostrato alla folla. Ce ne rendiamo conto
soprattutto osservando la lastra della radiografia eseguita sul dipinto grazie
alla quale scopriamo l’autentica stesura pittorica che ci propone una
drammaticità figurativa di ben altro valore. Il viso di Cristo ci offre tutt’altra
potenza espressiva; le sue mani, che nel restauro così come ci appare oggi,
sono esageratamente allungate, quasi femminili, nella lastra ci appaiono più
grandi e di stile nient’affatto manieristico. Ancora la figura della Vergine che
nell’odierna pittura è convenzionalmente melodrammatica, nel dipinto
sommerso ci rivela un volto di sofferenza che si pietrifica nel dolore.
Insomma due pitture: quella nascosta di gran potenza, l’altra di uno stereotipo
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convenzionale.
Passiamo al Noli me tangere, tela nella quale vediamo una donna,
tradizionalmente la Maddalena, che ha afferrato un lembo dell’abito di Gesù
per attirare la sua attenzione. La posizione di Maria Maddalena è ancora in
scorcio, cioè chi guarda si trova in basso al di sotto della cornice. La figura
protesa verso il messia risorto esprime una passione di straordinaria forza
emotiva: non a caso più di uno scultore e numerosi incisori si sono serviti di
quel dipinto e dei disegni preparatori come modello per realizzare a loro volta
opere di valore. Anche Gesù che con un gesto perentorio le impedisce di
abbracciarlo è visto dal basso ma solo dal tronco in su, l’altra parte del corpo
compresi i piedi sono visti dall’alto. La Maddalena sta seduta a terra quasi
inginocchiata davanti a lui che le si rivolge indicando il cielo: “Non mi
trattenere. È lassù, da mio padre che devo innanzi tornare!” come recita il
Vangelo di Giovanni. Ma osservando con attenzione il dipinto basta un
minimo di conoscenza di pittura per capire che i due personaggi così come
sono raccontati nel diverso tessuto cromatico e pittorico non hanno niente a
che vedere l’uno con l’altro. Alcuni tecnici del restauro ci comunicano che il
dipinto è stato manomesso soprattutto per quanto riguarda le velature in
tempera, nello stesso modo in cui sono state lavate nella Venere dormiente
insieme al nero-fumo delle candele. Ecco la ragione del perché il corpo di
Cristo e il suo panneggio hanno perso la plasticità e il volume, e soprattutto si
è perduta la struttura dell’impianto e del disegno, al punto che il braccio
alzato appare deformato e il ventre sporge gonfio e ancora più, sotto, la
gamba destra resta priva di appoggio.
Ma cosa ci dà tanta sicurezza nel dichiarare la deformazione fisica di certe
figure come questa di Cristo appena risorto del dipinto dell’Allegri? Ebbene,
è soprattutto un particolare tecnico dell’impianto esecutivo che ci fa scoprire
il difetto, quello che si può evincere solo ricordando la tecnica impiegata dal
pittore al momento di impostare le figure: egli, come abbiamo già accennato
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poco fa, è uso disegnare i personaggi in tutti i particolari immaginandoli
completamente nudi così da studiare con esattezza l’equilibrio degli appoggi,
il movimento del busto, gli attacchi degli arti e la loro gestualità. Quindi solo
dopo questa preparazione il pittore inizia a immaginare sul corpo nudo i
panneggi delle vesti indossate dai personaggi. Ora, se noi proviamo a togliere
loro gli abiti scopriremo se le figure spogliate stanno nel giusto equilibrio
dinamico, oppure come si dice in gergo, sballanzano, cioè non mantengono il
giusto equilibrio.
L’ultima opera della serie legata agli amori di Giove è senz’altro Leda con il
cigno, forse la più eroticamente provocatoria di quei racconti. Il figlio del
duca d’Orléans, che dopo vari passaggi divenne proprietario della tela, preso
da furori moralistici, a metà del 1700 taglia a pezzi il dipinto e distrugge la
testa di Leda. L’opera è salvata dall’intervento del pittore di corte Coypel che
dà l’incarico a un restauratore perché ricostruisca, oltre alle altre parti del
dipinto, il viso di Leda deturpato.
Anche qui, grazie alle incisioni a copia della Leda originale eseguite un paio
di secoli prima dello scempio regale, ci rendiamo conto che i pur numerosi
restauri non sono riusciti a salvare del tutto il dipinto. Il viso della Leda ora
appare piuttosto convenzionale: più una maschera fissa che un volto carico di
sessuale gaudio. Così come sono di fattura approssimativa le immagini delle
ancelle di Leda che si bagnano fra le acque di un ruscello. Osservando con
distacco quello che c’è rimasto della pittura originale, ci rendiamo conto che
il Correggio qui s’è lasciato andare a uno sguazzo erotico-satirico piuttosto
spinto, tant’è che non s’è accontentato di presentarci la Leda posseduta dal
volatile fornicante, ma ha aggiunto fanciulle del coro che a tormentone
vengono turbate dall’apparire costante e improvviso di nuovi cigni,
altrettanto ruzzanti che spuntano fra le terga delle ninfe come funghi scurrili
della foresta. A ‘sto punto ci nasce un moto di comprensione davanti al gesto
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isterico del giovane d’Orléans. Ma come si può rimanere insensibile davanti a
tanta provocazione? O ti masturbi o spacchi tutto! Di fatti egli armato di
spada si è lanciato con giusto furore verso quei colli rampanti di cigni
sorgenti da ogni dove, deciso a decapitare i pennuti zozzoni. Nella storia
dell’arte non conosciamo altri dipinti aggrediti da maniaci e fanatici del
moralismo, sconciati in tal misura, non conosciamo una situazione d’ansia
così disperata di ricostruzione come è accaduto con questa pittura dedicata
alla ballata oscena dell’ultimo canto del cigno.
Scorrendo la vita dei grandi pittori come il Correggio ci rendiamo conto del
ripetersi di una costante quasi identica: la straordinaria importanza che ha
avuto nell’evolversi della loro personalità la presenza di donne eccezionali.
Anche per il nostro Antonio ‘Sì, ma domani’ le figure femminili che hanno
contato come catalizzatori assoluti della sua evoluzione sono state almeno
quattro: la prima donna è senz’altro la dolce Girolama, di cui abbiamo già
detto in abbondanza; la seconda che ha preceduto la moglie di qualche anno
è Giovanna Piacenza, badessa del Monastero di San Paolo in Parma, una
figura di grande prestigio e intelligenza oltre che cultura: è lei che
commissionò ad Antonio Allegri l’affresco della Camera Alchemica di cui
abbiamo già accennato, e di certo, suggerì al pittore anche i temi della
rappresentazione a cominciare dalle allegorie scientifiche, legate ai miti
ellenici per poi raggiungere la sequenza dei simboli.
