dove va il mondo arabo? - SCUOLA DI CULTURA POLITICA

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dove va il mondo arabo? - SCUOLA DI CULTURA POLITICA
Paolo Branca
DOVE VA IL MONDO ARABO?
Premessa
Le Primavere di Como 2015
Obiezioni.
Dialoghi e lezioni oltre i luoghi comuni
Dove va il mondo arabo?
Paolo Branca
Grafica e impaginazione:
Moma Comunicazione srl - Bg
Stampa:
Litostampa - Istituto Grafico srl - Bg
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tutti i diritti sono riservati.
© Sesaab S.p.A. Bergamo - Marzo 2015
Occorre rifare uomini liberi.
Georges Bernanos, Français, 29
È Georges Bernanos la nostra scorta e guida per
la quinta edizione delle Primavere di Como: un
autore così controcorrente da risultare sempre
più attuale e stimolante. Sì, viviamo in tempi
dove è necessario rifare e rifarci uomini liberi.
D’altronde è sotto gli occhi di tutti che poter
esprimere le proprie idee, dire quello che si
pensa liberamente e pubblicamente, è una conquista, non una condizione data una volta per
tutte. Lo è ancora di più oggi, visto che in molte
parti del mondo la libertà di espressione è ignorata, minacciata, soffocata.
Ma forse corriamo un rischio ancora maggiore e
meno percepito: quello del pensiero a senso unico, appiattito sui modelli preconfezionati e sui
luoghi comuni che i media (la tv, il cinema, la
pubblicità, la rete) ci propongono di continuo.
Ecco perché gli incontri delle Primavere 2015
propongono delle civili “obiezioni” su argomenti
di attualità e aspetti decisivi della nostra vita,
nuovi approcci a problemi antichi, visioni del
mondo che ci aiutino ad pensare e praticare un
futuro diverso e migliore.
È un obiettivo ambizioso, ma decisivo se vogliamo davvero dirci, e a testa alta, uomini liberi.
Non è compito semplice, ma state certi che abbiamo relatori all’altezza della sfida, e partner
che ci supportano con entusiasmo e passione.
Non è tutto: dopo il successo dello scorso anno,
riproporremo per un pubblico più ampio le Primavere Pop: incontri informali che ci apriranno le porte del futuro, ci daranno gli strumenti
necessari, le parole adeguate. E da maggio,
con nuovi spunti di riflessione e nuovi relatori,
daremo vita anche alla seconda edizione delle
Primavere di Lecco.
E allora, che aspettiamo? Diamo il via a questa nuova, straordinaria stagione di dialoghi e
lezioni.
Diego Minonzio
Direttore de “La Provincia”
S
e Eric Hobsbawm ha potuto definire il XX come un secolo ‘breve’ per
l’Occidente – ridotto dal 1914 (inizio
della I Guerra Mondiale) al 1991 (crollo del
sistema sovietico) – un’analoga e ancor più
drastica compressione temporale potrebbe
essere ipotizzata per il Mondo Arabo, tra
la firma del trattato Sykes-Picot (1916) e
la bruciante sconfitta nella Guerra dei Sei
giorni (1967). Come ogni periodizzazione,
si tratta ovviamente di qualcosa di discutibile, e in questo caso forse persino di paradossale, se non altro per il dimezzamento
del tempo storico. Ma il ciclo del nazionalismo arabo e delle sue immediate propaggini post-coloniali e ‘rivoluzionarie’ ha
compiuto effettivamente un arco significativo tra queste due date e gli eventi ad esse
collegati, in entrambi i casi negativi e legati alla sua natura ‘retorica’. Il ‘tradimento’
delle aspettative degli alleati arabi da par-
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te anglo-francese fu reso possibile da una
situazione sul campo assai distante dalle
ancora immature rivendicazioni ‘nazionali’ delle aree interessate, mentre la disfatta
contro Israele è andata di pari passo con
l’ipertrofia di un discorso altisonante ma
scarsamente radicato nella realtà socio-istituzionale. Allargando tuttavia lo spettro
temporale per ricomprendervi la straordinaria rinascita (Nahda) culturale Araba
prodottasi tra ’800 e ’900 e giungendo fino
alle recenti Primavere Arabe, sia dal punto
di vista intellettuale che da quello popolare, il bilancio delle realizzazioni compiute e
delle energie in campo muta radicalmente e
si emancipa dalle ristrettezze della fase inevitabilmente più ideologica del fenomeno.
Il cosiddetto ‘islam politico’, estraneo sia
allo spirito della Nahda che a quello delle
Primavere, non a caso mostra proprio ora
tutti i suoi limiti, perché incapace di ricollegare almeno idealmente, ma soprattutto
in prospettiva, due momenti salienti – uno
più progettuale e l’altro più vitalistico o, se
si vuole, un contenuto e le sue possibili forme – della storia moderna di quest’area:
immensa orchestra che ancora attende di
poter eseguire la propria Opera magistrale.
PAOLO BRANCA
Il Risveglio
Nell’800 e nella prima parte del ’900, come
gran parte dei Paesi dell’Asia e dell’Africa,
anche quelli arabo-islamici hanno vissuto
l’intensa stagione della loro emancipazione
politica. Il concetto stesso di nazionalismo,
oltre alle forme assunte nella maggior parte dei casi dai movimenti che se ne fecero
portavoce, era un prodotto del pensiero occidentale moderno. In altri termini la sua
affermazione presso popoli abituati a concepire i rapporti tra etnia, lingua e stato
non fu quindi del tutto priva di problemi.
Nel mondo musulmano in particolare, dove
l’appartenenza all’unica Umma si fondava essenzialmente su basi religiose, per un
certo periodo l’ideale panislamico costituì
un’alternativa alla penetrazione del nazionalismo. Non a caso i maggiori esponenti
del radicalismo islamico hanno spesso richiamato la sostanziale incompatibilità tra
nazionalismo e islam: “Il musulmano non
ha altra patria che quella in cui vige la Legge di Dio (sharî`a) e dove i legami tra lui e
gli altri sono fondati sulla base della dipendenza da Dio, egli non ha altra nazionalità
che la sua fede, la quale lo rende membro
della Umma musulmana, all’interno della
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Dimora dell’islam (Dâr al-Islâm) ed egli
non ha parentela che quella che deriva
dalla fede e che rende lui e i suoi parte di
un’unica famiglia in Dio”1.
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1 Sayyid Qutb, Ma`âlim fî al-tarîq (Pietre miliari), Beirut 1995
(ristampa), p. 151.
la cultura di quei Paesi europei che stavano progressivamente mostrando la propria
potenza e imponendo la propria egemonia
sul resto del mondo, il nazionalismo sembrava il mezzo più adatto sia per mettersi
alla scuola dell’Occidente nella speranza di
colmare il distacco accumulato negli ultimi
secoli, sia per affrontarlo in prospettiva sul
suo stesso terreno. Le concezioni e gli ideali propri del nazionalismo hanno così fatto
il loro ingresso anche nel mondo arabo e
musulmano e sono stati paradossalmente
tanto più assimilati da ciascun Paese quanto maggiormente esso ha dovuto penare
per vederli riconosciuti e realizzati grazie
a un’aspra lotta per ottenere l’indipendenza proprio da quanti avevano contribuito
a far conoscere e a diffondere quegli stessi
concetti e ideali. L’ambiguità del rapporto
con l’Occidente, ritenuto nello stesso tempo
un modello e un ostacolo, ha origine appunto in questo paradosso, pur essendosi
arricchita di altri fattori nel corso delle fasi
successive. Queste ultime a loro volta non
sarebbero comprensibili se non si tenesse
conto del fatto che, per quanto innovativi,
gli elementi provenienti dalla cultura occidentale non furono in grado di scalzare
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Nonostante ciò, il nazionalismo finì per
avere fortuna anche nei Paesi islamici per
diverse ragioni. Intere aree avevano infatti
conservato nel corso dei secoli una propria
specificità nella quale sussistevano molti
elementi che potevano essere interpretati
come costitutivi di una peculiare identità
nazionale. Inoltre, con il progressivo indebolimento del potere centrale si era assistito alla rinascita di tradizioni letterarie e
culturali locali che, pur non mettendo in
discussione l’adesione alla Umma, rappresentavano la manifestazione più recente
dell’antica insofferenza nei confronti vuoi
di un’arabizzazione mai definitivamente
compiuta (come nel caso dei persiani o dei
berberi), vuoi dell’egemonia di una determinata etnia all’interno della Umma stessa
(come nel caso degli arabi nei confronti dei
turchi). Essendo infine parte integrante del-
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2 P. J. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, Milano 1993, p. 17.
