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ANTONIO TABUCCHI
L’ANGELO NERO
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizionene "I Narratori" marzo 1991
Prima edizione nell'"Universale Economica" maggio 1993
ISBN 88-07-81253-3
NOTE DI COPERTINA
L’oscura minaccia del male, presenze allarmanti, spettri nefasti, fantasmi pubblici e
privati. Un libro gotico e lunare di aspra e misteriosa bellezza.
Antonio Tabucchi ha pubblicato: Piazza d’Italia (Milano 1975), Il piccolo naviglio (Milano 1978),
Il gioco del rovescio (Milano 1981), Donna di Porto Pim (Palermo 1983), Notturno indiano
(Palermo 1984), I volatili del Beato Angelico (Palermo 1987), Sogni di sogni (Palermo 1992) e con
questa casa editrice Piccoli equivoci senza importanza (1985), Il filo dell’orizzonte (1986), I
dialoghi mancati (1988), la nuova edizione di II gioco del rovescio (1989), Un baule pieno di gente
(1990), L’angelo nero (1991), Requiem (1992). Ha curato l’edizione italiana dell’opera di Fernando
Pessoa sul quale ha anche scritto numerosi saggi critici, e ha tradotto le poesie di Carlo Drummond
de Andrade (Sentimento del mondo, Torino 1987). Nel 1987 gli è stato attribuito in Francia il
Premio “Médicis Étranger”.
Indice
Nota
Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa
Notte, mare o distanza
Staccia buratta
Il battere d’ali di una farfalla a New York
può provocare un tifone a Pechino?
La trota che guizza fra le pietre mi ricorda
la tua vita
Capodanno
Engel und Puppe: dann ist endlich Schauspiel.
(Angelo e marionetta: allora sì che c’è spettacolo.)
Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, IV, 57.
Nota
Questi racconti, che mi hanno accompagnato durante un certo periodo della mia
vita, avrei voluto a mia volta accompagnarli con una nota, che fosse un viatico o un
commiato. Ora, che la pagina mi chiama alla prova, non ci riesco. Forse la mia è
una semplice stanchezza. Stanchezza di loro, stanchezza di me stesso, stanchezza di
una convivenza che non è stata delle più serene. Gli angeli sono esseri impegnativi,
specie quelli della razza di cui si tratta in questo libro. Non hanno soffici piume,
hanno un pelame raso, che punge.
Basta. Che se ne vadano così, come sono venuti. Niente li giustifichi, niente li
protegga, tantomeno una nota a margine tessuta di parole di circostanza. Appena di
un angelo vorrei parlare. È quello che si riverbera nell’ultimo di questi racconti nel
quale, in un’immaginaria maremma toscana, rivivono le sembianze del Capitano
Nemo di Verne. Questa storia apparteneva a un romanzo che scrissi molti anni or
sono e che poi buttai via. All’improvviso le prime due pagine di quel romanzo sono
sbucate da un cassetto, sotto la forma di una rivista che apparteneva alla mia età
giovanile e che rimpiango. Quelle pagine hanno agito. E hanno chiesto uno svolgi
mento della storia, non come l’avevo scritta anni fa, ma come la penso ora. Quello
che è stato torna, bussa alla nostra porta, petulante, questuante, insinuante. Spesso
reca un sorriso sulle labbra, ma non bisogna fidarsi, è un sorriso ingannatore. E
intanto noi viviamo, o scriviamo, il che è lo stesso in questa illusione che ci conduce.
Il titolo di questo libro appartiene a Eugenio Montale, che prima di me si è
imbattuto in un angelo con le ali nere. È un titolo che vuole essere un omaggio, ma è
prima di tutto un affettuoso ricordo.
A.T.
Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa
A volte può prendere il via con un gioco, un piccolo gioco segreto e quasi infantile
che solo tu conosci e che per pudore non diresti mai a nessuno, cose così non si
fanno, ma è un gioco, diciamo uno scherzo con se stessi, o con gli altri, gli
occasionali passanti, occasionali avventori, sono loro gli ignari compagni del tuo
gioco, anche se non lo sanno. Perché parlano. È un gioco facile, non costa niente, non
ci sono regole se non con se stessi, il che lo rende attraente e libero, e basta andarsene
in giro, per esempio la domenica, la domenica è un giorno ideale con tutte le coppie
che circolano annoiate nei caffè, i gruppetti dei vecchi amici che si raccontano storie,
i solitari che attaccano bottone col cameriere, certe vecchiette che si lamentano e
dicono che ai loro tempi era tutto diverso e ora il mondo sembra impazzito, ecco,
così, basta una frase e tu decidi che è quella, la estrai dal discorso come un chirurgo
che con le pinze prende un brandello di tessuto e lo isola, per esempio: il mio defunto
marito, quando festeggiammo le nozze d’argento, basta, è una frase ottima per
cominciare, oggi è una domenica di primavera inoltrata, uno stormo di piccioni
volteggia sul tetto del duomo e fa una virata disegnando una macchia chiara, troppi
piccioni in questa piazza, sporcano, ma fa piacere vederli, l’importante è non
guardare la portatrice della frase, è una regola che a volte ti piace osservare, dunque
guardi i piccioni così tieni gli occhi in alto, chissà com’è la vecchia signora,
comunque puoi immaginarla, sta parlando col giornalaio, hai sentito che chiedeva il
radiocorriere, che bella frase per cominciare il tuo gioco, la tagli con le tue forbici
mentali alla parola d’argento, fra l’altro è una parola che si sposa perfettamente con
la macchia chiara che i piccioni disegnano nel cielo, cominci ad attraversare la
piazza, questi lavori di consolidamento non finiscono più, ripeti la frase dentro di te
un paio di volte, la assapori, una buona apertura, come delle buone carte in un poker,
chissà cosa costruirai stasera, la sera è bello scrivere un pezzo assurdo ma logico che
le voci degli altri ti hanno regalato, qualcosa che ti racconterà una storia del tutto
diversa dalle storie che hanno raccontato tutti quelli ai quali hai rubato questa storia e
che invece appartiene solo a te, perché loro di una storia così non saprebbero che
farsene, neppure la riconoscerebbero, ognuno ha fornito un piccolo tassello, una
pietruzza che tu hai raccolto, scelto, sistemato al posto che le competeva, quello e
solo quello, per formare il mosaico che stasera guarderai con occhi avidi, stupito di
vedere come le cose si svolgono, come una parola si incastra nell’altra, un fatto
nell’altro, un particolare nell’altro fino a creare una faccenda che non esisteva e che
ora esiste: la tua storia.
Potrebbe essere un’idea sedersi a un caffè di piazza Dante, c’è una pasticceria con
una spianata di tavolini all’aperto, davanti a una botteguccia che si chiama “La
Rapida” e dove si riparano borse e scarpe, a quest’ora ci sono sempre clienti che
prendono il gelato e il caffè, oggi con questa bella giornata saranno venuti fuori anche
i vecchietti che abitano le casupole della piazza, sono vecchietti sempre col cappello,
sputano spesso, giocano a carte, ogni tanto borbottano frasi quasi incomprensibili e
parlano con gli altri come se parlassero fra sé e sé, è il loro modo di comunicare
chissà cosa a chissà chi, loro sono l’ideale per continuare una frase come quella che
hai appena raccolto, vediamo cosa puoi mettere assieme. Ti incammini giù per via
Santa Maria, ci sono i primi stormi di turisti in giro con la macchina fotografica al
collo, alcuni scattano fotografie, da qui la torre offre una prospettiva strana, se ne
vede un pezzo storto che pare stia per ruzzolare sui tetti, fa una certa impressione, una
volta al posto di questo snack-bar c’era un collegio di suore, ti viene sempre in mente
quando ci passi davanti, ci andavi ad aspettare una ragazza che si chiamava Cristina,
un’infinità di tempo fa, non hai neppure voglia di fare il conto, eri un’altra persona,
che strano, ma la memoria è restata in questa tua persona di ora. Si fece credere
morto per sfuggire alla vergogna del fallimento. Questa è regalata, senza neppure che
tu la isoli da altre frasi, perché il chiacchiericcio delle due signore che ti sono passate
accanto si è già fatto indistinto in due metri, ti volti a guardarle rompendo le regole,
vedi solo che una delle due ha sul viso l’espressione di un’estrema meraviglia, come
se non credesse alle sue orecchie, e l’altra fa un cenno con la testa come per dire: è
proprio così, mia cara, credi a me; sono due signore eleganti che probabilmente si
recano a messa in Duomo, la messa è più tardi, ma loro passeranno il pomeriggio a
guardare la gente, a chiacchierare, a raccontarsi le loro confidenze, chissà di chi
parlavano, chi sarà mai stato colui che per sfuggire a tanta vergogna si dette per
morto, comunque ti è indifferente, l’importante è che il principio della storia
comincia ad avere un seguito che promette proprio bene: il mio defunto marito,
quando festeggiammo le nozze d’argento, si fece credere morto per sfuggire alla
vergogna del fallimento. C’è perfino una rima, ma non guasta. Per ora puoi mettere
un punto e aspettare quello che ti porta il destino.
Peccato che il tempo all’improvviso stia cambiando. Si è alzato un vento forte, a
folate, fresco e salmastro, viene dal mare, la luce si è fatta livida, come per un
temporale imminente, e un muro di nuvole d’inchiostro si è alzato verso il
mezzogiorno, facendo risaltare il marmo dei ponti e della chiesa della Spina che ora
pare un fragile vascello dipinto su un fondale corrusco. C’è elettricità nell’aria, lo
senti, basta avere un po’ di sensibilità per queste cose, lo avverti nel volo inquieto dei
piccioni, nella fretta artificiale della gente, nel nervosismo dei gatti della piazza: ma il
temporale non è così imminente, tu lo sai bene, conosci perfettamente questo luogo e
il suo clima, quando dal mare arriva un temporale primaverile ci vogliono almeno
due ore perché maturi sulla città, prima ci saranno dei lampi all’orizzonte, con un
brontolio di tuoni come cannoni in lontananza; poi le nuvole arriveranno compatte,
come un blocco senza fessure, di piombo; allora la città si oscura, cade la notte anche
in pieno giorno, e solo a quel punto si scatena il temporale, con un vento devastante e
una pioggia che arriva obliqua, a raffiche, implacabile.
Al caffè Dante stanno prudentemente ritirando i tavolini e li dispongono
all’interno, uno sull’altro, sopra le cassette dei liquori dell’angolo, in modo che non
disturbino i clienti. Ordini un caffè, ti trattieni un poco ad ascoltare i commenti del
proprietario e di un suo amico sulle notizie che la radio sta trasmettendo sulle partite
in corso. La Juventus sta perdendo e nessuno se lo aspettava, con quella squadretta di
provincia; è per via del terreno da gioco, argomenta il proprietario del caffè, è ridotto
a un pantano; ma sarà un pantano anche per gli altri, obietta giustamente l’amico; sì,
dice il proprietario, solo che i campioni sono svantaggiati sui terreni fangosi, sai
come sono delicati i campioni, giocano sulle punte, sono come le ballerine della
Scala, non puoi far ballare una ballerina della Scala su un marciapiede. L’amico
annuisce poco convinto, dice: bah, che tempo strano, oggi pare una giornata stregata;
va a guardare dalla porta a vetri e scuote il capo, sarà perché quest’anno è bisestile,
dice poi concludendo, pare che i bisestili siano sempre così.
Ti porti la tua tazzina di caffè nella saletta attigua, dove i clienti affezionati
giocano a carte. Sono sempre gli stessi, li conosci da anni, anche loro ti conoscono,
sanno che vai lì per vederli giocare, o almeno così pensano, e tollerano la tua
presenza, perché è noto che i giocatori detestano avere curiosi intorno. Ma fra te e
loro c’è quasi una complicità di vecchi amici, anche se non siete amici, appena
conoscenti di caffè, non sanno neppure il tuo nome, ma non importa, è sufficiente per
salutarsi con cordialità: buona sera, come va il gioco, vecchi viziati incalliti?
Qualcuno sorride, uno scuote la testa, un altro fa un gesto di finta protesta con una
mano; così ti guardi intorno sorseggiando il tuo caffè, indeciso sul tavolo da
scegliere. A quello di fondo c’è un poker drammatico, meglio di no; a quello vicino
alla porta c’è uno scopone abbastanza animato; al tavolino dei raffinati una briscola a
cinque, è un gioco strano la briscola a cinque, partecipa del caso e dell’astuzia, è un
po’ come il tuo gioco con le parole, bisogna scegliere fra le carte che il caso ti
attribuisce e grazie a quelle indovinare il tuo complice, perché hai un complice e
bisogna indovinarlo fra quattro possibili complici, bisogna affidarsi alla sorte e
all’intuito, va bene la briscola a cinque, avvicini una sedia e ti metti a guardare in
silenzio, con gli occhi attenti alle carte e l’udito attento alle frasi che aleggiano nella
sala, frasi sibilline, da giocatori: qualche imprecazione, parole che valgono un istante
e poi si perdono cacciate da altre parole.
Non sono mai riuscito a dirtelo prima, ma ora è necessario che tu sappia. La frase
è arrivata improvvisamente dentro le tue orecchie con lo stupore di una ferita che
duole all’improvviso, un ago o un trapano, poi la senti scoppiare dentro la testa ed
echeggiare pausatamente prima che si spenga: è necessario che tu sappia. Sei balzato
in piedi, guardando la porta con aria braccata, anche i giocatori ti guardano, devi
avere un colore terreo e lo spavento negli occhi, ti siedi cercando di darti un
contegno, ecco, nessuno fa più caso a te, gli sarà sembrato un gesto di noia, una tua
bizzarria; guardi tutti i giocatori, uno per uno, pensi da chi è uscita quella voce, se
mai è uscita da una delle persone che si trovano lì, e ripensi alla voce, che ti risuona
ancora nelle orecchie, è inconfondibile quella voce, nasale, un po’ strascicata, con
qualcosa di ironico nel timbro, è una voce che hai conosciuto troppo bene; e allora,
piano piano, come fra te e te, dici: Tadeus, sei qui, ti ho sentito, dimmi dove ti
nascondi. Guardi di nuovo i giocatori, quel vecchietto col basco e l’aria smunta, sarà
lui, pensi, è attraverso di lui che Tadeus mi ha parlato? E poi gli altri: un corpulento
cinquantenne con l’aria pacifica, due giovanotti con la brillantina, i quattro maturi
signori che giocano a poker; no, pensi, non è nessuno di loro, Tadeus è qui, certo, è
qui che vaga, ma dove? Ti metti a guardare la stanza oggetto per oggetto, che
assurdo, come se dentro ogni oggetto potesse nascondersi la presenza di Tadeus e la
sua voce: il calendario sulla parete, con una riproduzione di Fattori, l’oleografia
accanto allo specchio, dove si vede un cacciatore che abbatte una folaga, il
lampadario di finto cristallo con i paralumi fatti a campana, e ripeti: Tadeus, ti prego,
ti ho sentito; che cosa vuoi dirmi, da dove mi parli, non è possibile, tu non ci sei più,
non puoi esserci con la voce. Ma intanto la tua mente ripete: da dove mi parli,
Tadeus, che cosa vuoi dirmi? E, che strano, ti rendi conto perfettamente che la voce
non è più lì, che attraverso gli esseri di quella stanza non ti parlerà più, che devi
cercarla, inseguirla nel caso, fuori; allora ti alzi, fai un distratto saluto con la mano,
ora hai la mente sgombra, hai buttato via le frasi raccolte durante la giornata, dentro
di te resta soltanto, nitida e forte, una voce che dice: non sono mai riuscito a dirtelo
prima, ma ora è necessario che tu sappia.
Che cosa non sei mai riuscito a dirmi prima? Così ripeti dentro di te mentre esci
dal caffè incerto sulla direzione da prendere, che cosa non sei riuscito a dirmi prima?
E ora sei tu che parli a voce alta, perché due passanti si sono girati a guardarti, ora sei
tu che fornisci agli altri delle frasi fatte. Ci vuole calma, lo senti, hai bisogno di
sederti e riflettere, scegli una panchina del giardinetto, il cielo va sempre più
incupendo, ti metti a pensare a quegli anni, a tutto, è impossibile pensare a tutto
assieme, bisogna prendere le cose per ordine, ma le cose hanno un ordine? E a quale
ordine si riferisce una frase come questa: a quale tempo, a quale momento, a quale
circostanza? A tutto, può riferirsi a tutto, dunque è inutile pensare le cose per ordine,
lasciale pure venire così come vengono. E pensi: si riferisce al romanzo, quel
romanzo fece una brutta fine. Fu solo colpa tua oppure qualcosa fece in modo che
quel romanzo facesse una brutta fine? Forse qualcosa fece in modo, ma cosa? Ora ci
vuole troppo a pensarci, bisognerebbe mettersi lì a ricostruire tutto con minuzia, quei
momenti, quell’estate infausta, le burrasche del settembre, le serate di solitudine, la
villa, Isabel che voleva sempre qualcuno a cena, aveva paura, forse, quelle serate le
facevano paura, e il romanzo fece una brutta fine. Ma no, il romanzo non c’entra, se
ne andò semplicemente al suo destino, perché così era giusto che fosse. Ma era giusto
buttare via una creatura a quel modo? Non era giusto, lo sai, fu solo un capro
espiatorio, una strana vendetta. Risenti il vento notturno, quando si scatenava la
burrasca e le vecchie finestre cigolavano; Isabel non si accorse mai di niente, niente
che concernesse il romanzo, non ci fece mai caso, badava solo ad avere compagnia,
non voleva restare sola con te in quella casa paurosa sulla scogliera. E allora, con un
passaggio incongruo ma che per te è molto logico, dici: Isabel era infelice, la sua
paura era principalmente questo. Lo stai dicendo al granduca bianco che si erge sulla
piazza con le case di un rosso pompeiano, è la piazza che ami di più in tutta la città,
di una geometria insolita, tagliata a trapezio da un palazzo con le inferriate panciute;
il cielo è livido, il granduca guarda verso il mare, come se anche lui temesse la
burrasca e la spiasse arrivare; era solo infelice, mi sbagliavo credendo che avesse
paura, o meglio, anche questo è un modo di avere paura, perché l’infelicità è una
forma di paura. Ti vai a sedere sullo zoccolo di pietra, con l’assurda speranza che
quella statua dalle fattezze realistiche possa portarti una voce che ora ti sta
sfuggendo; ma poi perché no, è un cavaliere con un lungo mantello e il volto nobile e
triste; deve avere conosciuto il gusto del potere e l’amarezza del tradimento, anche lui
forse potrebbe portarti la voce; e così ti siedi, accendi una sigaretta, guardi il
cavaliere di sotto in su, il suo cavallo sembra brancolare fra le nuvole, è un destriero
che nelle grandi occhiaie vuote porta lo stesso stupore e la stessa tristezza del suo
cavaliere, dici: Tadeus, ti prego, che cosa devi dirmi? E intanto ripensi a quell’estate,
che avevi così accuratamente dimenticato riponendola in una cantina sulla quale
avevi posato un pesante coperchio. E ora quel coperchio, come per magia, si è mosso,
è slittato aprendo una fessura; respiri a pieni polmoni perché ti arriva anche un
profumo di lavanda, il terreno della villa era pieno di lavanda, la mattina quando
scendevi sulla scogliera l’aria sapeva di salmastro e di piante; poi ti giri indietro
perché dalla casa è venuto un urlo, no, non è un urlo, è come un grido soffocato, un
singhiozzo che il vento ti porta, sei indeciso se tornare indietro, ma non vuoi sapere,
non è successo niente, è una cosa così, che ogni tanto succede, un singhiozzo, e allora
ripeti: l’infelicità è una forma di paura, Tadeus, l’ho sempre saputo e non ho mai
voluto pensarci, è questo che vuoi ricordarmi, vuoi parlarmi di Isabel, è per questo
che mi chiami. Ma il granduca guarda verso il mare coi suoi occhi vuoti, ora le
nuvole che si sono messe a galoppare fanno galoppare anche il suo destriero, come se
volassero via insieme verso il loro passato, anche loro all’incontrano; e così ti alzi e
percorri la piazza che hai percorso tante volte in vita tua, ti ricordi ancora quel
vecchio cinema che poi andò bruciato, ti ci portavano da bambino a vedere Charlot,
imbocchi il lungarno e ti appoggi al parapetto, verso la foce si è aperta una lama di
luce violacea, sinistra, c’è più gente qui, ma sono passanti frettolosi, non parlano,
pensi rapidamente a dove andare, lui vuole parlarti, la sua voce ha bisogno di una
voce, o meglio, sei tu che vuoi che lui ora ti parli, devi parlare, Tadeus, non si può
dire una cosa così e poi lasciarla a metà; dove sei, la città è grande, sei qui o mi
aspetti da qualche parte?, se sei qui seguimi, ti prego, andiamo a cercare un luogo con
gente che parla, dimmi ancora qualcosa, ho bisogno che tu mi parli ancora, non puoi
smettere a questo punto. Ma di che cosa aveva paura? O di chi? Ormai non posso fare
a meno di formulare questo pensiero, tu mi capisci Tadeus, sei tu che mi ci hai fatto
pensare, guarda, io non avrei voluto, te lo giuro, per anni non ho voluto pensarci, ma
tu ora mi ci hai costretto, perché non si può avere paura solo di un luogo, di una casa,
si ha paura di qualcuno o di qualcosa, te lo dico perché quel giorno io mi sono
allontanato, sono rimasto sulla scogliera tutta la giornata, l’ho fatto per non sapere,
non avrei altre spiegazioni, altrimenti perché sono rimasto sulla scogliera per tutto il
giorno?, ho sentito il grido soffocato e mi sono girato a guardare, davanti alla villa
c’era una macchina, non era la tua macchina, era una macchina sconosciuta, io avrei
dovuto andare a vedere, ma anche Isabel non voleva che io sapessi, e così ho lasciato
passare il tempo guardando il mare, con un senso di perdita e di inutilità, aspettando
che tutto si consumasse, ma tutto cosa, Tadeus, tu lo sai e ormai devi dirmelo. Devi
dirmelo perché altrimenti…
Altrimenti che cosa? Ha forse un senso la tua minaccia? Nel tuo intimo sai bene
che non ha nessun senso, perché potresti anche ingiuriarlo, maledirlo: ma, là dove si
trova, lui sta ridendo delle tue maledizioni. Si trova già in un luogo di maledetti, lo
hai sempre saputo, e ora sta ridendo di te che vorresti augurargli l’inferno; lui è a suo
perfetto agio in un luogo che si è andato preparando per tutta la sua vita, una vita fatta
di negazione e di sperpero, impiegata a pensare male di se stesso e degli altri, tutta
dedicata a tentare e a tentarsi. E sai anche che ora ti sta tentando. Il suo invito,
subdolo e maligno, è a suo modo una sfida, una tentazione, e dici: Tadeus, quel
giorno eri tu con un’altra automobile, fosti tu a convincere Isabel a fare quella cosa, ti
incaricasti tu di tutto, tramasti tutto, organizzasti tutto, fosti tu a preparare la sua
perdizione.
E come la preparò? A questo ora stai pensando mentre percorri il lungarno verso la
Cittadella, in questa parte della città dove i palazzi si diradano verso le vecchie mura
merlate ricoperte di ciuffi d’edera, il vento ora si è fatto impetuoso, soffia a folate e fa
mulinellare nell’aria foglie e vecchi giornali, come preparò quella perdizione, come
raggirò la sua vittima? E lo rivedi, con quel suo sorriso ironico e la battuta pronta,
spiritoso, anticonformista, sarcastico: proprio divertente, Tadeus, l’amico del cuore,
anzi, l’amico dell’intelligenza, perché era a questo che lui teneva, l’intelligenza era la
sua insegna. E Magda, pensi, che ruolo ebbe in tutta questa storia? Lei, così
silenziosa e così sollecita, sempre disponibile, quasi servizievole, con i suoi occhi
languidi e la sua eterna nostalgia per qualcosa che sembrava avesse perduto ma non si
sapeva cosa: quale fu la tua parte, Magda? Oltre la porta delle vecchie mura, prima
della caserma, a ridosso del campo sportivo, c’è il bar del “Rondinella Sport Club”, è
lì che ti dirigi inconsapevolmente rispondendoti che Magda ebbe un ruolo d’amore:
sì, a suo modo era amore, anche se male indirizzato, anche se con esiti negativi; giri
la maniglia, nel locale c’è un’enorme confusione, fumo, rumore; alcuni ragazzini
vestiti per un incontro di calcio, in pantaloncini e maglietta, aspettano di cominciare
la partita della domenica, ma pare che ci siano opinioni divergenti, dato il cattivo
tempo, alcuni genitori che li accompagnano vorrebbero rimandare la partita, un padre
vestito da arbitro e con l’aria perplessa non sa cosa scegliere e ascolta i due gruppi
contrari cercando di trovare una soluzione, i ragazzi del Rondinella Club aspettano
l’esito della discussione con aria indifferente, sono seduti sulle panche e bevono
aranciate; più animosa sembra la squadra avversaria che è venuta da un’altra città e
rischia di aver fatto il viaggio invano, fra loro c’è un ragazzino particolarmente
eccitato, col numero undici sulla maglietta, che non sta fermo un momento, gira fra i
compagni, dice: bisogna fare la partita, altrimenti cosa siamo venuti a fare; lo guardi
un attimo, è un ragazzino magro, con le lentiggini e gli occhi accesi, e a quel punto,
solo per te, la sua bocca che si apre per parlare ai compagni ti porta una voce
inequivocabile, nasale e lievemente ironica, che rimbomba nelle tue orecchie come se
fosse gridata da un altoparlante: una cosa che anche tu puoi scoprire, basta che tu
ascolti in giro dal luogo più alto della città. Aspetti qualche secondo nella speranza
che la comunicazione continui, ma ora il ragazzino sta parlando con una voce stridula
da ragazzino, il rumore di voci si è riacceso intorno a te, e allora ti butti fuori come
per istinto, cade già qualche grossa goccia di pioggia e il vento è fortissimo, sotto la
pensilina del bar c’è un capannello di tifosi che stanno discutendo, alcuni sostengono
che la partita si deve rimandare, altri che si deve disputare ad ogni modo, fra questi
ultimi c’è un giovanotto grande e grosso che chiede silenzio e che puntando il dito sul
manifesto affisso sulla porta legge ad alta voce, a sostegno della sua tesi, il calendario
dell’incontro: il giorno 10 maggio, alle ore sei pomeridiane. E la voce con cui legge è
una voce che non lascia spazio a dubbi, la conosci fin nelle sue più sottili sfumature;
e allora guardi l’orologio immediatamente, perché ormai il messaggio è chiaro, com’è
chiaro l’appuntamento, alle sei mancano venticinque minuti e la torre è lontana, alla
fine del viale di cinta, è quello il punto più alto della città, è lì che lui vuole che tu
vada perché tu sappia.