Certo non capita tutti i giorni di incontrare una badessa, che ha come
compito primario quello di allevare e indurre al distacco dal mondo e dalla
vanità un numero cospicuo di tenere fanciulle e che impieghi un metodo
tanto spregiudicato, ma guarda tu, l’inconsueta educatrice per raggiungere
questo scopo si avvale di figure mitiche, cariche e intrise di ambigui
significati pagani: il pittore è invitato a presentare satiri che producono
armonie soffiando in conchiglie, Amore che offre luminose passioni, la
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Purezza che avanza danzando e sollevando la gonna, quasi a sottolineare che
la danza non è solo simbolo di vanità e di peccato, ma anche e soprattutto di
sacra armonia. Il tutto scorre su trabeazioni e semicerchi, sorretti da capitelli
decorati con teste d’ariete, segno della potenza costante del pensiero. Quindi
ancora induce l’affrescatore a presentare una fanciulla simbolo della
Verginità, ma non teme il gesto di sollevare le vesti sopra le ginocchia e
agita una verga sulla quale è spuntato un bianco fiore, e appresso una ninfa
che allude al buon Governo e che va offrendo una cornucopia per indicare
fortuna e fecondità. Ancora vediamo sfilare Minerva che mostra una torcia
fiammeggiante, s’appoggia all’asta della potestà. Chiude il ciclo una conca
con le tre Grazie, le tre figlie di Giove ignude che rappresentano splendore,
gioia e prosperità: la fanciulla che allude alla gioia nel centro ci volge la
schiena e mostra due possenti glutei, alla sua sinistra lo splendore che si
guarda bene dal ricoprirsi il pube e i seni, e la prosperità che si volge quasi
indignata nell’atto di insultare l’immaginario pubblico che la sta spiando con
eccessiva morbosità.
Insomma, siamo alla rappresentazione scenica dove la finzione allegorica è
segnata dalle maschere dei montoni di una commedia non necessariamente
classica, ma piuttosto della farsa giullaresca dove le espressioni dei vari
arieti ci osservano ammiccanti e spesso irridenti. Abbiamo già notato come
in una delle decorazioni appaia un cranio mozzato e una scure simbolo del
sacrificio atellanesco dove l’immolato purificante si preoccupa di creare
ironia e giocondità. Questa, ormai l’abbiamo stabilito, è la costante
fondamentale dell’Allegri, un nome che è una garanzia: il grande senso
dell’umorismo.
Nel centro la badessa ha chiesto fosse rappresentata una dea che conduce
un carro decorato con ferro e rame, trainato da due possenti cavalli, dei
quali si scorgono solo le terga. Naturalmente quella femmina risoluta
rappresenta Diana cacciatrice, armata di arco e frecce, una figura
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evidentemente allegorica dedicata a se stessa: non a caso l’atteggiamento
della dea è tipico di una persona che se ne sta in posizione frontale per
essere ritratta e ci sta guardando senza alcun turbamento. Ci viene naturale
l’idea che a posare per questa Artemide sia stata proprio lei, Giovanna di
Piacenza: ce dà convinzione l’atteggiamento che mostra e che abbiamo già
osservato, il fatto cioè che ella guardi proprio verso di noi. Lo stesso volto
e sguardo lo ritroviamo nella Maddalena realizzata nello stesso periodo
dove la donna ritenuta dalla tradizione l’innamorata di Gesù ci guarda con
la stessa espressione e intensità. Qui la giovane sta leggendo un libro,
atteggiamento che la indica fortemente incline al sapere. Come è costante
in tutte le immagini che rappresentano Maria Maddalena ritirata in una
grotta nella foresta, la donna se ne sta seminuda con un solo grande drappo
che le scende dal capo e le avvolge il petto. È la prima volta che
scopriamo una così minuta e straordinaria verzura dentro un dipinto del
Correggio: qui sembra che il pittore voglia misurarsi con Leonardo nella
perfezione riproduttiva delle fronde che fanno da cornice alla santa.
Ma tornando alla dea cacciatrice ci viene logico chiederci perché per la sua
allegoria la giovane nobildonna abbia scelto proprio il ruolo di questa
vergine spietata, quel è la dea della luna. Si può arguire che, ancora in
tenera età, Giovanna per situazioni legate alle solite opportunità dinastiche
fosse stata costretta a prendere i voti e che da ragazza amasse
particolarmente le battute di caccia e il clima festante che qui la
accompagna. Infatti nel pergolato, trapuntato da medaglioni illustrati,
leggiamo scene che alludono vivamente all’arte venatoria: si tratta di bimbi
che giocano con piccoli cani da caccia che reggono teste di prede da
imbalsamare come trofei. I ragazzini, presentati in numero notevole, ci
portano subito a ricordare quelli dipinti da Raffaello, da Leonardo e
soprattutto da Mantegna: mostrano lo stesso incarnato e scoppiano di
salute, ma qui nell’affresco di Correggio sia i gesti che i volti dei putti non
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appaiono mai come stereotipi di convenzione, anzi a ognuno corrisponde
un diverso ritratto ripreso dal vero. A questo realismo l’Allegri era portato
fortemente dalla presenza, nella sua casa, di una strabordante quantità di
nipoti che invadevano ogni spazio con i loro giochi e le immancabili
caciare. E così possiamo sottolineare che il tema del dipinto rientra nel
mito, ma la realizzazione è tradotta nella quotidiana realtà.
La messa in opera architettonica delle stanze della duchessa fu
evidentemente progettata sotto la direzione di Giovanna di Piacenza: la
badessa se n’era presa tutta la responsabilità culturale e religiosa e
naturalmente tutte le spese per la realizzazione della Camera Alchemica
rimanevano onere della signora. Era lei quindi che gestiva quello spazio e
che invitava personaggi che partecipavano ai convegni con il dibattito e lo
studio. Ma quella insolita autonomia non doveva far molto piacere a certi
personaggi di potere nella città tant’è che nel momento in cui la gestione
politica e amministrativa di Parma diveniva totale diritto della Chiesa
vaticana fu imposto alla badessa di chiudere a tutti gli estranei l’accesso
alle sue stanze. La ormai famosa Camera veniva a far parte della zona
riservata alla clausura; per di più alla nobildonna venne tolto anche l’intero
patrimonio di cui disponeva, denaro che entrava nella regola della
comunità dei beni.
L’altra figura femminile che notevolmente ha inciso sulla preparazione
intellettuale e umana di Correggio è stata senz’altro Veronica Gambara
(1485-1550).
Correggio era ancora un ragazzo quando la signora, maggiore di lui di
quattro anni, gestiva con suo marito Giberto X la signoria della città di
Correggio. Colta e letterata di valore, era ritenuta poetessa di notevole
talento. Nel suo palazzo ospitò i più famosi scrittori del tempo, fra i
quali Bembo, Ariosto e Tasso. Inoltre ebbe modo di accogliere a corte
per ben due volte l’imperatore Carlo V. La nobildonna era rimasta da
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poco vedova di Giberto X che ella amava appassionatamente quando
incontrò il Correggio presentatogli da Giovanni Battista Lombardi, il più
stimato frequentatore di quel circolo legato da profonda amicizia col
pittore. Il 3 settembre del 1521 quando il primo figlio di Correggio,
Pomponio, venne battezzato, Lombardi gli fece da padrino. Che il
Correggio chiamasse deliberatamente il figlio col nome del celebre
umanista Pomponio Leto ci dice quanto fosse intenso l’interesse che il
pittore manifestava per la conoscenza e il sapere, passione che di certo
gli veniva dal frequentare personalità quali Lombardi, Veronica
Gambara e tutta quella corte di poeti e umanisti che abbiamo testé
nominato. Questa è certo l’ovvia ragione che fa dire a Ekserdjian, uno
dei maggiori studiosi della pittura rinascimentale, che l’Allegri sia da
ritenersi la personalità più colta fra tutti i pittori del suo tempo.
