Si lavora vivendo o si vive lavorando

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Si lavora vivendo o si vive lavorando
Sul Work/Life Balance di genere. Che cosa è importante e cosa è urgente in un modello esportabile.
E, soprattutto, ha valore la teoria che sostiene
l’equilibrio tra vita personale e vita professionale?
Paula J. Caproni dell’Università del Michigan se lo è
chiesto in Work/Life Balance. You can’t get there from
here, ribaltando il concetto di WLB sulla sua vita. Per
condurre un’esistenza fulfilling, appagante e
soddisfacente, come sfuggire allo squilibrio tra lavoro
e impegni personali? Cos’è l’efficienza? Sono
conciliabili le priorità lavorative con i valori
individuali? Harder, smarter, faster. Un’utopia - o una
follia - tutta americana?
Il parere e i rilevi di Caproni coinvolgono motivazione e capacità organizzativa. L’equilibrio, secondo la tesi
proposta, corrisponderebbe alla misura in cui un individuo vuole sostenere i ritmi lavoro/casa. Un individuo.
Rosemary Crompton e Clare Lyonette (2005), del Dipartimento di Sociologia della City University di Londra,
al contrario, propongono un tesi che coinvolge le prassi sociopolitiche (che per noi, in Italia, diventerebbero
buone prassi) in Europa, disegnando una mappa, questa volta, delle efficienze statali e non individuali.
Nonostante il WLB rappresenti uno strumento
sociale radicato in Europa, è pur vero che nei diversi
Paesi il livello in cui viene preso in considerazione e,
di riflesso, sviluppato nei servizi, è più o meno
radicato.
In Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia, ad
esempio, viene elaborato e rivolto alla popolazione
(in particolar modo femminile) un modello di
supporto assistenziale con alti standard qualitativi.
In Francia, il sostegno alle famiglie o alle madri
lavoratrici è invece un principio storicamente
consolidato nelle politiche sociali.
La questione del WLB ha assunto massima discutibilità in maniera direttamente proporzionale al sempre
maggior livello di employment femminile in Europa. Nel XX secolo, il cd. standard worker era uomo e
lavorava full-time. All’universo femminile era associata la sfera dell’assistenza e del lavoro domestico
(Crompton, 1999). Ma dal 1960 e oltre, una ondata di femminismo stava sgretolato le barriere della
partecipazione femminile al mercato del lavoro - limitato al family-care - per proiettare le nuove impiegate
nel settore dei servizi a fronte di una de-industrializzazione dominante. Il risultato negli ultimi decenni del
XX secolo? Due stipendi in famiglia ma anche la necessità di sostituire con personale retribuito le donne ora
impiegate. E, la rimodulazione di un sistema economico in Europa e negli Stati Uniti.
Tuttavia, negli anni Ottanta, le pressioni e le
tensioni in ambito lavorativo cominciarono a
determinare un nuovo fenomeno da studiare
connesso alla psicologia del lavoro (Roehling, 2003).
Nei Paesi scandinavi, a dispetto del crescente
fenomeno dei conflitti generati da incompatibilità
lavoro/vita riscontrabili nel resto d’Europa, si scelse
di esercitare una politica basata sulla qualità del
luogo di lavoro e sulla partecipazione orizzontale ai
processi decisionali (Korpi, 2000). Assistenza
sanitaria e childcare giornaliero rappresentavano
parimenti presupposti essenziali alla crescita
globalmente intesa. In Norvegia e Finlandia, tra gli
anni Novanta e il 2005, il governo ha fortemente
supportato un programma di motherhood facilities
(Pfau-Effinger 1999 e Ellingsaeter, 2003).
I livelli di impiego femminile hanno quindi raggiunto rispettivamente il 73% e il 67%. Uno state feminism
secondo Hernes(1987) cha ha coinvolto non solo le madri ma anche i padri lavoratori, incoraggiati a
condividere un percorso olistico di assistenza familiare.
In Francia, le politiche estensive di assistenza riguardano il supporto alla creazione di scuole e centri di
assistenza all’infanzia. Più centri, più madri al lavoro. E, in evoluzione, nell’ultimo ventennio la Francia si è
rivolta alle politiche di supporto alla scelta della maternità. Al contempo, il Paese non ha mai accettato il
principio delle quote. Qualunque rivendicazione di differenza e lo stesso concetto di equality striderebbe
col principio rivoluzionario e contemporaneo dell’uguaglianza universale.