Ma per sapere cosa?, hai ancora la forza di mormorare mentre prendi a correre;
potresti tentare di aspettare un autobus, ma oggi è domenica e le corse sono
dimezzate, è meglio non rischiare, correndo puoi farcela, era tanto che non correvi in
questo modo, le tempie cominciano a pulsarti e il cuore a battere svelto, sei costretto
a rallentare, comunque così va bene, e poi ora il viale prende a scendere. Aggiri il
brutto edificio della facoltà di Farmacia per risparmiare strada, attraversi i giardinetti
e ti immetti di nuovo sul viale, le chiome dei tigli sono tutte scompigliate dal vento e
per terra si è formato un tappeto giallastro di polline che rende il terreno scivoloso,
per questo ti tieni vicino alle case e intanto dici: non fu colpa mia, io non sapevo
niente. Intanto guardi l’orologio, perché hai avvistato la piazza, l’ampia distesa
d’erba sotto la porta ad arco e sai che ora puoi farcela, mancano più di quindici
minuti. Sono poche le bancarelle di souvenirs rimaste aperte: molti negozianti si sono
affrettati a chiudere, per paura del temporale. La piazza è quasi deserta, sfrecci vicino
a un gruppetto di signore americane che indossano impermeabili trasparenti, sono
scese da un autobus e stanno fotografando la torre; tagli sul prato, l’erba è bagnata e ti
infradicia le scarpe ma non ci fai caso, sei già sulla porta della torre, per fortuna non
c’è gente in fila alla biglietteria, acquisti il biglietto ansando, il bigliettaio ti guarda
perplesso, cerchi di darti un contegno e ti ravvii i capelli, poi imbocchi le scale con
passo tranquillo perché senti che il bigliettaio ti sta osservando con troppa curiosità e
non vuoi insospettirlo. Però, appena girata la prima rampa di scale affretti di nuovo il
passo, stai sudando abbondantemente, sono terribili le scale di questa torre, ripide e
inclinate, a chiocciola, come un budello, e ad ogni giro vedi dai finestroni la città
sempre più in basso, dapprima i tetti di via Santa Maria, poi la cerchia delle mura, poi
il fiume che attraversa la città con due curve ampie, sbuchi sulla prima terrazza,
mancano quattro minuti alle sei, ormai c’è solo una rampa di scale, quella che porta al
terrazzino delle campane, infili il pertugio della porta, senti che le gambe stanno
cedendo, ma ormai ci sei, entri sull’ultimo ballatoio e ti affacci sulla città. Ci sono
solo due turisti cocciuti, è una coppia matura che guarda il panorama col binocolo, a
prima vista sembrano stranieri, ti avvicini con fare naturale, ti installi al parapetto a
una distanza che ti consenta di capire i loro discorsi, ora hanno abbassato il binocolo
e conversano, lei si annoda un fazzoletto sulla testa per proteggersi, le nuvole buie
ora sono scese su tutta la città, tendi l’orecchio, parlano francese, cogli qualche
brandello di frase, è una malattia che oggi si può controllare, dice lui, è un virus
simile all’herpes zoster. Poi tacciono, si prendono per mano e imboccano le scale per
discendere. Ti guardi intorno meravigliato, ma non c’è rimasto nessuno, sei solo,
lassù in cima, ti senti tradito, dici: Tadeus, mi hai dato un appuntamento falso. E in
quel momento la pioggia comincia a scrosciare con violenza, un fulmine disegna uno
zig-zag sul fiume, le nuvole gonfie si aprono e la città resta sotto il diluvio. Ti lasci
inzuppare tranquillamente, stringi con le mani il ferro del parapetto e in quel
momento la campana maggiore, alle tue spalle, comincia a suonare le sei, sono
rintocchi gravi e cupi che fanno vibrare il pavimento, sembra che tremi l’intera torre,
guardi lontano, verso il mare, e poi sotto di te, a perpendicolo. Senti la vertigine che ti
cattura lo sguardo e che si trasforma in un pizzicore che ti scende lungo la schiena e ti
raggiunge le mani che ora si aprono e si chiudono da sole sul ferro del parapetto: ora
sai perché Tadeus ti ha chiamato fin lì, non poteva essere che lui a darti un simile
appuntamento.
Notte, mare o distanza
Là, da dove le cose provengono,
ritornano, pagando l'una all'altra il castigo
di esser venute secondo l’ordine
ingiusto del tempo.
ANASSIMANDRO
Ogni volta, quando immaginava come avrebbero potuto essersi svolti i fatti quella
notte, gli arrivava la voce nasale e ironica di Tadeus che scandiva una di quelle sue
frasi che volevano dire tutto e niente: perché è un buon viatico. E subito tutto
cominciava a prendere corpo e a delinearsi nei contorni: il Jardim do Príncipe Real,
con l’albero centenario e la sua chiostra di case gialle, la strada stretta percorsa da un
tram sferragliante, quella sera fredda di un anno lontano, il novembre del
millenovecentosessantanove, la stanza al secondo piano, ingombra di libri,
minuscola, e dentro i suoi amici, loro quattro con i volti di allora, già donne e uomini
fatti, sì, ma a quell’epoca si dimostravano sempre meno anni, chissà perché, forse la
maniera di vestire o il taglio dei capelli, e comunque erano dei ragazzi, poco più che
ventenni, loro quattro, pieni di speranza e di buona volontà, a parlare col celebre
poeta, ora già quasi un vecchio, che in gioventù era stato battagliero e feroce, e poi si
era piegato suo malgrado agli eventi, alla vita, la ferocia gli si era cambiata in
sarcasmo e amarezza, e delle battaglie gli avanzava lo scetticismo di chi ha
combattuto le battaglie, le ha perdute e ritiene che sia vano combattere battaglie.
E a volte, quando immaginava quella notte, cercava perfino di evitare quella
insidiosa frase di Tadeus; come se una riluttanza strana, quasi una piccola nausea, lo
spingesse verso la conclusione, verso lo scioglimento e la pena che le vittime
avrebbero dovuto attraversare; e allora li vedeva già per strada, quel povero
manipolo, a dirsi buonanotte ragazzi, poi qualcuno di loro diceva una battuta o una
frase in più, ancora tre o quattro minuti, così, per caso, senza una precisa ragione
nella notte, e a quel punto arrivava l’automobile, inesorabile per l’appuntamento che
li attendeva per un’esperienza che proprio loro dovevano fare, perché erano loro che
l’avevano fatta. Ma in quello stesso momento, altrettanto inesorabile, arrivava la frase
di Tadeus, quasi insignificante eppure subdola, a pensarci bene, e allora la sua
immaginazione, di lui che se ne stava dopo tanto tempo a immaginare quella notte,
spingeva i quattro amici all’indietro, come un film proiettato a ritroso, e li vedeva
salire le scale all’indietro, ritornare sul pianerottolo di Tadeus, rientrare in casa, ecco:
erano sulla porta pronti di nuovo a accomiatarsi, tutto acquistava di nuovo contorno e
loro dovevano rivivere il preambolo, l’introibo a quella che sarebbe stata la loro
avventura di quella notte, erano sulla porta a dire buonanotte al vecchio poeta, dopo
una serata passata a parlare di poesia.
Perché è un buon viatico, avrebbe poi ripetuto Tadeus, con una di quelle sue frasi
che volevano dire tutto e niente. Un buon viatico la poesia, forse?, e poi un viatico a
cosa?, questo sarebbe rimasto un mistero per tutti: già sulla porta, i cappotti ormai
indossati, allora buonanotte, vero ragazzi, ciao Luisa, Tiago, Tadeus, aurevoir
Michel, ma poi qualcuno disse: alla notte, al mare, alla lontananza. Forse fu proprio
Tiago, che ritornava sempre sui discorsi che sembravano esauriti, proprio tipico suo,
evidentemente si riferiva al viatico, lo capirono tutti, e fu anche per questo che chissà
come qualcuno richiuse la porta. Ancora un altro bicchiere, è un peccato non finire la
bottiglia che ha portato Michel, tu arrivi sempre con una bottiglia, Michel, vieni a
contribuire al suo esaurimento, e poi il verso non è esattamente così, bisognerebbe
dire: alla notte, al mare, alla distanza; non lontananza, distanza, c’è una certa
differenza, disse Tadeus. Ma non fu per questo che restarono, per riaprire il libro di
uno dei poeti che avevano letto quella sera e un verso che difatti diceva: se è notte,
mare o distanza. No, lo sapevano tutti che restavano per altro, proprio perché fuori
era notte, mare o distanza, e la frase di Tiago aveva manifestato un sentimento che
era di tutti e che nessuno aveva il coraggio di rendere esplicito: un disagio, come una
tenue malattia; non paura; piuttosto un misto di insicurezza e di struggimento, come
sentirsi profughi in una città che era la loro e avere nostalgia della loro vera città, che
era quella stessa, ma in un altro momento che non fosse quella sera ostile, quella
notte, con le sue onde malefiche che vibravano pronte a scatenarsi. Fu questo che
sentirono sulla porta, mentre si salutavano; e così si tolsero i cappotti appena
indossati e rientrarono nella piccola sala ingombra di libri, tanto Tadeus, lui, non
aspettava di meglio che una complicità per fare le ore piccole, e quando leggeva
poesia perdeva la nozione del tempo. Disse: è come quando la scrivo, il tempo fa
fssssss, come un pallone che si affloscia, si comincia a vivere in un mondo senza
atmosfera, sotto vuoto, anche quando la si legge, a voi non fa lo stesso effetto? Si
buttò su una poltrona, col libro in mano, e fece: fssssss!, e tutti risero, perché Tadeus,
in quel momento stava facendo il giovane, e sapeva farlo bene. Vecchio non era,
comunque, ma i suoi cinquanta anni si vedevano tutti, e poi con la vita che aveva
avuto. E ora stava facendo il ventenne, come gli altri ventenni. Fece: fssssss, e disse:
è l’anima che sta uscendo dal di sopra e dal di sotto, l’anima ha voglia di venire fuori,
le basta un buco, altrimenti soffoca. E gli altri risero perché intuirono cosa voleva
dire. E perché c’era bisogno di ridere, quella notte. Passavano rare macchine, i
lampioni si erano spenti, una trovata della polizia affinché non si formassero per
strada gruppetti sovversivi; di illuminato, in tutta la strada, c’era solo il portone della
“Adega Val do Rio” e più avanti la “Guitarra dourada”, con una chitarra al neon
come insegna nella quale si era fuso il tubo di una corda; e sotto, sempre al neon:
crustáceos e mariscos. Tiago andò alla finestra e disse che sembrava il coprifuoco, e
poi si mise una mano sul petto, come se facesse uno strano giuramento, o come se
qualcosa lo opprimesse, e disse: questa volta non riusciranno a vincere, non
riusciranno a truccare anche queste elezioni. Ma subito si girò verso i vetri e sussurrò:
perché dovrebbero lasciarci vincere?, sono quarant’anni che comandano. E allora
qualcuno rise, chissà chi fu, ma forse nessuno, fu un sospiro che parve un riso
nervoso, e in quel mentre arrivò l’ululato lontano di una sirena, ambulanza o polizia,
e come se fosse per coprire quel suono sinistro Joana disse: se leggessimo ancora, e si
guardò intorno con occhi ansiosi, gli occhi di una ragazza giovane che voleva credere
nella vita e nella poesia, e le sue mani erano nervose, forse perché intuì che gli altri
avevano capito la sua supplica e non ce la facevano ad attribuire alla lettura di alcuni
versi lo stesso senso di speranza e di illusione.
Era a quel punto, la serata. Ancora presto, ma come se fosse notte fonda; e la notte
anticipata occupava lo spazio con la sua presenza e aveva creato una pozza immobile,
un maleficio nel quale, come in un incantesimo che qualcosa avesse dovuto rompere,
si sentivano prigioniere le persone che occupavano quella stanza. Chissà se fu per
rompere quell’incantesimo che uno di loro si mosse, ed è impossibile dire se fu Tiago
o Michel, e forse fu perché intuiva oscuramente il sortilegio che li imprigionava, che
pronunciò delle parole come se fossero uno scongiuro, alzò il bicchiere e con voce
che avrebbe dovuto essere augurale, ma che risultò cupa, disse: al novembre del
millenovecentosessantanove, mese della caduta del salazarismo. Fu strano come il
novembre si fece presente, evocato da quelle parole. Era stata una trasparente
giornata d’ottobre e l’avevano trascorsa in spiaggia, portando frutta e panini.
Qualcuno aveva trovato il coraggio di tuffarsi nell’Oceano, il sole era caldo e
tornando a casa sentivano il viso che bruciava. E ora, all’improvviso, il novembre era
già lì presente, dalle finestre si sentivano stormire gli alberi dell’Orto botanico, si era
alzato un vento maligno che fischiava nelle fessure e le foglie portate via dal vento
passavano rapide davanti ai vetri.
Avrebbero dovuto fare un altro brindisi al libro fresco di stampa che stava sul
tavolo, lo sentivano, un piccolo libro di versi che Tadeus aveva ritirato in tipografia
quella sera per leggere loro qualche verso prima che fosse pubblicato; ma lui
sembrava sottrarsi a quel brindisi, come se sentisse imbarazzo o malavoglia, o una
sottile vergogna di avere scritto quelle poesie e di averle pubblicate in quel novembre
di illusioni per gli altri ma per lui privo di ogni illusione, un mese già segnato dalla
sconfitta e sul quale era meglio non riporre nessuna speranza. Finché qualcuno, forse
Luisa o Joana, o forse entrambe, per quelle curiose coincidenze dovute alla timidezza
che spesso sceglie i luoghi comuni, alzarono i bicchieri e dissero all’unisono: alla
poesia. E Tadeus, con la sua voce ironica e nasale, mormorò: perché è un buon
viatico.
Solo a quel punto, colui che stava immaginando come avrebbero potuto essersi
svolte le cose quella notte, si accorgeva che la frase di Tadeus creava un circolo
vizioso; perché a quel punto gli amici, arguendo in quella frase un commiato,
infilavano i cappotti, si avvicinavano alla porta, la aprivano, si trattenevano ancora un
attimo per salutare e in quel momento, come se fosse un addio, uno scongiuro o un
ironico augurio, Tadeus ripeteva: perché è un buon viatico. E allora qualcuno
rispondeva: alla notte, al mare o alla lontananza; forse Tiago, e era anche per questo
che, chissà come, qualcuno richiudeva la porta e Tadeus diceva: ancora un altro
bicchiere, è un peccato non finire la bottiglia che ha portato Michel.
E tutto ricominciava, nell’immaginazione di chi immaginava quella notte, come
una pantomima o una stregoneria: dalla porta alle poltrone, dalle poltrone alla porta,
come povere creature stregate e condannate a una ripetizione insensata, forzate a
mimare e a ripercorrere il preludio all’avventura atroce che le aspettava nella notte e
che una immaginazione non aveva il coraggio di far loro vivere come esse dovevano
viverla.
Finché: basta. Ora sono usciti, stanno finalmente scendendo le scale, la lampadina
del pianerottolo del primo piano è bruciata, qualcuno inciampa, si sente una risata,
Tiago non spingere (voci di Luisa e di Joana), non fate le zitelle (voce di Tiago), ed
eccoli finalmente a pianterreno, lo scatto del pulsante che aziona la serratura, un clic,
ed eccoli fuori, ah, finalmente fuori dal circolo vizioso di una frase che li teneva
prigionieri nell’immaginazione di chi immaginava come avrebbero potuto essersi
svolti i fatti quella notte; finalmente fuori, nella notte, davanti al giardino fiocamente
illuminato del Príncipe Real, rari i passanti, anzi nessuno in giro, davvero come un
coprifuoco, una città fantasma intorno, le finestre sbarrate, e loro lì sul marciapiede a
dirsi buonanotte e qualche battuta innocente per cercare di scacciare la malinconia
che la serata aveva loro incollato addosso come un velo umido.
L’automobile arrivò a fari spenti, silenziosa, e quando se ne accorsero si era già
accostata al marciapiede con una manovra perfetta, il finestrino semiabbassato, buio
all’interno, impossibile distinguere l’occupante, solo la canna di una pistola puntata
su di loro che si spostava impercettibilmente, a piccoli scatti, prendendoli di mira a
turno come indecisa su chi scegliere per fare fuoco. E poi una voce, molto bassa e
calma, disse: fermi così, signorini, ora restate per un po’ fermi così, ma girate le
spalle e alzate le manine. Proprio così disse: le manine; e in quel diminutivo
incongruo c’era una violenza compatta, lo sentirono, qualcosa di turpe e di cattivo
che li investì alle spalle come una folata di vento gelido che li fece tremare.
Restarono così per un certo tempo, a guardare il muro, non è possibile dire quanto
tempo, ma a lungo, gli pareva interminabile e assurdo: pochi minuti prima a parlare
di poesia e ora una voce ignota accompagnata da una pistola li inchiodava a un muro.
Ora le vostre giacche, intimò la voce, una alla volta, e portatele indietreggiando. Il
primo fu Tiago, che la porse col braccio steso, senza girarsi, come per evitare un
qualsiasi contatto diretto con l’essere che li stava minacciando. Sentì che la giacca
veniva rovesciata, sentì cadere spiccioli e chiavi, disse: non ho niente nella giacca, se
è denaro che cerca lo tengo nella tasca dei pantaloni. La voce rise quasi bonaria, e poi
disse tagliente: finocchio di un comunista, mi hai preso per un ladro? Allora Tiago
trovò la forza di replicare e chiese: ma lei chi è, cosa vuole? E la voce rispose: te lo
dirò dopo, topino. La mano che si sporgeva dal finestrino rovistò in entrambe le
giacche che gli venivano tese e una per una le lasciò cadere, dopo la perquisizione,
nel rigagnolo che correva fra il marciapiede e l’automobile. E ora le vostre borsette,
signorine, disse. Prima tu, principessa, disse a Joana, sono curioso di frugare nei tuoi
piccoli segreti, sono certo che con la tua aria da Maria-vergine hai chissà quali segreti
nella borsetta, vero? La mano penetrò nella borsa, era una mano grassa, col dorso
leggermente gonfio e le dita robuste e corte.
E fu a quel punto che arrivò la cernia. Era una cernia pingue, lustra, oleosa, che
guizzava su dei fondali oscuri come l’oscurità dell’automobile che minacciava le
vittime di quella notte: dal finestrino, assieme a una mano gonfia dalle dita tozze si
affacciò il muso di una cernia che boccheggiava. Che cosa incongrua, una mano e un
muso di cernia dal finestrino di un’automobile nera nella Rua Dom Pedro Quinto in
una notte di novembre del millenovecentosessantanove.
Ma questo dipendeva dall’immaginazione di chi pensava a come avrebbero potuto
essersi svolti i fatti quella notte. Così, a quel punto, la sua immaginazione produceva
una cernia. E la cosa più strana era che sembrò naturale, in mezzo a quella cupa notte
quasi di coprifuoco, con una pioggerella che aveva preso a cadere e le foglie portate
via dal vento, sembrò naturale a tutti che dal finestrino di quella automobile
minacciosa si affacciasse una cernia. Plaf. La cernia sgusciò fuori e cadde nel
rigagnolo fra l’automobile e il marciapiede, nello stesso luogo in cui la mano che li
teneva sotto tiro con la pistola aveva lasciato cadere le giacche dei ragazzi e le
borsette delle ragazze. E lì, nel rigagnolo sudicio, la cernia giacque immobile, appena
con qualche debole guizzo di coda, boccheggiando. Stava morendo. Era una grassa
cernia boccheggiante che stava morendo. Non la toccare!, gridò Tiago. Lo gridò a
Joana, che si era inginocchiata e l’aveva presa in braccio, stolidamente, come se
cullasse un bambino. Non la toccare, ripeté Tiago, è un pesce immondo! Ma Joana
parve non sentire quel grido di schifo e di allarme. Non si può lasciare morire così
questo povero animale, disse con smarrimento; e Tiago riprese: non sono un
comunista, sono un democratico, e voglio sapere subito chi è lei; e la voce dentro
l’automobile squittì: senti senti, e poi urlò: finocchio di un democratico, mi avevi
preso per un ladro?
Perché certo Tiago aveva replicato così, che era un democratico, e che voleva
sapere chi era quell’uomo. Così doveva aver detto davvero quella notte, e non aveva
certo parlato di nessuna cernia, perché non c’era nessuna cernia, in quel momento, se
non nei pensieri di chi immaginava come dovevano essersi svolti i fatti quella notte.
Invece quella notte c’era solo buio, davanti al Jardim do Príncipe Real, e loro quattro
esterrefatti e immobili davanti a una pistola che li teneva sotto tiro dal finestrino di
un’automobile. Anche il resto del neon della “Guitarra dourada” si era spento, il
cameriere col grembiule bianco si fece sulla porta e si guardò intorno e sicuramente
vide un’automobile ferma a fari spenti e quattro persone con le mani in alto, cosicché
si affrettò ad abbassare la serranda del ristorante e rimase nell’interno, a luci spente.
Però ormai c’è un pesce, insieme a loro. Anche se forse non c’era in quella notte,
ora, in questa notte evocata è lì, presente, e Joana lo tiene in braccio e sembra cullarlo
e si guarda intorno smarrita, e Tiago le dice: cosa fai?, mettilo giù, lascialo stare nella
fogna, non vedi che è un pesce infetto?
Joana si abbassò verso il rigagnolo e raccolse la sua borsetta che la mano aveva
lasciato cadere dal finestrino; una mano che ora stringeva una lettera e che disse:
questo è un segretino, vero, principessa? Probabilmente Joana soffocò un singhiozzo,
o un gemito, e fece per parlare ma non ci riuscì, così Tiago disse per lei: quella è una
lettera del suo fidanzato, lei non ha il diritto di toccarla. Ah, disse la voce, che
interessante. La mano scartò rapidamente la lettera, la aprì e la voce, in quel buio,
come se fosse guidata da occhi di gatto, lesse: amatissima Joana, i certificati sono
quasi tutti pronti, credo che potremo sposarci fra un mese, a dicembre. La voce
sospese la lettura e rise: oh, ma che romantico. Lei non ha il diritto di leggere quella
lettera, disse Tiago avvicinandosi al finestrino. Fu a quel momento che la mano
grassa che reggeva la lettera e la pistola scattò con un’agilità incredibile, come se
volasse, e la canna della pistola colpì Tiago di striscio sulla bocca, si sentì il rumore
dei denti che si rompevano, Tiago si piegò in avanti sputando denti e sangue, lo
sportello della macchina si aprì e l’uomo scese, con un cappello a larghe falde che gli
copriva il viso, e disse: polizia politica, fuori i documenti. Si rivolse a Tiago, ormai
aveva messo via la pistola, teneva le mani in tasca e il viso basso come se guardasse
le scarpe dei suoi prigionieri, ma si rivolgeva a Tiago, perché ripeté: i tuoi documenti,
finocchietto democratico; e Tiago con un fazzoletto infilato in bocca per tamponare
l’emorragia borbottò qualcosa che voleva essere una risposta ma che parve un
rantolo, e poi fece un cenno negativo con la testa, si strinse il mento con le mani,
certo per il dolore, e forse fu in quel momento che Tadeus scese le scale e si fece sul
portone.
Chi immaginava come dovevano essersi svolti i fatti quella notte vedeva dunque
Tadeus che si faceva sul portone proprio in quel momento, mentre Tiago sputava e
rantolava nel fazzoletto, incapace di dare una risposta, e ormai sembrava perduto. Ma
che strano: colui che pensava tutto questo non riusciva a non immaginare Tadeus
dietro le tendine della finestra, lassù al secondo piano, acquattato nel buio della sua
stanza. E perché non era sceso prima, dunque?, si chiedeva nella sua immaginazione;
perché aveva aspettato che le cose arrivassero a quel punto? Ma ad ogni modo era
inutile indugiare oltre su quelle considerazioni: quello che contava era che Tadeus ora
stava lì, era sceso, era presente, aveva aperto la porta e diceva a voce alta e chiara:
questo signore è persona di mia conoscenza, posso garantire per lui.
Cosa successe poi, gli sarebbe stato difficile dirlo, a chi pensava quella notte. La
sua immaginazione, a quel punto, soffriva una specie di paralisi, o di sonno: una
sospensione degli atti o degli eventi che era anche una sospensione e una immobilità
di tutti i personaggi di quella scena. E i suoi occhi, che fino ad allora erano stati
presenti e partecipi, si allontanavano come se qualcosa trascinasse via il suo corpo,
una folata più forte di quel ventaccio gelido, e lo trasportasse di peso su una panchina
del giardino del Príncipe Real, accanto ai ciuffi delle piante di papiro che spuntavano
dal bordo del laghetto: e da quella distanza era impossibile capire chi si mosse e chi
parlò, chi decise, chi volle andare con Tiago che doveva recuperare i documenti
lasciati sulla sua automobile che aveva parcheggiato in Rua Sampaio Pina, proprio
davanti alla casa di Joana, una ventina di isolati più avanti, neppure un chilometro in
linea d’aria, a pensarci bene. Forse Tadeus disse che voleva andare con Tiago, e
anche gli altri, tutti gli altri, certo, sicuramente era andata così. Ma l’uomo con
sagacia e cattiveria avrà risposto: tu, poeta, resta nella tua casetta, fra tutti i tuoi
librini e le tue poesie. Così deve avere risposto. E a Luisa avrà detto: tu sparisci,
signorinella, vai subito a casa. E perché fece salire insieme a Tiago solo Michel e
Joana è un mistero; certo non si era dato preoccupazione che Michel fosse straniero,
perché se ci avesse pensato meglio avrebbe riflettuto che non era un episodio da farsi
risapere all’estero, con la pubblicità che i giornali stranieri avrebbero potuto dare al
caso. Ad ogni modo Tadeus rientrò nel portone e vi rimase a luce accesa, con la
spalla appoggiata allo stipite; Luisa prese a scendere la strada e si allontanò a rapidi
passi verso il fiume, mentre Tiago, Michel e Joana entrarono nella macchina e
partirono a tutta velocità; e colui che stava immaginando le cose di quella notte, restò
a immaginarli partire dalla panchina del giardino, e solo in quel momento notò che si
trattava di una Mercedes nera vecchio modello, una macchina rispettabile, un po’
fuori moda, di quelle che di solito sono guidate da un autista, con una vecchia signora
che occupa il sedile posteriore.
Però, subito dopo, fu subito insieme con loro. Era lì anche lui, ora, in mezzo a
Joana e a Michel; Tiago occupava il sedile anteriore premendosi il fazzoletto sulla
bocca e l’uomo guidava a tutta velocità, stringendo alle curve e salendo sul
marciapiede nelle curve più strette. Forse era ubriaco, o aveva preso degli eccitanti,
per guidare con quella furia; oppure no, era solo un altro modo di manifestare la sua
ferocia e il suo disprezzo per la vita.
Ecco la chiesa di Sào Mamede, e poi le case della piazza del Rato, nella quale
girarono contromano, e poi gli archi del parco delle Amoreiras, e più su il Ritz, con
due portieri in livrea verde e l’aria spettrale, ma anche il Ritz sembrava deserto, le
luci dei saloni erano spente. Eccola, finalmente, la Rua Sampaio Pina. Ma l’uomo,
come se avesse immaginato che i suoi tre prigionieri stavano tirando un sospiro di
sollievo, frenò bruscamente, accostò al marciapiede, e disse: prima lezione politica,
amare il proprio paese. Ora aveva tirato di nuovo fuori la pistola di tasca, e ci giocava
strusciandola sui pantaloni. Sapete cosa vuol dire, signorini?, disse, voi non lo sapete,
perché non sapete niente. Lo so quanto lei e forse meglio, replicò Tadeus, sono
cinquant’anni che conosco questo paese, mi risparmi le sue lezioni. Lo disse a voce
bassa e contenuta, ma furibonda; fu lui che parlò, perché su quella macchina c’era
anche lui, come poteva non averlo pensato, colui che stava immaginando i fatti di
quella notte, che Tadeus non avrebbe mai permesso che quei tre ragazzi partissero da
soli in compagnia di quell’individuo sordido? No, Tadeus aveva certamente preteso
di andare anche lui, forse si era messo davanti alla macchina a braccia aperte, con un
fare un tantino teatrale che in quelle circostanze sarà sembrato grottesco, e aveva
detto con fermezza: verrò anch’io con loro.