Di certo la Gambara, donna di straordinaria cultura e fascino, fu
determinante nel coinvolgere l’ancor giovane Antonio nel mondo della
ricerca totale per acquisire conoscenza sia dell’antico che del pensiero
“novo”. La frequentazione fra l’Allegri e la nobildonna fu costante e intensa
tanto che per molto tempo si ritenne certo che il quadro dedicato a una
nobile signora altri non fosse che il ritratto della malinconica amica del
pittore. Più di un particolare rendeva certa l’attribuzione: le perle che
pendono dal velo sul capo, il tono e la maestà del suo abbigliamento e
soprattutto la dicitura sul bordo della tazza in proscenio dove in greco è
scritto “nepenthè”, nome di una bevanda che reca l’oblio alla memoria e al
dolore: è chiaro che quella sofferenza per lei era impossibile potesse
svanire. Ma più tardi sorge una giusta obiezione: la donna ritratta è di certo
legata ai Francescani. Lo si deduce dallo scapolare e soprattutto dal cordone
dell’ordine suddetto che le cinge la vita. Quindi si tratta di Ginevra
Rangone, terziaria francescana, che ancor giovane a sua volta perse il
marito Giangaleazzo da Correggio deceduto nel 1517. Dal ritratto si evince
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chiaramente che si tratta di una donna di fresco e dolce aspetto. Ginevra, a
differenza di Veronica Gambara, di certo riuscì a superare quella sua
disperata tristezza tant’è che si risposò di lì a poco più di un anno.
L’inserimento di un’iscrizione greca in un quadro di pittore italiano è a
questa data estremamente insolito. La conoscenza del greco non era per
niente diffusa, persino fra i più istruiti. La scritta è tratta dall’Odissea.
Certo, non è di tutti i giorni scoprire che un pittore del Cinquecento nato da
una famiglia di venditori ambulanti nel piccolo comune reggiano fosse in
grado di leggersi tranquillamente un testo di Omero in greco attico.
Ma se è per questo è altrettanto stupefacente venire a sapere come questo
figlio di paesani minori avesse appreso a manovrare un astrolabio così da
rilevare le proiezioni delle distanze e i punti focali sistemati in una cupola a
18 metri d’altezza, che potesse dialogare con i più colti rettori di Università
e che si potesse dichiarare il maggiore fra gli scienziati della prospettiva e
dello scorcio con Piero della Francesca e Andrea Mantegna.
Ora ci coglie un pensiero: fu la colta modella a suggerire al pittore quella
dicitura o egli per proprio conto decise di farne uso?
La stessa immagine del ritratto di Ginevra la ritroviamo nel dipinto dedicato
al Riposo durante la fuga in Egitto: qui la Madonna ha lo stesso suo volto e
il suo stesso sguardo mesto e malinconico.
Ma tornando all’altra signora della malinconia, Veronica Gambara, si viene
a sapere grazie alle sue lettere che essa teneva una fitta corrispondenza con
Isabella d’Este, signora di Mantova. Così scopriamo in particolare uno
scritto di Veronica che conversando d’arte chiama il Correggio
familiarmente con l’espressione “il nostro Antonio”, e si intuisce come
entrambe le due dame mostrassero ammirazione e stima per il pittore:
questo prova a che livello fosse giunta la sua fama e credibilità.
È risaputo che Isabella d’Este dimostrava un interesse particolare per ogni
espressione d’arte a cominciare dal teatro al punto di dirigere e finanziare
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una delle prime compagnie di attori professionisti.
La duchessa, l’avevamo già accennato, conobbe l’Allegri ancora ragazzo,
ma più tardi ebbe qualche difficoltà a incontrarsi con lui: la causa di tanta
crisi era dovuta alle avventure galanti del marito Francesco II che l’amava
intensamente tanto da renderla madre per ben nove volte (cinque femmine e
quattro maschi), ma nello stesso tempo andava a scaricare la propria
passione anche con altre numerose amanti. Queste continue avventure
dell’irrefrenabile Gonzaga la mortificavano profondamente. Quindi viveva
sempre più appartata, non amava più incontrare chicchessia.
Qualche anno dopo la famosa battaglia di Fornovo presso Parma,
l’irrefrenabile Francesco, comandante della coalizione degli eserciti italiani,
viene ingaggiato dai Veneziani perché prenda il comando delle truppe della
Serenissima.
Nel frattempo si rende conto d’aver contratto una malattia tipica di chi
frequenta prostitute che normalmente seguono gli eserciti, la sifilide, un
morbo terribile e infamante. Isabella ne rimane sconvolta e non ne vuole più
sapere di incontrarsi col marito, ma, come si dice, le disgrazie arrivano
sempre a grappolo. Il doge di Venezia scopre che il loro generale, il duca di
Mantova, sta tramando con i nemici della Serenissima: il maneggione fa
appena in tempo a fuggire e rifugiarsi presso le truppe della coalizione
antiveneziana. Ma il Gonzaga viene catturato e portato a Venezia,
processato e costretto in galera a vita con la condanna di tradimento.
Le vicissitudini provocano a Isabella un dolore che la porta a gonfiarsi
come affetta da obesità straripante al punto da non riuscire più a salire le
scale, perciò è costretta a vivere al pian terreno del castello dei Gonzaga.
Ciononostante si butta con disperato impegno a scrivere lettere e inviare
messaggeri presso la Repubblica veneta e perfino dal papa per fare sì che
Federico venga perdonato e tolto di galera. Dopo numerosi tentativi andati a
vuoto Isabella riesce a ridare al marito la libertà. Dopo qualche anno, nel
4
1519, Federico, consumato dalla orrenda malattia, muore.
A questo punto è bene cercare di individuare il carattere di questo
straordinario personaggio che è il Correggio, ma non quello superlativo
riguardante la sua indiscussa genialità nei campi più diversi, giacché
abbiamo ormai stabilito che l’Allegri sul piano della tecnologia
dell’immagine e della geometria dell’impianto si dimostra spesso
insuperabile, quasi al livello di Leonardo. Infatti per le cupole aveva
ideato specie di montacarichi che gli permettevano di salire fino a livelli
oltre i 20 metri e grazie a argani sofisticati e contrappesi da orologeria
riusciva a trasportare lassù fra le impalcature più alte non solo persone,
ma anche strutture tecniche di notevole peso e volume. Inoltre, per salire
a dipingere sulle pareti concave aveva inventato imbragature appese su
piani scorrevoli che erano in grado di trasportarlo nell’aria in tutte le
direzioni compreso in trasversale. Aveva imparato a servirsi di specchi
coi quali raddoppiava il valore della luce e la proiettava sulle immagini
da riprodurre come si fa per mezzo dei moderni riflettori. Insomma, sul
piano dell’ingegno l’Allegri era da ritenersi un vero e proprio scienziato.
Ma a noi interessa scoprire come si comportasse nelle situazione del
vivere comune. Di certo teneva un grande senso della famiglia: quel
vivere fin dalla prima infanzia in quegli angusti spazi in un clima da
ammucchiata, tutti insieme, padre, madre, zii e nipoti, ognuno appresso
all’altro in un’unica stanza, dormire in chissà quanti nello stesso letto lo
aveva senz’altro condotto a una solidarietà di gruppo indistruttibile dove
il nucleo portante era la famiglia col padre padrone che dettava le regole
e amministrava quella misera comunità dei beni. Raggiunti i venticinque
anni, Correggio godeva già di una notevole celebrità ed era in grado di
farsi pagare cifre davvero consistenti per le sue opere, ma faceva ancora
amministrare i suoi lauti guadagni dal capo clan Pellegrino.
4
Ci si è chiesto, da parte di molti ricercatori, cosa spinse a un certo punto
Girolama, moglie di Antonio, maritata con lui da pochi anni, a stendere
un testamento davanti al notaio che specificasse a chi dei parenti e degli
amici e in che misura dovessero essere concesse le sue proprietà e i beni
in caso di morte.