In Portogallo, la percentuale di donne lavoratrici full-time (il 61%) ha destrutturato le politiche del regime di
Salazar. Nel 1999,Esping-Andersen descriveva il Paese come una nazione familistic che non supportava
particolarmente le donne al lavoro. Oggi, le donne hanno ricavato ampi margini di accesso al mercato con
una pur evidente maggiore potenzialità.
Il conflitto lavoro/vita personale persiste tuttavia in Italia. La percezione del dissidio si concretizza
particolarmente nella inconciliabilità oraria.
Secondo i dati Istat 2012 riferiti al 2010, il tasso di
occupazione femminile è al 49,5% con un grado
elevato di segregazione di genere a livello orizzontale
(Spognardi, 2008). Il 40% delle lavoratrici occupa un
posto di lavoro inadeguato (inferiore) al titolo di studi
posseduto. E, il livello di disoccupazione genera un
palese conflitto di concorrenza sul mercato, in
particolare al Sud.
I dati di nuzialità e natalità sono diminuiti a partire
dagli anni Sessanta e la famiglia estesa soccombe a
favore dei modelli monogenitoriali. Il tasso di
occupazione delle madri è inferiore al tasso di
occupazione della altre donne tra i 25 e 40 anni,
soprattutto con l’aumentare dell’età dei figli.
Allo stesso tempo, nel 2010, nelle coppie in cui entrambi i partner lavorano, i bambini vengono affidati ai
nonni nel 64% dei casi, in orario extrascolastico. Le reti di supporto, di assistenza alla maternità/paternità
erano, quattro anni fa e oggi, insufficienti. I servizi sociali non sono visibilmente all’altezza dei mutamenti
sociali e costringono alla presenza di una persona sempre addetta alla gestione familiare (Saraceno, 1998).
Il gap di genere lavoro/famiglia è più evidente che in qualsiasi altro Paese d’Europa. Bollinger e Hofstede
(1989), a supporto della tesi sulla segregazione di genere, hanno effettuato un’analisi e classificato le
culture nazionali secondo un codice di mascolinità; a livello mondiale, l’Italia occupa il 4° posto!
Dentro la sfera lavorativa, il fattore motivazionale colloca le donne italiane, secondo uno studio di
Hertzenberg, nella sfera soddisfazione=raggiungimento dei risultati. La conseguenza? Il decadimento
dell’interesse in assenza di uno sviluppo continuo. Il clima, la stima dei superiori, i buoni rapporti tra
colleghi, le ricompense in permessi sono più ambite del sistema premiante e della retribuzione tra le donne
lavoratrici italiane. Il tempo dunque rappresenta sempre la chiave di lettura delle esigenze connesse al
WLB.
Eccelliamo di contro in Work/Life Blend ossia nel mescolare vita lavorativa e vita personale. Dedichiamo in
media 45 minuti al giorno prima di entrare in ufficio a leggere email di lavoro, ritenendo probabilmente di
accelerare (compattare) in questo modo gli impegni. Il 32% dei dipendenti utilizza circa 11 App per gestire
gli impegni personali e di lavoro nell’orario di lavoro.
Per innovare un mercato del lavoro già innovativo a livello di capacità personali nell’approccio alla
tecnologia, occorrerebbe agire sul benessere, cogliendo tra l’altro l’occasione dell’istituzione dell’anno
europeo del WLB che cade proprio nel 2014.
Ma il benessere lavorativo è (anche) regolato dal tempo. Omogeneizzare le frammentarie misure di
conciliazione esistenti a fronte di un pacchetto di assistenza che prenda avvio dalle buone prassi vorrebbe
dire in questo caso modernizzare (contemporaneizzare) il sistema lavoro. Si potrebbe riflettere sulla figura
del Responsabile della Conciliazione (vedi note su modifiche all’art. 2107 del Codice Civile e al Dlgs 30
marzo 2001, n. 165). In crisi, o quantomeno cristallizzato, il sistema standardizzato dell’orario di lavoro
rappresenterebbe il reale fattore da rinnovare a favore di un WLB italiano, risultato di un’equilibrata
conciliazione.