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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno VI - N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
S
peciale:
L’autonomismo
piemontese
32
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente,
4 - 28100 Novara
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Flavio Grisolia
Elena Percivaldi
Andrea Rognoni
Gianni Sartori
Carlo Stagnaro
Alessandro Storti
Grafica:
Laura Guardinceri
Collaboratori
Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante,
Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Fabrizio
Bartaletti, Alessandro Barzanti, Batsòa,
Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta,
Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini
Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza,
Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Gustavo Buratti,
Beppe Burzio, Luca Busatti, Ugo Busso,
Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli,
Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio
Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele
Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi,
PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo de Leonardis, Alexandre Del Valle, Corrado Della
Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo
Frison, Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier,
Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Marco Giabardo, Davide Gianetti,
Giacomo Giovannini, Michela Grosso,
Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry
Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz,
Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo,
Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri,
Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo,
Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian
Merlo, Martino Mestolo, Ettore Micol, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa,
Andrea Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella
Pintus, Daniela Piolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo
Puelli, Laura Rangoni, Igino RebeschiniFikinnar, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sanguinetti,
Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Marco Signori, Stefano Spagocci, Silvano Straneo,
Giacomo Stucchi, Candida Terracciano,
Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.
Spedizione in abbonamento postale:
Art. 2, comma 34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041
Arona NO
Registrazione: Tribunale di Verbania:
n. 277
Periodico Bimestrale
Anno VI - N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi
di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
L’autonomismo piemontese
Il Partito dei Contadini - Gustavo Buratti
Da “La Permanente” al M.A.R.P.: breve viaggio
nell’autonomismo piemontese - Beppe Burzio
U.O.P.A. - Nascita e declino di un movimento
autonomista - Donata Legnani Maggi
Il Movimento Autonomista Occitano - Batsòa
Coumboscuro - Adriano Anghilante
Il MAV - Movimento Autonomista
Valsesiano - Marco Giabardo
Le comunità walser
di fronte all’autonomia - Ferruccio Vercellino
Il voto valdese - Ettore Micol
I più recenti sviluppi
dell’autonomismo piemontese - Martino Mestolo
Intervista ai personaggi della cultura piemontesista
Intervista a Tavo Burat - Intervista a Beppe Burzio
Intervista a Sergio Hertel - Intervista a Ettore Micol
Intervista a Mariella Pintus - Intervista a Gioanin Ross
Intervista a Silvano Straneo
L’autonomismo piemontese oggi - Gilberto Oneto
Documentazione storica
Note sulla condizione linguistica in Piemonte
Contrassegni di confusione
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L’autonomismo piemontese
L
a Padania è la grande e
antica madre di Piccole
Patrie gloriose e dalla
robustissima coscienza identitaria.
Una di queste è la Patria
Cita piemontese. Il Piemonte è da sempre in prima linea nella battaglia autonomista di cui è stato addirittura il più vecchio e più efficace laboratorio di incubazione.
Se con il Partito dei Contadini sono apparsi i primi
segni etno-identitari del Novecento in Padania, è con il
MARP che si è avuta la prima manifestazione di maturità dell’autonomismo fuori
dalle più alte valli alpine.
Non è stato neppure un caso
che la Carta di Chivasso sia
stata redatta nel cuore del
Piemonte.
Fra gli anni ’70 e ’80 i semi gettati dal MARP (ma anche da valdostani come Salvadori, baschi come Sagredo
e occitani come Fontan)
hanno cominciato a dare i
loro frutti: e quella piemontese è stata una delle messi
cresciute più in fretta e più
rigogliosamente. Da allora
l’autonomismo subalpino ha conosciuto giorni
di vittorie e di sconfitte, di unità e di sciagurate
divisioni.