islamici aderirono alla lotta anticoloniale,
ma non avrebbero tardato a prendere le
distanze dalle classi dirigenti che, all’indomani dell’indipendenza, dimostrarono il
carattere laico dell’ideologia che le aveva
portate alla vittoria. Si deve inoltre tener
conto che, per quanto epica ed esaltante,
la lotta di liberazione nazionale aveva ottenuto risultati soltanto parziali. Occorreva
infatti renderla sostanziale con scelte che
garantissero l’emancipazione economica,
senza la quale quella politica sarebbe restata puramente formale, così come restavano irrisolte altre delicatissime questioni:
il nazionalismo che aveva avuto ragione
dei colonialisti non aveva paradossalmente
allo stesso tempo legittimato proprio quelle entità territoriali che essi avevano creato
spartendosi le spoglie dell’Impero Ottomano in vista dei loro interessi? Quali istanze avrebbero dovuto avere la precedenza
nella politica dei nuovi stati indipendenti?
Quelle che miravano al superamento di una
condizione di frammentazione giudicata
comunque innaturale con opzioni in chiave panarabista o addirittura panislamica?
Oppure ulteriori autonomie avrebbero dovuto essere concesse a quei raggruppamenti
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del tutto quelli tradizionali, né seppero
amalgamarsi con essi in una sintesi compiuta, sovrapponendovisi piuttosto come
un’ulteriore stratificazione tutto sommato
piuttosto precaria.
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La priorità dell’obiettivo della conquista
dell’indipendenza fece sì che comunque
la contraddizione restasse latente per un
certo periodo, ma presto o tardi sarebbe
risultato evidente che il nazionalismo comportava necessariamente anche una certa
dose di laicizzazione “poiché rappresenta
un tentativo di separare l’islam dalla politica, escludendolo dalle questioni temporali.
Esso postula la separazione tra religione e
politica, tra religione e stato, o comunque
nega all’islam la centralità del suo ruolo
nella gestione degli affari politici terreni
dei musulmani”2. Il fatto che tanti arabi
cristiani abbiano contribuito alla fortuna
di questo movimento parrebbe dimostrare
che, almeno ai loro occhi, le nuove opportunità offerte da una comunità nazionale basata su criteri non confessionali non
dovevano sfuggire. Anche i movimenti
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che non avevano ancora goduto dei benefici della battaglia indipendentista (etnie,
come berberi e curdi, o comunità religiose
come drusi e maroniti)? In tal modo, come
i movimenti islamici non avevano potuto
non aderire alle campagne nazionaliste pur
rifiutandone l’ideologia, dopo l’indipendenza i governi dei nuovi stati, nonostante la
loro più o meno esplicitamente dichiarata
laicità, si trovarono a fare appello all’islam
come fattore di legittimazione e di coesione più efficace e sicuro di altri di fronte
alla complessità e alla delicatezza della
situazione che dovevano affrontare. Tra le
numerose ed annose questioni che travagliano questa parte del mondo alcune sono
veramente emblematiche: le incertezze e le
incoerenze dell’appoggio fornito ai palestinesi dai loro “fratelli” arabi, ad esempio,
sono forse la dimostrazione più dolorosa
e lampante delle contraddizioni irrisolte
dell’ideologia nazionalista la quale non a
caso sarebbe entrata definitivamente in crisi proprio dopo la cocente sconfitta del ’67.
Mentre accumulava insuccessi e manteneva
ambiguità irrisolte, il nazionalismo perdeva progressivamente anche la sua maggior fonte di legittimazione: il prestigio di
aver conquistato l’indipendenza. Se per gli
adulti infatti quest’ultimo restava intatto,
le nuove generazioni, non avendo memoria
diretta di quegli eventi, avrebbero sentito
maggiormente la delusione sia per le loro
speranze disattese, che per la soddisfazione
per i successi riportati, ormai troppo lontani nel tempo. L’importanza della stagione
nazionalista non va però troppo ridimensionata, poiché sembra conservare comunque un valore non del tutto svilito. Non a
caso gli esponenti dell’attuale radicalismo
islamico si affannano molto di più nel contestare il valore del nazionalismo che non
nel criticare le concezioni più tipiche della
fase successiva, ossia quella rivoluzionaria.
Quest’ultima infatti non ha interessato tutti
i Paesi arabo-musulmani, ma soltanto una
parte di essi, è stata inoltre più breve e ha
avuto un carattere più intellettuale ed elitario. D’altra parte, come l’ultimo scorcio
del XX secolo sembra aver dimostrato con
fin troppa evidenza anche in altre aree del
mondo, tra le ideologie che lo hanno caratterizzato quella nazionalista non sembra
la più indebolita, ma anzi quella capace di
trarre alimento dalla crisi delle altre che
appare molto più rovinosa e inarrestabile.
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Le tendenze che ancor oggi si manifestano
all’interno del mondo arabo non sono che
le espressioni più recenti di un vasto processo di rinascita che si è prodotto negli ultimi due secoli. Tale Risorgimento (Nahda)
sta alla base di tutte le correnti che si sono
successivamente sviluppate, anche di quelle che, a un primo esame, sembrerebbero
escludersi a vicenda. Proprio nelle ambiguità, e nella polivalenza delle premesse poste
durante la prima fase di questo “risveglio”,
trovano infatti un’unica origine tanto le
posizioni di quanti sostengono la necessità
di un sostanziale rinnovamento mediante
l’emancipazione dalla tradizione anche su
punti delicati ed essenziali, quanto quelle
di coloro che, al contrario, di quella stessa
tradizione intendono riproporre contenuti e
forme, rifiutando ogni altro modello e concependo la “riforma” più come un “ripristino” di quanto è stato accantonato o inadeguatamente applicato che come un effettivo
cambiamento, ambivalenza peraltro riscontrabile in ogni movimento modernista.
secoli del Califfato quando, in concomitanza con la sua grande espansione militare, l’islam seppe creare sintesi di ampio
respiro tra i suoi valori e l’eredità delle tradizioni culturali che andava via via inglobando. Terminata questa fase, già prima
dell’abbattimento degli Abbasidi da parte
dei Mongoli nel 1258, si era assistito a un
progressivo impoverimento e irrigidimento dottrinale che accompagnò l’islam fino
alle soglie dell’era moderna, con uno sviluppo inverso rispetto a quello conosciuto
dall’Occidente cristiano. I primi segnali di
rinnovamento si possono rintracciare già
nel XVIII secolo, con l’anticipazione di
alcune tematiche che sarebbero state riproposte sistematicamente dal successivo
riformismo islamico. Ricordiamo a questo proposito il movimento dei Wahhabiti,
fondato in Arabia da Muhammad ibn `Abd
al-Wahhâb (1703-1792), esponente di un
puritanesimo intransigente teso a riportare
l’islam alla sua formulazione originaria, liberandolo da principi e pratiche di origine
spuria che ne avevano alterato la purezza
e indebolito la forza.