E così, chi stava immaginando i fatti di quella notte, dovette immaginare la scena
di nuovo, e nel buio della Rua Pedro Quinto, con le insegne dell’ultimo ristorante che
si stavano spegnendo, vide Tadeus davanti alla Mercedes nera, abbacinato dal fascio
dei fari, bianco, spettrale; e poi li vide salire in silenzio tutti e quattro, i tre ragazzi e
Tadeus; ma lui, che immaginava di guardare, ora era stato portato da una folata di
vento su di una panchina del Jardim do Príncipe Real, e da quella distanza gli sarebbe
stato impossibile dire con quale disposizione essi presero posto sulla vettura.
Non faccia tanto l’eroe, rispose l’uomo, il mio compito è dare lezioni di vita, e se
lei conosce già la lezione a memoria, la ripassi, che le fa sempre bene. Disse così, ma
sembrò più calmo, meno isterico, e comunque ora usava il lei, per parlare con
Tadeus, e a quel punto rimise in tasca la pistola e disse a Tiago di andare a prendere i
documenti, perché evidentemente conosceva la macchina di Tiago.
Tiago tornò e disse: eccoli. L’uomo li guardò con attenzione, glieli restituì, e tutto
sembrò finito. Dunque, buonanotte ragazzi, disse Tadeus; evidentemente non reggeva
più, era esausto, e riteneva ormai inutile la sua presenza: partì a piedi, con le mani in
tasca, quasi con una certa spavalderia, così almeno pensò colui che stava
immaginando come dovevano essersi svolti i fatti quella notte. E quando Tadeus era
già lontano, all’angolo della Rodrigo da Fonseca, proprio davanti alla macelleria
ebraica, l’uomo tirò fuori di nuovo la pistola e disse: rientrate in macchina. Loro si
sedettero, tutti e tre stretti sul sedile posteriore, e l’uomo, in piedi, fuori, disse: ora
ascoltatemi bene, perché la lezione politica comincia solo ora. Prima regola della
lezione politica: amare il proprio paese. E per amare il proprio paese sapete cosa ci
vuole? Non lo sapete perché siete tre pidocchiosi comunisti, o democratici, che tanto
fa lo stesso. Ebbene, ve lo dico io cosa ci vuole. Ci vuole l’odio. Odio per difendere
la nostra civiltà e la nostra razza. E sapete come si riconosce una vera civiltà e una
vera razza? Si riconosce se sa dominare un’altra razza. Ordunque, se mi permettete
questo avverbio vecchio stile, ordunque: per dominare un’altra razza bisogna in
primo luogo dominarla sessualmente, e così ha fatto il sottoscritto, cittadino
portoghese a tutti gli effetti, in servizio a Luanda e a Lourenço Marques negli anni di
grazia 1964-1968. Così, miei cari stronzetti, con questo uccello. E mentre diceva
questo si aprì i pantaloni e mostrò il sesso, lo agitò avanti e indietro e orinò contro la
notte. E poi si chiuse i pantaloni e disse: con questo uccello ho difeso la nostra razza,
stuprando le figlioline di quei figli di puttana del MPLA che tendevano imboscate ai
nostri eroici soldati che avevano lasciato i loro focolari per andare a difendere quei
paesi di zulù dal comunismo. E le ho stuprate per bene, come si deve, e erano tutte di
età indefinita, ma, potete credermi sulla parola, tutte inferiori ai tredici anni, perché a
tredici anni le negre sono già donne fatte, io me ne intendo. E dopo che me le ero
godute perbenino, con questa mia amica pistola, che io chiamo Maria de Lourdes,
perché mi ha sempre protetto, con questa mia amica pistola completavo il lavoro
saggiando a quelle puttanelle il deretano, vale a dire che gli infilavo la canna nel
culetto, e loro come si dimenavano, oh, se aveste visto, e io, pum pum, due colpi, solo
due, giusto per forargli gli intestini, e dopo questo trattamento intensivo avreste
dovuto vedere i loro padri come diventavano loquaci, denunciavano perfino i fratelli,
tutto dicevano dopo che le loro figlioline gli venivano restituite con due pallottole nel
pancino, perché di figlie quegli attivisti ne avevano molte, eh sì, proprio tante, i negri
fanno un sacco di figli, ma noi per fortuna abbiamo un sacco di pallottole.
Fu allora che Joana uscì dalla macchina barcollando, si accostò a un albero e vi
restò piegata in due, come se vomitasse, e la sentirono gemere, e poi ridere, come se
avesse un attacco isterico o uno strano malore, e in un attimo, mentre gli altri due
corsero a sorreggerla, la Mercedes nera era già lontana, silenziosa, videro i fanalini
dei freni che si accendevano all’incrocio col Parque Eduardo VII, e Michel e Tiago
dissero: Joana, ti portiamo a casa. Ma lei disse di no, che voleva riprendersi all’aria
fresca della notte, e poi che voleva evitare di incontrare qualche familiare in casa, no
grazie, che la accompagnassero fino al portone e poi la lasciassero pure, aveva voglia
di restare un po’ sola. Così gli altri due se ne andarono, uno accanto all’altro e a testa
bassa, come se fossero colpevoli, colpevoli di cosa, poi, e quando si girarono per farle
ciao con la mano videro che lei sorrideva con un sorriso incongruo e allarmante.
Questa storia dovrebbe finire a questo punto, quando tutti si erano allontanati,
ciascuno per conto suo, nella notte: via le persone che quella notte sinistra aveva
legato assieme nello stesso destino, via quella macchina e il suo turpe abitante, e via
perfino la notte, che era al suo colmo e stava per cedere a un nuovo giorno che stava
spuntando. Ma chi immaginava come avrebbero dovuto essersi svolti i fatti quella
notte, a questo punto sentiva uno struggimento indefinibile, e una pena, come se
quella vicenda dovesse concludersi, sciogliersi, o trovare una piega nella quale
nascondere se stessa e ciò che aveva provocato nell’animo di qualcuno. E allora, per
tentazione, per pura tentazione, l’immaginazione di colui che pensava a quella notte
si metteva a seguire Joana che scendeva per il viale, perché Joana non entrava a casa,
si metteva a scendere verso la Braancamp, e lui la seguiva mentre lei attraversava la
Alexandre Herculano, Joana camminava piano, come se non avesse fretta e tutto
fosse ineluttabile; la vedeva percorrere il tratto finale della Rodrigo da Fonseca dove
ci sono alberi di jacaranda, svoltare nella Rua de Sào Mamede, prendere la Rua da
Escola Politècnica, e poi la Rua Dom Pedro Quinto, toc-toc, i suoi tacchi risuonavano
sul selciato, non c’era proprio nessuno in quella fredda notte del
millenovecentosessantanove, Joana arrivava davanti al portone della casa di Tadeus e
sul portone, con la spalla appoggiata allo stipite, c’era lui, Tadeus, che non le diceva
niente, ma le sorrideva come se dicesse: ti aspettavo, lo sapevo che saresti venuta, che
non avresti resistito alla tentazione. E allora lei annuiva, come se ammettesse che era
venuta perché doveva e non si può resistere alle cose che si devono fare; si piegava
sul rigagnolo che correva accanto al marciapiede e prendeva fra le braccia la cernia
boccheggiante e diceva a Tadeus: non si può lasciare morire qui questo povero
animale, dobbiamo portarlo dentro, dargli dell’acqua, e lui si scostava in silenzio per
lasciarla passare. E mentre Tadeus chiudeva il portone, chi immaginava quella notte
immaginò bizzarramente che salissero le scale a cavalcioni di quella cernia
moribonda: e, curioso, che la cernia, guizzando con i suoi esausti colpi di coda,
salisse la spirale delle scale una volta, due volte, tre volte, fino a entrare in un vortice
che evadeva da quella casa e attraversava pareti e tempo; caparbia, oleosa, moribonda
ma instancabile: avanti, anno dopo anno, mentre la vita passava, anni e anni, per
approdare un giorno fino a lui, la cernia; lui che ora stava immaginando quella notte
di tanti anni prima. Fino a lui e fino a dove?
Staccia buratta
Era il momento di pensarci, era proprio il momento di pensarci, del resto non
aveva altro da fare se non pensarci. La sala d’aspetto era deserta. Era una stanza
disadorna, con delle panche e un vecchio tavolo. Ma almeno era calda. Entrò e posò
la valigetta sul tavolo. Ecco, pensare alla sua storia. Che cosa avrebbe scritto se
avesse dovuto scrivere la sua storia? Si sorrise allo specchio che fiancheggiava un
cartello delle ferrovie. Non sei vecchia, si disse, non sei ancora vecchia. Alzò un dito
e mentalmente si ammonì. Ma non sei più giovane, non sei più una ragazza. Si sorrise
ancora. Pensò: sei una donna con una storia. Ma com’era questa storia? Che cosa
avrebbe scritto se avesse dovuto scrivere la sua storia? Il problema era da dove
cominciare. Dove comincia una storia? Pensò che le storie non cominciano, le storie
accadono e non hanno un principio. O almeno quel principio non si vede, sfugge,
perché era già iscritto in un altro principio, in un’altra storia, il principio è solo la
continuazione di un altro principio. Però da un punto bisogna comunque cominciare,
e lei si disse che avrebbe cominciato con Edoardo. Edoardo era l’inizio, ma era anche
la fine di qualcosa, certo. Era la fine della fanciullezza, dell’ingenuità, di un modo
spaventosamente infantile che lei aveva avuto di porsi nella vita fino ad allora.
Edoardo, il bel tenebroso. Bello, intelligente, dominatore, sicuro di sé: con la
spocchia di chi capisce la gente alla prima occhiata, con la consapevolezza della
propria intelligenza, aveva eletto in lei la sua gregaria. Erano giovani, allora, e a lei
fare la gregaria sembrava una normale condizione di vita; per questo aveva accettato
di essere la sua “piccola negra”, di fare le ricerche per il libro che tutti aspettavano da
lui. E a ripensarci era stato quasi bello. Allora abitavano in una piccola città
attraversata da un fiume, una città dolce e tranquilla che lei amava percorrere di
mattina in bicicletta seguendo i viali alberati del lungofiume per entrare nelle viuzze
umide del centro medievale. Arrivava alla biblioteca universitaria ed entrava nel
cortile austero. La biblioteca era uno stanzone con grandi finestre a ogiva, conosceva
perfettamente il bibliotecario, lo chiamava con confidenza signor Jacopino, era un
vecchietto cerimonioso che portava una vestaglia nera, questi sono i libri che ha
ordinato ieri, signorina, diceva il signor Jacopino, e lei si metteva al lavoro. Sapeva
perfettamente quello che serviva a Edoardo. Trascriveva, e le ore passavano svelte. In
un attimo sulla città calava il crepuscolo e si accendevano le luci. Si alzava dal tavolo
e andava a una finestra. Guardava trasognata gli alberi del lungofiume e i tetti del
centro storico. Forse si sentiva felice. La sera tornava a casa piena di entusiasmo.
Edoardo la aspettava in salotto, aveva un’aria soddisfatta, oggi ho scritto tutto il
giorno, diceva, sei una ragazza meravigliosa, sai esattamente cosa mi serve, il libro
sta venendo in modo sublime, mi mancano solo tre capitoli e poi è finito. E lei sentiva
una stretta al cuore. Che cosa avrebbe fatto, dopo? La sua semplice vita consisteva in
quello, cercare la bibliografia per Edoardo, passare le giornate in biblioteca,
chiacchierare col signor Jacopino, quella era la sua vita di piccola gregaria
insignificante e felice, mentre Edoardo la guardava con occhi ironici ma teneri, lui
passava le sue giornate ai caffè del lungofiume, era lì che scriveva il suo libro, e la
sera era affabile e scherzoso, perché lui di scherzi se ne intendeva, e le faceva qualche
scherzo innocente, come lasciarle sul tavolo un biglietto che diceva “non tornerò più”
o nascondersi nello stanzino della dispensa per poi balzare fuori mandando un urlo
terrificante, ti è piaciuto lo scherzo?, le chiedeva, e lei rideva solo per fargli piacere.
Edoardo voleva che fosse ben chiaro che lui di scherzi se ne intendeva, non per nulla
stava scrivendo un libro sullo scherzo nella letteratura barocca: anagrammi,
crittografie, polisemie, mnemoniche, paranomasie; erano il suo campo di indagine. Il
gioco, anzi, la giocosità, era questo il suo spirito, e con quel libro avrebbe vinto il
posto all’università, bisognava solo attendere un po’ di tempo, intanto il padre di
Edoardo passava loro un mensile per campare, anche il padre di Edoardo era una
persona giocosa, anche a lui piacevano gli scherzi, quando veniva a trovarli e si
fermava a pranzo inventava sempre qualche scherzetto e lei fingeva di divertirsi, per
esempio nascondeva il tovagliolo sotto il sedere e diceva che il servizio non era
perfetto, lei stava al gioco e si confondeva chiedendo scusa, si portava una mano alla
bocca come se arrossisse, allora lui trionfante tirava fuori il tovagliolo e lei
esclamava: “oh, papà!”.
Ma i veri scherzi non sapeva cosa fossero, Edoardo. Ci pensò lei a giocargliene
uno sul serio. A ripensarci non si rendeva conto di come fosse potuto succedere.
Diciamo che era stato un impulso, e lei non aveva saputo resistere. Era una bella
giornata di primavera, lei attraversava i viali del lungofiume in bicicletta, la natura si
stava risvegliando, i caffè erano pieni di gente. All’improvviso sentì il desiderio di
vedere Edoardo, di passeggiare con lui, di passare la mattinata seduta di fronte a lui in
un bel caffè all’aperto, discorrendo di cose senza importanza. Prima pensò di
telefonargli, ma poi le sembrò infantile. Allora si affrettò verso casa, affannandosi
sulla bicicletta, rossa e felice come una bambina. Fece le scale di corsa. Edoardo,
Edoardo, chiamò. La casa era deserta. Si aggirò per le stanze perplessa, senza sapere
cosa pensare. Poi, sulla scrivania, trovò il biglietto. “Il libro è finito. Sono esausto.
Vado a trovare mio padre. Torno domani”. Così, con un biglietto secco e
impersonale, Edoardo la informava che aveva finito il libro. Finito. E con il libro,
pensò lei, erano finite anche le sue giornate in biblioteca, le sue ricerche, le
chiacchiere col signor Jacopino, la vita che aveva fatto per quasi due anni. Sentì una
grande rimpianto per tutto quel tempo trascorso, e anche un enorme vuoto. E ora, che
cosa avrebbe fatto ora? Come avrebbe affrontato la sua vita, il suo tempo, il senso
della sua giornata? Fu un impulso. Prese il dattiloscritto e cominciò a sfogliarlo.
Edoardo scriveva bene, sapeva fare i collegamenti necessari, era un uomo colto,
dotato di un’intelligenza sistematica e puntigliosa. Ma quel libro non era di Edoardo,
apparteneva a lei, era fatto di infiniti momenti, di ricerche, di copie, di giornate
passate in biblioteca, di passeggiate in bicicletta. Quel libro era la sua giovinezza, lo
sentiva. Infilò il dattiloscritto nella borsa. Questo fu l’impulso. Lasciò sulla scrivania
solo la prima pagina nella quale c’erano il titolo e il nome di Edoardo e, in fretta, vi
scrisse con la matita rossa: “a Edoardo, per scherzo”. Poi fece i suoi piani con calma.
Si cambiò, preparò la valigia, guardò l’orario dei treni, scelse una città lontana, nel
Nord, perché ora aveva bisogno di una grande città, finite le piccole città, le
passeggiate sul lungofiume, le dolcezze della provincia: appartenevano alla sua
giovinezza, e la sentiva trascorsa.
Si trovò bene in quella grande città del Nord. E la pubblicazione del libro dette i
suoi frutti, sistemarsi le fu facile, e un grande settimanale le affidò la direzione di una
rubrica di libri. Pensò che era opportuno occuparsi soprattutto dei libri che
riguardavano la specialità per la quale tutti ormai la conoscevano, e la sua specialità
erano gli scherzi. Ogni genere di scherzi: gli scherzi linguistici, le bizzarrie, i
grotteschi, i romanzi espressionisti, le invenzioni verbali, insomma, in una parola, il
nuovo barocco. E il caso voleva che quegli anni fossero prodighi di simili prove
letterarie. Vuoi per la moda, vuoi perché davvero tutti gli scrittori si erano scoperti
improvvisamente una vena di estro avanguardistico, fiorivano le invenzioni formali,
le prove letterarie, o quella che si chiamava “la ricerca”. Cominciò un periodo di
avventure. Perché quello che contava era proprio l’avventura, i libri non contavano,
in fondo. L’importante era cercare, vivere quel momento euforico, quasi
febbricitante, in cui tutto stava scoppiando, il mondo, la società, le convenzioni: e
anche le parole scoppiavano, anche le parole erano frenetiche e febbricitanti. La
scoperta di Céline avvenne allora. E fu una scoperta che la turbò. Céline entrò
casualmente nella sua rubrica di libri per una semplice recensione e da allora le cose
non furono più uguali. Con lui capi che i libri invece erano importanti: Céline era una
mina che deflagrava fra le gambe dei benpensanti, era un enorme scoppio,
un’esplosione di viscere che rimetteva tutto in questione: l’ordine, la società, i
sentimenti. Con la lettura di Céline aveva capito che il passato non poteva più essere
uguale.
Ah, il passato, pensò, sono stanca del passato, sono stanca dei prodromi, tutto
questo appartiene alla mia preistoria, ma la mia storia non comincia qui, se dovessi
scriverla non comincerei mai da questo punto.
Aveva bisogno di bere qualcosa, all’improvviso ne sentì tutta la necessità.
Qualcosa di forte che le risvegliasse il morale, che la riscaldasse. Uscì dalla sala
d’aspetto con la speranza che ci fosse un bar, prima non ci aveva fatto caso. La
stazioncina era deserta. In fondo, vicino all’ingresso, vide una porta sovrastata da
un’insegna di Tabacchi, con una luce al neon rosa, vi si diresse con la speranza che
oltre alle sigarette vendessero anche dei liquori.
Più che un bar sembrava uno spaccio, ma poteva bastare. Il barista, un ragazzotto
col viso devastato dall’acne, occupava il tempo giocando al flipper. Il locale era
deserto, c’era solo un uomo anziano con una borsa che sedeva a un tavolo. Avrebbe
avuto voglia di un gin tonico, ma il ragazzo disse che non aveva acqua tonica, solo
gassose. Si fece dare un whisky abbondante e lo bevve come se fosse una medicina,
aspettando un effetto che non venne, perché continuava a sentirsi gelata. Ma si
accorse che il freddo le veniva da dentro, e questo la allarmò, le insinuò una strana
paura. Sbirciò il signore anziano e lui si sollevò un attimo il cappello in segno di
riverenza.
“Pare che ci siano dei problemi”, disse il signore anziano con aria fra il misterioso
e il rassegnato.
Lei lo guardò in modo interrogativo.
“Me lo ha detto il capostazione”, specificò il signore anziano, “un’interruzione
sulla linea, pare che sia successo un incidente o qualcosa del genere”. E fece un
sorriso mesto.
Lei pagò e uscì. Stava calando la sera, e con la sera la nebbia. Intorno ai fanali
c’era un alone azzurrino. Dio, perché aveva scelto il treno? Tre ore di viaggio, due
coincidenze, e ora quella ferrovia secondaria come ultima tappa. Se lo avesse
consentito sarebbero venuti a prenderla in macchina, avrebbe fatto un viaggio
comodo e tranquillo; e invece aveva detto di no, che preferiva il treno. Che stupida.
Solo perché temeva che durante il tragitto i suoi accompagnatori le ponessero qualche
domanda sulla sua fede o intonassero Giovinezza o qualche altra canzone nostalgica.
Si dette dell’ingenua. Aveva di loro un’immagine stereotipa che non corrispondeva a
un bel niente, questi erano giovani efficienti, seri, ben vestiti, non avevano niente a
che fare col ciarpame fascista, erano dei ragazzi di destra intelligenti e svegli che
volevano riscoprire la cultura di destra. Si avvicinò ai binari e accese una sigaretta.
Provò a pensare a un’altra ipotesi e un brivido le corse per la schiena; vide una sede
con una bandiera italiana e qualche gagliardetto, un pubblico di vecchietti stizzosi e
di vecchie incipriate, qualche ragazzetto fanatico: luoghi che già conosceva. Chiuse
gli occhi e a fatica cancellò l’immagine. Non era così, ne era certa. Era un circolo
giovanile, non un covo di nostalgici; erano giovani curiosi e fervidi. L’ipotesi la
tranquillizzò. L’ipotesi, si disse, va bene con la mia storia. Che buffo, il pensiero
ritornava come se le stesse ponendo un questionario, come se la assillasse. La sua
storia. Certo la sua storia non cominciava con Edoardo, con lui finiva soltanto. Ma se
avesse dovuto raccontarsela, questa storia, da dove avrebbe cominciato? Si mise a
camminare lungo il binario. È una bella sera d’inverno, si disse, c’è un po’ di nebbia,
il treno è in ritardo, ti aspettano in una cittadina per sentire una tua conferenza, sei
sola, hai tempo, nessuno ti cerca, è proprio il momento di raccontarti la tua storia.
Accese un’altra sigaretta, se la lasciò tra le labbra e infilò le mani nel cappotto. Il
fatto era, però, che non aveva voglia di raccontarsi questa storia. Sentì di nuovo
quella sgradevole sensazione di freddo: una pozza di gelo dentro lo stomaco che le si
irradiava nelle braccia e nelle gambe. Sei una stupida, si disse, sei proprio una bella
stupida, non ti ricordi più che da ragazzina volevi fare l’attrice? È strano come si
dimenticano facilmente le ambizioni della giovinezza. Ma ora se le ricordava, certo, e
in fondo aveva compiuto il suo destino, era stata una grande attrice, per tutta la vita
aveva interpretato una sola commedia. O un solo dramma, forse era più giusto dire un
dramma. Ma no, una commediona. Sorrise nel buio e disse: una commediona. Uno di
quei vecchi spettacoli teatrali di una volta, fatto di buoni e di cattivi, una commedia a
tinte forti, anche se recitata con leggerezza, una bella commedia che aveva per titolo
Lo scherzo. Ecco, così lo avrebbe chiamato, questo era il titolo giusto se avesse
dovuto scrivere la sua storia: lo scherzo. Anche se quello verso Edoardo forse era
stato il primo scherzo, la sua storia non cominciava con lui; quello, più che uno
scherzo, era stato una presa di coscienza. No, i veri scherzi erano venuti dopo. Erano
scherzi seri, di quelli che contano davvero. La sua rubrica sul settimanale, per
esempio, quello era un vero scherzo. Con tutta quella robaccia che aveva fatto passare
per capolavori, quelle insensate farraggini, quelle farneticazioni che lei aveva
cresimato, che aveva contribuito a diffondere, che aveva osannato. E poi era venuto
Beniamino. Povero Beniamino! Così fanciullesco, così sprovveduto, così convinto di
essere uno scrittore, così amante delle parole, così fiducioso nella letteratura. Perché
Beniamino lo aveva amato davvero, non era stato come con Edoardo e con gli altri,
era stato un sentimento forte, maturo, responsabile. Lo aveva amato e aveva sofferto
per lui, quando gli aveva giocato quello scherzo. Forse anche per quel suo difetto di
pronuncia, poteva sembrare buffo ma era proprio così, proprio perché lui tartagliava,
inciampava nelle parole. Uno scrittore espressionista che inciampava nelle parole,
sembrava paradossale, ma Beniamino era fatto così, specie quando si emozionava,
allora si bloccava sulla prima sillaba, il suo collo era scosso da un tic nervoso, il
gargarozzo gli andava su e giù, non c’era verso di sbloccarlo. Se lo rivide davanti, la
sera in cui gli annunciò che aveva accettato quell’offerta. Beniamino tentò subito di
dire qualcosa, ma la sua voce vacillò, spalancò gli occhi, sembrava un bambino
meravigliato, ascoltami Beniamino, gli diceva lei con pazienza, l’avanguardia è
finita, sono finite tutte le avanguardie, volevi fare la rivoluzione con i tuoi libri, ma i
libri non fanno le rivoluzioni, guarda, è finito tutto, è finito il movimento, sono finiti
gli studenti, guarda in giro, ci sono quattro disperati, stiamo andando nella direzione
sbagliata, io sto solo cambiando direzione, e poi Céline non era dei nostri, non lo è
mai stato, siamo noi che lo abbiamo arruolato, ma lui era un uomo di destra, che male
c’è se lo dico, dico solo la verità, ebbene, ho accettato di fare questa prefazione ma
non sono i soldi che mi hanno convinta, forse è un libro infame, ma le cose infami le
ha scritte lui, siamo noi che le abbiamo sempre rimosse, scusami, io sono così, cerca
di comprendere.
Tirò fuori un’altra sigaretta. Stai fumando troppo, si disse. Ma aveva voglia di
fumare, le dava l’impressione che il fumo le sciogliesse il gelo che sentiva nello
stomaco. Si disse che quello era stato un brutto scherzo, ma non solo a Beniamino.
Anche a se stessa, certo. E in fondo anche a Céline, perché lei era andata più avanti di
Céline, gli aveva dato un’etichetta, lo aveva acchiappato nelle sue debolezze e nei
suoi rancori, lo aveva ridotto, addomesticato, reso conforme a un’idea. Non ci
pensare più, si disse, basta di pensare alla tua storia, mi hai stufato. Aveva lasciato la
valigia nella sala d’aspetto. Vi si diresse debolmente, come se quella sala d’aspetto
fosse una sorta di destino e più niente contasse. E infatti, che cosa contava? Se lo
chiese, dette un calcio al pacchetto di sigarette vuoto e si chiese: che cosa conta? Una
vocetta infantile e beffarda che saliva dal gelo che sentiva nello stomaco disse:
contano i bambini. E per un attimo rivide se stessa bambina, un esserino con le trecce
scure, una giornata d’estate, un giardino, una pergola, qualcuno che la cullava, che le
accarezzava i capelli, ma non riuscì a mettere completamente a fuoco l’immagine.
Avrei sempre voluto un bambino, si disse, perché non l’ho mai voluto?