Ma cos’era successo? Quale tremenda crisi familiare era esplosa in casa
Allegri? Qualche ricercatore un po’ all’ingrosso ha immaginato che la
giovane sposa temesse a causa della sua fragilità fisica di perdere
anzitempo la vita.
Ma abbiamo già visto come Girolama fosse in ottima salute e che l’idea
di una sua morte prematura è risultata del tutto falsa. Evidentemente la
ragione che l’aveva indotta a stendere quel documento è un’altra. In
famiglia dev’essere esploso un problema serio: probabilmente
l’attaccamento al denaro che il padre del pittore mostrava di continuo in
modo ossessivo l’aveva preoccupata ed è del tutto possibile che,
consigliata dai suoi parenti di sangue che l’avevano allevata, fosse
giunta a quel gesto di difesa con il quale imponeva alla famiglia Allegri
e quindi anche allo sposo di rispettare assolutamente i denari e le
proprietà che aveva portato con sé.
C’è un altro problema che a proposito della vita di Antonio Allegri è
rimasto sospeso: il suo viaggio a Roma. Ma di questo suo viaggio non
abbiamo né un’indicazione né tanto meno un documento che ce lo
confermi. È indubbio che Correggio oltre che da Leonardo e Mantegna
abbia tratto ispirazione dalle opere di Raffaello e Michelangelo,
entrambi ingaggiati per lungo tempo dai pontefici dell’Urbe. La sua
attenzione riguardo ai dipinti in questione sia nella totalità che nei
particolari più sottili è costante: da qui si può dedurre che il Correggio
quelle opere le abbia quasi toccate oltre che osservate dappresso, ma a
4
questo proposito ci si dimentica che in quegli anni, dai primi del
Cinquecento in poi si era creato in tutta Europa un vero e proprio
mercato delle copie e delle riproduzioni dei grandi maestri a partire da
quelle eseguiti su tela o tavola e dipinti a tempera o ad olio per
continuare con quelle realizzate attraverso la tecnica dell’incisione fino a
quelle ottenute per mezzo stampa.
Queste riproduzioni venivano acquistate in gran numero sia dai
collezionisti che dai pittori e dalle accademie d’arte perché gli allievi
potessero studiare dappresso i capolavori più famosi. Di queste
immagini ne sono giunte numerose a noi, perfino riprodotte da dipinti di
fiamminghi e grandi pittori francesi e spagnoli. Attento com’era a ogni
novità, Antonio Allegri a sua volta ha immediatamente tratto vantaggio
di questa nuova tecnica del riprodurre tanto con l’incisione che con
l’acquaforte3, e ha duplicato soprattutto le immagini dei propri lavori di
maggior successo.
Ma il fenomeno davvero eccezionale si scopre analizzando il numero
delle riproduzioni delle sue opere eseguite dai copisti e incisori di tutta
Europa. A questo proposito c’è un volume di Massimo Mussini
intitolato il Correggio tradotto, edito da Federico Motta Editore, che
ci propone una quantità impressionante di acqueforti tratte da dipinti
dell’Allegri che hanno letteralmente invaso il mercato nei successivi
secoli fino ad oggi. Così incontriamo le ninfe ignude che amoreggiano
con Giove trasformato in nuvola o in cigno in decine di copie stampate,
e ancora frammenti di dipinti tratti dalle cupole del Correggio disegnati
con grande maestria in numero strabordante, ma soprattutto è
impressionante la quantità di riproduzioni di opere andate smarrite nei
3
L’acquaforte è una composizione acida dentro la quale si inserisce la lastra su cui si è disteso
un impasto sul quale si è disegnata la figura. La soluzione acida ha il potere di incidere così la lastra
nei punti dove si è graffiato la copertura. È una tecnica calcografica consistente nel corrodere una
lastra di metallo con un acido, per ricavarne immagini da trasporre su un supporto. (RIFARE
MEGLIO, DARIO NON HA VOGLIA)
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secoli appresso o distrutte dai vari bombardamenti dell’ultima guerra o
ancora rubate e non più ritrovate.
C’è una Deposizione dell’Allegri, quella che conosciamo come
Compianto sul Cristo morto, che viene proposta in un centinaio di copie
diverse e osservandole una dietro l’altra ci rendiamo conto che queste
immagini sono utilissime per decifrare particolari che spesso ci sfuggono
osservando la sola opera originale, presi come siamo dalla pittura e
dall’emozione cromatica che ci coglie. In quest’opera notiamo subito
che il dipinto che misura 130x60 è attraversato compositivamente da una
diagonale che parte dall’angolo di sinistra e raggiunge l’angolo di destra
del quadro. In contrapposizione notiamo un frammento di scala che
s’appoggia al palo centrale della croce. Gesù è deposto su terreno
scosceso e il suo corpo è iscritto dentro il grande triangolo che si è
formato a sinistra. Se disegniamo due verticali a distanza eguale, ci
troviamo col volto di Gesù esattamente nel centro del primo spazio;
mani e braccia delle donne, compresa la Vergine che lo sorreggono,
concorrono nella loro gestualità a creare un cerchio che raccoglie il volto
di Cristo in basso e le tre Marie compresa la madre. Non si tratta però di
un’inquadratura geometrica e fissa ma mobile, ed è proprio la gestualità
delle tre donne che avvolge come in un turbine il volto di Cristo. Dentro
due linee parallele che attraversano il dipinto longitudinalmente da
destra a sinistra è inscritta anche la figura della Maddalena. La donna
tiene la nuca appoggiata alla base della croce, le mani raccolte in grembo
e una disperata espressione di dolore le solca il viso. La figura della
Maddalena, quella di Cristo e quella della Madonna si trovano collocate
sullo stesso asse trasversale: questo andamento produce una ritmica
ossessiva che crea un’angoscia incontenibile. Un’altra figura geometrica
importante è quella disegnata dal braccio di Cristo abbandonato verso il
suolo, seguito dal suo viso, quello della Madonna e dietro ancora quello
5
di una delle Marie. L’incisione sottolinea ancora di più la progressione
dei valori compositivi delle figure: ci si rende conto che il braccio di
Cristo con le tre teste in sequenza è affiancato dalla posizione di gambe,
braccia e panneggi che partendo dalla mano abbandonata di Cristo
producono una specie di raggiera a timbro ossessivo. Ma ciò che
sorprende maggiormente è il fatto che tutta questa struttura portante
della geometria compositiva non sovrasta mai la pura drammaticità della
scena: linee rette trasversali o a raggiera sono perfettamente celate dalla
commozione disperata che inarrestabile raggiunge il proscenio della
pittura.
A proposito di opere perdute del Correggio, esistono una decina di copie
di un dipinto originale dell’Allegri di cui uno si trova nella Galleria di
Parma, più qualche incisione. La pittura originale, di cui esistono
testimonianze nei secoli passati, è letteralmente scomparsa. Si tratta del
Giovane fuggente dalla cattura di Cristo: l’episodio è tratto dal Vangelo
di Marco (14, 51-52) che narra, appunto, del tradimento di Giuda a
Cristo.
Questa versione del Vangelo che vi proponiamo è tratta dall’originale
greco stampato agli inizi del Seicento in volgare pistoiese da Diodati4.
Hor colui che lo tradiva havea dato loro [agli sbirri] un segnale:
dicendo, Colui il quale io havrò baciato è desso: pigliatelo, menatelo con
voi sicuramente.
E, come fu giunto, subito s’accostò a lui, e disse: Bene stii, Maestro: e lo
baciò.
Allhora coloro gli misero le mani addosso, e lo presero.
Ed uno di coloro ch’erano quivi presenti trasse la spada, e percosse il
4
San Marco XIV, 44-52. La Bibbia di Diodati, Nuovo Testamento e Apocrifi. Edito da I Meridiani.