La stagione più dinamica e creativa del
pensiero musulmano coincise con i primi
La fortuna del Wahhabismo si deve alla sua
alleanza con l’emergente dinastia saudita,
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Una rinascita ‘abortita’
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ma al di fuori dell’Arabia la sua influenza
fu assai limitata. La necessità di riformare
l’islam riportandolo alle origini e la contestazione di alcune parti delle dottrine e
delle pratiche tradizionali anticiparono comunque alcune tesi che successivamente
avrebbero avuto grande fortuna. Qualcosa
di analogo avvenne più o meno nello stesso
periodo in Cirenaica, con il movimento dei
Senussi. All’opposto dei Wahhabiti, costoro
non erano ostili alle pratiche mistiche, ma
si organizzarono addirittura come una specie di confraternita. Il loro fine era tuttavia
simile a quello dei puritani d’Arabia: essi
infatti si proponevano di riprendere lo stile
di vita austero e devoto dei primi credenti e rifuggivano l’esempio dei musulmani
occidentalizzati che avevano abbandonato
le antiche tradizioni e l’autentica dottrina
islamica.
Una trasformazione più profonda e generalizzata in grado di investire formulazioni
dottrinali classiche e radicate tradizioni si
ebbe però soltanto quando il più diretto
confronto e scontro con l’Occidente, non
più limitato soltanto o principalmente alla
sfera politico-militare, condusse a una
drammatica svolta. Si prese coscienza delPAOLO BRANCA
la necessità di acquisire nuove conoscenze
e tecniche moderne, di rinnovare apparati
e istituzioni e di sollevarsi dalla “stagnazione” (jumûd) che caratterizzava la vita culturale, ma ciò avvenne come d’improvviso
e non al termine di un graduale processo
evolutivo, quando la decadenza dell’Impero Ottomano e la politica espansionista
delle potenze europee costrinsero i Paesi
arabo-musulmani a prender coscienza del
loro “ritardo” in molti settori e dell’urgenza
di porvi rimedio. La data che viene solitamente indicata come punto di partenza
di questo processo è quella del 1798, corrispondente alla campagna di Bonaparte
in Egitto. In realtà già l’Impero Ottomano
aveva introdotto significative novità (come
la stampa, nel 1727, e - a metà dello stesso
secolo - la riforma dell’esercito), ma non
si può negare che tale processo fu stimolato ed accelerato dalla presenza francese
in Egitto e che esso continuò ad opera dei
governanti e degli intellettuali locali anche
dopo che quella ebbe fine.
Il desiderio di acquisire le conoscenze e le
tecniche che assicuravano ai Paesi europei
la superiorità determinò, negli anni successivi, l’invio da parte dei governatori d’Egitto
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a cominciare dal celebre Muhammad `Alî
(1769-1849) di apposite missioni di studio
che non limitarono il proprio interesse alle
scienze, ma si appassionarono all’insieme
della cultura occidentale e, una volta tornate in patria, furono determinati nella promozione di innovativi istituti di formazione,
destinati a creare la futura classe dirigente
alla quale furono offerti in arabo non soltanto manuali di studio, ma anche opere
filosofiche e letterarie dei maggiori autori
europei. Inestimabile fu il contributo dato
in questo senso da un’apposita commissione presieduta da Rifâ`a al-Tahtâwî (18011873) il quale tradusse dal francese autori
come Voltaire, Montesquieu e Fénelon e che
ci ha lasciato un interessantissimo diario del
suo lungo soggiorno parigino (1826-1831).
In particolare egli si pose il problema della
lingua, che doveva adeguarsi alla funzione
di strumento di comunicazione di massa
e dotarsi di un lessico rinnovato e di una
struttura più elastica per poter esprimere
nuove realtà. Il problema linguistico non si
limitava alla pur centrale questione della diglossia (vale a dire la differenza tra la lingua
scritta, rimasta fedele alle regole dell’arabo
classico, e quella parlata), ma investiva altri
importanti temi quali quello dell’evoluzione
lessicale, avvertito con particolare acutezza
da intellettuali di doppia formazione, come
Salâma Mûsâ (1887-1958) che scrisse:
“Non so come indicare in arabo i mobili
che arredano la mia stanza, mentre non ho
difficoltà a farlo in inglese”3. L’argomento
non era del tutto nuovo, già al-Tahtâwî ne
aveva trattato, sollevando anche delicati
interrogativi sugli aspetti strutturali della
lingua come veicolo efficace di trasmissione
e di sviluppo del pensiero.
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Dalla consapevolezza teorica del problema
si passò in seguito a nuove esperienze nel
campo letterario. Ben lungi dal ridursi a un
mero problema di aggiornamento lessicale,
la questione metteva in discussione le stesse modalità tradizionali dell’argomentare:
“L’incontro con l’Occidente moderno non
ha determinato solamente un indispensabile arricchimento della terminologia
nell’arabo e nelle lingue circostanti; era lo
stesso modo canonico di esprimere il pen3 S. Mûsâ, “al-Taraddud bayna al-Sharq wa-l-Gharb” (L’indecisione tra Oriente e Occidente”), in al-Yawma wa-ghadan (Oggi
e domani) riportato in Aa. Vv. , Fî-l-qawmiyya al-`arabiyya (Sul
nazionalismo arabo), Beirut 1980, p. 340.
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siero - affidato alla concatenazione di proposizioni scarsamente subordinate e mal
disciplinato all’infuori della speculazione
teologica e filosofica - che necessitava terribilmente di una riorganizzazione interna
e di una sintassi più stringente per poter
riflettere il mondo delle idee dell’Occidente
moderno. Le difficoltà nel tradurre opere
storiche o sociologiche in arabo non sono
per esempio ancora state risolte, e ciò è
dovuto non tanto a lacune lessicali quanto
ad aspetti stilistici propri delle lingue occidentali che tendono a sfuggire alla sintassi araba”4. Così, una lingua famosa per la
ricchezza dei sinonimi e che ne vanterebbe 500 per ‘leone’ e addirittura 1000 per
‘spada’ si trovò improvvisamente “povera” di fronte a nuove realtà. Tale aggettivo
fu adoperato per qualificarla dal libanese
Ibrâhîm al-Yâzijî sulle colonne di Hadîqat
al-akhbâr (2/12/1858), dove si premurò
di aggiungere: “Se qualcuno trovasse tale
definizione saccente od offensiva verso l’intelligenza degli arabi, provi a prendersi la
briga di tradurre il discorso di un membro
del Parlamento britannico o ancor meglio
provi a rendere in arabo il resoconto di una
seduta, un pezzo sul teatro europeo, un saggio politico, una relazione commerciale e
così via. Si troverebbe ad ogni frase come
di fronte a una voragine dalla quale non
potrebbe risalire se non con acrobazie linguistiche che lascerebbero sconcertato e in
dubbio ogni lettore”.
4 G. E. Von Grunebaum, L’identité culturelle de l’islam, Parigi
1973, p. 141.