Sulla porta della sala d’aspetto il signore anziano che aveva incontrato al bar stava
parlando col capostazione. “È un grosso problema, signora”, disse con aria
dispiaciuta il capostazione, “non so proprio che dirle”, e si allontanò. Lei guardò in
modo interrogativo il signore anziano e lui spalancò le braccia. “C’è un’interruzione
sulla linea”, disse, “pare che ci stiano lavorando, ma è una ferrovia secondaria, ci
vorranno almeno due ore”. La guardò e sorrise con aria complice. “L’ho
riconosciuta”, sussurrò, “ho visto la sua fotografia sul manifesto in città, lei è quella
della conferenza”. Poi si fece serio e disse: “il titolo non mi piace, non promette
niente di buono”. La sua voce diventò quasi sprezzante, o così parve a lei: “il nostro
camerata Céline”, aggiunse il signore anziano facendo una lieve smorfia, “credevo
che queste cose fossero state ingoiate dal tempo”.
“Il titolo non è di mia responsabilità”, rispose lei quasi con veemenza. Si diresse
alla sua valigetta e l’afferrò con decisione. “Senta”, disse poi, “impegnamo il nostro
tempo più utilmente, abbiamo due ore di attesa, forse potremmo andare in un
ristorante a mangiare qualcosa”. Dentro di sé sentì che era una supplica, ma forse il
signore anziano non se ne era accorto.
Ecco, ora stava meglio, si sentiva più serena, più calma, e la presenza di quel
signore anziano dai modi urbani la tranquillizzava, lo avvertiva. Perché era bello e
rassicurante stare in quel ristorante vecchiotto e simpatico col cameriere che
aspettava pazientemente le loro ordinazioni.
Devi fare in modo che non tocchi di nuovo l’argomento, si disse, e per un po’ ci
riuscì, parlò praticamente solo lei, parlò del tempo, di viaggi, dei treni, di un viaggio
che non aveva mai fatto e che descrisse nei minimi particolari. Ma durante una
piccola pausa lui ritornò sull’argomento. Disse il proprio nome e cognome e
aggiunse: “mi scusi se poco fa sono stato brusco, signora”.
“Non credo che sia stato brusco”, rispose lei con la speranza che il discorso finisse
lì.
“Sì”, insistette lui, “sono stato brusco, ma devo essere franco, non mi piacciono i
fascisti”.
“Se è per questo non si preoccupi”, tagliò corto lei, “non piacciono neanche a me”.
Osservò con attenzione l’espressione che la sua affermazione provocava sulla faccia
di lui. Era un’espressione di meraviglia infantile, ed era curiosa un’espressione di
meraviglia infantile sul volto di un uomo anziano, lo rendeva vulnerabile e disarmato.
“Non capisco”, ribatté lui seriamente.
Anche lei sentì che doveva essere seria, e in fondo lo era davvero, certo, ora lo
sentiva con forza, con la serietà che le davano l’ambiente e quella persona perbene,
sentiva di aver detto la verità, perché quella era la verità, la sua profonda verità che
non sarebbe mai riuscita a spiegare a nessuno. “Non credo che potrebbe capire”, disse
con tono fermo, “mi creda”.
E allora lui, con delicatezza, cominciò a parlare d’altro. Prima si mise a raccontare
di quella cittadina, e poi, inevitabilmente, ma sempre con delicatezza e con pudore,
cominciò a parlare di se stesso e della sua vita. Come le piaceva starlo a sentire!
Provò di nuovo quella sensazione di serenità e di benessere. Era bello ascoltare un
uomo che le parlava; mentre ascoltava quella voce rassicurante poteva pensare ad
altro, fuggire per un momento lontano e poi tornare a prestare attenzione e poi fuggire
di nuovo lontano, tanto lui raccontava una vita banale e prevedibile. Era vedovo,
questo lo aveva immaginato, chissà perché. Ed era in pensione, anche questo lo aveva
immaginato. Era stato professore di latino in un liceo della piccola città vicina dove
ora viveva la figlia, sposata e con due bambini. Lui invece viveva lì, in quel paesone
a cinquanta chilometri dalla cittadina, si era ritirato a vivere lì perché non voleva
abitare con la figlia e il genero, aveva una casetta che era appartenuta ai suoi genitori
e dove aveva trascorso la giovinezza, ma andare a trovare la figlia era facile, la linea
era ben servita, almeno quando non succedevano incidenti come ora, quella sera stava
appunto andando a trovare sua figlia, comunque l’aveva già avvertita del ritardo, le
aveva telefonato. E poi le parlò di sua moglie, di una vita felice, era morta da quattro
anni, si sentiva molto solo. Parlò della solitudine, di una vita grigia e squallida in
quella provincia stupida, della noia, della malinconia. La sua unica compagnia erano i
classici latini. E poi aveva un gatto. Come se si riscuotesse all’improvviso dalle sue
meditazioni ad alta voce guardò l’orologio con aria allarmata. “Bisogna andare”,
disse, “altrimenti rischiamo di perdere il treno”.
Fu allora che a lei venne l’idea. Non avrebbe saputo dire perché le venne, forse per
il luogo caldo e ospitale, o perché fuori era buio, o perché lui parlava con quella voce
tranquilla che le dava sicurezza. “Questo ristorante è anche albergo”, disse, “restiamo
qui”.
Osservò ancora con attenzione la meraviglia che si dipingeva sul volto di lui, di
nuovo una meraviglia fanciullesca, indifesa; lo guardò negli occhi e lui sfuggì il suo
sguardo e guardò in giro per la sala come se temesse qualcosa, come se qualcuno
avesse potuto sentire, poi tossì leggermente e balbettò: “perché proprio con me?”.
“Perché siamo soli entrambi”, rispose lei, “anche per questo”.
“E la sua conferenza?”.
“Vedrò”.
“Ma la staranno aspettando”.
“Supponiamo che gli faccia uno scherzo”.
“Ma io qui sono conosciuto”, riprese lui, “voglio dire, non vorrei che…”.
“Possiamo sempre prendere due stanze”, lo interruppe lei, “così nessuno avrà
niente da ridire”.
Lui fece un sorriso mesto e con una mano le sfiorò la mano. “Ma io sono vecchio”,
sussurrò.
“Completamente?”, chiese lei.
“No”, disse lui, “forse no, non saprei dirlo”.
Perché, si chiese, perché? Solo perché fuori era buio e il buio le faceva paura, o
perché non voleva tornare a provare quel gelo nello stomaco che l’aveva stretta in
quella terribile morsa? Era un vecchio, un uomo malinconico e stanco che forse le
avrebbe pianto sulla spalla e le avrebbe raccontato della moglie morta. O c’era
qualche altra oscura ragione, una ragione che si annidava sotto, in una zona profonda
dove non arrivavano né la sua ragione né la sua volontà, in una zona che teneva
accuratamente chiusa e della quale aveva perduto la chiave? Si guardò allo specchio
dell’armadio. La stanza era umile, un po’ squallida. Depositò la sua valigetta su una
sedia e si spogliò lentamente, piegando con cura il vestito. Lui bussò alla parete, era il
segnale convenuto, ma lei non gli rispose, perché sentì che aveva ancora bisogno di
tempo. Forse una doccia ben calda le avrebbe fatto bene. Ma nel bagno non c’era la
doccia. Aprì i rubinetti della vasca e aspettò che si riempisse. Quando la vasca fu
piena le venne un’idea assurda, che buffo, sentì il desiderio di fare un bagno in
compagnia di una barchetta di carta, era un secolo che non faceva una barchetta di
carta, ma avrebbe saputo ancora costruirne una. Si chiese quale carta poteva
utilizzare. Guardò in giro ma non vide niente che facesse al caso suo. Allora pensò al
libro di Céline. Aprì la valigia e lo prese. Strappò l’ultima pagina della prefazione,
quella dove c’era il suo nome e cognome. Così, trasformata in barchetta di carta, le
parve che quella pagina risorgesse a un’altra vita. Si immerse nell’acqua e si fece
scivolare la barca sui seni, poi la lasciò galleggiare tranquillamente. Si asciugò con
cura e si infilò nel letto. Avrebbe potuto bussare alla parete, ma pensò di lasciar
passare ancora qualche minuto. Aveva voglia di dire qualcosa a voce alta, di sentirsi
parlare. Aveva voglia di una cantilena, e si mise a pensare alle cantilene che qualcuno
le aveva cantato nella sua infanzia. Prese un cuscino fra le braccia e cominciò a
cullarlo. “Staccia buratta, gattino della gatta, la gatta va al mulino, a fare un
focaccino…”. No, non erano quelle le parole che avrebbe voluto dire, avrebbe avuto
voglia di dire qualcos’altro, ma non sapeva cosa. Sentì bussare alla porta e si tirò il
lenzuolo fino al mento. Lui entrò timidamente, chiedendo permesso, chiuse la porta a
chiave e sorrise. Si vedeva che era imbarazzato. Si era fermato in mezzo alla camera
e la guardava con un sorriso impacciato, senza muoversi. Lei fece scivolare il
lenzuolo e si scoprì il seno. Lui distolse lo sguardo rapidamente, attraversò la stanza e
si fermò tra l’armadio e la poltrona, dove cominciò a spogliarsi. Le girava la schiena,
così lei poteva osservarlo senza essere vista. Sentì che non voleva osservarlo, ma
qualcosa le impediva di distogliere lo sguardo. Non le piaceva guardarlo e allo stesso
tempo ne era attratta. Era un uomo corpulento, con una grossa pancia flaccida. Si
accorse che su una natica aveva una voglia, una grossa macchia scura e vellutata, e
questo le dette un brivido, le fece provare un formicolio nelle mani, come una piccola
scossa elettrica. Si chiese se era repulsione o un’altra sensazione, ma non aveva
voglia di pensarci. Lui si infilò nel letto e spense la luce. Fu una cosa molto difficile,
e lei cercò di aiutarlo. “Te l’avevo detto che ero vecchio”, disse lui. Ansava, e il suo
fiato era pesante. Lei sentì che doveva astrarsi, che doveva essere lontana, che non
doveva pensare a quel vecchio che si agitava penosamente sopra di lei, pensò alla
barchetta di carta della vasca da bagno e questo le dette conforto.
Lui si era addormentato come un bambino, respirandole pacatamente fra i capelli.
Lei allungò la mano e accese la luce del comodino. Ora sapeva quale era la cantilena
che avrebbe voluto pronunciare, ma non era una cantilena, era una preghiera. Scivolò
fuori dal letto e si inginocchiò sul tappeto. Congiunse le mani, con i gomiti
appoggiati al letto. Era una preghiera che apparteneva a un passato lontanissimo, al
passato di una bambina con gli occhi grandi e le treccine scure. “Angelo custode, che
sei il mio guardiano, sorveglia e custodisci me…”. Non sapeva andare avanti, non
ricordava altro. Girò la testa e si guardò nello specchio dell’armadio. Fu allora che lo
vide. Era un piccolo angelo custode che, alle spalle di una donna nuda inginocchiata,
teneva le ali spalancate in segno di protezione. E quell’angelo aveva il volto di una
bambina con gli occhi grandi e le treccine scure. Ma il volto era di una bambina
vecchia, e le ali non avevano piume, ma un pelame scuro e raso come quello di un
topo. Fu un attimo. Nascose la testa fra le mani e tornò a guardare lo specchio:
l’angelo era sparito.
Dapprima non si accorse di piangere, sentì solo le lacrime che le bagnavano il viso.
Poi venne il singhiozzo, cercò di soffocarlo con una mano, ma non ci riuscì. Lui si
svegliò e la guardò. Sul suo volto si dipinse ancora la solita espressione di meraviglia
infantile. “Che cos’hai?”, le chiese a bassa voce, “che cos’hai?”.
“Vai nella tua stanza, per favore”, rispose lei trattenendo i singhiozzi, “vai nella tua
stanza”.
Il battere d’ali di una farfalla a New York
può provocare un tifone a Pechino?
“Io sottoscritto, cognome e nome, desidero rendere piena confessione di tutte le
azioni che ho commesso in nome di fraintesa giustizia ispiratami da individui che
hanno approfittato della mia semplicità; azioni delle quali ora sono fermamente
pentito”.
Il signore vestito di azzurro si asciugò il sudore con il fazzoletto, guardò il suo
interlocutore con aria assente, come se non ci fosse, e proseguì: “la sua confessione
deve cominciare esattamente così, e sottolineo la parola pentito, non so se lei ha
capito bene il senso, se non lo avesse capito, e mi rendo conto che lei a prima vista
non lo abbia capito, sappia che tutto quello che dirà è basato sul suo pentimento, tutta
questa storia è basata sul suo pentimento. Dimenticavo un particolare, lei ha un nome
in codice col quale noi abbiamo deciso di battezzarla e col quale d’ora in avanti la
chiamerò, o la chiameremo se ce ne sarà la necessità. Lei è il signor Farfalla,
all’occorrenza le spiegherò perché”.
L’uomo con i capelli grigi che gli sedeva di fronte si guardò intorno come se
cercasse una via d’uscita. Sudava, e il suo volto era paonazzo. “Vorrei sapere
perché proprio io“, disse, “insomma, perché proprio io, insomma”.
Il signore vestito di azzurro fece un lieve cenno di impazienza con la mano che
reggeva il fazzoletto. “Ah, signor Farfalla”, disse, “questa poi non avrei voluto
sentirmela dire”. Si asciugò con dei tocchetti leggeri il sudore della fronte e sospirò.
“Lei è un impudente, uno sfacciato impudente, però deve mantenersi su due binari: la
parte dello sfacciato impudente, ma sommerso dal rimorso, deve farla con i giudici;
con noi deve essere umile, anzi, umilissimo. Ma poiché sembra che ancora non abbia
imparato a mantenersi su due binari, voglio dire, visto che con noi vuol fare lo
sfacciato impudente, allora le dirò una cosa molto semplice: lei è nella merda, signor
Farfalla. E noi, che lei è nella merda, lo sappiamo molto bene. Anzi, perché nella sua
testolina tutto sia chiaro, le dirò per filo e per segno che cosa sappiamo”.
L’uomo con i capelli grigi fece un gesto con la mano come se chiedesse: no, per
favore, lasci perdere. Ma il signore vestito di azzurro non dette segno di essersene
accorto. “I debiti, prima di tutto“, disse, ”conosciamo tutti i vostri debiti, e quando
dico vostri intendo i suoi e quelli di sua sorella. Ma i debiti sarebbero il meno se non
ci fossero i ricatti, o i tentativi di ricatto. Ma i ricatti sarebbero il meno se non ci fosse
il commercio, e lei sa bene a cosa mi riferisco quando dico commercio, beh, diciamo
che questo tipo di commercio non è propriamente incoraggiato dalla nostra legge, col
suo commercio lei gioca con la vita della gente, e questo non è carino, non le pare,
signor Farfalla? Ma il suo bel commercetto sarebbe il meno se
non ci fossero le rapine. Ah, signor Farfalla, quelle rapine, lasci che glielo dica,
furono proprio una sciocchezza. E’ vero che lei era giovane, era un entusiasta, un
rivoluzionario convinto; è vero che fu per spirito di malintesa giustizia inculcatale da
persone che non avrebbero dovuto approfittare della sua semplicità, ma anche così
non si vanno a rapinare dei supermercati con una pistola in pugno, lei si chiederà
com’è che noi sappiamo queste cose, sono successe tanti anni fa, beh, le posso dire
che ci sono altre persone nella sua condizione, voglio dire fermamente pentite delle
azioni commesse, sa, il pentimento è come la catena di Sant’Antonio, se qualcuno mi
dice qualcosa di lei, lei mi dice qualcosa di un altro, e poi lei sa bene di avere agito
spontaneamente, di sua iniziativa, proprio perché era un entusiasta, lei aveva un
entusiasmo incontenibile, ma gli entusiasmi si pagano anche dopo trent’anni, non so
se lei riesce a quantificare in termini di anni di galera il prezzo da pagare, la aiuto io,
facciamo quindici anni, ah, dimenticavo di dire che in una di queste rapine ci scappò
il morto, ma lei lo sa meglio di me, dunque gli anni crescono, faccia lei il conto“.
Il signore vestito di azzurro tirò fuori il fazzoletto e si deterse con delicatezza il
sudore della fronte. Chiuse gli occhi un attimo come se fosse molto stanco, poi li
riaprì e fissò il suo interlocutore con aria interrogativa. “Vuole bere qualcosa?”,
chiese.
“Dove mi trovo?”, domandò l’uomo con i capelli grigi, “vorrei sapere dove mi
trovo”.
Il signore vestito di azzurro ebbe un gesto di disappunto, poi allargò le braccia.
“Signor Farfalla”, disse, “via, non faccia questo tipo di domande, vede, questo è
semplicemente un luogo come un altro, un palazzo come un altro, qui non ci sono
targhette sulla porta, questo è un luogo adatto a incontri anonimi, fra amici anonimi
come siamo noi”.
L’uomo con i capelli grigi si sbottonò il colletto della camicia. Rimase
sovrappensiero, si guardò intorno con aria sospetta. “Ma perché proprio io?”, disse.
Il signore vestito di azzurro si mise a giocherellare con una penna che era sul
tavolo. “Forse non le bastano le ragioni che le ho già spiegato, lei ha la scorza dura,
signor Farfalla, non le bastano le ragioni pratiche. Ebbene, se non le bastano le
ragioni pratiche verrò alle ragioni teoriche, vediamo se capisce. Perché proprio lei. È
semplice: perché lei è un infelice. E come tutti gli infelici nutre risentimento. Voglio
dire: lei odia le persone che vivono normalmente, che in un modo o nell’altro ce
l’hanno fatta, vorrebbe vederle nelle sue condizioni, cioè nella merda. Lei è la
persona ideale perché lei è un disgraziato, signor Farfalla, non so se mi faccio
capire”.
“Ma io non c’entro nulla con l’omicidio del console straniero”, disse l’uomo con i
capelli grigi, “voglio dire, sono estraneo al fatto”.
“Ma non è estraneo a tutti gli altri fatti di cui le ho parlato prima, scelga lei”, disse
il signore vestito di azzurro.
“Non so cosa dire”, disse l’uomo con i capelli grigi.
“E allora mi ascolti”, disse il signore vestito di azzurro, “le propongo un gioco.
Giochiamo a fare una bella supposizione, è d’accordo?”.
“Sono d’accordo”, rispose l’uomo con i capelli grigi.
“Molto bene, sono contento per lei”, disse il signore vestito di azzurro.
“Supponiamo ad esempio che in quegli anni lontani i capi di quel movimento politico
in cui lei allora militava le avessero ordinato di guidare un’automobile. Lei lo
avrebbe fatto? Ci rifletta”.
“Non ho bisogno di rifletterci”, disse l’uomo con i capelli grigi, “lo avrei fatto
certamente”.
“Ma lei non era solo, naturalmente: su quell’automobile c’era un’altra persona”. Il
signore vestito di azzurro si frugò in tasca e ne trasse un pacchetto di sigarette. Si
accese una sigaretta con calma e soffiò sul fiammifero. “Ebbene, supponiamo che
questa persona che viaggiava con lei avesse una pistola, non le costa troppa fatica,
spero, fare questa supposizione”.
L’uomo con i capelli grigi fece cenno di no, che non gli costava troppa fatica.
“Del resto lei ha una certa confidenza con le pistole, signor Farfalla, non sarebbe
stata la prima volta. Ma andiamo avanti. Supponiamo che la persona che lei
accompagnava avesse dovuto usare quella pistola; insomma, se i suoi capi le avessero
ordinato di accompagnare una persona che doveva usare una pistola, lei lo avrebbe
fatto? Ci rifletta bene”.
“Credo di sì”, disse l’uomo.
“Lo crede o ne è sicuro?”.
“Ne sono sicuro”.
“Bene”, disse il signore vestito di azzurro, “e adesso sta a lei continuare la nostra
supposizione. Dove suppone che avrebbe condotto l’uomo con la pistola? Ci pensi”.
L’uomo con i capelli grigi non rispose subito e si guardò i piedi. “In giro per la
città”.
“Lei conosce bene quella città, non è vero?”.
“La conosco perfettamente, ci ho abitato per tanti anni”.
“ Non si porta a spasso per la città un uomo armato, lo si conduce da qualche parte,
un luogo già stabilito”.
“Ma io non ho stabilito nessun luogo”.
“Provi a supporlo”.
“Ci provi lei”.
“Per me è facile, conosco già la storia. Vorrei che la conoscesse anche lei”.
“Allora me la dica”.
“Preferirei che fosse lei a raccontarmela. Le ho detto che stiamo facendo un
gioco”.
“Ma io non ci riesco”.
“D’accordo, ritorniamo all’inizio. Supponiamo che i suoi capi le avessero ordinato
di guidare la macchina per trasportare il killer del console fino al luogo del delitto.
Lei lo avrebbe fatto?”.
“All’epoca?”.
Il signore vestito di azzurro fece di nuovo un impercettibile segno di impazienza.
“Signor Farfalla”, disse, “non mi faccia perdere tempo, stiamo parlando proprio di
quegli anni”.
“In quegli anni sì”, disse con convinzione l’uomo con i capelli grigi, “avrei fatto
tutto quello che mi ordinavano i miei capi, in quegli anni”.
“Anche fare da autista a un assassino?”.
“Certo”, disse l’uomo con i capelli grigi, “anche fare da autista a un assassino,
avrei fatto anche questo per la giusta causa”.
“Ero sicuro che lo avrebbe fatto”, disse il signore vestito di azzurro, “e ora
facciamo una pausa, ci meritiamo una bibita”. Si alzò e si diresse a un armadio in
fondo alla stanza. Dentro c’era un piccolo frigorifero. Prese due aranciate e due
bicchieri. Stappò le bottigliette e le depositò sul tavolo. “Oggi fa un caldo torrido”,
disse, “non è la giornata ideale per lavorare, ma ci vuole pazienza”. Si sedette e bevve
con calma la sua aranciata. Poi accese una sigaretta. “Lei svolge un’attività all’aria
aperta”, continuò, “dev’essere bello lavorare all’aria aperta, sa che la invidio?”. Senza
aspettare una risposta seguitò a parlare. “E poi vive in una bella zona, vicino al mare,
io ho sempre sognato di vivere vicino al mare, forse lo farò quando sarò in pensione.
Ma a proposito, che macchina era?”.
L’uomo con i capelli grigi lo guardò con aria disorientata.
“In che senso?”, chiese.
“Come in che senso, signor Farfalla, le ho chiesto che macchina era”.
“Quale macchina?”.
“Quella che stavamo supponendo”.
“Una macchina qualsiasi”.
“Eh no, non esistono macchine qualsiasi. Le macchine hanno una marca, un colore,
una cilindrata. Esistono macchine e macchine. Ne scelga una”.
“Una Ford”.
“Perché una Ford?”.
“Così”.
“Ah no”, sospirò il signore vestito di azzurro, “la motivazione non mi convince”.
“Perché le Ford si aprono bene, insomma, perché io ci riesco”.
“Cosa intende dire?”.
“Scusi, lei non penserà che io avrei portato l’esecutore sul luogo del delitto con la
mia macchina o con una macchina imprestata da un amico”.
“Certo che no”.
“E dunque andava rubata. Per questo ho pensato a una Ford, perché per me è facile
aprirla, mi basta un temperino”.
“Bene, signor Farfalla, vedo che sta entrando perfettamente nello spirito del gioco.
Sono lieto della sua collaborazione. E dunque la Ford l’avrebbe rubata lei?”.
“Sì, l’avrei rubata io”.
“E che Ford era?”.
“Una Taunus grigia”.
“E dove l’avrebbe rubata?”.
“In corso Buenos Aires”.
“Perfetto. E ora provi a raccontarmi quella giornata”.
L’uomo con i capelli grigi abbozzò un sorriso, ma forse era una vaga smorfia. “Se
tutto questo fosse successo la colpa non sarebbe stata mia”, disse, “sarebbe stata di
chi mi avesse ordinato di farlo”.
“Certamente”, disse il signore vestito di azzurro, “ma di questo parleremo dopo,
ora provi a raccontarmi quella giornata”.
“E in fondo non sarebbe stata colpa nemmeno di chi usò l’arma”, continuò l’uomo
con i capelli grigi come se non avesse sentito, “lui sarebbe stato solo l’esecutore
materiale, la colpa sarebbe stata degli organizzatori, dei mandanti”.
“Certamente”, ripeté con pazienza il signore vestito di azzurro, “ma di questo
parleremo dopo. Ora provi a raccontarmi quella giornata. Il gioco ora passa in mano
sua, ma io posso intervenire se lo desidera”. Accese un’altra sigaretta e la lasciò a
consumarsi nel portacenere. “Forza”, disse, “cominciamo dal mattino”.
“Dalla sera”, replicò l’uomo con i capelli grigi, “voglio dire dalla sera precedente,
perché le macchine si rubano di sera, è più facile”.
“Bene, allora dalla sera”.
“Niente, insomma, voglio dire, quella sera fu una sera normale. Quella sera
cenammo in pizzeria, io e il compagno che sarebbe stato l’esecutore materiale
dell’operazione. Dovevamo metterci d’accordo sull’ora dell’incontro e su altri
dettagli”.
L’uomo vestito di azzurro fece un sorriso di soddisfazione. “Così va bene, signor
Farfalla”, disse, “vedo che comincia a usare un lessico adeguato, non sembra neppure
che lei stia improvvisando, si direbbe che non è la prima volta che lo racconta”.
“Che lo racconto a un altro sì”, sussurrò l’uomo con i capelli grigi, “è la prima
volta”.
“Ma a se stesso no di certo, ne sono convinto, la storia esisteva già, almeno dentro
di lei”.
L’uomo con i capelli grigi fece cenno di no col capo, con decisione.
“Assolutamente no”, disse con precipitazione, “le assicuro che non ci ho mai pensato,
insomma”.
Il signore vestito di azzurro aprì il pacchetto di sigarette e lo offrì all’uomo con i
capelli grigi. “Provi a fumare una sigaretta e ci rifletta bene. Senta, giochiamo questo
gioco in una maniera onesta, anche questa partita ha le sue regole, e le regole vanno
rispettate. Non siamo noi che l’abbiamo cercata, lei ci ha mandato un cenno, e noi
abbiamo capito perché ci ha mandato un cenno, mi spiego meglio, l’unico motivo è
che lei avesse voglia di raccontare una bella storia per filo e per segno. Guardi, noi
siamo furbi, signor Farfalla, non ci sottovaluti, siamo più furbi di lei, e quindi con noi
non deve fare il furbo, deve comportarsi esattamente come farebbe in confessione,
vede, a noi non interessano solo i fatti nudi e crudi, non ci confonda con dei
pragmatici, non so se capisce la parola, a noi non interessa solo quello che succede
fuori, interessa anche quello che succede dentro la testa della gente. I giochi fra noi
devono essere chiari. La chiarezza è la nostra forma di pulizia”.
L’uomo con i capelli grigi accese la sigaretta che gli era stata offerta. La sua mano
tremava leggermente. “E’ vero, avevo voglia di raccontare una storia”, disse in un
sussurro.
“Ne ero certo”, replicò brevemente il signore vestito di azzurro. “E ora scusi
l’interruzione, riprendiamo da quella sera. Dunque, la pizzeria”.
“Io ero molto nervoso, quella sera, non riuscii neppure a cenare. Il compagno
invece sembrava calmissimo, aveva appetito, mangiò due pizze coi frutti di mare”.
“Lei ha una memoria formidabile”, disse gelido il signore vestito di azzurro.
“Posso dirlo perché conosco i gusti del compagno, è una persona che adora i frutti
di mare”.
“E scusi un particolare che non è insignificante”, lo interruppe il signore vestito di
azzurro, “lei sarebbe pronto a testimoniare con assoluta fermezza sull’identità di
questa persona?”.
