L`altro/a: incontro, confronto, relazione, comunicazione. Sguardo

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L`altro/a: incontro, confronto, relazione, comunicazione. Sguardo
Marina Sbisà
(Università di Trieste)
Relazione sul Workshop:
L'altro/a: incontro, confronto, relazione, comunicazione. Sguardo simbolico
coordinato da Marina Sbisà e Manuela Fraire
In preparazione al workshop, avevamo tessuto uno scenario di problemi. Lo rievocherò più sotto. In
apertura a questa relazione o resoconto, vorrei però sottolineare che il riconoscimento dell'altro/altra
è una pratica. Non è una pratica cieca, tutt'altro: ha bisogno di pensiero, si giova della chiarezza, o
anzi, essa stessa ne produce. Ma in quanto pratica, in quanto esperienza in qualche misura
operativa, nessun discorso di commento può sostituirla.
Il workshop, di fronte allo scenario di problemi formulati in modo astratto, ma
contemporaneamente stimolato, con una sorta di doppio registro, dalla presenza psicoanalitica di
Manuela Fraire, ha rievocato sia in teoria che in pratica l'autocoscienza come pensare a partire da
sé in presenza di altre. Ha creato così un evento, della cui invisibile presenza abbiamo, come
coordinatrici, ricevuto più di un interessante segnale. Anche su questo tornerò più avanti.
Questa relazione o resoconto non può darvi l'evento. Ma cercherà di tracciarne le coordinate. Di
renderlo così, con le debite differenze e distanze, rintracciabile.
Uno scenario di problemi
Perché e come interessarsi dell'alterità?
L'alterità ha molti modi di manifestazione, come momento centrale di ogni incontro, relazione e
comunicazione. E' sempre difficile da riconoscere e accettare. Più che mai nel nuovo secolo e
millennio, dopo il regno dell'Identità nelle versioni illuminista e romantica e la sua crisi, la difficoltà
a accettare il carattere fondamentale della Relazionalità e quindi dell'Alterità viene messa a rischio
da tipi di pensiero che privilegiano l'elemento fusionale, per cui lo stesso riconoscimento delle
differenze diventa strumento per categorizzare esperienze o entità individuali appiattendole in
insiemi omogenei: l'Alterità viene così convertita in Identità Collettiva. Ma non è in questo senso
che interessa le donne.
Ci interessa, invece, capire meglio l'Alterità al fine di non lasciarci travolgere dalla sua mala
gestione. Ci interessa capire come gioca di fatto e come dovrebbe al meglio giocare il fattore
Alterità nelle relazioni umane, nell'incontro, nel confronto, nella (cosiddetta) comunicazione. Ci
interessa elaborare modelli dell'incontro e della comunicazione che sfuggano al consueto dilemma:
assimilare l'altro a sè oppure mancare di riconoscerne la soggettività? E tutto ciò interessa
particolarmente a noi, benché non sia nostro appannaggio, perché come donne abbiamo due stimoli
particolarmente forti per occuparcene. Tuttora i modi di gestione della differenza sessuale pongono
condizioni al nostro essere soggetti. E la differenza sessuale è una questione di alterità, anzi, ci sono
motivi per ritenerla un caso di alterità particolarmente cruciale. Inoltre, tuttora il gioco di
identificazione e disidentificazione nei confronti della madre comporta per noi il rischio di trovarci
intrappolate in partenza, in e fra noi stesse.
Ecco in particolare alcuni nodi problematici che Manuela ed io, come coordinatrici del
workshop, abbiamo proposti all'attenzione delle partecipanti nei nostri contributi introduttivi.1
Percorsi d’identità dopo la crisi
Nel pensiero del Novecento l’Identità è stata in vari modi messa in crisi - si è parlato per esempio,
in decenni recenti, di crisi del soggetto o di soggetto debole o frammentato. Di fronte a un tale
soggetto in crisi o volutamente indebolito, stava la crescente consapevolezza dell’importanza della
dimensione intersoggettiva e relazionale, della presenza di un “altro” talora empirico e con la
minuscola, talora misterioso, potente, inesorabile, con la Maiuscola. La società occidentale non
sembra aver retto bene a questo confronto: l’Alterità (e con ciò la Relazionalità) è stata esorcizzata:
1
Faccio qui riferimento soprattutto alla nota introduttiva scritta fornita prima del convegno.