Si posero così le basi per la nascita di
quell’arabo letterario “medio” che ancora
oggi è utilizzato nella stampa quotidiana,
nei libri e nelle riviste. Il ruolo dei giornali
e della pubblicistica fu fondamentale nella sua genesi e nella sua evoluzione alla
quale diedero un contributo inestimabile
anche alcuni intellettuali cristiani, quali il
linguista e lessicografo Butrus al-Bustânî
(1819-1883) del Syrian Protestant College
(fondato nel 1866 e divenuto nel 1919 l’American University di Beirut), il poligrafo
Jurjî Zaydân (1861-1914), il poeta e pittore Khalîl Jubrân (1883-1931) (il Kahlil
Gibran noto in occidente soprattutto per la
celebre opera in versi Il Profeta, composta
però in lingua inglese), lo scrittore Mikha’îl
Nu`ayma (1889-1988) che, grazie al rapporto privilegiato che univa la Chiesa or-
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todossa libanese alla Russia, poté attingere anche alla tradizione slava, oltre che a
quella anglosassone, e gli scientisti libanesi,
tra i quali Farah Antûn (1874-1922), influenzato da autori quali B. de Saint-Pierre
o A. Comte e traduttore di E. Renan e F.
Nietzsche.
potuto garantire alla lunga l’indipendenza
e lo sviluppo dei Paesi arabo-musulmani
se non fosse andata di pari passo con una
radicale revisione del potere autocratico dei
loro principi e con l’evoluzione delle istituzioni e delle finanze pubbliche sul modello
dei moderni stati europei6.
Non meno significative furono le trasformazioni nel settore giuridico, dove modelli di
stampo occidentale cominciarono a influire
sulla codificazione del diritto, emancipandolo largamente dalle forme e dalle disposizioni tradizionali mediante un “processo di
acculturazione che nel campo del diritto si è
prevalentemente manifestato con la ricezione di modelli normativi stranieri”5 già evidente nelle riforme avviate da Adbul Majîd
I (1839-1861) nell’Impero Ottomano, le
celebri Tanzîmât. Nel Maghreb, e più precisamente in Tunisia, si adoperò in tal senso particolarmente lo statista Khayr al-Dîn
(1820-1889), il quale si avvide che l’acquisizione di tecniche e strumenti di guerra
più aggiornati e perfezionati non avrebbe
L’apertura alle suggestioni del pensiero europeo, in questi e in altri settori, fu in un
primo tempo entusiastica e incondizionata, ma la fase ricettiva non poteva durare
a lungo in modo acritico, non soltanto a
motivo del rischio di perdita d’identità che
un simile processo comportava, ma anche
a causa degli avvenimenti politici che vedevano nella politica di aggressione coloniale dell’Occidente il principale ostacolo
sulla strada della realizzazione di quegli
stessi ideali che il contatto con la cultura
europea aveva contribuito a diffondere. Le
tematiche del risveglio culturale, il recupero
della propria tradizione, nella quale l’islam
giocava un ruolo di primo piano, e l’anelito
5 F. Castro, “La codificazione del Diritto privato negli Stati arabi
contemporanei”, in Rivista di Diritto Civile, n. 4 (1985), pp. 388.
6 Cf. J. Fontaine, “Khéreddine, réformiste ou moderniste?”, in Institut Belles Lettres Arabes, 1967, 30, pp. 75-81; Kh. al-Tounsî (a
cura di M. Morsy), Essai sur les réformes nécessayes aux Etats
musulmans, Parigi 1987.
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al riscatto politico presero dunque a muoversi di pari passo.
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Ciò è evidente già in Jamâl al-Dîn al-Afghânî (1838-1897), ispiratore di gran parte
delle correnti innovative del pensiero musulmano moderno. Il grave stato di decadenza in cui versavano i Paesi musulmani
- a suo parere - non soltanto non era degno
del loro glorioso passato, ma neppure conforme allo spirito genuino dell’islam che
vede nel successo anche temporale un segno
della propria autenticità e della benevolenza divina. Riprendendo una celebre affermazione coranica secondo la quale “Iddio
non cambia il favore di cui ha favorito
un popolo fin quando essi non cambiano
quel che hanno in cuore” (VIII, 53; XIII,
11), al-Afghânî si fece impietoso censore
di quegli atteggiamenti che avevano reso i
musulmani corresponsabili della crisi che
li affliggeva. L’ignoranza e la pedissequa
imitazione della tradizione nelle sue formulazioni più tarde e decadenti; le divisioni interne alla Comunità che opponevano le une
alle altre sette ed etnie chiamate invece ad
essere solidali in nome della fede comune;
il carattere dispotico del potere della maggior parte dei prìncipi musulmani e la loro
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inclinazione verso le più opportunistiche
alleanze furono oggetto della sua critica;
ma non meno deciso e combattivo egli si
dimostrò nel prendere le difese dell’islam
nei confronti dei suoi detrattori. Ribattendo alla tesi espressa da Ernest Renan nella
celebre conferenza tenuta alla Sorbona nel
1883 secondo la quale l’islam sarebbe “la
negazione della scienza”, al-Afghânî diede
l’avvio a un filone apologetico destinato a
svilupparsi enormemente negli anni successivi e che tenderà a dimostrare non soltanto la perfetta compatibilità tra scienza
e fede, ma addirittura la superiorità dell’islam rispetto alle altre religioni quanto ad
apertura verso le esigenze della razionalità,
imputando i mali di cui il mondo musulmano soffriva anzitutto a un’incompleta o non
corretta adesione agli ideali della propria
fede da parte dei suoi stessi seguaci.
Se da un lato si avvertiva dunque la necessità di svincolarsi dagli aspetti statici del
pensiero religioso tradizionale e di una più
generale maturazione, dall’altro cresceva la
consapevolezza che proprio esso - benché
diversamente interpretato - poteva fornire
quegli elementi di continuità che garantissero la conservazione della propria identità
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Chi sviluppò in tal senso lo spirito del riformismo musulmano fu soprattutto il dotto
egiziano Muhammad `Abduh (1849-1905).
Dopo una formazione tradizionale e il fondamentale incontro con al-Afghânî, di cui
fu stretto collaboratore durante un breve
esilio parigino, `Abduh si dedicò completamente agli studi e all’insegnamento.
Ebbe così occasione di dare un importante
contributo al rinnovamento del pensiero
religioso islamico. Soprattutto nel suo celebre trattato teologico Risâlat al-tawhîd
(Epistola sull’unicità divina) egli riprese lo
spirito dell’antica scuola mu`tazilita (IX secolo) che si era adoperata per armonizzare
su basi razionali il sapere scientifico - allora rappresentato dall’eredità della filosofia
classica - e quello religioso. Nel pensiero di
`Abduh l’accordo tra ragione e fede, lungi
dal ridursi a un semplice argomento apologetico, sta alla base di un nuovo rapporto tra natura e rivelazione, con importanti
conseguenze sul piano etico. Accordando
all’uomo la capacità di conoscere da sé
alcune fondamentali verità, prima che la
rivelazione venga a completarle, egli ammetteva l’esistenza di una morale naturale,
indispensabile alla rivalutazione della responsabilità individuale e contraria a ogni
tendenza fatalista. Anche sul piano pratico
`Abduh si distinse per iniziative coraggiose, come le riforme che propose per la moschea-università di al-Azhar relativamente
sia ai contenuti degli insegnamenti (introduzione dello studio delle lingue straniere
e di materie scientifiche) sia all’organizzazione della vita degli studenti (didattica,
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in un momento di tanto vaste e radicali trasformazioni. Qualcosa di simile allo spirito
della Riforma protestante si può rintracciare nel pensiero di al-Afghânî, il quale sosteneva la necessità di un contatto diretto
con l’autorità della Scrittura (il Corano),
senza fermarsi all’interpretazione tradizionale. Di qui la condanna dello spirito di
“imitazione” (taqlîd) e l’invito a riaprire la
“porta dell’ijtihâd”, cioè dello “sforzo interpretativo” indebitamente interrotto ormai
da molti secoli. Alcuni temi teologici, come
quello del rapporto fede-opere e quindi la
questione della predestinazione, così come
fenomeni religiosi di rilevo, quali quello
delle confraternite mistiche molto diffuse a
livello popolare, venivano implicitamente
messi in discussione da questo nuovo modo
di vedere le cose.