“Certo”, rispose l’uomo con i capelli grigi, “ci sarebbe stata una persona sola, fra
tutte quelle che conoscevo, che avrebbe avuto il fegato di sparare. Questa almeno è la
mia convinzione. Non potrebbe essere altri che lui”.
“Allora potremmo cominciare col dare anche a lui un nome in codice. Suggerirei di
chiamarlo il compagno Beretta, visto che l’omicidio fu consumato con una pistola
Beretta”.
“Io e il compagno Beretta uscimmo dalla pizzeria intorno alle ventitré e ci
avviammo a piedi verso corso Buenos Aires. Quivi giunti vedemmo una Taunus
grigia parcheggiata lungo il marciapiede e decidemmo di servircene per l’operazione
dell’indomani. La aprii io personalmente col mio temperino tascabile, quindi
partimmo, guidai io per prendere confidenza con il veicolo, accompagnai il
compagno Beretta sotto casa sua, poi mi diressi verso casa mia e parcheggiai la
vettura nei pressi della mia abitazione, a circa trecento metri di distanza. Per quella
sera è tutto. Se lo ritiene opportuno potrei cercare di passare al giorno successivo. Ma
mi resta più difficile ipotizzare il giorno successivo”.
“Più difficile perché?”.
“Voglio dire imbarazzante”.
“Non mi pare la parola adatta”.
“Ma è una cosa grave, anzi gravissima”.
“Si ricordi che lei si sarebbe limitato a guidare”.
“ Sì, ma anche così è concorso in omicidio, su questo sono informato”.
“Comunque lei lo avrebbe fatto in nome di fraintesa giustizia ispiratale da persone
che per la loro cultura non avrebbero dovuto approfittare della sua semplicità. E
quello che più conta è che lei ne è fermamente pentito. Dirò di più, travolto dal
pentimento. Un pentimento che deve confidare non solo alle autorità, ma a un sereno
confidente, a un religioso. Lei deve vivere il suo pentimento, ha voglia di espiare”.
“Ma a me non interessa come si sarebbero svolti i fatti, mi interessano le persone
che mi avrebbero dato gli ordini, era da loro che dipendevo allora, potevano disporre
di me come di un giocattolo, ero nelle loro mani, ero in loro potere, per loro avrei
fatto tutto, e poi, come mi hanno ripagato?, dimenticandomi. Mi hanno usato e
buttato via”.
“Ma per venire alle persone che l’hanno usata e buttata via deve prima passare
attraverso i fatti, ne converrà”.
“I fatti, in fondo, potrebbero essere semplici”.
“Vorrei sentirli da lei”.
“Credo che potrebbe essere la parte più semplice della storia”.
“Lei come la vedrebbe, questa parte più semplice?”.
“La vedrei così: dunque, il compagno Beretta mi avrebbe aspettato alle sei del
mattino all’angolo di via Vienna. Io sarei passato e lui sarebbe entrato rapidamente in
macchina. Poi avrei imboccato corso Washington e avrei girato in via Berlino. Lì ci
saremmo fermati, di fronte al bar tabacchi nel quale ogni mattina il console si
fermava a fare colazione. Avremmo aspettato per circa mezz’ora. Il console sarebbe
arrivato puntuale, alle sette, a piedi. Il compagno Beretta sarebbe sceso e gli sarebbe
andato incontro con noncuranza. Quando fosse arrivato alla sua altezza avrebbe
estratto la pistola con mossa fulminea e avrebbe esploso tre colpi al torace. Il console
non avrebbe avuto il tempo di cadere che noi saremmo già stati lontani, perché io
avrei aspettato con il motore acceso e sarei andato a raccogliere il compagno Beretta.
Praticamente non ci sarebbero stati testimoni. Il tabaccaio, fattosi sulla porta, ci
avrebbe potuto vedere solo di sfuggita, mentre ci stavamo allontanando. E cosa
avrebbe visto? Due persone di spalle che fuggivano su una Taunus grigia”.
“Continui”, disse il signore vestito di azzurro.
“C’è poco da aggiungere. Avrei fatto il percorso al contrario, guidando con calma
per non dare nell’occhio: corso Washington, via Vienna, corso Buenos Aires. In
fondo a corso Buenos Aires c’è piazza Varsavia, noi avremmo parcheggiato poi
saremmo entrati nella metropolitana, dividendoci, io in direzione Nord e il compagno
Beretta in direzione Sud. Che gliene pare?”.
“Mi pare molto plausibile”, disse il signore vestito di azzurro, “davvero molto
plausibile, credo che la storia non potrebbe essere raccontata meglio. Naturalmente
manca qualche dettaglio, una cosina qua, una cosina là, i dettagli sono molto
importanti per aggiungere veridicità alle storie, specie alle storie ipotetiche, non so se
mi faccio capire. E meno freddezza, più passione. E lacrime. Insomma, il tormento.
La nostra è una faccenda fondata sul pentimento, non se lo dimentichi”.
“Comunque non è questo che mi interessa”, riprese l’uomo con i capelli grigi, “non
è questa possibile storia, mi interessano le persone che avrebbero potuto darmi gli
ordini di fare tutto questo, ecco cosa mi interessa”.
Il signore vestito di azzurro si alzò e cominciò a passeggiare lentamente per la
stanza. “Ci stiamo arrivando”, disse, “stiamo arrivando al punto che interessa a lei e
che più interessa a noi. Come vede su questo punto c’è una convergenza di interessi.
Si tratta solo di trovare le persone giuste, perché i capi erano molti e forse non tutti
sarebbero stati d’accordo su un’operazione come questa. Del resto sono convinto che
una decisione del genere sarebbe stata presa in un consiglio molto ristretto, lei cosa
ne pensa?”.
“Ristrettissimo”, disse prontamente l’uomo con i capelli grigi, “e poi quello che
conta sono coloro che avrebbero potuto darmi l’ordine”.
“Quante persone?”.
“Due”.
“Senza fare nomi mi faccia intendere”.
“Quelli che chiamavano i professori”.
Il signore vestito di azzurro sorrise con soddisfazione. “Mi sembra perfetto”, disse,
“continui”.
“Fu il dieci di marzo, esattamente un mese prima dell’omicidio. In città c’era un
convegno sulla guerra nel mondo organizzato dal movimento. Erano venute anche
organizzazioni francesi e tedesche. I due professori mancavano dalla città da qualche
mese, erano andati a fare lavoro politico nel Sud. Io andai a trovarli mentre c’era una
tavola rotonda, presiedevano loro. Mi trovavo in una brutta situazione, mio figlio era
stato ricoverato per una malattia virale e il padrone di casa mi aveva dato lo sfratto.
Avevo bisogno di soldi, non di molti, ma di qualche soldo. Pensai di chiederli a loro.
Avevo fatto tutto, per loro. Avevo fatto il volantinaggio, avevo fatto l’uomo di fatica,
avevo fatto il servo del movimento. Andai a parlarci. In cinque minuti mi
congedarono, dissero che non potevano aiutarmi, che erano stanchi delle mie
richieste. Stanchi delle mie richieste. Ci vuole una bella faccia tosta. Avevo fatto tutto
per loro, qualche anno prima. Stanchi delle mie richieste. Mi congedarono dopo
cinque minuti, dicendo che avevano altro a cui pensare”.
Il signore vestito di azzurro tornò a sedersi. Aveva un’aria preoccupata, con le
sopracciglia aggrottate. “Ragioniamo”, disse, “ragioniamo. La cosa non mi sembra
convincente. Un colloquio frettoloso, con tutta quella gente intorno, non mi sembra
l’occasione ideale per ricevere un ordine così grave, i due professori non avrebbero
mai scelto un’occasione simile, è una versione che non convincerebbe nessuno”.
“Non ho scelta, è l’unica volta in cui li ho visti prima del fatto. È l’unica volta in
cui ci ho parlato. Ci sono testimoni che mi hanno visto parlare con loro, questo è il
vantaggio. Bisogna giocare su questo vantaggio”.
“E cosa le avrebbero detto?”.
“Mi avrebbero detto che l’operazione era stata fissata per il nove di aprile, che mi
tenessi pronto e che tutte le istruzioni me le avrebbe date il compagno Beretta”.
L’uomo con i capelli grigi fece una pausa e sospirò. “In questo modo posso dire che il
piano era stato dettato per filo e per segno al compagno Beretta e che fu lui che me ne
mise a parte, che io ebbi un incontro con lui successivamente, un incontro a tu per tu,
lui può negare quanto vuole”.
“Mi sembra una versione attendibile”, disse il signore vestito di azzurro, “tutto
sommato mi sembra una versione attendibile. Suppongo che può essere una versione
attendibile per tutti. Vedo che lei ha buona memoria, signor Farfalla, l’importante è
mantenerla”.
Nella stanza cadde il silenzio. In lontananza, attutito dalla distanza e dalle finestre
chiuse, si avvertiva il ronzio del traffico. Un orologio, da qualche parte, batté le ore.
“Bene”, disse il signore vestito di azzurro, “ho l’impressione che sia tutto”.
L’uomo con i capelli grigi accennò ad alzarsi ma restò seduto. “Mi scusi”, disse,
“ma ci sarebbe una cosa”.
“Ebbene?”.
“Insomma, una cosa, non so come dire, ecco, insomma, non ci vedo chiaro”.
“Sarebbe a dire?”.
“Sarebbe a dire che io conosco le ragioni per cui faccio tutto questo, ma non
conosco le vostre”.
Il signore vestito di azzurro fece un largo sorriso. Era la prima volta che sorrideva
così apertamente, con soddisfazione. “Le risponderò con una domanda, vuole
sentirla?”.
“Mi piacerebbe”, disse l’uomo con i capelli grigi.
Il signore vestito di azzurro fece un vago gesto con la mano nell’aria, un gesto
lieve, come di un uccello, e disse: “il battere d’ali di una farfalla a New York può
provocare un tifone a Pechino?”.
L’uomo con i capelli grigi lo fissò con aria torva. “Non si prenda gioco di me”,
disse.
“Non mi sto prendendo gioco di lei, è una domanda seria”.
“Allora non la capisco”.
“Non ha importanza, è una teoria dei frattali, o magari delle catastrofi. Lei sa
certamente cosa sono le catastrofi, ma forse non sa cosa sono i frattali”.
“Non ne ho la minima idea”.
“Pazienza”, disse amabilmente il signore vestito di azzurro, “ora sarebbe troppo
lungo spiegarle, e troppo complicato. Ma pensi una cosa: che siamo in un frattale.
Anche lei fa parte del frattale, un suo movimento modifica il frattale, caro signor
Farfalla, per questo deve battere le ali come si deve”. Il signore vestito di azzurro fece
un gesto stanco, piegò con cura il fazzoletto e lo infilò nel taschino. “Credo che non
abbiamo altro da dirci”, sussurrò.
L’uomo con i capelli grigi si alzò frettolosamente. Sembrava imbarazzato, come se
non sapesse come accomiatarsi. Poi fece un cenno di saluto col capo e indietreggiò
verso la porta. Quando fu in mezzo alla sala si fermò e tossì con imbarazzo. “Voi mi
avete perfino dato un nome in codice”, disse a bassa voce, “ma se io avessi bisogno
di lei non saprei chi cercare, non so come si chiama e non voglio saperlo, ma almeno
un riferimento, un nome convenzionale, insomma, non so come dire”.
Il signore vestito di azzurro si era alzato. Stava con le mani appoggiate sul tavolo.
“Lei non deve cercarmi per nessuna ragione, signor Farfalla”, disse, “ma se vuole
sapere con chi ha parlato le posso inventare un nome d’occasione. Mi consideri il
dottor Coscienza. Io mi sono trovato a essere la sua coscienza, signor Farfalla; forse
la parte più buia della sua coscienza, quella che lei non vorrebbe neppure conoscere e
che tiene accuratamente tappata con una botola. Oggi questa botola è stata aperta, e
non posso nasconderle la mia soddisfazione. E anche la mia stanchezza. Non è facile
aggirarsi per coscienze come la sua. Così è il mio mestiere, è una forma di maieutica
e la maieutica è faticosa, non so se capisce. Chissà che quando andrò in pensione non
possa svolgere un’attività all’aria aperta, magari vicino al mare, in un luogo simile al
suo. E ora addio, il mio lavoro è finito, credo che non avremo altre occasioni di
rivederci”.
La trota che guizza fra le pietre
mi ricorda la tua vita
Tanto non sarebbe venuto nessuno. Fu la prima cosa che pensò, e sentì un dolore al
ginocchio destro. Girò lo sguardo intorno guardando le pareti. I quadri gli parvero
intollerabili. Acquarelli, pensò, maledetti acquarelli. E intanto la giornata si era aperta
in un pomeriggio luminoso, il cielo era azzurro sui tetti della grande città, tetti ancora
lustri della pioggia mattutina. Ebbe voglia di spalancare la finestra, ma non si mosse.
Avrebbe potuto farla passare subito, ma decise che era meglio se aspettava un po’. La
faccia accomodare in salotto, disse alla governante, le dica che sto scrivendo. Tanto
non sarebbe venuto nessuno. Il pensiero, per un attimo, lo fece sentire più forte.
Strano, era un pensiero che lo assillava, che gli provocava una sorda rabbia, perché
voleva dire abbandono. Ma ora no, pensò, ora c’è una persona. Rise fra sé. Diciamo
una visita, piuttosto, si disse. Ah, quei quadri insopportabili. E, accanto agli
acquarelli, dei quadri a olio mostruosi, volti ritratti secondo la maniera perentoria e
crostosa degli anni Trenta, quando contava la superficie. E inoltre volti di morti.
Insopportabili. Alzò una mano e fece un cenno. Arrivederci volti morti, mormoro, fra
poco ci rivediamo. Si tolse la coperta dalle ginocchia e sentì la voglia di alzarsi.
Almeno andare alla finestra, guardare fuori, volare con lo sguardo. E invece no, non
si mosse. Canaglie, pensò, tutte canaglie. A chi mi riferisco?, si chiese. Beh, mi
riferisco a tutti. Sorrise fra sé e sé. Anzi, per dirla meglio, stronzi: tutti stronzi. Poi
guardò la fotografia di Lucrezia sulla libreria e mormorò: anzi, come avresti detto tu,
Lucrezia, tutti stronzi. Lucrezia gli sorrise dal ritratto. Con te mi intendevo, Lucrezia,
disse lui, la tua ferocia mi difendeva da tutto. Ebbe voglia di cantare, ma non lo fece.
Non stava bene cantare, alla sua età. Un vecchio che canta è un vecchio rimbambito,
anche se in altri tempi lo avrebbero trovato divertente. Altri tempi. Disse: altri tempi,
Lucrezia, ho voglia di farti una visita anch’io, fra qualche secondo arrivo. Si sistemò
sulla poltrona e fece finta con se stesso di appisolarsi. Lucrezia gli veniva incontro su
una passeggiata a mare. Era Rapallo, certo, non poteva essere che Rapallo. Portava
una gonna di tweed e una volpe al collo. Le andò incontro giocando a nascondino fra
le palme del lungomare. Ciao Lucrezia, disse. Lucrezia lo guardò e sorrise in modo
strano. Voglio un gelato, disse, un gran bel gelato. In che anni siamo?, chiese lui.
Siamo negli anni Quaranta, disse Lucrezia, questo paese è un orrore e io vorrei vivere
a Parigi, siamo negli anni Quaranta, non lo vedi dai miei vestiti? Certo, rispose lui
accomodandosi il cappotto, lo vedo. E pensò: accidenti, siamo negli anni Quaranta,
sto scrivendo le mie migliori poesie. E poi chiese: ma in che anno siamo,
esattamente? Nel millenovecentoquarantanove, rispose Lucrezia. Caspita, disse lui,
sto scrivendo la mia poesia più celebre, Il cardo sulle rocce. Lucrezia lo guardava
con aria ironica. Sei un coglione, disse. Lui si sistemò il cappello e fece un passo.
Lucrezia lo prese a braccetto. Il mare era splendido, una tavola azzurra. Sei morta
troppo presto, disse lui, non sai che poeta sono diventato fra quarant’anni, un oggetto
di culto, non sono io che lo dico, sono i critici, le storie letterarie. Ma Lucrezia non lo
stava a sentire, sorrideva, era distratta, sembrava una ragazzina. Mentre
camminavano a braccetto accennò un passo di danza, lì, sul lungomare. Alcuni
passanti si girarono a guardarla. Lucrezia, disse lui, ci stanno guardando, non ti
rendere ridicola. Lei si fermò di botto e gli girò le spalle, si mise a braccia conserte e
fissò il mare con ostinazione. I venti percorrono quelle stanze, recitò, e tu ti sei arresa.
Poi lo guardò con aria imbronciata e disse: quella poesia l’hai scritta per me, anzi,
l’hai scritta grazie a me, ti ci portai io, è proprio qui, su queste colline, se non ti ci
portavo non l’avresti mai scritta, ma io non mi sono arresa, anche se sono morta. Non
volevo dire questo, la interruppe lui giustificandosi. Non importa, disse Lucrezia con
tono pratico, andiamo a prendere un gelato. Attraversarono la strada e si sedettero a
un tavolino del Caffè Rapallo. Il cameriere venne sollecito e Lucrezia ordinò una
coppa al cioccolato. Lui prese un caffè. Era bello stare negli anni Quaranta, pensò lui,
e si accomodò sulla poltroncina come se si accomodasse nel tempo. Era bello e
rassicurante. Lucrezia non era ancora morta, anche gli amici erano tutti vivi, tutti vivi
e fervidi, là a Firenze, che gli scrivevano. E quel critico entusiasta che lo voleva più
impegnato politicamente e gli scriveva lunghe lettere patetiche: anche questo era
bello. E la difficoltà di ricostruire tutto, in quell’Italia così misera, anche questo era
bello. Era vitale, almeno. E i lunghi pomeriggi a passeggiare per la città, il lavoro
editoriale, le nuove amicizie: era tutto bello. Certo era più bello che starsene chiuso in
quell’appartamento tappezzato dal viso di defunti, solo, ad aspettare nessuno, perché
nessuno veniva più a trovarlo, esclusa lei, la bionda. Lo avevano abbandonato tutti,
giornalisti, critici, amici. Ormai non faceva più notizia, a chi può interessare un poeta
decrepito e malato che vive con la governante? Prese una mano di Lucrezia e le
chiese: a chi può interessare un poeta decrepito e malato che vive con la governante?
Lei leccò il gelato e sorrise con aria furba. Perché non resti con me? Non posso, disse
lui, è già passato troppo tempo, ma verrò presto. Lei sorrideva ancora. E nel
frattempo cosa fai?, gli chiese, parlami di te. Lui sospirò profondamente. Mi annoio,
disse, mi annoio a sangue. Non esco più, le gambe non mi reggono. Passo il tempo a
guardare i visi dei morti sulle pareti, nessuno viene più a trovarmi, solo lei, la
biondina. Aspetta aspetta che ci indovino, disse Lucrezia, scrive poesie e vuole una
prefazione. Forse, disse lui, meditando, non so, ma ha annusato il morto, vuole
estorcermi qualcosa prima che tiri le cuoia. Ma che linguaggio, disse Lucrezia, non ti
riconosco più, non riconosco più il mio bel coglione. Insomma hai capito, replicò lui,
hai capito bene. Ho capito perfettamente, disse Lucrezia, è una stronza, e con questo?
Con questo mi voglio vendicare, disse lui, ecco, è quello che ho pensato. Vendicare
di chi?, chiese Lucrezia con interesse. Beh, di me, disse lui, è questa la vendetta più
perfetta, ma insieme con me anche degli altri, li voglio comprendere tutti, questi
imbecilli. Pardon, disse lei, stronzi. E poi aggiunse: fingi di innamorarti di lei, falle la
corte, tu sei un genio a fingere di innamorarti, una passione senile e patetica, voilà.
Lucrezia aprì la borsetta e ne prese lo specchietto con la cipria. Si rifece il trucco
rapidamente, con discrezione. Era brutta, Lucrezia, era francamente brutta. Anche
stare negli anni Quaranta non le donava affatto, la gioventù non può nulla contro la
bruttezza. Anche tu non sei poi tanto bello, disse lei come se avesse indovinato il suo
pensiero, sei un vecchio bolso. Ma ho i capelli bianchi, rispose lui, la canizie mi dà
una certa aria di nobiltà. Non c’è canizie che tenga, replicò lei, la canizie non può
nulla contro la bruttezza. Lui le sorrise, e anche lei gli fece un sorriso stanco, dalla
lontananza del ritratto. Lui si riscosse e si guardò intorno. Quanto tempo era passato?
Un minuto, un’ora? Niente, pensò, non è passato niente, il tempo non passa quando si
va indietro nel tempo. Suonò il campanello e si affacciò la Rita. Le disse di farla
aspettare ancora un po’, doveva scrivere. La devo mandare via?, chiese la Rita. No,
certo che non doveva. Quella era la sua visita, la visita che aveva aspettato tutto il
giorno, anzi, che si preparasse, magari la invitava a cena. La Rita grugnì qualcosa e
scomparve. Non le piaceva la signora bionda. La Rita aveva un fiuto formidabile, era
quasi analfabeta eppure non si sbagliava mai sul conto della gente. E intanto stava
scendendo il crepuscolo, in ottobre le giornate sono corte. Sentiva una grande
nostalgia, ma nostalgia di cosa? Strano, una nostalgia così, senza sapere di che cosa.
Nostalgia di scrivere, forse. Ma scrivere davvero, come una volta, con forza, con
passione, con convinzione: non come si apprestava a fare ora. E nostalgia di quei
giorni. Ma di quali giorni? No, nostalgia di niente. Solo una nostalgia allo stato puro.
Si alzò dalla poltrona e piegò con cura la coperta. Avrebbe voluto togliersi le
pantofole, ma non ci riusciva e dunque ci rinunciò. Pazienza, mia cara, pensò, mi
prenderai in pantofole. E fischiettò. Si sedette al tavolo, prese un foglio di carta e
cominciò a scrivere. Andava spedito, tanto lo sapeva a memoria, praticamente. Piegò
il foglio con cura e lo infilò nel taschino della vestaglia. Si guardò allo specchio e si
aggiustò il foulard. Poi andò alla finestra. Era calata la sera. Guardò la piazza e la
chiesa e sentì di nuovo la nostalgia. Si era già ritrovato, in una sera d’ottobre, in una
piazza davanti a una chiesa. Era con una donna e sedevano su una panchina. O forse
lo aveva solo immaginato, chissà. I ricordi, quando sono lontani, assomigliano
all’immaginazione, sembrano un sogno. Avrebbe avuto voglia di suonare un violino,
ne sentì un bisogno struggente, ma non sapeva suonarlo e non aveva il violino. O
almeno ascoltarlo, gustarsi un Capriccio di Paganini e partire lontano con
l’immaginazione o col ricordo, che erano la stessa cosa, librarsi nell’aria e volare,
uscire da quella stanza insopportabile, passare a volo radente sulla città, prendere la
direzione del mare e planare sulla spiaggia di Bocca di Magra, ingoiando a ritroso gli
anni come se li respirasse, fino agli anni Trenta. Gli anni Trenta, Lydia, la sera di un
addio. Per tutta la vita gli era pesato quell’addio, il modo di quell’addio, avrebbe
voluto cambiarlo, perciò lo cambiò. Entrò nel caffè e la vide. Era seduta in fondo,
sotto il grande specchio. Le si avvicinò e le baciò la mano. Connie sorrise. Lydia, le
disse, da oggi tu sarai Lydia, con la y greca. Chiamò il cameriere e ordinò
champagne. A Lydia, disse alzando la coppa. Ti ho portato un madrigale, continuò,
l’ho scritto per te, nel nostro vero addio non te lo portai, che stupido, non te lo portai
perché ero arrabbiato con te, ti odiavo perché mi lasciavi, perché ritornavi nel tuo
paese, ero geloso di te e della tua libertà, non volevo darti una poesia d’amore, mi
pareva una debolezza, te l’ho portata oggi, sì, lo so cosa pensi, pensi a come è
possibile che nella vita si possa vivere due volte lo stesso momento, ebbene, è un
sortilegio che ci è concesso perché tu sei Lydia e io sono il tuo poeta, e il sortilegio si
compie qui, in questo caffè.
Accese la luce dello scrittoio e cautamente andò ad aprire la porta. La donna era
seduta su una poltrona del salotto e stava leggendo, almeno apparentemente. Era
bionda e bella. Si vedeva subito che era anche stupida, così almeno pensò lui. Ma no,
non era stupida, era solo bionda e bella, per questo pareva stupida. Le fece un cenno
con la mano e lei disse: Maestro. Mi scusi se l’ho fatta aspettare troppo tempo, si
scusò lui, stavo componendo. E intanto, pensò, è scesa la notte. E la notte era scesa
anche dentro di lui, lo sentiva, finiti i giri nel tempo si ritrovava lì, in quella sua
vecchia casa di sempre, a parlare, a giustificarsi, a dover dire sempre qualcosa,
sempre qualcosa. La donna aprì la borsa e ne trasse un libro che gli tese. E intanto
sorrideva, soddisfatta e contenta. Lui percepì parole lontane, capì vagamente che si
trattava della rivista americana dove era uscito il saggio su di lui, pensò anche: che
me ne faccio?, e invece annuì con aria compunta e disse: la ringrazio. E intanto lei si
era alzata, aveva un’aria di leggero imbarazzo, io toglierei il disturbo, disse, ero
venuta solo per questo. E allora lui le prese una mano con un gesto amichevole, resti
a cena, disse, la Rita ha già messo la tavola e questa sera abbiamo una trota. Il sorriso
di lei si fece radioso, la trota che guizza fra le pietre, citò, e lui avrebbe voluto
fermarla, fece un gesto che sentì disperato, ma lei, inesorabilmente continuò: mi
ricorda la tua vita. Era troppo, era davvero troppo, non ce l’avrebbe fatta a sopportare
oltre, lo sentì. Si sedette su una poltrona e lei chiese se si sentiva male. Lui non
rispose e chiuse gli occhi. Anche Connie chiuse gli occhi e spalancò le braccia fra le
lenzuola. Era nuda, era bella, era giovane, era Connie. Ma lui aveva il cappotto e la
guardava stando in piedi, in quella camera d’albergo. Hai sempre il cappotto, disse
Connie, tu non sei un uomo, sei un cappotto. Lui si tolse il cappotto e cominciò a
spogliarsi. Restò in mutande davanti a lei. Sentiva un grande desiderio e una grande
malinconia. Stava scendendo il crepuscolo e la stanza si affacciava su una pineta. Si
infilò sotto le lenzuola e l’abbracciò. Perdonami, le disse. Non so se ne sarò capace,
rispose Connie, e poi non so cosa devo perdonarti. Lui restò in silenzio. Suonò il
telefono sul comodino. Non ci sono per nessuno, disse Connie nella cornetta. Lo
disse in inglese e lui sentì una grande lontananza. Per la mia indecisione, disse lui, mi
riferivo a questo. Connie non rispose e gli fece una carezza. Non importa, disse, tutti i
poeti sono indecisi, io conosco i poeti, voglio fare l’amore con te. Anch’io, disse lui,
e affondò il viso nei suoi capelli. Fu bellissimo. Quando si svegliò si accorse che era
solo nel letto. Connie era nel bagno, apparve con un accappatoio azzurro e un
asciugamano come turbante. Parto fra due giorni, disse sorridendo, ritorno nel mio
paese. Vorrei salutarti domani, disse lui, non qui, in questa camera. Sarò nel solito
caffè alla solita ora, disse lei, ti aspetto. Lui si alzò e si rivestì. Connie lo guardava,
seduta sul letto. Ora lui era di nuovo lì, col suo cappotto, e si sentiva ridicolo.