5
servidore del Sommo Sacerdote, e gli spiccò l’orecchio.
E Iesu fece lor motto, e disse, Voi siete usciti con ispade, e con haste,
come contr’ad ladrone, per pigliarmi.
Io era tutto dì appresso di voi, insegnando nel Tempio, e voi non
m’havete preso: ma ciò è avvenuto, accioche le Scritture sieno
adempiute.
E tutti [i seguaci suoi], lasciatolo, se ne fuggirono.
Ed un certo giovane lo seguitava, involto d’un panno di lino sopra la
carne ignuda: ed i fanti lo presero.
Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo.
Nel testo si dice esplicitamente che il giovane coperto da un lenzuolo
seguiva Gesù. Solo quando sentì addosso le mani delle guardie capì che
si trattava di una imboscata ed evitò la cattura sciogliendosi dal drappo e
ammollandolo ai fanti presi in contropiede. Molti commentatori hanno
cercato di minimizzare il significato di quella presenza: chi era quel
giovane? Uno qualunque che si era svegliato nella casa in cui dormiva
Gesù e l’aveva seguito attratto dal frastuono, solo per curiosità?
Impossibile: nel Vangelo non si raccontano mai aneddoti inutili e senza
senso. Infatti più di uno studioso, anche credente, insinua senza alcuna
malignità che si tratti di un giovane che dormiva con il Messia. Diciamo
subito che sono quasi inesistenti altri dipinti che illustrino questo
episodio, ne conosciamo solo uno di Dürer e un altro eseguito da Ercole
de Roberti, il cui originale sta a Bologna: se Correggio lo ha dipinto e
tanti altri pittori hanno ritenuto di eseguirne delle copie non può essere
solo per un valore pittorico, ma anche per la straordinaria situazione che
vi si racconta. Qualcuno ipotizza che il ragazzo rimasto ignudo sia
Giovanni Evangelista, ma anche questa versione non sta in piedi. Ma
passiamo a esaminare il dipinto: l’eleganza e la leggerezza con cui il
5
giovane si libera dal drappo sfuggendo all’aggressore e quindi scattando
in una corsa che lo porterà indubbiamente alla salvezza ha dello
straordinario. Fa venire in mente un’azione da podista greco in gara
nello stadio: è un gesto stilisticamente ineccepibile che ci è capitato di
scorgere solo rappresentato su vasi attici e in alcuni disegni di Giulio
Romano; così come qui viene espresso si traduce in un lazzo colmo di
sottile umorismo raddoppiato dallo scorgere, alle spalle del fuggitivo, la
figura del soldato che arranca in modo pesante e goffo. In realtà non si
tratta di un semplice soldato; infatti per l’elmo piumato che calza in capo
ci fa venire subito in mente lo stesso ufficiale romano che invade la tela
nella Cattura di Caravaggio, ma che qui proietta il braccio in avanti
nell’ultimo tentativo di acchiappare il podista sfuggente proprio mentre
egli sembra irridere alla beffa riuscita a meraviglia.
C’è un altro dipinto di Correggio che produce enorme commozione per
il tema e la dolcezza che sa esprimere e che per il grande successo da cui
è stato accolto ha provocato una miriade di riproduzioni d’ogni tipo. Si
tratta del cosiddetto Matrimonio mistico di Santa Caterina. Le due
donne, la Vergine e la giovane Santa, sono entrambe di profilo con i visi
che quasi si sfiorano: sembrano una lo specchio dell’altra. Infatti, quasi
sicuramente, la modella è una sola: l’immancabile dolcissima Girolama.
Il bambino Gesù non è il solito putto nato da poco, qui ci appare più
grandicello e non viene mostrato ignudo, ma indossa un abito. Il volto
della Madonna proteso in avanti copre quasi a metà il viso del suo
Bambino: questa soluzione davvero insolita accresce enormemente il
senso di complicità che affiora palese fra madre e bimbo. Gesù sembra
chiedere alla madre: “Ma davvero posso sposare questa stupenda
ragazza?”, e la Madonna sembra rispondere: “Certo, anzi sbrigati a
infilarle l’anello al dito. Non vedi quanto lo desideri anche lei?”. La
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straordinaria commozione che si legge sul viso di Santa Caterina è
amplificata dall’impiego della luce; la Madonna ha il volto in ombra, il
suo profilo è disegnato dal taglio di sole che illumina metà del viso di
Gesù, mentre la figura della santa è completamente illuminata dal fascio
luminoso che taglia la scena. Qui dobbiamo sottolineare come siano
pochi i pittori del Rinascimento, compresi i grandi veneti e toscani, che
dimostrino tanta sapienza nel gestire il chiaro e l’ombra producendo
volumi e ritmi di tanta bellezza.
Naturalmente l’Allegri anche qui non si lascia sfuggire l’altra fra le sue
doti da gran maestro: alludiamo alla sapienza compositiva attraverso la
quale riesce a collocare le figure. Questa lettura ci viene facilitata se la
deduciamo dalle acqueforti che riproducono in gran numero questo
dipinto: abbiamo detto che le due protagoniste sono poste una di fronte
all’altra di profilo. Se seguiamo l’arco che raccoglie i volti e spalle e
schiene d’entrambe e quindi risaliamo seguendo le braccia, otterremo
due ellissi che si compenetrano e che appresso continuano a rotare
avvolgendo i due corpi femminili che insieme abbracciano il piccolo
Gesù. Come perno al movimento nel centro fra i due volti scende una
lunga e sottile foglia di palma, simbolo della purezza, segno che
prosegue fino a raggiungere il panneggio della giovane martire.
Ma di certo il dipinto di Correggio che ha sorpassato ogni altro nel
numero delle copie dipinte e in quelle in acquaforte e stampa è la
Madonna con Bambino e un piccolo Angelo. Ancora, di certo è stato
eseguito dall’Allegri qualche anno dopo aver incontrato e preso in
moglie la sua compagna per la vita. Infatti in questo ritratto Girolama è
ancora molto giovane e quel bimbo che tiene in braccio e al quale offre il
seno gonfio di latte è suo: si tratta del primogenito (Pomponio). La
Vergine madre qui accenna a un sorriso pieno di dolcezza:
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evidentemente si sta divertendo nell’osservare l’impaccio del piccolo
Gesù che non sa decidersi se appoggiare le proprie labbra al capezzolo
della madre o accettare il dono del bambino alato che gli offre una
manciata di datteri. Certo, anche qui ritorna il poema amoroso del
Cantico dei Cantici. Il bimbo alato che qualcuno ha identificato nel
Giovannino che offre i succosi frutti osserva con intensità di sguardo il
seno della Vergine quasi fosse attratto dall’idea di suggerne il latte a sua
volta. Pare che l’angiolino stia facendo una proposta di scambio
azzardato: “Fammi assaggiare qualche goccia di latte della tua mamma e
io in cambio ti do tutti i datteri che tengo in mano”. A quella proposta il
Bambino Gesù sembra bloccare il gesto del compagno di giochi e,
ponendo la mano presso il seno della Madre, pare dica: “Eh no, il seno è
mio e non te lo do!”.
Non possiamo fare a meno anche in questo caso di prendere in esame la
struttura compositiva di questo capolavoro: tutto, volti, braccia, mani,
gambe e piedi della Santa Madre e dei bimbi, è raccolto dentro una
sequenza di cerchi della stessa dimensione che vanno roteando uno
dentro l’altro, creando una sensazione di festoso mercato fra i frutti di
dattero e i seni della Madre. Qui ci coglie la memoria delle grandi madri
dell’antica e costante rappresentazione della nostra cultura mediterranea
con Demetra e i suoi figlioli che si disputano golosi i seni turgidi per il
latte che le sgorga intrattenibile dai capezzoli.