27
sussidi, alloggi...), e contribuendo coi suoi
insegnamenti alla formazione di una nuova
generazione di intellettuali destinati a giocare un ruolo di rilievo nelle future vicende
del mondo arabo musulmano.
28
Dopo la sua scomparsa, il movimento che
a lui si rifaceva venne guidato dal siriano Rashîd Ridâ (1865-1935) e prese il
nome di Salafiyya7, con riferimento alle
“prime generazioni” (salaf) di seguaci del
Profeta che più fedelmente ne avevano seguito l’esempio attuando gli insegnamenti
dell’islam. Questa stessa ambigua denominazione rivela come progressivamente,
all’impulso realmente innovativo, si andava affiancando e talvolta sostituendo la
tendenza a ripristinare l’islam nelle sue
forme originarie, privilegiando il filone
apologetico e revivalista che fu proprio
anche dei primi movimenti islamici radicali, sorti appunto in quegli stessi anni,
come quello dei Fratelli Musulmani.
La Rivincita di Allah
Da quanto si è detto fin qui emerge con
chiarezza che sarebbe indebito considerare la religione un elemento ininfluente o
marginale nel confronto in atto, benché si
debba tener conto della complessità e della contraddittorietà delle motivazioni che
portano il “discorso religioso” ad imporsi
prepotentemente sulla scena.
7 Cf. H. Laoust, “Le Réformisme orthodoxe des ‘Salafiya’ et les
caractères généraux de son orientation actuelle”, in Revue des
Etudes Islamiques, 1932, VI/2, pp. 385-434.
I Paesi arabi e, più in generale, l’intero
mondo musulmano sembrano interessati
da una progressiva crescita e affermazione
di correnti e movimenti che puntano decisamente all’islamizzazione integrale della
società, proponendo questa opzione come
l’unica in grado si risolvere, insieme ai
molti problemi che affliggono questa parte
del mondo, la sua stessa crisi di identità
e di rispondere all’ansia di riscatto che la
pervade. Così facendo essi pretendono di
riproporre semplicemente il giusto rapporto
tra religione e politica che l’islam implicherebbe necessariamente e che sarebbe stato
alla base della straordinaria espansione e
fioritura dei secoli d’oro della civiltà musulmana. Fino a che punto questa ideologia
si riallaccia effettivamente alla tradizione
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
29
30
islamica e in che misura è invece una sua
reinterpretazione funzionale a situazioni recenti e contingenti? Parole d’ordine e strategie dei gruppi che se ne fanno promotori
appartengono veramente a un presunto
modello islamico originario o riproducono
in chiave religiosa qualcosa di analogo a
quanto fino a poco tempo fa apparteneva
ai movimenti di tipo nazionalista o rivoluzionario? Perché queste due ultime impostazioni, sino a ieri prevalenti, sembrano
inesorabilmente entrate in crisi e quali sono
i motivi della grande fortuna incontrata dal
radicalismo musulmano che ne ha preso il
posto?
L’opzione islamica radicale è solamente una
tra le varie possibili. Se così non fosse, dovremmo accettare l’idea che i musulmani
siano “per loro natura” e “necessariamente” aggressivi e intolleranti, il che contrasta
con il modus vivendi che essi hanno saputo quasi sempre - e in tempi non sospetti
- trovare con altre fedi e culture, come è
riconosciuto anche dagli studiosi solitamente meno ‘teneri’ nei confronti dell’islam:
“Nella storia islamica non c’è nulla di paragonabile all’emancipazione, accettazione
e integrazione di dei credenti di altre fedi
PAOLO BRANCA
e dei non credenti avvenuta in Occidente;
ma parimenti non c’è nulla di paragonabile
all’espulsione degli ebrei e dei musulmani
dalla Spagna, all’Inquisizione, agli autodafé, alle guerre di religione, per non parlare di più recenti crimini commessi o lasciati
commettere. Ci furono casi di persecuzione,
ma rari ed eccezionali. Entro certi limiti e
a certe condizioni, i governi islamici erano
disposti a tollerare l’osservanza, anche se
non la diffusione, di altre religioni monoteistiche rivelate. Hanno superato anche una
prova più difficile, quella di tollerare forme
devianti della loro stessa religione. Perfino i
politeisti, benché in teoria condannati dalla
legge a scegliere fra conversione e schiavitù, furono in pratica tollerati quando il dominio islamico si estese alla maggior parte
dell’India. Solo i miscredenti totali - gli
agnostici o gli atei - erano al di là dei limiti
della tolleranza, ma anche la loro espulsione veniva imposta solo quando il reato diventava pubblico e motivo di scandalo. Lo
stesso criterio era applicato nel tollerare le
forme devianti dell’islam”8. è soprattutto
oggi che, con il crescente numero di mu8
B. Lewis, Il suicidio dell’islam, Milano 2002, pp. 124-125.
DOVE VA IL MONDO ARABO?
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sulmani che il fenomeno delle migrazioni
sta portando tra noi, essi sono percepiti con
timore, come portatori di una visione del
mondo antitetica e incompatibile rispetto a
quella che siamo abituati a considerare tipica della modernità e universalmente valida.
32
Dietro questa posizione si cela un insidioso
rischio dal quale, se non altro per motivi
di convenienza, sarebbe bene guardarsi.
Considerare infatti i musulmani un blocco
monolitico sotto il vessillo del fondamentalismo significherebbe dare a quest’ultimo
l’immeritato titolo di rappresentante legittimo e ufficiale dell’intero islam. è esattamente ciò a cui punta, e in ciò potrebbero
favorirlo proprio contrapposizioni frontali
che finirebbero per indurre un compattamento del fronte musulmano.
Che l’opzione islamica radicale sia presente,
abbia numerosi esponenti o simpatizzanti
e che sia per molti aspetti temibile non lo
si può certo negare ed lo riconoscono anzi
anche alcuni autori musulmani: “In effetti,
oggi l’islam fa paura. è innegabile. [...] Ma
si tratta di qualcosa di fatale, di un destino ineluttabile? [...] Il problema che sta di
fronte al musulmano non è facile. Alle note
PAOLO BRANCA
difficoltà legate allo sviluppo si aggiunge il
peso della tradizione e la pervasività della
religione. Per superare o evitare l’ostacolo,
molte formule sono state proposte e tentate.
Alcune ammettono come postulato che l’islam sia un universo chiuso. Altre implicano
l’inevitabilità dello sradicamento culturale.
Lo sforzo maggiore è quello di coloro che
rifiutano tali posizioni estreme tentando, da
oltre un secolo, di realizzare una modernizzazione che non comporti né uno sradicamento, né l’isolamento dai propri simili. Se
l’islam può darsi oggi un senso, di che altro
si tratterà se non quello di realizzare una
più ampia comunicazione tra gli uomini?
Ogni autentico musulmano crede infatti che
la sua religione si rivolge all’intero genere
umano e che vale per ogni tempo e per ogni
luogo. La sfida che gli lancia il mondo moderno è semplicemente quella di provarlo”.9
Non apprezzare la peculiarità del presente
momento storico e delle espressioni dell’islam che in esso si producono potrebbe
condurre sia a una loro inadeguata o er9 H. Boularès, L’islam. La peure et l’espérance, Parigi 1983,
p. pp. 8-12.