semplicemente rimuovendola, oppure mitizzandola, oppure con tentativi di annientamento fisico
(pulizia etnica) ovvero di regimentazione in una forzata Identità (manovre di classificazione e
ghettizzazione). All’altro che chiede riconoscimento si permette di esistere, nel caso migliore, in
quanto membro di un gruppo, tipo, classe, o genere, al patto cioè della propria autoidentificazione
secondo un discorso prefissato. Non vi è forse in quest’ultima operazione una collusione pericolosa
degli atteggiamenti difensivi dell’Identità con la fusionalità tradizionalmente attribuita al Femminile
e tradizionalmente nemica dell’individuazione? E come si colloca in questo contesto la ricerca di
un'identità o soggettività femminile?
Inoltre: qual è il ruolo dell'alterità manifestata nella differenza sessuale nei confronti della
comprensione e gestione dell'Alterità nelle sue multiformi manifestazioni? è un modello influente le
cui interpretazioni determinano gli atteggiamenti nei confronti di altre manifestazioni dell'Alterità?
un caso fra gli altri che viene a dipendere dall'atteggiamento generale nei confronti di Identità,
Alterità, Relazionalità? una chiave di lettura o punto di forza dalla cui esperienza vivente partire?
Riconoscimento intersoggettivo e autonomia: una difficile dialettica
Non abbiamo mai saputo chi siamo e abbiamo cercato, almeno alcune fra noi della generazione che
aveva fra i 20 e i 30 anni negli anni '70, di raccontarcelo in serate entusiastiche di “autocoscienza”.
Credevamo poi forse di sapere chi eravamo, ma anche, scoprivamo continuamente e a volte con
delusione o tristezza le altre diverse da come noi stesse ci eravamo scoperte. Abbiamo visto per
tempo che il riconoscimento dell’altra comportava quasi più problemi di quello dell’altro, un altro
che ci faceva e ci fa comunque il servizio di autodefinirsi con alquanta decisione (benché non
sempre con autenticità). Il riconoscimento di noi da parte di quest’altro è rimasto negli anni
difficile, difettoso, e siamo rimaste deboli nel desiderarlo nel richiederlo nel perseguirlo: troppe le
poste in gioco? troppo poche? l’opera è troppo difficile (lavar la testa all’asino, ovvero nella
canzonetta triestina, mòlighe el fil che’l svoli...)? è impossibile? o ci sta bene così? Intanto, l’altro in
questione continua a scompaginare (indirettamente) le nostre file poiché le nostre soluzioni per
esistere o credere di esistere, in faccia a lui o in barba a lui, sono troppo diverse le une dalle altre e
continuano a metterci a volte in conflitto: conflitto fra donne che non sappiamo gestire perché la
solita nemica, la fusionalità notata in microsociologia (cioè anche senza bisogno d’indagine a livello
profondo) come egualitarismo e ricerca dell’uniformità caratteristiche della relazionalità femminile,
impedisce fra le appartenenti a un gruppo quella Relazionalità dia-logica che imporrebbe anzitutto
riconoscimento di Alterità.
L’autocoscienza avrebbe dovuto insegnare che ci si può ascoltare e prendere sul serio pur
discordando; che il contrasto, e persino il conflitto, non sono necessariamente disconoscimento; che
solo con l’accettare che vi siano discordanze si fonda la propria, oltre che l’altrui, autonomia.
Perché non l'ha insegnato? perché non l'abbiamo appreso? da dove ripartire?
E per inciso, che cosa è stata, che cos'è, questa "autocoscienza"?