Avrebbe voluto dire qualcosa ma non sapeva cosa. E allora, aprendo la porta per
andarsene, sussurrò fra sé e sé, senza che lei potesse sentirlo: la trota che guizza fra le
pietre mi ricorda la tua vita. Ma intanto la Rita si affacciò e disse che la cena era
pronta. Si accomodarono in sala da pranzo, lei con la sua bella falcata, lui con i suoi
passetti incerti. Cavallerescamente le accomodò la sedia e si sedette alla sua sinistra.
La Rita arrivò col vassoio. Era una trota salmonata bollita, guarnita con carote e
patate. Lei si servì abbondantemente, lui ne prese un pezzettino. Sei una poetessa
affamata, bella bionda, pensò, sei una poetessa affamata. Era buona, la trota. Ne
assaporò il gusto e ne prese un altro pezzettino. Dio, quanto tempo era passato. Sentì
tutto il peso del tempo. Quanto tempo era passato? Ma da quando? Da quando la trota
guizzava fra le pietre. E ora di tutto quello che c’era stato restava solo una trota lessa
davanti a lui, e lui sentiva che era un buon piatto. E intanto la donna bionda parlava.
Parlava di poesia, gli parve, di un campus universitario americano, di letture di
poesia. Ma cos’era la poesia? Per un attimo si soffermò su questo pensiero, e sorrise.
E lei pensò certamente che lui sorridesse per quello che lei diceva, il che la spinse a
parlare ancora più concitatamente. Come parlava, parlava. Ora parlava delle
traduzioni che le poesie di lui avevano avuto nei più diversi paesi, e disse: il
traduttore americano in questo verso ha preso un abbaglio. Quale verso?, chiese lui. Il
verso del portacenere, disse lei, il portacenere dell’albergo, nella poesia del
Quarantuno. Oh, disse lui, ho preso un abbaglio anch’io, quella volta. E poi pensò: la
poesia è l’abbaglio, questo è la poesia. Avrebbe voluto dirlo, ma lei non avrebbe
capito. Meglio non dirlo. Tacque, e si asciugò la bocca col tovagliolo. Cazzo, pensò,
cazzo, ma cosa cazzo sto pensando? Gli piaceva pensare così, con parole volgari. Gli
dava un senso di sicurezza e insieme di conforto. Pensò a quello scrittore che gli
scriveva lettere compunte, un uomo profondamente volgare che si atteggiava a
neoromantico. E a quel critico che lo odiava perché lui era un borghese, un uomo in
pantofole che non aveva mai amato le masse. Le masse. Pensò a Ortega, che aveva
capito tutto. Altri tempi. Ora il mondo era un caos. Ma da quella casa non si sentiva.
Si sentiva solo il tempo che ondeggiava come folate di vento. Tutto finito, dunque?
No, pensò, non era tutto finito, la sua storia continuava. La sua ospite stava
mangiando l’ananas, perché erano arrivati all’ananas. Lui tirò fuori il pezzo di carta
dal taschino e disse: ho scritto un madrigale per lei. Le tese il foglio e lei fece un’aria
sorpresa. Maestro, disse, lei mi confonde. Lo legga, disse lui. Lei si mise a leggere
quella brutta parodia e disse: è magnifico. Era quello che lui voleva sentir dire. Aveva
bisogno di cose magnifiche. Certo, era magnifico l’inganno, la falsità era magnifica,
grazie Lucrezia. È dedicato a lei, disse, e bevve un po’ di vino bianco. Era scesa la
notte, questo era quello che sentiva. Una notte fredda, inesorabile che gli pesava nel
cuore. Si alzò e con i suoi passetti incerti andò fino alla finestra. La chiesa era ancora
aperta e illuminata. Qualche raro passante sostava sulla piazza. Avventori, pensò,
sono avventori. E non sapeva che cosa voleva dire con questo. Un confessore, pensò,
ci sarà in quella chiesa un confessore? Sarebbe stato bello infilare una giacca,
scendere di sotto, attraversare la navata e dirigersi al confessionale. Sono io, avrebbe
detto, sono un poeta, la poesia è menzogna, ho mentito per tutta la vita, tutta la
scrittura è menzogna, anche le cose più vere, mi assolva, per favore, non ho fatto altro
che mentire. E poi avrebbe detto: e ora ho preparato un’altra menzogna, una
menzogna doppia, sto imitando me stesso, mi faccio il verso e me ne frego, anzi, mi
diverto. Non ti assolvo figliolo, avrebbe detto il confessore, questo è un peccato
grave, è un peccato contro se stessi. E lui avrebbe risposto: tutta la scrittura è un
peccato contro se stessi, ha capito?, per tutta la vita mi sono immolato, mi sono
sacrificato, ho peccato contro me stesso. E lo avrebbe gridato nella chiesa deserta,
così forte che il confessore sarebbe uscito dal confessionale. Figliolo, avrebbe detto il
confessore, non ti capisco. E allora lui avrebbe gridato più forte, ma che strano, più
gridava e più non riusciva a distinguere le sue parole, la sua voce era diventata un
brontolio attraversato da gridi lancinanti, e allora, con foga e con passione, si mise a
cantare. Sì, ecco, avrebbe fatto proprio così, si sarebbe messo a cantare il Requiem di
Verdi, e con quel Requiem avrebbe assolto tutti, i presenti e gli assenti, i vivi e i
morti, e soprattutto se stesso. E dopo il canto avrebbe percorso la navata, sarebbe
uscito, avrebbe attraversato la piazza, avrebbe infilato il suo portone, sarebbe di
nuovo salito nel suo appartamento dalla signora bionda che lo aspettava con una fetta
di ananas infilata nella forchetta e le avrebbe detto: ora sono assolto, posso
consegnarle la mia poesia.
Ho scritto questo madrigale per lei, ripeté. Lei lo guardò intensamente, balbettò
qualche sillaba incomprensibile e una lacrima brillò nei suoi occhi. È proprio stupida,
pensò lui, ho scelto proprio bene. E allo stesso tempo si rammaricò, gli parve troppo
facile. Almeno fosse stata intelligente, intelligente e un po’ perfida, di quelle
intelligenze aspre, che capiscono il male del mondo. E invece era una donna docile
davanti a lui, pronta a credergli, era un’intelligenza supina, ecco cos’era,
un’intelligenza che credeva al bello. Glielo chiese: lei crede alla bellezza, cara? La
donna lo guardò con aria assorta, in cerca di una risposta. Era completamente
disorientata, lo avvertì. Maestro, ripeté, lei mi confonde. E poi confessò: amo la
poesia, ma sono una donna pratica. Questo lo sollevò. Una persona pratica!
Finalmente una persona pratica! Se era una persona pratica non aveva un’intelligenza
completamente supina, sapeva affrontare il mondo, sapeva eseguire. Le prese una
mano e disse: grazie. Lei lo guardò ancora più disorientata e disse: sono io che la
ringrazio, Maestro, ma vorrei chiederle: perché proprio a me? Lui guardò il soffitto e
accese una sigaretta. Mia cara, avrebbe voluto dire, sarebbe troppo lungo spiegarti, e
troppo complicato, ti elencherò dunque delle ragioni pratiche. Perché lei è bella,
disse, sensibile e pratica, mi sembrano tre ragioni sufficienti. Ma cosa devo farne?,
chiese lei. Dopo il caffè le spiegherò, disse lui. Sì, quella sera avrebbe proprio preso
un buon caffè. E avrebbe avuto una bella notte d’insonnia, ma tanto la notte
d’insonnia l’avrebbe avuta ugualmente. E poi voleva pensare a Lucrezia e a Lydia,
una bella notte d’insonnia con Lucrezia e con Lydia, avrebbe loro raccontato tutto,
ma forse lo sapevano già, là, dove si trovavano loro, tutto era chiaro. La Rita entrò
col caffè sul vassoio d’argento. Sempre impeccabile la cara vecchia Rita. Aveva
un’aria leggermente imbronciata e chiese se il caffè doveva servirlo nello studio. Lui
annuì e piegò il tovagliolo. Si alzò e si avviò con i suoi passi tremolanti, mentre la
donna lo seguiva con la sua falcata. Pensò a come doveva dirglielo e decise che la
cosa migliore era parlare con chiarezza e con senso pratico, visto che lei era una
donna pratica. Ma intanto lei chiese se poteva rileggere il madrigale e lui disse di sì,
certamente, doveva farlo. Lei si mise a leggere e lui andò alla finestra. Il portone
della chiesa era sbarrato, la piazza era deserta. Probabilmente se ne accorgerà, pensò,
non è poi così stupida da non accorgersene. Si girò e la guardò. Anche lei lo stava
guardando, e aveva gli occhi lustri. È bellissimo, disse lei, è un madrigale bellissimo.
E lui sentì di nuovo la voglia di cantare il Requiem di Verdi, lo cantò silenziosamente
dentro di sé, ne accarezzò tutte le note, era bello assolversi e peccare, invece che
peccare e assolversi, perché l’assoluzione deve venire prima del peccato, ci
dev’essere un’assoluzione precedente, un perdono preventivo. Questa è la prima di
venti poesie, disse, ne ho programmate venti e le scriverò tutte per lei. Mi ascolti
bene, mia cara, io le darò queste venti poesie prima di morire e lei, dopo la mia
morte, ne dovrà pubblicare cinque all’anno, per quattro anni: ogni anno convocherà la
stampa e renderà pubbliche cinque poesie. Voglio i critici migliori, vicino a lei, e i
giornalisti più raffinati, insomma voglio una grossa udienza, poi potrà farne un
volumetto, e intanto io sarò morto, è capace di farlo? Lei si alzò e strinse le mani
come una ragazzina. Maestro, disse, può contare su di me. E allora lui disse
freddamente: mi scusi, sono stanco, ora devo coricarmi, le auguro la buona notte. La
accompagnò alla porta con i suoi passetti incerti, sentendo con allarme la lunga
falcata di lei. Sulla porta le baciò la mano. Aspettò l’arrivo dell’ascensore e si
trattenne nell’ingresso fino a quando non sentì che l’ascensore era disceso al piano
terra. Stava per dirigersi verso camera sua quando il citofono suonò. Era lei. La trota
che guizza fra le pietre mi ricorda la tua vita, disse la sua bella voce giovane, e
riattaccò. Restò un attimo pensieroso. Ha capito, pensò, finalmente ha capito. O forse
no, chissà, era ancora una semplice citazione. Ah, se almeno avesse capito, pensò.
Sorrise. Forse ora si sarebbe messo a cantare il Requiem. Confu-tatis ma-le-dictis,
canticchiò sottovoce. Si diresse verso camera sua. Lucrezia e Lydia lo aspettavano.
Capodanno
1.
Dallo spesso cristallo dello scafandro vide che Capitano Nemo si apriva un varco a
colpi d’ascia nella foresta di alghe facendogli cenno di seguirlo nello stretto
passaggio di corallo che si spalancava fra le erbe fluttuanti. Sentiva una grande
stanchezza e poteva muovere a fatica i piedi appesantiti dalle scarpe di piombo, ma si
fece forza e andò avanti. Il budello di corallo tappezzato di miriadi di crostacei e di
conchiglie si apriva in una larga grotta coperta da un tetto a volta appuntito da
bizzarre stalattiti coralline. Capitano Nemo accese il fanale che reggeva nella sinistra
e il fascio giallastro ruppe uno squarcio nelle tenebre degli abissi. Pensò che la luce
degli apparecchi Ruhmkorff avrebbe attratto qualche mostruoso abitatore di quelle
oscure regioni del mondo, ma vide solo sciami di strani pesci guizzare via infastiditi e
spaventati. Capitano Nemo si fermò all’improvviso. Un imponente muro di rocce si
innalzava davanti a loro: un cumulo di blocchi giganteschi di granito bucherellato alla
base da innumerevoli grotte. Capitano Nemo, come indeciso sul cammino, frugava
col fascio di luce l’entrata delle aperture, quasi a riconoscervi un segnale,
un’indicazione. Poi infilò decisamente una galleria seminascosta fra le alghe che
scendeva a precipizio. La luce della serpentina produceva effetti magici sulle rugose
asperità dei coralli rosa, sugli arboscelli e sui ciuffi calcarei, sulle ramificazioni
trasparenti come curiosi cristalli di Boemia. Finalmente, dopo un lungo cammino nel
budello in pendio, sentì che i piedi avevano ritrovato il terreno piano. Controllò lo
strumento che portava al polso e si accorse che si trovavano a cinquecento metri di
profondità. Qui trionfavano la foresta immensa e le grandi vegetazioni minerali, gli
enormi alberi pietrificati su un tappeto abbagliante di tubipore e di cariofille.
Capitano Nemo si fermò. Si trovavano al centro di una vasta radura fra le alte
vegetazioni della foresta. Le loro lampade proiettavano in quello spazio una luce
crepuscolare che allungava smisuratamente le ombre sul terreno. Al limite della
radura l’oscurità diventava profonda, vi apparivano solo minime scintille trattenute
dalle creste vive del corallo. In mezzo alla radura, su un piedistallo di massi
confusamente ammucchiati, si ergeva una croce di corallo dai lunghi bracci purpurei.
Capitano Nemo gli fece cenno di avvicinarsi. Gli parve di capire che dietro il cristallo
dello scafandro una vaga smorfia di disprezzo e di pietà aleggiasse sulle labbra della
sua guida. Sostò timoroso e interdetto, ma il gesto d’invito di Nemo era perentorio.
Avanzò timidamente, con un presagio di disgusto e di sacrilegio. Nel centro della
croce c’era una cornice ovale, con una piccola fotografia sfumata ai bordi: il babbo,
vestito di bruno e con la pistola al fianco, salutava eternamente col braccio teso gli
abissi che gli stavano di fronte. La sua prima reazione fu di fuggire, per sfogare la sua
pena lontano dallo sguardo del compagno. Ma in quel momento sentì la mano di
Nemo che gli poggiava sulla spalla. Si voltò e vide quel viso, che aveva sempre
conosciuto impassibile e ferreo, sconvolto dal dolore, con gli occhi bagnati di pianto.
Allora capì quanto Nemo lo amasse, e sentì il desiderio di abbracciarlo, di farsi
stringere contro quel petto paterno e dimenticare piangendo il suo dolore infantile.
Ma Nemo era già tornato padrone dei suoi nervi e con la mano indicava il livello
dell’ossigeno che stava rapidamente calando. Non restava molto tempo per
raggiungere il Nautilus: e poi, lo sentiva, Nemo aveva qualcosa d’altro da mostrargli.
Si fece forza e lo seguì al limite della radura, laddove si ergevano spettrali le braccia
mostruose degli alberi di pietra. Il terreno risaliva notevolmente con ampie e
irregolari scalinate di corallo sfrangiate agli orli. Davanti a loro si aprì una grotta
scavata tra le rocce ricoperte della più lussuosa flora degli abissi. Nemo vi entrò
facendogli cenno di seguirlo. Ben presto i suoi occhi si abituarono al nuovo ambiente
rischiarato dal raggio delle lampade Ruhmkorff. Perché la sua guida lo trascinava in
fondo a quella cripta sottomarina? Stava domandandoselo quando Capitano Nemo si
fermò indicandogli uno spettacolo affascinante. Era un’ostrica di straordinarie
dimensioni, di un diametro certamente superiore ai due metri. Col suo bisso aderiva a
una tavola di granito, adagiata nelle acque immobili. Le valve erano socchiuse, come
due labbra che respirano nel sonno. Capitano Nemo si avvicinò e vi introdusse il
pugnale, poi con una mano alzò la tunica membranosa frangiata agli orli che era il
mantello dell’animale. Allora le valve si spalancarono lentamente ed egli vide,
adagiata nelle viscide coltri del mollusco, la mamma, biancheggiante come una perla
nel fascio della lampada Ruhmkorff, che cercava di nascondere con le mani la sua
nudità e cantava. Avrebbe voluto coprirla, avrebbe voluto strapparla da quelle valve
mostruose e portarla con sé sul Nautilus, avrebbe voluto chiedere come poteva essere
rimasta lì, nascosta per tanto tempo, e come poteva cantare con l’acqua che le
fluttuava nella bocca: ma in quel momento le valve dell’ostrica cominciarono
inesorabilmente a richiudersi e una corrente marina, liberata da chissà quale anfratto,
cominciò a sferzare il cristallo del suo scafandro investendolo con una forza immane.
Rimase brancolante nell’oscurità finché sentì la salda mano di Nemo che gli slacciava
la cinta piombata per risalire, mentre la corrente continuava a sciabordargli negli
orecchi.
2.
Sentì l’acqua che scrosciava sui vetri e ebbe la sensazione che fosse tardi.
D’estate invece si svegliava prestissimo: alle sei il sole entrava dalle persiane e
disegnava una scala arancione sulla parete di fondo. Gli piaceva alzarsi in silenzio,
attraversare l’impiantito a piedi scalzi e appostarsi dietro la finestra del parco, dietro
la tenda leggera che la brezza del mattino gonfiava come una vela. Si capiva se
sarebbe stata una giornata di calura dallo strato di nebbia che fluttuava rasoterra, sul
materasso degli aghi dei pini. Di lassù, a quell’ora, la macchia era una compatta
massa scura ondulata dai cappelli verdecupo dei pini. Era l’ora in cui i fagiani
venivano a mangiare attraversando la radura fino allo stabbiolo dove c’erano le
mangiatoie col granturco che Corrado preparava ogni sera. Venivano quasi sempre in
coppia, la femmina qualche metro più avanti, lesta e impettita, con scatti rigidi del
capo; il maschio più tardo, come di controvoglia, con un’andatura dondolante e la
lunga coda inzuppata strasciconi sull’erba. Saltavano sul bordo della mangiatoia di
pietra e attaccavano a beccare svelti senza alzare il capo, incalzati dal sole che
montava sopra i cappelli dei pini. Di notte venivano anche i cinghiali, ma lui non ne
aveva mai visti. Erano i solitari, quei quattro o cinque scacciati dal branco, vinti in
combattimento o semplicemente eremiti per natura: magri verri anziani e maniaci,
scaltrissimi, i soli che nelle battute se la sapessero cavare, capaci di restare imboscati
in un cespo di pruni una giornata intera, senza cedere al terrore, insensibili ai cani
isterici che abbaiavano furibondi intorno a loro. Una volta invece aveva visto un
giovane daino, timido e angustiato, trotterellare allo scoperto lungo il margine della
radura, attirato dall’odore del cibo, senza il coraggio di arrivare fino alle mangiatoie.
Abbandonava la finestra e iniziava il suo rituale mattutino, cercando di coniugare
le vecchie abitudini casalinghe con le recenti pratiche del risveglio al collegio. Prima
l’igiene, raccomandava il prefetto. E lui ubbidiva a distanza. Apriva l’armadio di
noce che nascondeva il piccolo lavabo, si strofinava il viso con l’acqua fredda, si
spazzolava i capelli, si sciacquava i denti. Lasciava scorrere appena un filo d’acqua,
per non svegliare la mamma che aveva la testiera del letto appoggiata proprio contro
il lavabo, dall’altra parte della parete. Mentre si lavava il viso, con gli occhi chiusi,
riusciva a immaginarla, sola in quel grande letto col baldacchino sulle colonne a
torciglione, i lunghi capelli sciolti sul guanciale, la camicia da notte rosa coi farpali
intorno al collo che la facevano assomigliare alle dame antiche del suo libro di storia.
Con l’immaginazione percorreva in punta di piedi la penombra della camera, dove le
spesse cortine di velluto azzurro respingevano la luce della vetrata sulla veranda. La
piccola toilette con la specchiera e lo sgabello di raso trapunto è ingombra di flaconi e
di spazzole, con le retine per i capelli appese sui piccoli torciglioni degli angoli,
afflosciate come vecchie ragnatele. Sul piano di marmo del grosso canterale, le
suppellettili che ha sempre conosciuto: il vaso cinese, la lucerna; in mezzo a queste, i
due ritratti nelle cornici d’argento che si fronteggiano lanciandosi un sorriso fuori del
tempo: a sinistra la mamma e il babbo, lui le allaccia la vita col braccio, ridono
circondati dai piccioni, un piccione si è posato sulla mano aperta della mamma; dietro
c’è San Marco, scintillante sotto una luce vivida che la lastra fotografica ha fissato
come un abbaglio. La scarpa della mamma, la destra, con due cintolini intrecciati sul
collo del piede, ha invaso la data scritta a inchiostro: Venezia, 12 aprile 1941. È il
corpo di una donna giovane, snello e quasi ancora incerto nelle forme, il soprabito
ampio casca leggermente sulle spalle rotonde e il viso emerge dalla volpe gettata a
girocollo, con quel musetto felino rinsecchito che con un gancio di metallo fra i denti
si regge la coda. Due visi giustapposti: il muso appuntito dell’animale sembra trovare
un rifugio nella cascata di capelli chiari che delimitano vagamente un viso largo e
ancora fanciullesco, attraversato da un sorriso che la macchina ha fissato nella sua
fase finale, quando stava per spengersi lasciando di nuovo il posto all’abituale
lassitudine dei lineamenti, di un’apatia malinconica e sentimentale palesata dagli
occhi che fissano, oltre l’obiettivo, forse il canale e il volo dei piccioni.
Il babbo ha l’altro braccio poggiato sul fianco, una posizione irrigidita, quasi
militaresca, la cravatta a strisce larghe è rimasta fermata dalla cintola, e tirata com’è
raddrizza per un effetto ottico quella figura magra che si inclina da un lato per
abbracciare la moglie. Dalla tasca del cappotto fa capolino un giornale piegato, ma è
impossibile decifrarne il titolo. C’è un’aria di fretta sul viso maschile, quasi che con
educazione voglia comunicare al fotografo di fare presto: oppure forse il vaporetto sta
proprio partendo; a pochi metri oltre il fotografo ci sono i bagagli già fatti, il conto
del Danieli è già pagato e, passeggiando al sole, in attesa del vaporetto, hanno
pensato che potevano farsi una foto ricordo, così per ridere fra tutti quei piccioni: ma
poi, fra il trovare la posa e la lentezza del fotografo, si è fatto tardi, il vaporetto è
sbucato sbuffando dall’altra parte del canale e fra pochi minuti sarà al pontile.
Bisogna sbrigarsi, pagare, lasciare l’indirizzo al fotografo, fare una corsa con le
valigie, presto che non si può perdere il treno del mattino, li aspettano in villa per la
cena, ci sono il podestà e il generale del babbo; per un ufficiale non c’è tempo per
lunghe lune di miele, fotografie, piccioni, Venezie.
Bastavano pochi centimetri di marmo per attraversare gli anni che separavano il
babbo dalla fotografia di fronte. Allo sfondo di Venezia si è sostituita la riva di un
lago con una villa sfocata in lontananza. Il babbo è un guerriero magro con una
camicia bruna attraversata da un cinturone di cuoio, i pugni sui fianchi e i pantaloni a
sbuffo. Nei capelli ricciuti e folti c’è ancora la gioventù dell’altra fotografia; ma gli
occhi, nostalgici, non sono presenti: come se cercassero, dietro l’obiettivo che li
ritrae, il paesaggio di un viaggio di nozze da cui sono evasi troppo presto per
rinchiudersi in quell’immagine sigillata da una didascalia a inchiostro azzurro: Da
Salò eroica con l’amore di sempre. Lapo.
Si asciugava vigorosamente il collo con l’asciugamano di spugna per attivare la
circolazione. Appoggiando l’orecchio alla parete avrebbe potuto sentire il respiro
della mamma nel sonno. Poi si vestiva in fretta, si ravviava i capelli, dava un’occhiata
al quadretto sopra il letto con la poesia di Kipling e apriva la porta. Il corridoio era
silenzioso e in penombra. Camminava svelto, con cautela, avendo cura di non uscire
dalla guida soffice che conduceva fino alle scale. Fuori brillava l’estate mediterranea,
invitandolo dalla rampa delle scale con l’odore delle albicocche che la Flora
ammucchiava nel ripostiglio di cucina per la marmellata e le conserve. Infilava le
scale ormai impaziente, prossimo a rompere il controllo che si era imposto, senza mai
far caso alla porticina di quella cameretta situata sul ballatoio delle scale che salivano
alle soffitte. Non ci faceva proprio caso, d’estate. Perché d’estate era semplicemente
una stanza buia piena di mobili vecchi, e Capitano Nemo non vi abitava ancora.
3.
Vagò con lo sguardo nella penombra della stanza decifrando pigramente le
suppellettili dei mobili e le stampe delle pareti che emergevano via via che gli occhi
si andavano adattando al risveglio. Indugiò sulle macchie dell’intonaco del soffitto
con le quali aveva tante volte costruito storie astruse di cavalieri e di corsari e gli
parvero senza fisionomia. Cercò di afferrare i rumori della casa, per capire se
qualcuno era già sveglio e che ora potesse essere, ma non riuscì a cogliere che dei
colpi secchi e ritmati provenienti dal pianterreno: forse la Flora che spaccava la legna
in cucina. Ripensò all’estate, quando scendeva in cucina dove la Flora stava
sbucciando le patate, e beveva il caffellatte in quella tazza di smalto che aveva da una
parte un peschereccio che si trascinava dietro una balena attaccata all’arpione, e
dall’altra la faccia rubizza di un vecchio marinaio con una barbetta bianca torno
torno, un berretto turchino sulle ventitré e una piccola pipa dal cannello sottile fra i
denti. La Flora, pesante e arcigna, sempre vestita di nero, trafficava in silenzio ai
fornelli e non gli badava. Erano i momenti in cui poteva girovagare per la casa a suo
comodo, tanto la mamma fino a mezzogiorno non si sarebbe alzata e zio Jacopo a
volte non si alzava nemmeno per il pranzo: restava a letto fra i guanciali e la Flora gli
portava il vassoio in camera. Allora lui entrava di soppiatto nella biblioteca, chiudeva
la porta dietro di sé e faceva scorrere appena le tende pesanti per avere un po’ di luce.
Vagava smarrito davanti alla fila imponente dei volumi scarlatti della Storia della
Chiesa, decifrava faticosamente le costole corrose degli Atti di famiglia, sostava fra i
libri d’oro, i gotha e gli araldici, aggirava il gigantesco mappamondo ocra dove
un’ignota mano infantile, chissà quando, aveva tracciato con incerta calligrafia, con
una freccia parallela alla dizione Mer Tyrrhénienne e che finisce sulla costa toscana,
un nome antico: Duccio. Duccio, come lui: un altro Duccio una volta bambino, perso
nel tempo, ora forse un volto buio e senile fra i tanti che tappezzavano lo scalone.
Faceva girare la palla del mondo vorticosamente, finché i nomi sparivano e anche i
mari e le terre e tutto diventava una macchia giallastra. Poi si recava avidamente al
piccolo scrittoio sotto la finestra e sostava indeciso e voglioso fra le Esplorazioni
polari, la Guida dell’Africa Orientale Italiana, I viaggi di Antoniotto Usodimare,
Nell'Africa Nera e Ventimila leghe sotto i mari.