DOVE VA IL MONDO ARABO?
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rata comprensione sia alla diffusione di
una visione distorta dell’islam in quanto
tale. Contro quest’ultima tendenza vanno
in particolare gli sforzi di quanti, all’interno e all’esterno dell’islam, sottolineano le
profonde differenze tra le attuali manifestazioni di questa religione e la sua Grande Tradizione10. Se tuttavia la pretesa che
i movimenti musulmani radicali non siano
altro che l’espressione diretta e quasi inevitabile dei presupposti stessi della fede
islamica va rifiutata, il problema non può
essere liquidato semplicemente rifugiandosi
nella facile e illusoria consolazione offerta
dall’immagine di un islam “classico” aperto
e tollerante. Anche coloro che quest’ultimo
giustamente evocano e ripropongono, notano opportunamente che uno scivolamento
verso posizioni radicali non si è avuto soltanto in alcuni movimenti, ma nelle stesse
istituzioni islamiche tradizionali: O. Carré
parla espressamente di una “orthodossia
deviante”11 e N. H. Abû Zayd denuncia la
sostanziale identità del “discorso religioso”
sostenuto dai cosiddetti moderati (mu`ta10 Cfr. O. Carré, L’islam laico, Bologna Parigi 1997.
11 Ibidem, pp. 31 ss.
PAOLO BRANCA
dilûn) non meno che dagli estremisti (mutatarrifûn). In conclusione si può constatare
che le entità nazionali costituitesi dopo la
dissoluzione dell’Impero Ottomano hanno
progressivamente sempre più dovuto misurarsi con una ‘legittimazione religiosa’,
mentre accumulavano ritardi e fallimenti
sul piano politico e sociale, anche e forse
soprattutto perché il soffocamento di ogni
dibattito interno imposto da regimi dittatoriali prevalentemente ‘laici’ ha paradossalmente favorito la contestazione islamista
come unica possibilità di opposizione efficace, per quanto demagogica, al proprio
assolutismo.
A volte ritornano
Nel 1924, dopo la sconfitta nella I guerra mondiale e la nascita della repubblica
di Turchia, sia il Sultanato che il Califfato vennero aboliti anche e definitivamente
‘de iure’. I tempi erano infatti maturi per
sanzionare ciò che di fatto era ormai una
realtà, tant’è vero che già l’anno successivo
usciva in Egitto un pamphlet destinato a
far scalpore. Si tratta di al-Islâm wa usûl
al-hukm (L’islam e le basi del potere) di
`Alî `Abd al-Râziq nel quale si sosteneva la
DOVE VA IL MONDO ARABO?
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36
necessità di introdurre una netta distinzione
tra religione e politica poiché, secondo l’autore, la confusione tra i due campi è stata
voluta dai detentori del potere soltanto in
funzione dei loro propri interessi. Nel Corano e nell’insegnamento del Profeta non
vi sarebbero infatti elementi sufficienti per
sostenere che l’islam porti necessariamente con sé una determinata organizzazione
della società con una specifica forma di potere. L’opera, accanto a qualche consenso,
suscitò soprattutto violente critiche e compromise la carriera dell’autore. Seguiva a
ruota il corposo saggio di A. Sanhouri, Le
Califat. Son Evolution vers une Societé des
Nations Orientale, (Paris, Librairie Orientaliste P. Geuthner 1926) che rimproverava
l’autore precedente di aver confuso la legittimità dell’istituto califfale con l’indegnità
di chi l’ha talvolta assunto, ma soprattutto
di pretendere di applicare al passato le concezioni contemporanee di ‘religione’ e ‘stato’, limitandosi a cercare nella storia ciò che
potesse sostenere le sue tesi piuttosto che
studiarla per com’è realmente stata e da
tale analisi ricavare conclusioni fondate. A
sua volta, tuttavia, Sanhouri terminava con
una meno velleitaria proposta di restaurare
l’appena defunta istituzione come una specie di Società delle Nazioni musulmane con
una vena di panislamismo desinato a essere
invece travolto dai nuovi e robusti movimenti nazionalistici. Qualcosa di simile era
del resto apparso sulla rivista cairota alManàr già nel 1922 ad opera del direttore,
il siriano Rashid Rida (trad. franc. H. Laoust, Le Califat dans la doctrine de Rashid
Rida, Mémoires del l’Institut Français de
Damas, 1938) il quale si mosse in una linea
riformista assai più prudente rispetto al suo
maestro Muhammad ‘Abduh (m. 1905) e
non esitò a esprimersi sul tema in questi
termini: “La situazione è talmente stravolta
che molti uomini di stato, leaders militari e
politici, pensano che le istituzioni islamiche,
fra cui il Califfato, son responsabili dell’attuale decadenza e che i musulmani che le
conservassero non potrebbero diventare
una nazione ricca e potente, mentre è vero
esattamente il contrario” (p. 116). Non a
caso anche la nascita del movimento dei
Fratelli Musulmani (1928) risale al medesimo periodo, benché in parte l’ideologia
e la prassi da esso seguite non possono essere ridotte a una semplice rivendicazione
del Califfato. Lo shock della venuta meno
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
37
di quest’ultimo non mancò probabilmente
di affrettarne e favorirne l’espansione, ma
ormai in un’agenda che aveva ben altre
priorità, prima fra tutte la liberazione dal
colonialismo.
38
Come, dunque, e perché si sia giunti solo
ora a pretendere la restaurazione del Califfato, forse non assente tra quanto a lungo
vagheggiato, ma mai individuato almeno
come obiettivo programmatico realizzabile a breve termine resta un problema da
chiarire.
in Occidente, non è tanto ingenuo da poter pretendere di sconfiggere direttamente
la superpotenza americana né Israele, ma
ha sempre mirato piuttosto a una destabilizzazione a danno dei vari regimi arabi e
islamici. L’acuirsi della tensione fra sunniti
e sciiti e la degenerazione della situazione
irachena e siriana verso una vera e propria
guerra civile ne sono la più eloquente dimostrazione. Il caos seguito al periodo delle
cosiddette ‘primavere arabe’ ha interessato
proprio principalmente questi due Paesi
che da un lato sono stati le sedi storiche
del Califfato omayyade di Damasco e di
quello abbaside di Baghdad e dall’altro
sono emersi come entità statuali proprio
un secolo fa con la I Guerra Mondiale, il
dissolvimento dell’Impero Ottomano e l’iniqua spartizione dei territori arabi tra Francia e Gran Bretagna in forza degli accordi segreti Sykes-Picot, concordati proprio
mentre Lawrence d’Arabia ne convinceva
i governanti all’alleanza coi futuri vincitori
a danno dei turchi e dello schieramento di
cui questi ultimi facevano parte.
Anzitutto va tenuto conto che il fenomeno
del terrorismo di matrice islamica, benché abbia scelto bersagli simbolici anche
L’instabilità della regione, in cui si sono
accumulate ed esasperate tensioni d’ogni
genere – quasi fosse una valvola di sfogo
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
Una volta raggiunto tale obiettivo, tuttavia,
emerse prepotentemente il conflitto fra le
visioni di altri che vi avevano contribuito
e quella di coloro che più meno esplicitamente miravano all’istituzione di uno Stato
islamico. Per un certo periodo la querelle si
incentrò sull’applicazione della sharî’a, anche se ben presto alcuni importanti teorici
giunsero a definire indispensabile la presa
del potere come condizione imprescindibile
per la realizzazione di tale scopo.