Separazioni imperfette
Proponendo un approccio psicoanalitico al dilemma: assimilare l'altro a sé oppure mancare di
riconoscerne la soggettività, Manuela ci ha richiamate al punto cruciale del doversi innanzitutto
separare dal “discorso materno”, che ci ha definite prima che avessimo l’uso della parola. Il
processo continuo di identificazione e disidentificazione che costituisce il lavoro dell’io, lavoro che
è al cuore della teoria e della clinica della psicoanalisi, è fatto da separazioni imperfette e la prima,
la madre di tutte le separazioni, è proprio questa. L'articolarsi della soggettività del singolo parte dal
materiale materno, dal discorso ap-preso dell’altro, per attingere però continuamente anche al
serbatoio di immagini che costituisce l’intelligenza del nostro rapporto singolare e separato con il
mondo.
A volte le separazioni falliscono. Le separazioni “fallite” (ben diverse da quelle imperfette) ci
obbligano, ci costringono malinconicamente, non a parlare la lingua dell’altro, bensì ad essere
significati solo dal suo discorso. Poiché è precisamente il discorso della madre con i suoi enunciati
che anticipano l’infans ancora prima della nascita, che fonda il senso del legame tra due e poi tra sé
e sé. Le separazioni imperfette sono perciò sconfinamenti necessari perché si instauri il discorso
“comune”. Ma le “violazioni” dei confini possono diventare deprecabili, la “violenza”, sia pur in
qualche misura necessaria, che la madre fa al bambino imponendogli il proprio discorso affinchè
egli possa “nutrirsi” psichicamente della realtà che lo circonda già trasformata in linguaggio, può
diventare intollerabile.
Come ci collochiamo rispetto a queste dinamiche? Siamo in grado (da un lato e dall'altro) di
accettare la separazione, e insieme, la sua imperfezione?
A proposito di lingua e scrittura
Scrivere, ci ricorda ancora Manuela, è l’esperienza di mettere l’altro in quell’altrove di cui la
scrittura è il segno e la cicatrice. E’ l’altro di noi stessi che spinge alcuni a scrivere ( segno visivo),
altri a parlare (suono). E' un tentativo di ex-ludere l’altro che può farci prendere la via della
scrittura, luogo in cui si manifesta nello splendore e nel dolore al pari che nel successo e nel
fallimento l’aspirazione dell’io a stabilizzarsi sull’amore di sé.
La scrittura, come la psicoanalisi, è una pratica separativa la cui “imperfezione” spinge gli
scrittori a non trovare mai la parola che concluda il loro discorso. Non possiamo che essere abitati
dal discorso dell’altro che ha permesso la nascita del nostro io e allo stesso tempo esso, - l’io- si
costruisce nel lavoro continuo di erosione di un discorso che non è il suo. In altro modo lo
psicoanalista non troverà mai la parola ultima e ultimativa che sciolga il legame che il discorso ha
stabilito tra lui e il paziente.
Sul tema della scrittura, la sfida lanciata da Manuela è dunque l’esplorazione della soglia talvolta tanto sottile da scomparire - tra parola e corpo, tra percezione e rappresentazione, tra me e
non-me. Tutti modi di parlare dell’impossibilità di separare perfettamente e definitivamente il senso
dal sensibile, il pensiero dagli affetti - siano essi anche di segno opposto - senza tuttavia rinunciare
a trovare il segno sonoro (la voce) e visivo (la scrittura) che permettono di uscire dalla “bolla”come la chiama Winnicott - che ci trattiene nell’autismo originario.
Voci dal workshop
E' bene dirlo subito, il workshop non ha risposto a domande, non ha enunciato soluzioni. Diversi fra
i problemi qui sopra rievocati non sono stati affrontati esplicitamente. Ma è stato libero gioco di
domande e risposte incrociate, da una partecipante all'altra, coordinatrici incluse, gioco di lanci e
rilanci con molti capi lasciati aperti, in cui almeno alcune delle tematiche inizialmente indicate sono
emerse ripetutamente, in parte secondo la modalità della riflessione esplicita, in parte secondo la
modalità della presentificazione concreta di tensioni e risoluzioni.
La tematica della scrittura non è emersa nel modo diretto in cui ci saremmo potute aspettare.