Pensò: conto fino a dieci e poi mi alzo. Si mise a contare lentamente, aprendo un
dito alla volta sotto le lenzuola. Ma quando arrivò a dieci sentì una pigrizia calda
senza nessun desiderio di alzarsi.
4.
Ripensò a quando lo chiamavano ancora Cino.
“Cino, è ora di andare a letto”.
Cominciava a salire lo scalone. Non guardava gli occhi dei vecchi che
sorvegliavano il ballatoio. C’era una vecchio pauroso con la barba e una pelliccia
bianca intorno al collo. Il corridoio era immenso e finiva fra le cupole degli alberi.
Era un’estate con la luna sempre piena. Dalla terrazza arrivava il suono del
grammofono e le cicale frinivano, frinivano. Un passo su un esagono bianco, un
passo su un esagono nero. Guai a sbagliare mattonella, l’angelo custode lo seguiva. Si
girava di scatto, eppure non riusciva mai a sorprenderlo. Ma sentiva il fruscio delle
ali. O era il suo alito freddo sul collo? Rabbrividiva, gli si aggricciava la pelle.
Com’era angelo Duccio? Era giovane, era vecchio, era nato con lui, era già stato
custode di un altro Duccio ora morto? Avrebbe tentato di vederlo nello specchio. Mai
entrare in camera col piede sinistro: avrebbe sognato il babbo in fondo al lago. Sulle
erbe del fondo, fra un branco di lucci. I lucci mordono coi denti appuntiti. Un luccio
aveva morso un pescatore a una mano, all’arenile; devi succhiare, aveva detto zio
Jacopo, e al pescatore gli si era riempita la bocca di sangue che aveva sputato sulla
rena. Ce l’avevano buttato i partigiani, ma tanto era già morto. La Flora lo raccontava
alla vecchia delle materasse, a voce bassa. Ma lui aveva sentito lo stesso, perché
faceva finta di dormire con la testa sulla tavola.
Mentre si spogliava sbirciava furtivamente nello specchio: angelo Duccio non
poteva prevedere esattamente tutti i suoi movimenti, forse si sarebbe scoperto.
Bisognava fare mosse rapide e strane. Com’era? Aveva gli occhi chiusi? Aveva gli
occhi azzurri? Aveva i denti guasti? Era vestito come lui? E quando lui era nudo
anche angelo Duccio era nudo? Fra gli alberi c’era un chiù, aspettava che la finestra
si spengesse per cominciare a chiamare. Si sente ancora quando si è morti? Il babbo
sentiva i lucci intorno a sé? Gli angeli custodi seguono la gente anche nell’acqua?
C’era un angelo, fra i lucci, che teneva il babbo per i capelli? Le ciabatte erano sotto
il letto, meglio non prenderle: se ci fosse una mano coi denti di luccio che poi ti
azzanna e ti tira sotto? Attraversava la camera scalzo. Poteva inginocchiarsi anche sul
letto, non era mica necessario inginocchiarsi sul tappeto: tanto la preghiera era valida
lo stesso. Bisognava dirla tre volte, con gli occhi bassi e le mani giunte. Gesù,
Giuseppe, Maria, proteggete l’anima mia. Gesù, Giuseppe, Maria, accogliete l’anima
mia. Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono l’anima mia. Le macchie del soffitto erano
cavalieri, ogni sera occupavano un luogo diverso. Vicino all’angolo c’era un
cavaliere cieco da un occhio, però era coraggioso e combatteva. Dopo aver
schiacciato la peretta della luce bisognava fare alla svelta a mettere la mano sotto le
lenzuola. Il chiù cominciava a lamentarsi. Se stava con la testa sotto lo sentiva poco,
come un singhiozzo in lontananza.
Singhiozzo singhiozzo
albero mozzo
vite tagliata
vattene a casa.
5.
Abbandonò il libro aperto sulla coperta e lasciò vagare lo sguardo sul soffitto. La
pioggia aveva smesso di scrosciare, si sentiva solo il gocciolio ritmico della grondaia
che batteva sul coppo di terracotta della terrazza.
Dalla marea dei ricordi, prima arginata a stento dal muro della lettura, traboccò un
violento profumo di gelsomini. Era il profumo di un’estate in cui aveva imparato che
le cicale friniscono e che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.
6.
Il conte Tullio era alto con i capelli lucidi e sulla giacca blu portava un foulard di
seta a pallini. Gli faceva una carezza sulla testa dicendo ciao caro e portava sempre
un mazzo di fiori nel cellofan. Diceva che era divino cenare sulla terrazza e che il
parco era sublime. La mamma durante la cena rideva spesso e il grammofono
suonava dei valzer. Le cicale, nelle giornate di calura, a volte duravano fino a tarda
sera.
“Ma la musica della natura è la musica più bella”, diceva il conte Tullio. “Ragazzo
mio, lo sai com’è il verso delle cicale? Friniscono. Friniscono. E sai cosa significa?
Che sono innamorate. E durano una sola estate”.
Allora la mamma si alzava e si appoggiava alla balaustra. Diceva che il profumo
dei gelsomini le dava il capogiro, e aveva gli occhi lustri.
7.
Da quale profondità della sua memoria veniva una voce che gridava: “il
sotterraneo”? Chiuse gli occhi. No, la Flora no. La Flora diceva soltanto: gli
scantinati. “Non mi piace tenere le patate negli scantinati, ci sono i topi”. (Stava
parlando con la vecchia delle materasse mentre sciacquava i panni al lavatoio delle
stalle; lui era andato a vedere la nidiata dei conigli di Corrado). “E poi quel posto mi
fa senso. Dopo il fattaccio dovetti lavarlo io, tutte le pareti erano imbrattate, tutte
schizzate fino al soffitto. E poi ci detti una mano di calce, ma qualche macchia è
riaffiorata, a non saperlo sembra umidità. Ma a me mi basta guardarle e mi sento
stomacare. Guarda, anche per i panni piuttosto faccio questo pezzo di strada, ma
almeno qui sono all’aria aperta”.
Dietro il buio delle palpebre, nel buio della notte, una voce gridò: “Nel sotterraneo!
Portateli nel sotterraneo!”. Era sceso dal letto e si era avvicinato alla finestra. Sentiva
i passi sulla ghiaia e il brusio di un motore. Avvicinò gli occhi alle stecche delle
persiane ma dalle fessure vide solo le cime degli alberi. Allora trascinò una sedia fino
al davanzale e poté guardare verso il basso. L’immagine perse nitidezza. Sì, un
camion. Fasci di luce nelle ombre del parco. Soldati con gli elmetti lucidi. Pioveva?
Fucili. Parole straniere. Gli uomini scendevano dal camion uno dopo l’altro. Un
soldato li spingeva col fucile. Poi sentì gridare: “Nel sotterraneo! Portateli nel
sotterraneo!”. C’era un uomo con l’impermeabile e il cappello sugli occhi. Teneva le
mani in tasca. Era lui che aveva gridato? Era lui, il babbo? Sentì di avere i piedi gelati
perché era scalzo sulle mattonelle. Il camion entrò dentro la macchia, vide i fasci di
luce che sciabolavano i tronchi degli alberi. Tornò a letto. C’era silenzio. Aveva
sonno. Il letto era ancora caldo. Poi sentì il grido della mamma, un grido alto, uno
solo.
O era stato tutto un sogno?
8.
“Caro Nemo,
non dirò mai a nessuno dove sei nascosto, io so mantenere i segreti. Anch’io ho
tanti segreti, nessuno li saprà mai, forse li dirò a te. Ma non temere. Il giorno che ho
accostato l’occhio al buco della serratura e ti ho visto ho creduto che fosse un
miracolo o un sogno. Tu eri seduto vicino al comò basso e stavi leggendo le tue carte
nautiche, con un ciuffo di capelli sulla fronte, il mento appoggiato a una mano. Poi
hai alzato gli occhi e hai guardato verso la porta: forse avevo fatto un piccolo rumore
e tu avevi sentito. E allora hai sorriso verso di me. È vero che mi hai sorriso? E come
hai fatto a indovinare che dietro quella serratura c’ero io che ti stavo guardando?
Nemo, caro Nemo, a volte immagino che tu sia venuto per me. Sì, altrimenti
perché saresti approdato proprio qui, in questa parte del mappamondo dove una
freccia a inchiostro sul mare indica la seconda erre della parola Etruria? E mi dico
che questo non è possibile; che un qualcosa a me ignoto ha interrotto le tue
peregrinazioni sottomarine proprio in questo punto del globo, arrestando il Nautilus
sulle rive di questa regione. E allora, se è così, non posso fare a meno di pensare alla
meraviglia della vita, a questa strana combinazione del mio tempo e del mio spazio e
del tuo tempo e del tuo spazio. Pensa: una piccola differenza e non ci saremmo mai
incontrati.
Oggi è l’ultimo giorno dell’anno. Io qui sono nato e ho sempre abitato, a parte il
tempo che passo in collegio. Non so se hai avuto modo di dare un’occhiata a questi
luoghi, ma immagino che sarai venuto di notte e conoscerai la zona solo dalle mappe.
Non so se sei arrivato attraverso la macchia o per i vialoni delle giuncaie, perché si
può raggiungere ugualmente il mare per l’una o per gli altri. Certo la macchia è più
sicura, sui vialoni ci si può incontrare con qualche contadino in bicicletta che la sera
torna dal cinema del paese o dal caffè. E inoltre ci sono i cani da guardia che fanno
baccano appena passa qualcuno, anche se non possono fare del male perché sono
legati. La macchia è folta e oscura, sempre umida, coi tronchi degli alberi pieni di
muschio e grossi cespi di rovi e di mirti. Ma c’è un sentiero sicuro che porta fino al
mare, e sarà meglio che al ritorno tu passi di là… che passiamo di là se vuoi. Ti stavo
aspettando, Nemo, anche se non me ne rendevo conto. E ora che ti ho incontrato, che
tu sei qui, che il nostro tempo e il nostro spazio si sono incrociati, non lascerò che tu
rientri nel nulla, che tu scompaia nel vasto mondo. Ho tante cose da dirti, tante, dovrò
trovare il coraggio. La prima è che…“.
Accartocciò mentalmente la lettera che aveva mentalmente scritto e pensò se
avrebbe mai avuto il coraggio di dire davvero certe cose. Doveva essere tardi.
Bisognava proprio alzarsi.
9.
Si alzò e si infilò lentamente i vestiti. Si lavò il viso di malavoglia toccandosi
appena gli occhi con la punta delle dita e si asciugò con delicatezza, per neutralizzare
l’asprezza dell’asciugamano di spugna. Fece scorrere le tende e guardò fuori. Aveva
smesso di piovere, ma nell’aria persisteva una nebbietta diffusa, un vapore che velava
i vetri agli angoli. Passò con lo sguardo sopra le chiome dei pini e spaziò oltre i
campi fumanti cercando un segno nel paesaggio che gli desse l’idea dell’ora. Poi gli
venne in mente che dalla finestra di mezzogiorno si vedeva, oltre la cancellata, la
cappella con l’orologio, e così si ricordò i giorni d’estate in cui andava a parlare con
Anselmo.
Oltre la siepe dei ligustri, maculata dalle rade nuvole degli oleandri, correva il
perimetro incerto del vecchio muro che rinchiudeva l’uliveto. Di là cominciavano le
campagne della proprietà, con le case gialle dei mezzadri chiazzate sotto le pergole
dal verderame che si affievoliva durante le piogge invernali e rifioriva in primavera:
minuscole case ad arginare il silenzio delle bonifiche col latrato dei cani iracondi e
malinconici, rassegnati da anni al breve tragitto consentito dalla catena che scorreva
sul filo dei panni. Poi le prospettive convergenti degli stradoni bianchi che fuggivano
verso le spiagge, defilati dal tratteggiato perentorio dei cipressi che d’estate i barrocci
e i trattori velavano di polvere; dopo una breve macchia prunosa, ingobbita dalle
dune dove crescevano giunchi e pungitopi, raggiungevano una marina pallida che si
slargava nell’arenile della bocca del fiume su cui pendevano due o tre grandi reti
rotonde. In quel punto c’erano le capanne di cannicci del barcaiolo e dei pescatori che
potevano stare là per il consenso di zio Jacopo. Una mattina zio Jacopo lo aveva
portato con sé, mentre andava a fare un guazzo. Vi erano andati con l’Aprilia rossa, il
cavalletto e la cassetta dei colori sul portapacchi.
Di qua dal vecchio muro, prima del parco e delle serre, cominciavano i bossi e i
ligustri delle siepi del giardino ghiaiato, fino alla cancellata nera di ferro battuto che
costeggiava la provinciale. Il paese cominciava subito di là dalla via, con la cappella
di pietra presidiata dall’enorme platano pieno di caverne incatramate su cui era
infisso il cartello della fermata della corriera. Anselmo stava seduto sulla panchina di
pietra accanto alla cappella. Sedeva in punta, per via che l’umido e l’edera
invadevano la pietra, rosicandola di muffe verdi. Era un luogo freschissimo anche
d’agosto grazie all’ombra scura del platano e al fiato fresco che alitava dalla porta
della cappella come da una cantina. Anselmo pareva che dormisse sempre, con le
gambe allungate e il bastone poggiato accanto: ma sotto le palpebre abbassate gli
occhi, svegli, navigavano nei ricordi. Dovevano essere ricordi affogati nel tempo,
perché Anselmo era vecchio, il più vecchio che lui conoscesse. Aveva il parletico
nelle mani e lasciava consumare il sigaro in bocca, con la cenere che gli si sfarinava
sul panciotto. Ogni mattina, quando lui si svegliava, Anselmo era già al solito posto.
Allora scendeva le scale in punta di piedi, traversava la cucina ancora deserta,
sollevava il saliscendi della porta di rete ed entrava nell’aria del mattino. Il cappello
di Anselmo spariva e riappariva fra i cespi di bosso della cancellata mentre lui
traversava il viale ghiaiato; poi, per fare prima, scorciava attraverso il cancellino di
servizio dove c’era la maniglia della campanella per i fornitori collegata con la
cucina, con una targhetta di maiolica scrostata: Tirare piano, e il disegno di una
piccola mano con l’indice teso che indicava la maniglia. Si metteva a sedere sull’altra
estremità della panchina, dava il buongiorno e poi aspettava. Se Anselmo parlava,
quando parlava, non apriva gli occhi. E la voce fessa muoveva appena col fiato i baffi
gialli spioventi.
10.
Prese un foglio e scrisse: Caro Capitano Nemo. Poi cancellò Caro perché sentì
vergogna. Poi sopra la cancellatura scrisse di nuovo: Caro Capitano Nemo. Strappò il
biglietto a pezzettini e prese un altro foglio. Scrisse: Caro Nemo. E mise la data: 31
dicembre del presente anno. Lo fece a pezzettini. Prese un terzo foglio e scrisse: Caro
Nemo. E per data: ultimo giorno dell’anno. Poi appoggiò il mento sulle braccia
incrociate sul tavolo e si mise a pensare cosa gli avrebbe raccontato. Gli venne in
mente quell’ultimo giorno d’estate, quando aveva deciso che prima di partire per il
collegio doveva entrare nei sotterranei.
11.
Dalla fessura della porta non filtrava nessuna luce. Forse dormiva ancora. Oppure
stava semplicemente a meditare nell’oscurità. Accostò un occhio al buco della
serratura ma vide solo buio. Allora gli venne in mente la prima volta che lo aveva
visto.
Era in piedi sul dorso del Nautilus galleggiante a fior d’acqua. Vestiva una lunga
casacca senza colletto fasciata in vita da un’ampia fusciacca e calzava stivali di
cuoio. Di profilo, coi capelli al vento, guardava nel goniometro che teneva fra le
mani, mentre i gabbiani gli volteggiavano intorno.
Cavò la lettera di tasca e le dette un’ultima occhiata. Sulla busta aveva scritto: per
N. Infilò la linguetta della busta dentro l’involucro e la fece scivolare sotto la porta.
Anche lui scivolò via, camminando silenziosamente sulla guida del corridoio.
12.
Un occhio della lepre era rimasto attaccato al cranio, un po’ penzoloni, e
gocciolava sul pavimento: macchiette carminio, coriandolini. Si vede che non era
saltato via all’ultimo strappo della Flora, il più energico, quando la pelle, già tutta
rovesciata come un guanto sul ventre bluastro, fa strozzatura al collo della bestia e ci
vuole uno strattone deciso. Allora gli occhi, scalzati in precedenza, schizzano via
assieme con la pelliccia. Di solito la Flora era precisa e efficace. Attanagliava la testa
dell’animale fra le ginocchia, tirandola per le zampe posteriori, a pancia all’aria.
Incideva con la punta del coltello, partendo dall’ano, entrava nel derma
obliquamente, un centimetro, e poi agiva precisa, diritta. La sacca azzurra delle
interiora traboccava fuori da quella serratura-lampo che si andava aprendo, dietro alla
punta acuminata che correva come un pattino sul ghiaccio: fino al collo. E lì si
fermava. La Flora rigirava l’animale in senso inverso, infilava tre dita sotto il vello,
alla coda, e rovesciava. La pelle si sfilava come un guanto. Poi lasciava l’animale sul
marmo dell’acquaio, con la testa in fuori perché sgocciolasse dalla bocca e dagli
occhi, con un piccolo cono di segatura sul pavimento. Le pelli se le portava a seccare
a casa sua per venderle al pellaio che passava il sabato col triciclo. Le spiaccicava sul
muro lebbroso della legnaia dove si allappavano come lumaconi, e quando le
staccava sfrigolavano portandosi via l’intonaco penetrato nel derma e lasciavano
l’impronta del loro vischio placentoso fra gli edemi verdastri delle muffe.
Un tegame friggeva sul fuoco, ma la Flora non c’era. Forse era andata per erbe
aromatiche nell’orto. Sollevò il coperchio e fu investito da una folata di cipolle. Il
soffritto. In un’altra piccola teglia ribolliva una manciata di pomodori paonazzi. Capì:
lepre alla cacciatora per la cena di mezzanotte.
13.
Dal garage mancava la macchina di zio Jacopo. Doveva essere andato in città a
fare compere. Chissà se sarebbe tornato a pranzo. Forse poteva approfittarne per
andare a dare un’occhiata in camera sua. Si avvicinò cautamente alle scatole di
cartone che si erano andate ammucchiando con gli anni e vi dette qualche colpo con i
piedi. Gli rispose uno squittio e capì che questa volta c’era rimasto. Prese una scopa
per aprirsi un varco, perché a causa di quel suono provava schifo e paura a toccare le
scatole con le mani. Era un topo grosso, pingue e tozzo, marrone, forse vecchio, con
gli occhi iniettati di sangue. Girava ammattito su se stesso, mordeva le sbarrette della
trappola, fischiava. Si era ferito alla bocca a furia di azzannare il filo di ferro e gli
colava fra i baffi una bava di sangue che aveva impiastricciato tutto il pavimento
della trappola. Tentò di introdurre il manico della scopa fra le stecche della gabbia,
ma erano troppo strette. Si guardò intorno cercando qualcosa di più adatto. Su una
mensola vide gli attrezzi di Corrado e ci frugò. Prese un paio di forbici da siepe dalle
lame lunghissime, con gli anelli foderati di nastro isolante verde. Disse: “Topaccio,
schifoso topaccio”. La bestia, quando sentì le punte di ferro sul dorso, si immobilizzò
e cominciò a ringhiare. Si accorse che non aveva forza di spingere, sudava, le mani
erano molli. Andò in cerca d’aria e respirò forte. Si mise a passeggiare avanti e
indietro, si lavò le mani al rubinetto dove Corrado ripuliva gli attrezzi. Poi si ricordò
come diceva una volta quando doveva fare qualcosa per cui non aveva coraggio. Col
piede tracciò una immaginaria croce per terra, chiuse gli occhi, accavallò il medio
sull’indice e mormorò: “Croce di gatto, fagli un bel salto”.
Il topo si era rannicchiato in un angolo della gabbia, in posizione di difesa, come se
lo stesse aspettando. Quando si avvicinò cominciò a fischiare furibondo. Provò a
toccarlo con le punte delle forbici e la bestia si rigirò fulminea a pancia all’aria,
immobilizzò il ferro con le zampe anteriori e azzannò. La ferita alla bocca si riaprì e
uno schizzo di sangue gli macchiò il pelame del ventre, chiaro e raso. Sarebbe stato il
momento di spingere, gli avrebbe trapassato il collo. Lasciò cadere le forbici e le
spinse via con un calcio. Coprì la trappola con una scatola e rimise gli scatoloni a
posto. Andò alla pila e si strofinò energicamente le mani con un pezzo di sapone
pieno di crepe che stava nella vaschetta. Si asciugò il sudore sulla fronte col vecchio
grembiule che era attaccato a un chiodo sopra il rubinetto. Si sedette su uno sgabello
e chiuse gli occhi.
“Croce di gatto fagli un bel salto, croce di gatto fagli un bel salto”.
L’orologio del paese batté un colpo, e dopo qualche istante tre colpi ravvicinati.
Luna e tre quarti. Il pranzo doveva essere pronto, ma non aveva fame.
14.
La cucina gli parve insopportabilmente calda. La Flora, seduta al tavolino vicino
alla credenza, approfittava per riposarsi mentre lustrava l’argenteria con un panno di
feltro. La ragazza, in piedi davanti al tavolo, reggeva fra le mani un cestino di paglia
dove la Flora depositava le posate già pulite. Chiacchieravano a bassa voce, ma
quando lo videro entrare si chetarono.
“La mamma è ancora occupata con la pettinatrice”, disse la Flora. “Scenderà dopo.
Aspettavo te per andare a tavola”.
Notò che la tavola di cucina era apparecchiata per tre persone.
Disse che non aveva fame, ma si sedette lo stesso al suo posto. Gli bruciavano le
orecchie, si sentiva il viso in fiamme.
“Sei paonazzo, Duccio, stai sudando”.
“C’è troppo caldo”.
Cominciarono a mangiare silenziosamente la minestra. Il rumore dei cucchiai sulle
scodelle gli parve lontanissimo. Mangiò zitto, a testa bassa, aspettando inutilmente
che le due donne dicessero qualcosa sulla cena e sugli invitati. Forse la ragazza
avrebbe avuto voglia di parlare, ma due occhiate perentorie della Flora la fecero
desistere. Il tegame con la lepre continuava a cuocere a fuoco lentissimo sulla stufa,
con un brontolio sordo e basso della salsa che scoppiava in tante piccole bolle.
Immaginò il ragù denso e grasso, solcato da rivoletti d’olio nella salsa sanguigna, e
sentì una nausea violenta che gli sbarrò la gola. Rifiutò il secondo e si mise a
giocherellare con la mollica del pane appallottolandola fra il pollice e l’indice.
“Non ho più fame”, disse allontanando il piatto.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase a fissare un punto della tovaglia.
Seguiva come nel sonno i rumori consueti della cucina, le donne che sparecchiavano.
Appoggiò la testa fra i pugni e chiuse gli occhi. Forse un momento.
Lo riscosse il rumore della macchina di zio Jacopo che strideva sul ghiaino del
viale.
15.
Lasciavano l’Aprilia sotto l’ombrello di uno degli ultimi pini della macchia, al
limitare dell’arenile. Oltre le dune magre di cardi pallidi fluiva la placida bocca del
fiume ondulata dai canneti. Lo zio Jacopo gli lasciava portare la cassetta dei colori,
una valigetta di legno col manico di cuoio, e il seggiolino pieghevole di tela a strisce.
Lo zio guardava la luce come se la palpasse, indagava le tinte della natura per
scegliere cosa avrebbe ritratto quel giorno. Nelle giornate immobili d’afa, quando la
calura immobilizzava la spiaggia sotto una gelatina tremolante, il litorale impallidiva
in un giallo diffuso di grigio, come se fosse dietro un vetro opaco: e il mare, perso il
cobalto, smoriva in un celestino tenue e dolcissimo. In tali giornate lo zio Jacopo
disdegnava il litorale e fissava sui suoi fogli l’orizzonte marino, con guazzi delicati di
un perlaceo impercettibile, più acqua che tinta, scialbato appena di celeste. Ma non lo
rendevano allegro, diceva che gli davano malinconia. Preferiva le giornate limpide e
assolate, con quella lieve brezza che spolverava il ciglio della macchia restituendole il
bel verde nerastro che contrastava col verde luminoso dei pini. Allora l’arenile
luccicava come uno specchio, era una distesa di pagliuzze d’argento. E l’acqua della
foce, azzurra e chiara come quella del mare: un vetro; a stare attenti si sarebbero
potuti vedere i branchi di anguille. Quelli erano i veri giorni mediterranei, diceva lo
zio. Giorni della solarità. Giorni fauneschi.
“Zio”, lo pregava allora, “racconta”.
E stava a sentire, con gli occhi spalancati dalla meraviglia, il racconto di fauni e
silvani, ebbri di luce e di vita, che si tuffavano nell’azzurro e uscivano ridendo,
grondando salmastro sui fulvi petti villosi, e scomparivano inseguendosi nella
macchia, saltando fra i noccioli.
“In questa macchia, zio?”.
“Sì, certo, in questa macchia. Qui, fra i tamerici e i mirti, in questa spiaggia
mediterranea dove rise l’etrusco, qui si rinnova il mito”.
Così arrivavano fino al tenue arginello di sabbia che custodiva la bocca del fiume,
a una cinquantina di metri dalle baracche dei pescatori. Era un posto discreto, perché
lo zio Jacopo voleva osservare i pescatori al naturale, senza che essi sentendosi
osservati si impacciassero nei movimenti quando tiravano su le reti. Si sedeva sul
seggiolino di tela e formando un tubo con la mano come se fosse un obiettivo,
inquadrava uno dei pescatori intento a girare l’argano del retone. E se l’uomo
guardava verso di loro, o si fermava perplesso, forse sentendosi guardato, allora lo
zio Jacopo gli parlava a bassa voce, suadentemente, pregandolo di andare avanti, di
non essere sciocco; “Fai guizzare i tuoi muscoli, o zotico fauno felice che danzi
inconsapevole sulla spiaggia antica!”.
E rideva tra sé, dipingendo. Era felice.
Poi passava il barcaiolo, remando con bracciate lente. Da lontano li salutava col
braccio. Traghettava la gente sull’altra sponda, sulla lingua sottile di rena bianca che
la bocca del fiume aveva formato di fronte al mare: qualche contadino delle case
rosse, una vecchia che andava a fare le sabbiature con un ombrello nero, bambini
vocianti, grasse madri piene di fagotti.
Era un giovanotto scuro e magro, si chiamava Ciro, portava un paio di calzoncini
di fustagno stinto che risaltavano sul petto cotto dal sole. Zio Jacopo rispondeva al
saluto agitando il pennello, e canticchiava. Se era proprio di buon umore, diceva
qualche verso di una poesia:
… Aulisce
d’acqua marina la tua pelle
che il sol ti fece fosca. Snelle
hai le gambe come bronzo lisce…
Il sole a perpendicolo diceva che era mezzogiorno. Dal cilindro di sughero tiravano
fuori il pranzo preparato dalla Flora: i panini imbottiti di pollo e insalata conditi con
maionese, le spremute d’arancio freschissime e le pere. Mangiavano all’ombra del
canneto, ascoltando la maretta della bocca che sciaguattava nel silenzio del meriggio.