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40
di più ampi conflitti geo-strategici -, con il
collasso repentino di molti regimi e proprio
all’approssimarsi del primo centenario della Grande Guerra che ne ha prodotto una
partizione in stati nazionali moderni spesso male impostati e ancor peggio digeriti,
vede in attori locali improvvisati, e forse in
qualche apprendista stregone della politica
internazionale, gli impresari di una velleitaria ristrutturazione nella quale le identità etnico-religiose tornino a rappresentare
i nuclei attorno ai quali coagulare forme di
lealtà e di legittimazione che altre ricette
non hanno saputo garantire.
Un’occasione troppo ghiotta per ottenere in
un sol colpo numerosi vantaggi:
a. La liquidazione del nazionalismo arabo,
o di quel che ne resta, nonostante i suoi
meriti nell’ottenimento dell’indipendenza
dalle potenze coloniali, denunciandone l’origine allogena e quindi illegittima, se non
addirittura perniciosa per aver favorito uno
spezzettamento della grande Umma in entità fragili e litigiose.
con le potenze straniere e responsabili della
svendita della causa araba e dell’orgoglio
islamico cui sarebbe stato impedito scientemente e sistematicamente di ritornare agli
antichi splendori.
c. Lo scavalcamento di tutta la galassia di
movimenti islamisti che negli ultimi decenni hanno in vari modi ‘accettato’ di intraprendere una sorta di lunga marcia nelle
istituzioni, rinunciando alla lotta armata o
comunque riducendola, colpevoli di tradimento anche e forse soprattutto per esser
scesi a patti con il ‘sistema’ almeno formalmente e gradualmente indirizzato verso una
pluralizzazione delle forze politiche e sociali
chiamate a confrontarsi all’interno di una
competizione politica ispirata ai modelli
dell’odiato Occidente.
b. La messa in stato d’accusa di tutti i regimi che si sono da allora succeduti, collusi
d. L’intercettazione di un certo numero di
militanti delusi e scoraggiati in forza sia di
un programma di mobilitazione senza tentennamenti, sia del collegamento con simboli forse arcaici ma appunto per questo
meno usurati dalla globalizzazione e dalla
crisi economica che han tolto smalto a tutte
le ideologie più recenti, sia infine ad un abile e spregiudicata campagna mediatica che
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
unisce l’utilizzo degli strumenti tecnologici più raffinati al recupero di antichissime
attese messianiche che parlano degli stendardi neri dei combattenti musulmani provenienti da est prima della fine dei tempi e
dell’avvento dell’atteso Mahdi, la versione
musulmana del Messia.
42
Ogni forma di governo che non dipenda direttamente dalle norme islamiche sarebbe
priva di qualsiasi legittimità. Non si tratta
certamente di un argomento nuovo, basti
pensare che persino il Califfato Omayyade di Damasco (terminato del 750 d.C.) fu
accusato di essere solo una forma di potere
(mulk) e di essersi distaccato dalla prassi corretta improntata alla religione (dīn)
dei primi quattro Califfi ‘ben diretti’. Ma
è soltanto nell’epoca più recente che l’anatema (takfīr) rivolto all’intera società
ritenuta ‘non più musulmana’ o ‘apostata’
ha cercato di giustificare il ricorso al terrorismo che colpisce indiscriminatamente
anche innumerevoli civili innocenti. Nessun compromesso sembra pertanto possibile, come del resto è stato ribadito dal
portavoce dell’IS Abu Muhammad al-Adnani al-Shami nella lettera aperta resa nota
all’inizio del mese di Ramadan 2014 (htPAOLO BRANCA
tps://archive.org/stream/AlAdnaniMayAllahBeWithYouOOppressedState/Al-Adnani-%20They%20Shall%20by%20no%20
means%20Harm%20you_djvu.txt) nella
quale ogni autorità salvo quella califfale sarebbe “un semplice regno, frutto di conquista e di conseguenza foriero di distruzione,
corruzione, ingiustizia, terrore e riduzione
dell’essere umano al livello animale”. Nella
stessa missiva si annunciava tra l’altro la
modifica dell’acronimo ISIS semplicemente in IS, unica forma di Stato ammissibile
per i credenti non fuorviati da “democrazia, laicità o nazionalismo”, perciò invitati
a riconoscersi in esso e a schierarsi dalla
sua parte.
Con le recenti sollevazioni che in molti Paesi arabi hanno condotto alla fine di regimi
autoritari e corrotti abbiamo visto grandi
masse mobilitarsi in nome di princìpi e valori che ritenevamo estranei o comunque
lontani dalla sensibilità di popolazioni in
gran parte musulmane. Anche l’assenza di
slogan anti-occidentali od ostili all’imperialismo, al neocolonialismo e al sionismo
hanno sorpreso non pochi osservatori, e chi
ha potuto seguire più da vicino e in lingua
originale il dibattito che si è aperto in quei
DOVE VA IL MONDO ARABO?
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giorni ha avuto occasione di constatare che
esso verteva anche su neologismi altamente significativi. Il concetto di laicità,
infatti, comunemente espresso in arabo
col termine ‘ilmāniyya (da ‘ilm, ‘scienza’,
o da ‘ālam, ‘mondo’), fortemente dipendente da concezioni appunto razionaliste
o secolariste tipicamente europee e un po’
‘datate’, è stato sostituito dal temine madaniyya (unito a dawla, cioè ‘stato’) che
significa ‘civile’, non soltanto contrapposto a ‘militare’, ma anche a ‘clericale’ o
‘religioso’ in senso confessionale. Ciò spiega, tra l’altro, anche la decisa partecipazione alle proteste sia di cristiani arabi sia
di musulmani non radicali.
irrisolti piuttosto che alla loro soluzione.
Si sono manifestate così dinamiche finora
represse o sottostimate che potrebbero ancora dar frutto nel medio periodo.
Il fatto che, specialmente in Tunisia e in
Egitto, si sia passati alla vittoria di movimenti islamisti alla prima tornata elettorale sembrerebbe contraddittorio, ma era
in parte inevitabile che ne approfittassero
inizialmente quei movimenti già esistenti
e radicati nel territorio che hanno a lungo
rappresentato l’unica forza di opposizione
organizzata in quei Paesi. Il processo di
trasformazione iniziatosi con le ‘primavere arabe’ ha dunque contribuito a un’emersione ancor più evidente di molti nodi
Ne sono una prova alcune provocazioni
che esponenti dei gruppi più tradizionalisti hanno osato manifestare e che, pur
nel loro carattere paradossale o forse proprio grazie ad esso, pongono in questione
alcuni punti cruciali e dirimenti rispetto
alla posizione dei singoli e dei gruppi circa
uno stato moderno e rispettoso dei diritti
umani dei suoi stessi cittadini. Il presunto
ritorno all’applicazione integrale e intransigente della cosiddetta legge islamica,
che mai è stata codificata e si è configurata piuttosto come una giurisprudenza
che come un diritto positivo, ha rappresentato il pretesto per qualcuno non solo
di proporre il ripristino (come ad es. in
Tunisia dov’era vietata) della poligamia,
ma addirittura del concubinato. Il Corano, come del resto la Bibbia, registrano
infatti la schiavitù come una prassi che
tentano di moderare nelle sue manifestazioni estreme, ma non vietano esplicitamente. è chiaro che lo status di ‘non mogli’ legalmente ammissibili dipenderebbe
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
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46
da una reintroduzione della schiavitù,
cosa non immediatamente percepibile né
apertamente rivendicata dai sostenitori di
questa restaurazione, in quanto improponibile anche alla sensibilità dei loro stessi
sostenitori... Analogamente, quando si
giunge a proporre di ritornare alla tassa
di sottomissione da parte delle minoranze
cristiane o d’altra fede, è implicita una regressione verso epoche e stili di vita di carattere feudale, dove la mancanza di uno
stato di diritto poteva far concepire come
legittimo uno status di cittadinanza di serie B per i seguaci di religioni diverse da
quella dominante, dispensati dal servizio
militare ad esempio, e proprio per questo
tenuti a compensare tale ‘privilegio’ con
uno speciale tributo.
che rappresenta circa il 90% del mondo
islamico), il secondo è quello di dare per
scontato che tutti i musulmani ritengano
giusto se non indispensabile reintrodurre
le norme mutuate dalle fonti tradizionali,
ignorando che molto probabilmente gran
parte di loro riterrebbe inconcepibile tornare alla schiavitù o alla discriminazione
delle minoranze religiose una volta posta
chiaramente di fronte a tale prospettiva.