Del rapporto fra alterità della differenza sessuale e altre esperienze di alterità non si è
sostanzialmente parlato. Forse discutere di questi temi, trattarli, richiede un distacco che non è
connaturato al tipo di situazione, alle esigenze di riflessione viva delle partecipanti. Si vuole
scrivere, e parlare, non parlare della scrittura. Non si vuole dare un ruolo alla differenza sessuale,
ma vivere le situazioni di alterità e relazione che essa mette in campo. Viverle parlando, viverle da
soggetti che si articolano anche linguisticamente... E qui si trovano i nodi. La sfida della
separazione imperfetta. La dialettica fra ricerca dell'autonomia e questione del riconoscimento
intersoggettivo. Parlare in prima persona, come? a chi? Parlare, o anche ascoltare? e chi?
Delle numerose voci che si sono intrecciate nel workshop, due ci hanno lasciato traccia scritta e
su queste la presente relazione si soffermerà singolarmente, sia pure in modo sintetico. Evidenzierò
poi uno dei temi che sono emersi nel dialogo, quello del senso e della valutazione delle pratiche di
"autocoscienza".
L'alterità della croce
Maria Luisa Di Blasi è partita dall'aggettivo metaforico "cruciale" con cui sia io che Manuela
avevamo qualificato due aspetti della questione dell'alterità: differenza sessuale da un lato,
separazione (imperfetta) dal discorso materno dall'altro. Ma della metafora a lei interessava in
primo luogo il veicolo: l'idea di croce, riferita all'alterità. Nella visione cristiana la croce è una
sofferenza che va accolta come occasione, attraversata: e tale è anche, per Maria Luisa, l'alterità.
Dell'alterità Maria Luisa articola un vissuto prevalentemente oscuro, negativo, di sofferenza. La
collega da un lato all'espansione della coscienza, all'apertura a un infinito molteplice di relazioni,
dall'altro al "tragico della libertà", alla differenziazione attraverso cui passa il divenire necessario
dell'identità personale. Solo attraverso una sofferenza della comunicazione si può, a suo avviso,
passare alla dimensione della comunione.
Con queste premesse Maria Luisa si propone d'indagare l'esperienza di fede, "quando l'altro è
Dio". Il divino avrebbe a che fare con quella notte oscura della relazione che è il non essere
riconosciuti dall'altro/a, se non altro perché "è prerogativa dello stesso Dio quello di essere così
difficilmente riconosciuto: se i soggetti in relazione sanno questo, possono riconoscere la divinità
l’uno nell’altra(o) e vivere la notte oscura come mistero del Dio sempre nuovo che sta per rivelarsi
attraverso l’altro."
Molteplici ma prevalentemente scettiche, o comunque diffidenti, le reazioni a questo discorso.
Da un lato c'era il timore che un teorizzare l'alterità come in primo luogo buia, negativa (pur
proponendo un superamento di tale negatività) lasci il soggetto donna ancora troppo nell'ombra
lunga della nostalgia di fusionalità. Almeno per alcune di noi (e io confesso di essere
particolarmente rigida in proposito!) è proprio la fusionalità che rappresenta il buio, la notte oscura,
dunque l'ostacolo a relazionarsi con l'altro/a in modo, se non sempre gioioso, comunque positivo.
Questo timore era implicitamente confermato dall'allusione alla comunione e addirittura alla
comunità come via d'uscita: là dove sappiamo che i gruppi che si definiscono comunitariamente
spesso vincolano i propri membri a un semplice essere significati, concedendo un'identità di gruppo
al posto del lavoro di individuazione. Un'altra preoccupazione veniva dal tema teologico affrontato.
Si teme infatti che la ricerca di Dio sia veicolo di poteri umani di chiaro stampo patriarcale, in
contraddizione quindi con ogni ricerca di autonomia femminile. Mentre non si può negare che dal
punto di vista socio-politico questo timore sia ben fondato, mi sento però di dover dire, la ricerca di
Dio non si riduce a questo. Anzi, soprattutto nell'ambito di un percorso di fede cristiano, dovrebbe
non averci nulla a che fare.
Un grazie a Maria Luisa per il suo sforzo di pensare la relazione con l'altro nella difficile,
ambiziosa chiave teologica e per la passione con cui ha cercato di farci partecipi dei suoi pensieri.