Questo numero dei Quaderni Padani è interamente dedicato a cercare di scrivere la storia
complessa e spesso contraddittoria di questo
periodo, e di comprenderne le motivazioni: lo fa
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Allegoria del Piemonte
nel primo volume
del Theatrum Sabaudiae (1682)
essenzialmente descrivendo le vicende dei movimenti autonomisti e con una serie di interviste ad alcuni dei personaggi più autorevoli e significativi del piemontesismo contemporaneo.
In chiusura, vengono riportati alcuni documenti che servono a capire meglio gli avvenimenti di cui si è parlato.
Quaderni Padani - 1
Il Partito dei Contadini
di Gustavo Buratti
N
el 1921 nasceva nell’Astigiano una formazione a torto dimenticata, radicata nella civiltà contadina e portatrice di valori etnici:
guardata con diffidenza e accusata di gretto corporativismo dai comunisti, perseguitata dai fascisti, visse faticosamente fino al 1970.
Piero Gobetti in Risorgimento senza eroi
scriveva a proposito del Piemonte prerisorgimentale: “Il Piemonte è un paese naturalmente
montuoso, senza facili comunicazioni col mare,
senza vie commerciali, rovinato dalle guerre,
dai tributi, con privilegi ecclesiastici e feudali
(...). Ma il dramma di queste sofferenze (nelle
plebi piemontesi), messe a ferro e fuoco per la
loro resistenza ad una tassa iniqua (anche durante la “liberazione” francese, n.d.r.), la cupa
rassegnazione dei contadini delle valli alpine e
della contea di Nizza, condannati alla fame ed
ad un lavoro senza redenzione, capaci di tutti
gli egoismi e di tutte le sopportazioni durante
secoli di guerre che non avevano alcun senso
per la loro vita, gratuite ed infernali come la peste, l’inutilità di questo dolore per chi lo soffre è
uno degli aspetti essenziali della preparazione
al Risorgimento”.
Il mondo contadino fu spremuto per finanziare la nascente industria nello Stato unitario attingendo dalla Cassa Depositi e Prestiti e dai risparmi postali, e formare così il primo plafond
all’accumulazione originaria. Alla gente delle
campagne, “le guerre per l’indipendenza prima,
e le guerre coloniali in seguito, ultima quella di
Libia, propagandate con la retorica dei governi
assolutisti, pur con la patina liberale acquisita
dal Risorgimento, avevano sempre riservato il
diritto-dovere di combattere, di soffrire e di morire per una Patria che nulla faceva per andare
incontro alle proprie esigenze economiche e sociali”.
In questa denuncia, e nella conseguente rivendicazione, Giuseppe Brandone vede correttamente l’origine del Partito dei Contadini
(Quando si votava “contadino”, Gli amici del
Moscato ed.: Alba, 1983), fondato come “Gruppo” nell’Astigiano nel 1920 da Urbano Prunotto
e divenuto “partito” nel 1921; una formazione a
2 - Quaderni Padani
torto dimenticata e che sino al 1970 ha coerentemente onorato il proprio motto: “Dare ai rurali una coscienza politica e agli Italiani una coscienza rurale”. Il programma era ispirato al socialismo riformista, ma sino al 1953 rimase indipendente da altre formazioni e subì una dura
persecuzione da parte del fascismo. Il Partito si
presentò per la prima volta alle elezioni del
1921, eleggendo alla Camera il suo fondatore
Urbano Prunotto.
La nuova formazione politica denunciava la
secolare incomprensione del mondo urbano
progressista per la civiltà contadina: una triste
eredità trasmessa dai giacobini alla sinistra contemporanea. Il Partito Comunista, nato in quello stesso anno, guardava infatti con molta diffidenza al movimento politico rurale, tacciandolo
di gretto corporativismo.