Osservando la serie finale dei disegni preparatori degli affreschi delle
cupole di Correggio ci rendiamo conto quasi a ritmo costante di una
situazione della quale abbiamo già accennato l’imponente presenza:
stiamo parlando delle gestualità che alludono a passi di danza e a
movimenti contrappuntati con braccia e corpo tutto.
Lassù incontriamo Gesù che sembra accennare un ballo nell’aria: intorno
5
ritroviamo le amiche di Eva ed ella stessa che danzano sfrenate e anche i
bimbi nel loro gioco si sono trasformati in piccoli danzatori, poi gambe e
braccia si agitano uno appresso all’altro segnando ritmi da tarantola e
pavana. Ma anche Gesù nel Noli me tangere sembra accennare a una
danza e presso a lui sembra sollevarsi all’impiedi anche la sua compagna
Maddalena pronta a seguirlo nel ballo. Quasi con logica obbligata ci
viene alla mente quello stupendo canto ritrovato nel Vangelo apocrifo di
Giovanni della seconda metà del II secolo d.C.
È Gesù che parla, quasi cantando:
Rispondi alla mia danza.
Non ho casa, eppure un tetto sempre mi protegge,
non tengo campi, eppure ogni podere posso attraversare
non ho templi coperti con cupole, ma ho per cupola tutto il cielo.
E’ inutile che tu cerchi uno specchio, affacciati al mio viso,
ti ci vedrai riflesso.
Una porta sono per te che bussi, strada sono per te che devi camminare
Rispondi ora alla mia danza, non c’è commento più eloquente
Di un corpo che si agita nell’aria.
Danzando mi dimostri che sai leggere ciò che vado dicendo.
Tu hai visto la mia sofferenza e, vedendo, non sei rimasto immobile,
hai torto il tuo corpo come un albero squassato dal vento.
Ti sei torto nella danza per diventare saggio.
Tu mi hai come un luogo di riposo, ora consolati in me,
danziamo e accompagniamoci con il sorriso.
Io ho deriso tutto con la parola e ho saltellato nella beffa dello
sghignazzo.
E io stesso ho riso nell’essere deriso.
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A questo punto del percorso dell’Allegri ci rendiamo conto dell’incredibile
quantità di opere prodotte dal maestro di Correggio: ne abbiamo contate più
di cento di cui un gran numero di Madonne col bimbo e altre dove la
Vergine sovrasta gruppi di Sante e Santi più qualche putto che non può mai
mancare.
Ma lo spazio più esteso affrescato dal pittore è senz’altro quello delle aree
concave delle cupole con relative basi: si tratta di intonaci che coprono
mura per centinaia di metri quadri con una folla di personaggi mobili che
galleggiano in un cielo profondo sfondato fra nubi dalle quali spuntano volti
e corpi di altre anime che fluttuano nella nebbia. Ciò che impressiona
maggiormente di quelle straordinarie scene è il movimento: non c’è figura
che se ne stia assente e beata in quello spazio, ognuno si muove agitando
braccia e gambe che si sorpassano l’un l’altra come una sequenza futurista
di Balla, Boccioni e Severini.
Certo osservando d’appresso le varie fasi pittoriche, anche le più nascoste
di quel doppio, triplo paradiso, siamo portati a immaginare scene sempre
diverse che si susseguono come su un enorme schermo rotante: ci puoi
leggere la tragedia di Icaro che cerca di guadagnare alti spazi navigando per
mezzo di ali incollate con la cera, e poi ecco il sole che scioglie le piume e
Icaro che precipita urlando fino a schiantarsi. Ci vedi frammenti di disegni
giganteschi di Leonardo con scheletri di ali che attraversano l’affresco ad
ogni lato, incrociando angeli appena abbozzati e poi ancora le immagini
acrobatiche inventate per gli spettacoli sacri dentro le cupole di Firenze e
Milano da Brunelleschi e dal Bramante, ecco le figliole che sbattono ali di
carta e vanno muovendosi appese a cerchi che rotolano nella grande
macchina del cielo; ma dove ti senti mancare il fiato è nella disputa che si
svolge davanti ai tuoi occhi e alle tue orecchie come davanti al fondale di
un immenso cielo: i dialoganti sono un contadino e un grande sapiente, il
tema è quello sulla teoria geocentrica di Tolomeo opposta a quella di
5
Copernico. All’inizio ti pare che il contadino si esprima nel dialetto di
Ruzzante, ma poi vieni a scoprire che quelle folli teorie del “villan di Pava”
sono sì ruzzantine, ma scritte da Galileo Galilei in persona. Proprio lui, il
grande scienziato pisano che insegnava a Padova, che impiegava il
linguaggio del Ruzzante per mascherare con quella lingua ostrogota le folli
teorie nuove che per poco non gli procurarono la prigione e anche il rogo.
È un reperto spettacolare di scienza e teatro completamente sconosciuto,
specie agli eruditi e ai sapienti, ma di certo sarebbe piaciuto tanto
all’Allegri e se permettete glielo dedichiamo. Dunque da una parte c’è il
contadino che si chiama Nale e dall’altra il dottore sapiente che tiene
lezione al villano. Per primo prende la parola il dottore:
DOTTORE: Ora, caro Nale, se tu mi presti attenzione, ti mostrerò
come, grazie alla divina intuizione di Aristotele,
si reggono gli astri e i pianeti nel cielo. I pianeti e gli
astri stanno incastonati dentro cerchi e sfere immense
di vetro, anzi di cristallo purissimo, sfere e cerchi che si
muovono in grande sincronia fra di loro intorno alla terra,
che per nostra fortuna sta fissa, immobile, nel centro
dell’intero sistema.
NALE: Ah, ah, ah! I astri e i pianéta stan incastonó deréntro
el voltón de cristal compàgn che le campane trispàrenti
per covrìr i santi? Nel balón de véder?!
DOTTORE: Sì, sì, esatto, esatto! Di queste sfere ce ne sta
una in particolare, straordinaria, dentro la quale è incastonato
il sole.
NALE: Cossa? El Sole el sta incastonà deréntro al vetro?
’Sta fornàse brusànte che deslèngua el fero, che desléngua
el bronzo, che desléngua anco l’azàro…
l’è incastonò dentro una capa de cristal?! Ah, ah, ah! Ma per
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’sto gran calor de fornàse che l’è ol Sol tüto l’andarèsse
infondùo, tüto infondùo andarésse ’sto vetro! Tüto stcioparèse
come un gran lampadari e a nuioltri ghe tocherèsse
andar a sbalzoloni in per la Tèra con tüti i vetri
che se inzòca dentra ai pie!
DOTTORE: Sentilo, il nostro sarcastico Nale! Ora dimmi, secondo
il tuo grande ingegno, come starebbero appesi gli
astri lassù?
NALE: No’ sta miga pendùi i astri, no. I va rotolando pe’
l’àire!
DOTTORE: Rotolando?! Ivi compresa la Terra?!
NALE: Sì, pruòpri! Comprendùt ol nostro pianeta. Mi son
sigùro che la Tèra no’ sta miga fissa inciodàt come dise
l’Aristotile, ma la va zizeràndo come ’na tròtola in gran
zércolo … Gh’havìt in ment la rùsola?