Fra ascolto e presa di parola
Anna Calligaris è intervenuta sottolineando anzitutto il tema dell'ascolto: ancora oggi sia nella
società in genere, che in ambiti istituzionali come quello universitario c'è un gran bisogno di
attenzione e di esercizio della pratica dell’ascolto. Anna si ritiene fortunata per essere stata
avvicinata a tale tematica nel corso dei suoi studi di filosofia, passando attraverso la fenomenologia
di Husserl, la critica al soggetto di Heidegger e la prospettiva decostruzionista di Derrida (questi
studi, dice, le hanno insegnato a diffidare della centralità del soggetto e del cogito cartesiano, e del
discorso “fallogocentrico” del pensiero occidentale). Ma, osserva, tutto ciò non le è bastato per
riuscire a "dirsi". Non riesce a collocarsi in questo dibattito. Non riesce a trovare un appiglio, un
aggancio alle tematiche che lì vengono mirabilmente sviscerate. Le sembra insomma che all’interno
dei discorsi di questi grandi pensatori ci sia un grande vuoto, non proprio teorico. Forse è lei
incapace di "tessitura simbolica", "usa male" la filosofia... Ma in conclusione il discorso, per quanto
lei possa condividerlo, le rimane solo un discorso dell'altro.
Per Anna, l'accesso possibile al discorso è passato invece attraverso il confronto con testi come
quelli di Muraro e di Rosi Braidotti, in particolare quest’ultima, che - nota Anna - cerca di
continuare nella scrittura una pratica dell’ascolto e del confronto con le altre, tanto che il testo
diventa "una cartografia dei saperi e delle voci, cartografia, localizzazione che sola riesce a dirci, a
donarci cioè il posto a partire dal quale parlare."
L'esperienza del convegno SIL e in particolare l'aver partecipato, il giorno precedente, al
workshop tenuto da Adriana Chemello e Delfina Lusiardi, in cui - nei confronti delle narrazioni
delle partecipanti, delle loro mini-autobiografie - si era dispiegata una pratica dell'ascolto in grado
di tenerle insieme senza timore di contraddizioni o contrapposizioni, anche se le differenze c’erano
e permanevano, ha molto colpito Anna, mostrandole una pratica di discorso e di pensiero in cui
nessuna sente il bisogno di riferirsi ad autori-padre cui attribuire ciò che va dicendo, da cui mutuare
una giustificazione e autorizzazione del proprio discorso. C'è dunque un ascolto capace di non
prevaricare, di riconoscere l’altro nella sua specificità senza per forza ritradurre subito il suo
discorso in un discorso teorico-istituzionale; a tale ascolto corrisponde un discorso non riconosciuto
dall’autorità dell’istituzione, un discorso che parte dalle singolarità e da saperi situati, che non solo
predica l’ascolto ma lo mostra in atto, che mostra la nascita (o il riemergere) di un discorso
collettivo rispetto al quale ogni singola può identificarsi/disidentificarsi, apportare il suo contributo
e custodire la propria differenza.
L'intervento di Anna, che si inquadrava in una fase del workshop in cui la riflessione sulla
ricerca dell'autonomia e sulle relazioni fra donne aveva segnato uno stallo - quasi un'insofferenza
generazionale per l'era mitica dell'autocoscienza - ha aperto uno spiraglio positivo mostrandoci
ancora una volta come la relazione fra donne possa essere efficace, come il parlare (di sè) in
presenza di altre contribuisca, grazie all'ascolto a parte delle altre, a innescare, a sostenere, un
pensare a partire da sè. Il suo tema dichiarato infatti era l'ascolto: ma la vera scoperta annunciata, la
novità per Anna stessa come per ciascuna donna al punto di svolta nel suo percorso personale, era la
presa di parola. Il parlare, il pensare in prima persona e a partire da sè diventano possibili
finalmente quando il percorso di autorizzazione non richiede le forche caudine del simbolico
patriarcale. E' questo che Anna ha chiamato un "ordine simbolico della madre" recuperato.