Nelle elezioni del 1924 (le ultime democratiche, ma già condizionate dal fascismo al potere)
il PcdI (Partito dei Contadini di Italia) otterrà
quattro seggi: Prunotto, riconfermato; Giacomo
Scotti, già deputato da due legislature nel Partito Popolare; il medico dottor Enrico Insabato,
che assumerà la carica di segretario del partito;
ed Alfredo Romanini, ex ufficiale eletto in Lombardia (con i voti della Valtellina). Quando il fascismo mostrerà il suo vero volto, si avrà la prima spaccatura del partito. I due deputati di
estrazione autenticamente contadina denunciano al congresso del partito (1924) “l’intolleranza fascista e tutta la politica del partito dominante (in quanto) contraria all’interesse ed alle
aspirazioni della classe contadina”; il consiglio
nazionale, quindi, delibera che “il Partito abbia
ad operare all’opposizione senza perdere la propria fisionomia”. Soprattutto il giornale Il contadino valtellinese (13 luglio 1924), che affiancava l’organo del partito, La voce del contadino
(che cesserà le pubblicazioni soltanto negli anni
‘60), si distingue per la dura opposizione al fa-
L’articolo era stato originariamente pubblicato sul numero
11 (Anno VII, 1986) di Etnie. Viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.
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scismo. Gli altri due parlamentari, di estrazione
borghese, plauderanno invece al fascismo e saranno espulsi dal partito. L’onorevole Giacomo
Scotti lascerà però l’Aventino, dove si era trovato emarginato e senza alcun peso, e tornerà in
Parlamento, schernito dalle beffe dei fascisti; il
9 novembre del 1926 l’onorevole G. Scotti è fra
i soli 12 deputati che voteranno contro il ripristino della pena di morte: ciò gli varrà un’aggressione nella Camera dei deputati da parte dei
fascisti Starace e Ceci che, in pratica, gli abbreviarono la vita. Ricorderà Alessandro Scotti:
“Mio fratello si difese come poté, ma gli fu offeso il cervelletto, gli si offese il nervo sciatico,
tanto che dovette vivere il restante della vita
camminando zoppo e con il capogiro”.
Già nel 1922, poco dopo la marcia su Roma,
La voce del contadino era stata bruciata in
Piazza San Martino ad Asti, dove il PCdI aveva
la sede. L’11 novembre di quell’anno, le squadracce fasciste distrussero la “Casa del contadino” (che era stata inaugurata il 1° maggio) ed
assaltarono i fratelli Scotti, Giacomo ed Alessandro, che si difesero sparando dalla loro cascina di Montegrosso d’Asti; nel 1925 Alessandro Scotti, mentre il fratello deputato si schierava con l’opposizione, riparava in esilio in
Francia, dove si stabilì ad Amiens iscrivendosi
all’Italia Libera. Alla liberazione il Partito dei
Contadini risorse con nuovo slancio.
Chi scrive questa nota fece da ragazzo il suo
primo comizio proprio con l’onorevole Alessandro Scotti nel basso Biellese, a Cavaglià; ed è
quindi in grado di integrare con alcuni dati la
storia di Brandone. Alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946, il Partito si presentò
nelle circoscrizioni di Torino-Novara-Vercelli
(1,1%; preferenze: F. Pianta, 1.750; G. Osella,
1.094; Rigazio, 1.020); Cuneo-Alessandria-Asti
(8,8%; in provincia di Asti il 20,9%!!; preferenze:
Alessandro Scotti, 20.776, eletto deputato; D.