Quando certa propaganda si ostina a considerare l’islam in se stesso incompatibile
con la democrazia in quanto ‘teocratico’,
commette due errori fondamentali: il primo è quello appunto di usare un termine
errato, in quanto il vero rischio in ambito
musulmano non è quello della teocrazia
ma del cesaropapismo, essendo il potere
politico a strumentalizzare la religione e
non viceversa (almeno in campo sunnita,
Infine, ma non meno importante, è l’atmosfera apocalittica che si è rafforzata: il
caos dominante quasi ovunque e la consapevolezza di vivere un periodo di profonda crisi porta fatalmente alla ribalta
simboli e slogan da ‘fine del mondo’. Lo
stesso stendardo nero del neo-Califfato è
collegato nella lettera poco fa menzionata
a quello che i veri credenti innalzeranno
in prossimità del Giudizio finale per ‘pas-
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
Resta tuttavia evidente che la gestione
piuttosto fallimentare del consenso ottenuto dai gruppi islamici radicali ‘storici’
in casi come quello dell’Egitto possono
aver contribuito a un ritorno di fiamma
favorevole ai movimenti oltranzisti ed
eversivi quali appunto l’IS.
47
48
sarlo al Messia’ nello scontro decisivo fra
le forze del bene e del male.
stagnazione e perfino di una regressione
intellettuale quanto mai perniciosa.
Quanto tale amalgama di catastrofismo e
di attese epocali possa attrarre militanti sia
dall’interno del mondo islamico sia da altrove è intuibile, benché forse il fenomeno
dei foreing fighters abbia una rilevanza più
simbolica e mediatica che effettiva.
Il 19 settembre 2014 oltre centoventi sapienti musulmani hanno reso nota una
‘lettera aperta’ indirizzata al neo auto-dichiarato Califfo, significativamente nota
con un titolo che non vi appare You Don’t
Understand Islam. Il testo tenta di confutare le argomentazioni del ‘discorso d’insediamento’ di al-Baghdadi con ampio ricorso
a versetti coranici e detti profetici. Se da
un lato ciò è stato in qualche misura inevitabile, dall’altro mostra quanto lo pseudo-Califfo abbia costretto i suoi avversari a
confrontarsi con lui sul medesimo terreno,
il che è già di per sé emblematico. Un conflitto sull’interpretazione delle Fonti rivela
infatti da un lato quanto esse siano ancora
potenti, ma dall’altro manifesta anche una
spaventosa carenza di elaborazione di un
discorso politico alternativo, esito di una
è tuttavia rilevante che molte prassi dell’IS
siano state condannate proprio in forza di
quelle fonti, come l’uccisione di civili innocenti e disarmati o di emissari diplomatici,
l’inammissibile ‘scomunica’ di altri musulmani, il mancato rispetto per le minoranze
religiose, le conversioni forzate, l’indiscriminata applicazione di pene corporali e la
distruzione di luoghi cari alla pietà popolare. Sul versante politico, tuttavia, si ammette che il Califfato sia un’istituzione che
i musulmani dovrebbero restaurare, senza
però riconoscere ad al-Baghdadi l’autorità
necessaria per poterlo pretendere. Molto
meno chiaro sembra chi e a quali condizioni potrebbe farlo. L’amore per la propria
patria, intesa non come la Umma araba o
quella islamica, viene difeso, così come si
reputa assurda la richiesta che i musulmani
emigrino per vivere finalmente sotto tutela
di un vero stato islamico e tantomeno per
supportarlo e difenderlo. Le ragioni storiche e soprattutto l’esperienza dei milioni
di credenti che da secoli ormai conducono un’esistenza perfettamente in linea coi
principii e i precetti dell’islam in condizioni
PAOLO BRANCA
DOVE VA IL MONDO ARABO?
49
socio-politiche svariatissime non è purtroppo in grado di mettere in crisi un modello
mitico che sembra resistere a ogni contestualizzazione e analisi critica articolata.
Conclusioni
50
Alcune problematiche ‘classiche’ del rapporto tra religione e politica in ambito islamico tornano dunque a ripresentarsi, anche
se con spirito e in forme inediti. Si tratta di
una questione che per sua stessa natura è
destinata a non essere mai definitivamente
risolta, ma costantemente riletta e reinterpretata alla luce sia dei suoi presupposti più
antichi sia delle esigenze e delle inquietudini del presente. Ma la realtà degli stati nazionali moderni che si sono via via costituiti
in tutta l’area musulmana difficilmente potrà esser rimessa in discussione, tantomeno
da parte di gruppi settari ed estremisti, fortemente localizzati e determinati da conflittualità contingenti. La resurrezione di un
Califfato almeno come suprema autorità
morale dell’immensa e articolata Umma
musulmana manca ancora de minimi requisiti basilari, tutto il resto gioca invece a
favore di un’ulteriore e drammatica frammentazione etnica e religiosa: più che di un
PAOLO BRANCA
sogno si tratta di un incubo, pagato a caro
prezzo non solo dalle minoranze del Medio
Oriente, ma dalla totalità della popolazione che rischia di non trovare più nella fede
islamica almeno quel riferimento etico e
spirituale che, nonostante tutto, per secoli
esso ha rappresentato per milioni e milioni
di credenti. Per gli arabi in particolare, poi,
tutto ciò avviene come se ogni acquisizione
compiuta almeno negli ultimi due secoli,
e l’ancor più ricca e poliedrica esperienza
delle epoche precedenti, semplicemente non
fosse mai esistita.
Lo stesso riformismo islamico che durante
la Nahda ha effettivamente saputo aprire
inedite prospettive all’interno di una dinamica generale di rinnovamento, si è presto trovato ad assumere una funzione di
supplenza rispetto a quanto nella società è
stato invece bloccato da involuzioni autoritarie. E ha per di più dovuto farlo rispondendo a esigenze contrastanti e quasi mai
in posizione di reale indipendenza dal potere politico. Le parole d’ordine religiose che
riemergono sono pertanto logore già in partenza e vanamente pretendono di rispondere a quell’ansia di riscatto e di rinascita
nazionale che pure ne determinano il relaDOVE VA IL MONDO ARABO?
51
tivo successo, in mancanza di alternative.
Ciò che non si è realizzato nelle istituzioni
e nella prassi di stati solo apparentemente
moderni, non ha alcuna chance di prodursi
in forza di slogan più demagogici che carismatici, velleitari nelle intenzioni e atroci
nelle prassi, ancora una volta a danno di
popoli che stentano ad esser riconosciuti
come cittadini e sembrano condannati a
rimanere sempre e comunque sudditi.
52
PAOLO BRANCA
Indice
Premessa3
Dove va il mondo arabo?
5
Il Risveglio
7
Una rinascita ‘abortita’
14
La Rivincita di Allah
29
A volte ritornano
35
Conclusioni50
Finito di stampare nel mese di marzo 2015
da Litostampa - Istituto Grafico, Bg