Il nodo dell'"autocoscienza"
Il breve resoconto dell'intervento di Anna ci ha già avvicinate al nodo principale che ha abitato i
lavori del workshop. Una riflessione che miri alla buona gestione dell'alterità, una pratica di
riconoscimento in equilibrio fra estraneità e assimilazione, ovvero al lavoro di
identificazione/disidentificazione della "separazione imperfetta", non poteva che incontrare questo
nodo. Sia perché la relazione tra donne partecipa del (vissuto del) discorso materno. Sia perché
un'affermazione d'identità personale che voglia essere comprensiva della nostra alterità nei
confronti di chi non sa riconoscerci soggetti (il nostro altro, il mondo maschile) non può che basarsi
sulla relazione tra donne, sulle modalità in cui al suo interno può aver luogo ascolto, riconoscimento
intersoggettivo.
C'è un ambivalenza nelle donne a proposito dell'autocoscienza. Ci sono donne che per averla
praticata ne hanno apprezzato il valore formativo. Ci sono altre che la fraintendono, temendo troppo
che in essa passi di nuovo un modo di essere significate da altri (dalle altre), senza potersi in fin dei
conti veramente dire. Ma l'autocoscienza non è trasmissione-imposizione di modelli. Se in essa si
elabora un modello, è un modello formale di relazionalità legittimante, abilitante, ciò di cui
abbiamo bisogno per prendere la parola in prima persona, per pensare a partire da sè. Un tale
modello non predetermina contenuti. Come sopra accennavo, è interessante la curiosità /diffidenza
delle più giovani, quelle le cui madri hanno l'età di noi che abbiamo cominciato con
l'"autocoscienza", sia che l'abbiano fatta sia che no. La loro curiosità non è tanto diretta alla nostra
vecchia esperienza ma al suo possibile rinnovarsi di fatto, in circostanze mutate, in altre persone - in
loro stesse: è curiosità per un possibile al di fuori dell'ordine patriarcale, per il cerchio magico in cui
finalmente si impara a dirsi. La diffidenza è in fondo anch'essa positiva. Questo al di fuori possibile
lo si vuole scoprire di persona, non sentirselo raccontare da chicchessia.
Qualche commento
Ombra parlata - una chiave di lettura per l'autocoscienza e per il workshop
L'ambivalenza nei confronti dell'autocoscienza è ben comprensibile in chiave psicoanalitica. Come
ho appreso da Manuela Fraire, l'autocoscienza ha a che fare con la questione del discorso materno,
discorso che preesiste al soggetto e che lo riguarda, che come ombra parlata (riprendendo il termine
di Piera Aulagnier) si proietta sul corpo dell’infans che così diviene “colui” a cui si rivolge il
discorso dell’altro. Nell'autocoscienza avviene, dinnanzi a un nuovo oggetto, il gruppo di sole
donne, una replica del discorso materno e con ciò si attiva il processo di disidentificazione. L'esser
divenuta destinataria del discorso di altre permette il rimodellamento del rapporto con la madre e il
suo discorso. E' naturale che ciò avvenga in modo esitante, a sbalzi, con resistenze e regressioni. E'
un processo difficile. Smuove emozioni profonde, spesso in sintonia, ma con proiezioni figurative
non sempre congruenti. Ma ha permesso a molte un mutuo riconoscimento- in seguito
autoriconoscimento, con un segno forte nella scrittura. In un periodo della storia femminile in cui
ognuna ha chiesto di essere innanzitutto creduta prima che interpretata. Se da ciò si possa ancora
imparare, quale sia la via per innescare oggi, nella situazione cambiata e da parte di nuove
generazioni, processi di questa natura, è la posta in gioco principale di eventi come il nostro
workshop e in fondo l'intero convegno a cui apparteneva.
Alterità e comunicazione
Il fatto che nell'autocoscienza non c'è tanto comunicazione (passaggio d'informazioni), ma
costruzione di rapporti, forti e affettivi, con le altre e le loro parole merita qualche ulteriore
riflessione dal punto di vista della consapevolezza delle dinamiche intersoggettive. Questo fatto non
può essere compreso, non ha luogo, nell'ambito di un modello della comunicazione informazionale
legato alla trasmissione di contenuti. Richiede di ripensare la comunicazione come interazione fra
soggetti che presuppone il reciproco riconoscimento dell'altro/altra come soggetto, e costituisce e
realizza spazi intersoggettivi. E il riconoscimento di soggettività è tale solo se è anche
riconoscimento di alterità: infatti due soggetti possono esistere uno in faccia all’altro solo a prezzo
di una concessione di autonomia. Autonomia che può essere puramente teorica, ma che dal punto di
vista esistenziale di chi la concede (e forse anche di chi se la prende) è una realtà, forse dura ma
insieme infinitamente affascinante - purtroppo stoltamente denegata da tutti coloro che su modelli
derivanti dalla vulgata romantica ripropongono la fusione come must dell’incontro (e in particolare
dell’incontro d’amore).