DOTTORE: Sì, la ruzzola … che poi sarebbe se non erro quella specie di formaggio
asseccato che i contadini della tua razza cingono con una lunga fune, quindi tirando la
stessa lanciano il formaggiotto rotante a srotolarsi lungo la china e spesso lo fanno
volare.
NALE: Ben … Ecco, quèlo … O si ti vol, compàgn a ’na sfritàda de zentomìla
milion de òvi … ’na sopressàda zigànte che va
zizzagàndo per ol ziél, donde ol Sol l’è ’na polenta, un
polentón stragrande infogà … che nel pindorlàr tremendo
ol va intorno e sbròfa fòra gnòchi de polenta che po’
son le stèle che sbrìgola in del firmamento!
DOTTORE: Ah, ah, ah! E quindi gli astri sarebbero proiettati
nell’universo senza tracciare un’elisse di ritorno?
NALE: Cosa sarèsse ’sto elisse de restórno?
DOTTORE: Intendo il vagar degli astri: quando la tua sfrittata
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che lanci si ritrova a compier parabole continue, essa
tua ruzzola terrestre, rimane su per cento battiti di
ciglia massimamente, poi cala la tensione e finisce al
suolo. Ma gli astri reali, le sfrittate nostre celesti, Luna
e stelle, le nostre polente, rimangon su, non calano manco
di un grado e continuano nel loro vorticare infinito,
costante. Come lo spieghi? Come giustifichi la tensione
che le costringe a disegnar parabole perfette in eterno?
NALE: Beh, basta no’ desmentegàrse de la traziùn che vegne
de l’alta e basa marea e per il tiramento de le misme.
DOTTORE: Cosa?! La trazione? Il tiramento? Bassa e alta
marea nel firmamento? Cosa vuol dire?
NALE: Ma sì … l’è semplize … coma quand la Luna e la
Tèra in del loro zizzagàr, i ariva pròxime l’una a l’óltra,
eco che salta fòra l’alta marea. Gh’è ol mar che da la Tèra
se sponza de fòra come una panza de una dona ingravidàda …
squasi ciuciàdo da la Luna, e anche i
sbotón, i zermògli che gh’è in de la Tèra, la Luna le tira.
E gh’è anca i péssi che vorarèsse tirarse de fòra e
sbotàr in ver la Luna … E anca ai animal ghe tira sgrogognà
de vegnìr fòra, che tüto in de l’universo l’è un
gran tiramento: co gh’è la Luna che tira co’ la Tèra, a
gh’è la Tèra col Sol che tira, i pianeti se tiran l’un l’oltro.
Insoma, nasse un desìo passionàd compàgn de un
magnàtismo maravegióso tremendo, chè i ghè costrìnze
a ziràr deréntro le orbite senza farse spudàr de fòra.
Chè i pianeti vorsarìa slonzonàrse, andar de parabola,
ma gh’è un altro subito che ol tira: "Végne qua!" (Mima
descrivendo in una specie di danza pavana l’attirarsi degli
6
astri) BRUUAAAM! Torna indrìo e de l’altro canto gh’è
un altro ch’el tira: "El va, el va!!". PLAAAK! Torna indrìo …
e l’elisse se forma per i tiramenti: tira v’un che
tira l’altro, tüto se tira! Così no’ se dise forse che un
òmo, quando l’è in amor, ghe tira? A l’òmo ghe tira
sempre per squasi tüte le fèmene ... che noialtri semo plu
zenerósi! E no’ se dise che una fèmena ghe tira per ol
sò òmo? E dònca tüti, astri e pianeti e le stèle stan dentro
a un tiràrse vorticoso de tiramenti passionàdi, che
tüto ol desechilìbrio se stciaparèsse in un gran desastro
fracasóso se no’ ghe fuèsse ’sto tiramento … che po’ l’è
ol magnifico tiramento zeneràl de l’universo in amore!
DOTTORE: L’universo in amore? Ma questo tuo universo in
amore è eterno?
NALE: Mah, niuno l’è eterno in tel zièlo. No’ gh’è astri, no’
gh’è pianeti che i sìvia per sempre. Solamente ol nostro
Deo Padre l’è eterno ... forse. E puranco ol nostro Sole
se retroverà un ziorno col tiramento che se smorza… ol
sò magnetismo e astri che lo tira se slasserà andar… se
slabra ’sta arcada cilèste, se trova con venti de corénti de
contro e ... teremendo!, se spénge ol gran falò de fògo, se
smorzerà ol Sol e la sòa lus … e una cóa luçente ’mé meteora
infogàda se slogherà svortegànte filante per ol çielo …
cossì in de lo scuro despàre desolvéndose ol Sole.
"Ehi! L’è terminàt lo spectàcolo … Silénti! ... Tüti dormienti
in sempiterno! E no’ rompìt pì i cojón!".
DOTTORE: Oh, oh, oh! La fine dell’universo orrendo! È un
giudizio universale proprio da sghignazzare! Ah, ah,
ah! Morir dal ridere!
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NALE: No, no, l’è ol tò de universo che ol fa crepar de’ ridàde,
doctor, eh … con ’ste tòe volte del ziélo in cristal,
col Padreterno impatacàt in de la volta del firmamento
co’ in testa inciodàt un triangolo.
È che a vui dotóri ve fa spavento l’idea de un universo
tropo grando … Voàltri preferìt che ol sìvia limità e calculàbile …
No, mé despiàse dotóri, l’universo no’ l’è restrengiùo
e no’ l’è calculàbile … l’è tüto de un grand desórdene
emmensurabele. L’è masa pi’ grande de quèlo
che se pol penzàre. L’universo l’è infinito ... parchè l’è ol
Deo Padre che no’ lo gh’ha finito! E ’sta solusión a vui
alter siòri doctóri ve porta spavento … Voàltri preferè de
pensar a un Deo Creadòr a vostra emmàzine, egual a
vui … de la vostra misura, perché se ’sto Deo Padre ol
strarépa fora del normale, sbota un universo in del qual
tüti se despèrde spampanà.
Ecco la rasón che ol va fàito enventàrve un creato de
corta misura, in manéra che la Tèra sia sempre lì ben
piantàda intramèso al gran giardin, fermàda, co’ tüti i
pianeti che i zira torno a torno a noaltri, co’ la giunta del
Sole osequieóso che zira come fuèsse deréntro a ’na giostra
e l’òmo intraméso sentà, coi astri che i zira: "Che
bel tramonto che te m’è fàit ’stassera, gràsie! Oh che
bel’alba! Oh la Luna che la monta! Ohi, Marte, semo
in ritardo! Venere, va’ soto e covrete ’ste ciàpe, svergognà!".
Ma si ti vegni a descrovrìr, de incanto, che la giostra no’
gh’è miga ... che la Tèra gira ’mé ’na sfritàda che rùsola per
ol çiél … e astri tüti a gh’hann ognun un sò ziraménto intorno
al Sol e a ogni momento te incòrgi che artri pianeti
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e artre stèle spunta dapartùto … Alora no’ gh’è più devìna
misura … l’onivèrso l’è sfrondàt e tüto devénta spropositàt,
a comenzàr dal Padreterno … un Deo che no’ ti
pol pì imazzinàrlo stravacà su ’na nuvola, trasportà de angiulìn
co’ l’ali, no, anco lu, Deo, l’è andàt fora misura e
spampanàt in l’universo smoderàt. No’ esiste pì’ ni misura
ni proporzión. Cossì, a l’estànte, l’òmo devénta pìcol,
ma cossì pìccol … picinìn, che al sò confronto una pùresepidòcio
la parèsse un eliofànte: "Oh, donde sèito ti,
òmo?" (Con voce sottile) "Son chi … In tel fondo ...".