Poi zio Jacopo diceva che andava a fare quattro chiacchiere con Ciro e lo pregava di
non muoversi per nessuna ragione. A volte gli dava persino il permesso di dipingere,
e prima di allontanarsi voleva che gli promettesse solennemente che non sarebbe
andato a cercarlo. Ma lui non aveva certo nessuna voglia di andare a cercarlo: faceva
caldo, e la brezza che veniva dal mare non era sufficiente a smorzare l’incanto della
luce che appesantiva gli occhi. Cercava di resistere al sonno, di distrarsi con qualche
ramarro che guizzava svelto fra i pruni: ma il sopore del luogo aveva il sopravvento,
le cicale frinivano, frinivano e non ammettevano nessun altro rumore. Si stendeva
sulla sabbia, facendo un cuscino con le mani, e sentiva di diventare leggero,
leggerissimo. Come se volasse.
16.
Aveva smesso di piovere ma nell’aria persisteva un vapore fresco che impastava i
capelli e velava le ciglia. Il parco fumava. Richiuse la porta dietro di sé e scese i
gradini. Attraversò il viale di ghiaia lustra e arrivò fino alla cancellata. Evitò di
entrare nel prato per non bagnarsi le scarpe e seguì i mattoni scivolosi che
delimitavano l’erba. La cappella era chiusa. L’edera aveva completamente ricoperto
le pietre della panchina. Arrivò la corriera e sostò alla fermata. Lo sportello posteriore
si spalancò e vide scendere due gambe di donna calzate di nero. Per istinto si nascose
dietro la siepe e stette a sbirciare. Era una vecchia con un mazzo di fiori e una sporta
di paglia che si incamminò verso il paese. La corriera strombazzò alla curva, ma la
provinciale era deserta. Andò al cancello di servizio e aprì lo sportellino della cassetta
della posta, sollevando il piccolo saliscendi di ferro. Era una vecchia cassetta tinta di
verde, con ornamenti di ferro battuto, attaccata fra le sbarre del cancello, con un viso
leonino in rilievo nella parte frontale la cui bocca era una capace fessura. Trovò la
pubblicità di un libro francese. Lesse: Poupées du monde entier. Fu orgoglioso di
sapere il francese. Era un dépliant di carta patinata con la fotografia di una
bamboletta magrissima che sventolava una borsetta di perline. Era vestita di un
gonnellino a sacco, aveva i capelli corti con due virgole sulle tempie e teneva le
gambe divaricate. Sopra c’era scritto: originai déco. Era indirizzata a zio Jacopo. La
rimise nella cassetta. Si girò e si mise a guardare la villa. Le persiane della camera
della mamma erano ancora chiuse. Cercò di calcolare a quali stanze corrispondesse
ogni finestra. Saltò il pianterreno e passò al primo piano: quella della mamma, la sua,
il bagno, zio Jacopo, il guardaroba, il salone corrispondente al salone del pianterreno,
la camera dei bambini (perché si chiamava così, a quali bambini si riferiva, forse al
babbo e allo zio Jacopo quando erano bambini?). Sopra le finestre del primo piano,
prima dei buchi rotondi delle soffitte, c’era una fila più rada di piccole finestre: le
camere di servizio. Sentì un tuffo al cuore quando vide che una aveva le imposte
socchiuse. Poi si accorse che era la camera della giovane contadina, accanto a quella
della Flora. La camera cui stava pensando non aveva finestre, era poco più di uno
sgabuzzino che era sempre servito per i mobili vecchi.
Pensò di andare a vedere se la lettera era stata ritirata, ma in quel momento la Flora
sbucò in fondo al viale, dalle parti degli orti del vecchio muro. Se si affrettava faceva
in tempo a entrare nella rimessa. Mentre scantonava ripensò a quel giorno di molto
tempo fa, quando era arrivato il pacchetto col nastro rosa.
17.
Il pacchetto era nella cassetta della posta. Un pacchettino bislungo di carta azzurra
legato da un nastro rosa. Riuscì faticosamente a raggiungerlo alzandosi sulla punta
dei piedi. Gli piacquero i due enormi francobolli colorati che occupavano la parte
destra, ma prima bisognava ottenere il permesso di staccarli. Guardò il destinatario:
E-gre-gia Si-gno-ra… Seguiva il nome della mamma. Era scritto in rosso, a
macchina, e fu assalito dal desiderio di sciogliere il nastro. Magari era del conte
Tullio. A volte, durante i suoi viaggi, il conte Tullio mandava cartoline, piccoli regali,
souvenirs. Una volta, da un paese lontano, era arrivato un pacchettino anche per lui:
Al piccolo Duccio. Era un magico burattino vestito da gaucho con una chitarra a
tracolla che si metteva a ballare se gli si girava un orecchio, mentre all’interno del
suo pancino un carillon suonava la cumparsita. Era accompagnato da una cartolina in
cui si vedeva una terrazza circondata dai fiori e sul retro, invece dei saluti, una parola
incomprensibile: soledad. La mamma lo aveva fatto ballare tutta la sera sul tavolo
bianco della terrazza e le erano venuti gli occhi rossi.
Resistette ferocemente alla tentazione di aprirlo. Se c’era una cosa che addolorava
la mamma era la villania. Diceva sempre che poteva tollerare qualsiasi cosa, ma non
la villania. Era una grande villania aprire la posta altrui. Corse in casa tenendo il
pacchetto alto come un trofeo. Sulla porta inciampò e per poco non cadde. In cucina
c’era la Flora che stava preparando la colazione per la mamma. La mamma, quando
aveva passato una brutta notte, faceva colazione a letto. Si alzava solo verso
mezzogiorno e appariva in terrazza in veste da camera spazzolandosi i lunghi capelli.
Verso le tredici scendeva in sala da pranzo, aveva gli occhi gonfi e non se la sentiva
di mangiare.
“C’è un pacchetto per la mamma”.
La Flora stese un tovagliolo sul vassoio d’argento. Sul gas stava abbrustolendo una
fetta di pane. Una sola. La mamma al mattino odiava masticare. La Flora imburrò il
pane abbrustolito e lo mise su un piattino. Poi versò il succo d’arancia dallo
spremiarance in una coppa di cristallo dal piede alto. Riempì una minuscola anfora
d’argento di pappa reale e vi tuffò un cucchiaino. La mamma prendeva ogni mattino
due cucchiaini di pappa reale. La Flora mise il pacchettino accanto alla colazione e
gli collocò il vassoio sulle braccia. “Ti lascio fare da cameriere, ma non fare disastri,
per l’amor del cielo”.
Imboccò la scala col batticuore, facendo estrema attenzione a ogni passo. Di fronte
alla porta, nell’impossibilità di bussare, chiamò: “Mamma, sono io”.
Silenzio. Provò a battere sulla porta con la punta di una scarpa, ma l’aranciata
oscillò pericolosamente nella coppa e qualche goccia cadde nel piattino. Posò il
vassoio per terra e girò la maniglia, bussando contemporaneamente. Gli rispose un
suono prolungato, quasi un lamento: “Cino”. Entrò trionfalmente, procedendo sicuro
nella penombra. Posò il vassoio sul canterale, spingendo verso lo specchio le
fotografie di mamma e di papà. Andò alla finestra e scostò un centimetro di tende
affinché la luce violenta non ferisse gli occhi della mamma. “Quel flacone”, sospirò
la mamma indicando una bottiglietta di vetro sfaccettato sulla toilette, “e il cotone”.
Le porse l’acqua di rose e il cotone con cui lei si tamponò le palpebre e le tempie.
Mentre le collocava il vassoio sulle ginocchia le dette un rapido bacio sulla fronte.
“E questo?”.
“Era nella cassetta della posta”.
La mamma lo soppesò con curiosità e lo girò per leggere il nome del mittente. Ma
non c’era scritto niente. Si aggiustò sul petto i farpali della camicia da notte e si
ravviò i capelli all’indietro. Sciolse avidamente il nastro rosa ed estrasse un involto di
carta stagnola. “Che bizzarria”, rise. Si alzò sui guanciali e cominciò ad aprirlo.
“Cino, per piacere, socchiudi le persiane”.
Sentì l’urlo mentre stava armeggiando con la maniglia della persiana che girava
male per via della ruggine. Sul viso della mamma c’era disgusto e meraviglia. Fra le
mani teneva un pesce, un luccio col ventre gonfio e la boccaccia spalancata che aveva
un biglietto appeso a un amo conficcato in una branchia. Non seppe mai se la mamma
avesse avuto tempo di leggere quel biglietto. Vide solo che le sue mani si aprivano
lasciando cadere la bestia nel vassoio, sentì il rumore del cristallo infranto, osservò la
macchia sanguigna dell’aranciata che si allargava sulle lenzuola mentre la mamma si
stringeva la gola come se soffocasse e gridava, gridava. Poi ci fu un ciabattio
frettoloso nel corridoio, la Flora che faceva vane domande, il suo aiuto gridato alla
finestra, i gemiti della mamma riversa sui guanciali, qualcuno che correva sul ghiaino
del viale.
I giorni seguenti li ricordava silenziosi e ovattati, pieni di solitudine, di
raccomandazioni di non fare rumore, di frasi scambiate a bassa voce, di ammicchi
segreti fra la Flora e la giovane contadina che veniva a fare i lavori pesanti. “Dice il
dottore che neanche più una pillola deve avere a portata di mano, e se non dorme
pazienza, provi con la camomilla o col papavero…”; sussurri nei tediosi dopocena
della cucina, mentre lui sonnecchiava sulla tavola con la testa fra le braccia.
“Cino, è ora di andare a letto”.
Aveva il permesso di dare la buonanotte alla mamma. L’abat-jour del comodino
era schermato con un velo azzurro. I lunghi capelli della mamma erano un’onda sul
bianco del cuscino. Si avvicinava in punta di piedi, temendo di fare rumore. Le
sfiorava una guancia con le labbra. La mamma socchiudeva gli occhi e sorrideva.
“Cino”, sussurrava, “Cino”.
“Sì mamma”.
“Promettimi di ricordarti sempre una cosa, per tutta la vita”.
“Sì mamma”.
“Cino, qualsiasi cosa tu senta dire, Cino, ricordati che tuo padre era un eroe. Un
eroe, Cino”.
“Sì mamma”.
Usciva piano piano, chiudendo la porta dolcemente.
18.
Lo svegliò il rumore di uno sportello che sbatteva. Dapprima pensò che fosse lo zio
Jacopo, poi sentì sbattere un altro sportello con un tonfo sordo e capì che non poteva
trattarsi di un’automobile. Si alzò intirizzito dal divano, agitando un piede che gli si
era informicolito per la posizione rattrappita e scostò cautamente le tende. Stava già
calando la sera. Vide un camioncino carico di ghiaino e due uomini in tuta da operaio
che chiacchieravano con Corrado. Le loro parole gli arrivavano nitide attraverso
l’invetriata. Corrado tirò fuori il pacchetto delle sigarette e ne offrì ai due operai. Poi
accesero tutti e tre. Stettero a fumare parlando a bassa voce. Capì che parlavano di
politica. Uno disse: “Ti dico che Togliatti è più furbo di…”, ma non riuscì a capire di
chi fosse più furbo. Corrado disse: “Sbrighiamoci, sennò viene notte”. Il più giovane
degli operai cominciò a svitare i ganci della fiancata, si arrampicò sul camioncino e
spinse la fiancata con un piede. Il ghiaino grandinò di sotto velato di polvere. Corrado
prese un rastrello e cominciò a spargerlo sul viale. “Datemi una mano”, disse, “ci
sono due badili sotto il portico, si fa in dieci minuti”.
Si trasse indietro proprio mentre l’operaio più anziano entrava sotto il portico a
prendere i badili. Lasciò cadere la tenda e si sedette sul divano aspettando che
finissero. Gli parve un tempo interminabile. Voleva scrivere una lettera, ma se
accendeva la luce avrebbero capito che si trovava lì. L’orologio del paese batté
cinque colpi. Finalmente sentì il rumore del camioncino che si allontanava. Andò alla
scrivania e accese il paralume dal pesante piede di ottone che pareva un candeliere da
chiesa. Prese un foglio con l’intestazione e con lo stemma, e col tagliacarte eliminò la
parte stampata. Scrisse:
“Caro Nemo,
nella camera dove ora stai tu c’è una cassapanca vicino al muro. E’ piena di vecchi
vestiti e altra roba. Ti prego di guardarci e capirai. Io venivo a frugarci quando ero
bambino. Poi me lo proibirono“.
Scrisse d’impeto, riempiendo rapidamente le due facciate del foglio. Non rilesse
neppure. Piegò il foglio in quattro e lo mise nella busta. Poi lo tirò fuori e aggiunse un
post scriptum: “Ho deciso di andare a vedere il sotterraneo. Capisci? Andrò a vederlo
e finalmente saprò. Vi andai una volta anni fa, avevo molta paura, ripetevo una
filastrocca: ènchete pànchete pìnchete inè”.
19.
Si trattenne in sala da pranzo per farsi vedere. La Flora era alle prese con una
zuppiera di panna da montare. Seppe che la mamma era occupata con la parrucchiera
e che sarebbe scesa solo più tardi. La tavola della sala da pranzo era già
apparecchiata, la ragazza badava agli ultimi ritocchi aggiustando i garofani negli
snelli calici d’argento. Notò che la ragazza vestiva già la livrea di gala: vestito nero
con gonna a pieghe e grembiulino bianco. Al momento di servire in tavola avrebbe
messo la cuffietta di pizzo. Pensò chi potevano essere i due ospiti. Uno, magari il
conte Tullio. Ma no, era impossibile. Se si azzarda a mettere piede in Italia
quell’imbroglione lo mandano in ferie a Porto Azzurro: lo aveva detto la Flora quei
giorni che la mamma aveva pianto tanto. Rubò un grissino dal cestello e uscì dalla
porta principale, perché non aveva voglia di farsi vedere in cucina.
Era calata la notte, ma riuscì a vedere che l’Aprilia non era ancora al suo posto
nella rimessa. Si tastò in tasca per controllare di non aver dimenticato la lampadina a
pila. Era una scatolina piatta di lacca verde con una capocchia di vetro da cui usciva
la luce; c’era raffigurata una chiesa mostruosa e questa scritta: a Montenero andai a
te pensai questo ricordo ti portai. Gliela aveva portata la Flora anni fa quando era
andata a fare una gita col parroco del paese.
Si fermò davanti al portone degli scantinati. Si accorse di sudare e respirò
profondamente. Fece un passo avanti e tre indietro, tre avanti e uno indietro, tre sul
lato sinistro e uno sul lato destro. Il sangue gli martellava nelle tempie, in tumulto.
Disse: “Calma, Duccio, calma, si tratta solo di cancellare”.
Accese la pila solo dopo aver richiuso il portone. Anche lo scricchiolio delle
scarpe, in quel luogo, diventava un rumore profondo e risuonante, per via dei soffitti
a volta. Il freddo era pungente. Per questo una volta serviva da cantina, quando la
proprietà produceva ancora vino di marca, prima che delle vigne si occupassero solo i
contadini. In un angolo erano sopravvissute vecchie botti malandate piene di
ragnatele. Accanto al tino di cemento c’era una grossa vasca con un’antica pompa a
braccio. Un tenue filo di ruggine percorreva tutta la vasca fino al foro dello scarico.
Si fece avanti e cominciò a perlustrare le pareti col fascio della lampadina. Le
macchie erano ben visibili, parevano proprio umidità. Ebbe la tentazione di toccarle,
ma ritrasse la mano. Tenendo il pezzo di carbone bene all’estremità, per evitare il
contatto della mano col muro, le marcò accuratamente negli orli che salivano e
scendevano senza criterio, imprevedibilmente. Fece un lavoro minuzioso e accurato
su tutte le pareti. Quando ebbe finito, le macchie erano evidenziate perfettamente.
Parevano una bizzarra catena di montagne, una siepe di nuvole scure. Si riposò un
attimo sul bordo della vasca. Il pezzo di carbone si era notevolmente consumato, ma
ne restava a sufficienza per finire il lavoro senza correre il rischio di toccare il muro
con le mani. Cominciò dalla parete di fondo, in modo di trovarsi vicino all’uscita a
lavoro finito. Tracciò le croci alla svelta, su ogni macchia, procedendo quasi di corsa.
Contò: una due tre quattro cinque sei…
Quando uscì si accorse che piangeva. In silenzio e a dirotto, senza riuscire a
fermarsi.
20.
“Ho dimenticato la bicicletta in giardino”, mentì, “vado a metterla nella rimessa”.
La Flora non fece obiezioni: era troppo occupata a sistemare i bicchieri sui vassoi e
a spellare accuratamente spicchi di arancia che collocava in elegante posizione dentro
coppe di cristallo immerse in una vaschetta di ghiaccio tritato.
Si assicurò di aver preso la penna e il nastro adesivo. Le altre cose le aveva già
nascoste nella rimessa. C’era la luce accesa al balcone della mamma, doveva essere
intenta a farsi la toilette per la serata. Anche la finestra dello zio Jacopo era accesa.
L’orologio del campanile suonò le nove. Gli sembrò che una macchina sulla
provinciale rallentasse e dirigesse i fari verso il cancello. Ma era troppo presto per gli
invitati: la Flora era sicura che non sarebbero certo arrivati fino verso le dieci.
Accese la luce e chiuse la saracinesca. Poteva lavorare indisturbato. Smosse gli
scatoloni con un piede cercando di fare fracasso. Silenzio. Picchiò sui cartoni con la
mano aperta e stette in ascolto. Gli parve un buon segno, ma per precauzione spostò
la scatola con la scopa. La sollevò con cautela reggendola con due dita. Il topo
sembrava morto. Stava rattrappito in un canto della gabbia, a pancia all’aria e le
zampe stecchite. Prese le forbici da siepe e lo punse ripetutamente. Era proprio
morto. Agitò la gabbia e la bestia slittò pesantemente da una parte all’altra.
Cercò la scatola in cui aveva nascosto il necessario, non si ricordava più qual era.
Poi gli venne in mente: uno scatolone pieno di trucioli con una stampigliatura rossa in
diagonale: Fragile. Prese il foglio di stagnola e lo stese per terra lisciandolo ben bene
per eliminare le pieghe, aprì il cancellino della gabbia e vi fece scivolare il topo. Lo
sistemò accuratamente in mezzo al foglio aiutandosi con le forbici. Poi prese il
cartoncino bianco che aveva attraversato con un cerchietto di fil di ferro, come una
collana. Fece una prova di scrittura su un altro pezzo di carta e considerò se era
riuscito a camuffare la propria calligrafia. Forse era meglio usare lo stampatello. Fece
una seconda prova e fu soddisfatto. Allora scrisse sul biglietto: È morto sorcio
Barbarello, padrone di questo castello. Infilò il cerchietto nel collo del topo cercando
di tenere gli occhi da un’altra parte. Sentì i baffi della bestia sulle dita e rabbrividì.
Accartocciò il foglio di stagnola e sigillò con nastro adesivo. Dallo scatolone prese un
pezzo di carta da pacchi cercando di confezionare il pacchetto meglio che poteva.
Perché le pieghe degli angoli non si sollevassero le fissò con altre due stricioline di
nastro adesivo. Cercò il punto migliore per mettere il nome del destinatario e scrisse
in stampatello il nome della mamma, avendo cura di specificare il titolo.
Nascose la trappola, rimise a posto gli scatoloni, spazzò accuratamente il
pavimento dai pezzetti di stagnola e di nastro adesivo che vi erano rimasti. Si accorse
che sull’impiantito c’era rimasta una macchiolina di sangue e la nettò con uno
strofinaccio bagnato. Da ultimo si lavò le mani nella pila, rimboccandosi le maniche e
strusciandosi energicamente anche gli avambracci. Prima di uscire spense la luce.
Il balcone della mamma era ancora illuminato, anche la finestra dello zio Jacopo.
Evitò di attraversare il giardino per raggiungere il cancelletto di servizio. Preferì
passare oltre la siepe dei ligustri che lo avrebbe riparato da ogni sguardo. Sistemò il
pacchetto nella cassetta delle lettere e rientrò in casa velocemente. La Flora stava
preparando i cubetti di ghiaccio per gli aperitivi, le mandorle salate e i pinoli.
“La mamma vuole che tu passi a salutarla prima di andare in camera tua”, gli disse
mentre cercava di estrarre i cubetti di ghiaccio dalle vaschette. “Non ti ha mai visto
tutto il giorno”.
21.
Ecco, di nuovo solo, come a quel tempo lontano… Era proibito? Era peccato?
Angelo Duccio avrebbe fatto la spia? Però sapeva un rimedio. Lo cantilenò piano
piano:
Ènchete pànchete pínchete inè
àbile fàbile triulitè
rèsete pésete raus straus!
Scalzo sulle mattonelle. Com’era lungo il corridoio! La mamma riposava, forse
anche la Flora. Anche lui doveva riposare quei pomeriggi estivi quando le cicale
impazzite frinivano, frinivano. Ma il sonno non veniva. Provava più volte. Voleva
dormire. Chiudeva gli occhi, ma sotto le sue palpebre c’erano tante piccole luci.
Bisognava dormire! bisognava dormire!
Ninna nanna ninna nanna
questo bimbo è della mamma
della mamma e della nonna
e di babbo quando torna.
Lo ripeteva più volte, abbracciando il guanciale. Forse guardando i cavalieri del
soffitto il tempo sarebbe passato più in fretta. Tic-tac, tic-tac, nel silenzio, la pendola
dell’anticamera. Il tempo è una cosa rotonda, ogni giorno è sempre uguale. Sta lì e
gira, e gira. Se passava qualcuno sul viale entrava attraverso le persiane, a testa in giù
fra i cavalieri del soffitto. Corrado a testa in giù che finiva sotto il cavallo di
Costantino, il cavaliere senza un occhio. Bisogna dormire! bisogna dormire! Ecco,
ancora cinque minuti a occhi chiusi,
respirando profondamente come fa la Flora la sera in cucina sulla seggiola; ora
Angelo Duccio si è addormentato, sicuramente non ha resistito, ci si può alzare. Ma
pianissimo, a piedi scalzi. Dio, com’è lungo il corridoio! Ma anche un’ora fa era
lungo così o si è allungato nel frattempo? La mamma riposava, forse anche la Flora;
dal piano di sotto non venivano rumori. Ma al momento di girare la maniglia un
dubbio pauroso: e se Angelo Duccio non si fosse addormentato? Se gli stesse dietro
facendo finta di niente, in silenzio? Meglio dire qualche altra cosa, però mentalmente,
senza farsi sentire:
An tan tès
fili mani pès
fili mani cuculùs
an tan tùs.
Dentro era buio, con puzzo di polvere, senza finestre, solo un finestrino
condannato col vetro opaco che dava sulla seconda rampa di scale, prima delle
soffitte. Mobili ammucchiati: un armadio con lo specchio macchiato, un tavolino
sopra un tavolo, un divano pieno di riccioli e una pila di cassetti. Chiudeva la porta e
accendeva la luce, una lampadina appesa al filo nel centro della stanza. Il baule era
pieno di farfalle; se lo spalancava venivano fuori a sciami. Le cose che cercava erano
in fondo, prima c’era uno strato di giornali, poi dei vecchi piatti avvolti nella paglia.
Si metteva quel cappello alto, con la nappa e con la morte. E poi il cinturone con la
pistola e le cartucce. Si guardava allo specchio dell’armadio. Anche Angelo Duccio
avrebbe avuto paura.
22.
“Nemo,
a volte sono convinto che tu sia un incapace e un vigliacco, un uomo che pensa
soltanto alle sue carte nautiche, un egoista che non sa vedere altro che un
piccolissimo pezzettino del mondo. E allora mi viene voglia di sfondare la porta della
stanza nella quale ti sei rinchiuso e prenderti a calci perché non sei come io credevo
che tu fossi.
Ti prego, torna a essere il Nemo che eri, Nemo, prima che sia troppo tardi. E allora
pensa un po’ anche a me, perché credo che dal tuo oblò di comando si vedono le cose
che io ignoravo e che ora ho capito. E quando tu accosterai l’occhio al periscopio dei
siluri, quando queste cose saranno proprio in mezzo alla croce del mirino, tu mi farai
un cenno abbassando il braccio, io abbasserò le leve, e i siluri schizzeranno fuori,
nell’acqua, fssssss…“.
23.
Chiuse la porta a chiave.
Pensò che era inutile spogliarsi, tanto si sarebbe alzato fra poco. Dal basso veniva
una musichetta in sordina, qualcosa di allegro. Si rialzò a chiudere le tende, per non
vedere il nero della finestra. Andò al tavolino per far sparire dai cassetti quanto non
avrebbe voluto che vi trovassero. Raccolse tutti i fogli sui quali aveva scritto. Tutti,
anche quelli con vecchi componimenti scolastici, quelli con frasi insignificanti, con
piccole cose di nessuna importanza. Li ammucchiò tutti sul tavolo e li guardò con
soddisfazione. Poi si ricordò che nell’ultimo cassetto, sotto le camicie estive, aveva
nascosto la pagina che aveva scritto a memoria, cercando di ricordare il Piccolo
trattato di tossicologia della biblioteca. La recuperò e prima di stracciarla rilesse:
MYCOBACTERIUM MURINUM. Genere tubercoloide, unicellulare, procariota,
possiede materiale genetico ma non organizzato in nucleo come negli eucarioti. Poco
visibile al microscopio normale causa le ridottissime dimensioni, per
l’individuazione si rende necessario l’impiego di sostanze evidenzianti (coloranti
comuni), o meglio la coltura. La semina si effettua su piastrine con un terreno di
coltura organico o sintetico (in tal caso è bene usare Agar come solidificante), dove
cresce in colonie dallo sviluppo assai rapido (20 min. ca. di crescita), provocando
escrescenze visibili anche a occhio nudo. L’entrata in circolo del batterio è quasi
sempre esiziale, perché il microrganismo attacca le vie polmonari con capacità
distruttiva immediata. Ma il suo terreno di coltura più idoneo è il pesce putrefatto, di
solito impiegato sulle piastrine come terreno di semina. Una goccia di liquido
coltivato contiene qualche milione di batteri. È raro, o praticamente impossibile,
poter individuare il mycobacterium m. in autopsia, perché esso provoca collasso
cardio-circolatorio senza produrre tossine o altre tracce tossiche; né d’altronde
presenta, durante la fase di crisi del paziente, i sintomi tipici di avvelenamento come
gli agenti tossici del genere “Boletum” (Vedi).
Asciugò accuratamente il lavabo, vi appallottolò tutti i fogli e dette loro fuoco.
Bruciarono in un momento, lasciando una cordigliera di fumo tutt’intorno sulla
maiolica. Nettò lo sporco con un panno bagnato e fece scorrere acqua. Aprì lo
sportellino sotto il lavabo e fiutò l’aria. Perfetto, non si sentiva nessun odore. Il
sacchettino era chiuso ermeticamente. Premette con un dito sul piccolo involucro di
plastica. Era molliccio, acquoso. Il pesce rosso doveva essere completamente
putrefatto.