Autonomia?
Il riconoscimento intersoggettivo dell'altro/a fonda la soggettività, concedendo autonomia... Ma non
potrebbe ciò accadere in campo neutro, indifferentemente maschile-femminile? Perché cimentarsi
proprio con la relazione con le altre donne? perché fondamentale ricevere riconoscimento da loro?
una liberatoria dalla madre?
Vorrei aggiungere su questo tema un breve commento di carattere semiotico, ispirato alla
semiotica narrativa. Storicamente le caratteristiche del percorso narrativo, culturalmente codificato,
della soggettività di una donna sono diverse da quello della soggettività maschile. Lo schema
narrativo canonico della semiotica generativa che prevede un incarico da parte di un destinante
trascendente la scena del racconto, lo svolgimento dell'incarico attraverso lo svolgimento di prove
da parte del soggetto, e la glorificazione (riconoscimento e remunerazione) del soggetto che ha
superato le prove da parte di un destinante-giudice portatore dei medesimi valori del destinante
manipolatore iniziale, è riferito al percorso narrativo del soggetto maschile. Questi infatti attinge
direttamente la sua missione dalla dimensione trascendente e ad essa rende conto, subordinando a sè
i compagni di strada. E' un percorso che si realizza in figure discorsive tipicamente non reversibili:
la gerarchia fra destinante e soggetto presupposta all'inizio rimane tale alla fine. Facile che in questi
contesti chi assume su di sè l'immaginario femminile abbia al massimo l'accesso a una soggettività
subordinata, da "aiutante", il cui destinante è per così dire di seconda mano, essendo nella propria
storia soggetto eroe reso tale da un destinante trascendente. Ma la relazione fra donne scombina il
quadro. Se ciascuna ottiene il riconoscimento della propria soggettività dalle altre, ciascuna è
destinatario-soggetto di un destinante che dal punto di vista della realizzazione figurativa non è
affatto trascendente, bensì sullo stesso piano. La gerarchia si spezza nella reciprocità, diventando un
fatto temporaneo e strumentale. E' così che come ha notato Anna, nel parlare non è più necessario
farsi legittimare da autori-padri. Non è necessario, poiché l'ascolto fra noi ci legittima a vicenda,
reversibilmente, e ci esorta con ciò a prendere la parola. L'essere state ascoltate, poi, può
accompagnarci anche all'esterno, dove la consapevolezza del riconoscimento avuto, portata dentro
di noi, diventa unica difesa. Ma oltre alla presa di parola delle donne, non più di seconda mano e
tuttavia non modellata sul medesimo percorso narrativo del soggetto maschile, sulla sua gerarchia,
questo movimento ha un effetto collaterale che non è stato ancora sufficientemente apprezzato. Se il
modello di costruzione intersoggettiva del soggetto che ravvisiamo ora nella relazione fra donne
(quando riesce) diventasse esportabile? se avesse in sè la potenzialità di soppiantare il modello
tradizionale ora dominante e necessariamente connotato soltanto al maschile? non siamo più vicine,
con esso, a una forma veramente generale del riconoscimento di soggettività, capace di dare spazio
- e gioco - a ogni forma di alterità?
Mi rendo conto di essere andata alquanto al di là dei contenuti trattati nel workshop. E forse
anche delle dinamiche relazionali effettivamente emerse. Ma sì, ritengo che andassero in questa
direzione. Chiudo con un pensiero di amicizia e gratitudine per Manuela e per tutte le partecipanti,
soprattutto quelle dal cui entusiasmo, domande, desiderio di "continuare" ho ricevuto conferma che
l'evento innescato da workshop era andato a buon fine.