"Che fondo? Indove?" (Camminando intorno alla ricerca
dell’invisibile creatura) Fàite védar … azzènde un fògo …
Donde siii? … Donde siiiiii? Non te sento pì …
(Mima, per inciampo, di schiacciarlo col piede) GNACH!
"Ahiaoa!"
"Oh! … Scùsame … perdoname … te gh’ho schisciàdo!".
E l’è finìda tüta l’umanidàd!
TRADUZIONE DELLE BATTUTE DI NALE (da mettere in fronte pagine)
1 Ah, ah, ah! Gli astri e i pianeti stanno incastonati dentro
il voltone di cristallo come le campane trasparenti
per coprire i santi? Nel pallone di vetro?!
2 Cosa? Il Sole sta incastonato dentro al vetro? Questa
fornace rovente che scioglie il ferro, che scioglie il bronzo
e scioglie anche l’acciaio … è incastonata in una cappa
di cristallo?! Ah, ah, ah! Ma per ’sto gran calore di
fornace che è il Sole tutto andrebbe fuso, tutto fuso andrebbe
questo vetro! Tutto scoppierebbe come un gran
lampadario e a noialtri toccherebbe andar a saltelloni
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per la Terra con tutti i vetri che ci si infilano nei piedi!
3 Non stanno mica appesi gli astri, no. Vanno rotolando
nell’aria.
4 Sì, proprio! Compreso il nostro pianeta. Io sono sicuro
che la Terra non sta fissa inchiodata come dice l’Aristotile,
ma va girovagando come una trottola in gran
cerchio ... Avete in mente la "ruzzola"?
5 Bene ... o se vuoi, come a una frittata di centomila milioni
di uova ... o una sopressata gigante che va zigzagando
per il cielo, dove il Sole è una polenta, un polentone
stragrande infuocato che nel vorticare tremendo va
intorno e spruzza fuori gnocchi di polenta che poi sono
le stelle che brillano nel firmamento!
6 Cosa sarebbe questa ellisse di ritorno?
7 Beh, basta non dimenticarsi dell’attrazione che arriva
dall’alta e bassa marea e per il tiramento delle medesime.
8 Ma sì … è semplice … come quando la Luna e la Terra,
nel loro zigzagare, arrivano vicine l’una all’altra, ecco
che salta fuori l’alta marea. C’è il mare che dalla Terra
si spinge in fuori come una pancia di donna ingravidata ...
quasi succhiato dalla Luna, e anche i germogli che
stanno nella terra, la Luna li attira. E ci sono anche i pesci
che vorrebbero uscire e lanciarsi verso la Luna … e
anche agli animali gli tira la voglia di venir fuori, che
tutto nell’universo è un gran tiramento (tutto si attira):
c’è la Luna che si attira con la Terra, c’è la Terra col Sole
che tira, i pianeti si attirano l’un l’altro. Insomma, nasce
un desiderio appassionato come un magnetismo meraviglioso
tremendo, che li costringe a girare dentro le
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orbite senza farsi sputar fuori. Che i pianeti vorrebbero
allontanarsi, andar di parabola, ma ce n’è un altro subito
che li attira: "Vieni qua!" (Mima descrivendo in una
specie di danza pavana l’attirarsi degli astri)
BRUUAAAM! Torna indietro e dall’altro canto ce ne è un
altro che lo tira: "Va, va!!". PLAAAK! Torna indietro …
e l’ellisse si forma per i tiramenti: tira l’uno che tira l’altro,
tutto si attira! Così non si dice forse che un uomo,
quando è in amore, gli tira? All’uomo tira sempre per
quasi tutte le femmine … ché noialtri siamo più generosi!
E non si dice che a una femmina le tira per il suo uomo?
E dunque tutti, astri e pianeti e le stelle, stanno
dentro a un tirarsi vorticoso di tiramenti appassionati,
che tutto l’equilibrio si spaccherebbe in un grande disastro
fracassoso se non ci fosse questo tiramento … che
poi è il magnifico tiramento generale dell’universo in
amore.
Mah, nessuno è eterno in cielo. Non ci sono astri, né
pianeti che siano per sempre. Solamente il nostro Dio
Padre è eterno … forse. Anche il nostro sole si ritroverà
un giorno col tiramento che si smorza ... il suo magnetismo
e gli astri-pianeti che lo attirano si lasceranno andare …
si slabbra questa arcata celeste, si trova venti e
correnti contro e ... tremendo!, si spegne il gran fuoco,
si smorzerà il Sole e la sua luce … e una coda lucente
come una meteora infuocata si allungherà vorticando per
il cielo … così nello scuro scompare dissolvendosi il Sole.
"Ehi! È terminato lo spettacolo … Silenzio! ... Tutti
a dormire in sempiterno. E non rompete più i coglioni!".
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9 No, no, è il tuo di universo che fa crepare dalle risate,
dottore, eh … con ’ste tue volte del cielo in cristallo col
Padreterno appiccicato alla volta del firmamento, con in
testa inchiodato un triangolo.
È che a voi dottori vi fa spavento l’idea di un universo
troppo grande ... Voialtri preferite che sia limitato e calcolabile …
No, mi dispiace dottori, l’universo non è
stretto e non è calcolabile … è tutto un gran disordine
incommensurabile. È molto più grande di quello che si
può pensare. L’universo è infinito ... perché è il Dio Padre
che non l’ha finito! E questa soluzione a voialtri signori
dottori vi spaventa … Voialtri preferite pensare a
un Dio creatore a vostra immagine, uguale a voi … della
vostra misura, perché se ’sto Dio Padre straripa fuori
dal normale, sbotta un universo nel quale tutto si disperde
spampanato.
Ecco la ragione che vi ha fatto inventare un creato di
corta misura, in maniera che la Terra sia sempre lì ben
piantata in mezzo al gran giardino, ferma, con tutti i
pianeti che girano attorno in tondo a noi, con l’aggiunta
del Sole ossequioso che gira come fosse dentro a una
giostra e l’uomo seduto in mezzo, con gli astri che i girano:
"Che bel tramonto che mi hai fatto questa sera,
grazie! Oh che bell’alba! Oh la Luna che la monta!
Ohi, Marte, siamo in ritardo! Venere, va’ sotto e copriti
le chiappe, svergognata!".
Ma se vieni a scoprire, d’incanto, che la giostra non
c’è ... che la Terra gira come una frittata che ruzzola per
il cielo ... e gli astri tutti hanno ognuno un loro giramento
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intorno al Sole e in ogni momento ti accorgi che
altri pianeti e altre stelle spuntano dappertutto … Allora
non c’è più divina misura … l’universo è sfondato e
tutto diventa spropositato, a cominciare dal Padreterno …
un Dio che non puoi più immaginare stravaccato
su una nuvola, trasportato dagli angioletti con le ali, no,
anche lui, Dio, è andato fuori misura e spampanato nell’universo
smoderato. Non esiste più né misura né proporzioni.
Così, all’istante, l’uomo diventa piccolo, ma così
piccolo… piccino, che al suo confronto una pulce-pidocchio
pare un elefante: "Oh, dove sei tu, uomo?".
(Con voce sottile) "Sono qui … nel fondo ...".
"Che fondo? Dove? (Camminando intorno alla ricerca
dell’invisibile creatura) Fatti vedere … accendi un fuoco …
Dove seii? … Dove seiiiiii? Non ti sento più …".
(Mima, per inciampo, di schiacciarlo col piede) GNACH!
"Ahiaoa!".
"Oh, scusami … perdonami, ti ho schiacciato!".
Èd è finita tutta l’umanità.