Giovine, 12.365; E. Baino, 11.467; U. Prunotto,
ex deputato prefascista, 9.133; G. Cerrutti,
6.958); Liguria (0,3%; preferenze: E. Airenti,
247; G. Traverso, 99; F. Enrico, 91); Como-Sondrio-Varese (1,1%; in provincia di Sondrio:
5,1%; preferenze: Alessandro Rota, leader dei
contadini valtellinesi nel prefascismo, 3.216;
Galdino Pini, 505; C. Giussani, 276); Roma
(0,2%; preferenze: Equilio Tocchi, 667; G. Milani, 461; C. Prosperi, 180); L’Aquila- Chieti- Pescara- Teramo (0,6%; preferenze: Giuseppe Menotti De Francesco, poi rettore dell’Università
degli Studi e deputato del PNM, 552; Ugo RamAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
pelli, 57). L’onorevole Francesco Caroleo, eletto
in Calabria per il Blocco Nazionale della Libertà,
aderirà subito al Partito dei Contadini d’Italia
che potè così contare su due deputati. Ma già
nel 1947, nelle Langhe, si delineò proprio nell’area più forte il contrasto tra il gruppo di Scotti,
cattolico e moderato, e quello del professor Cerruti, singolare personaggio della sinistra laica
(oggi lo diremmo “radicaleggiante”) che alla lotta dei contadini dedicò tutta la sua esistenza,
scontrandosi sempre con i metodi, piuttosto paternalistici e “giolittiani” dell’onorevole Scotti.
Cerruti fondò allora il “Partito Indipendente dei
Contadini” che presentò, sotto il simbolo della
“vanga” (il PCdI aveva la “vanga, la spiga ed i
grappoli d’uva”, il tutto chiuso in una losanga),
la propria lista nel II collegio alle elezioni del
1948, riportando 6.754 voti (circa 0,8%) contro i
55.779 (6,5%) del PCdI (scottiano) presente nei
seguenti collegi:
Torino-Novara-Vercelli (1 %; preferenze: A.
Scotti, 2.551; R. Baronis, 1907; G. Trivero,
1550); Cuneo-Alessandria-Asti (6,5%; A. Scotti,
14.553, rieletto; D. Giovine, 13. 696; E. Bajno,
11.800; Lidia Prunotto, 8.792; G. Boeris, 8.790);
Milano-Pavia (0,3%; Virgilio Forni, 1.210; P. Secondi, 661 ; A. Borioli, 341); Como-Sondrio-Varese (0,7%; Sondrio: 2, l; M.L. Pedrini, 799; G.
Rubini, 590; F. Jachello, 498); Brescia-Bergamo
(0,1%; M. Bellometti, 35); Firenze-Pistoia (0, 1
%; F. Vieri, 237); Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli
Piceno (0,2%; S. Liberati, 143); Perugia-TerniRieti (0,4; E. Carloni, 148); Roma-Viterbo-Latina-Frosinone (0, 1 %; E. Mercurio, 183); Campobasso (1,1%; G. Baratta, 744); BeneventoAvellino-Salerno (0,2; C. Prosperi, 195); Catanzaro-Cosenza-Reggio Calabria (0,2; F. Caroleo,
deputato uscente, 854: N. Tropeano, 162); Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanisetta (0,05 %; M.
Giancana, 54).
Con il professor Cerruti (che aveva raccolto
2.315 preferenze) nei secessionisti passarono
anche Agostino Pera e Francesco Pianta (rispettivamente 1.368 e 769 preferenze). Queste saranno le ultime elezioni politiche in cui i contadini presenteranno proprie liste.
Nel 1953, dopo un fallito tentativo di unificazione, l’onorevole Scotti si presenterà con Giovanni Bosia, l’uno per Camera e l’altro per il Senato, nelle liste del PNM unendosi alla componente dei monarchici antifascisti (cui apparteneva anche il milanese onorevole Cesare degli
Occhi); entrambi saranno eletti. Il professor
Cerruti invece, con il suo “Movimento Rurale
Quaderni Padani - 3
Italiano”, si presenterà nelle liste del PRI, che
non ottenne seggi nella circoscrizione ma, proprio grazie all’apporto dei “cerrutiani”, cominciò a porre salde basi nell’Astigiano e nel Cuneese dove fino ad allora aveva avuto un seguito
assai scarso. Nel 1958 ci fu il grande congresso
all’Alfieri di Torino; dopo un’apparente esaltante unificazione (che lasciava fuori però l’onorevole Scotti) si addivenne ad un’ulteriore suddivisione del movimento per le elezioni politiche:
l’onorevole Scotti si ripresenterà con i monarchici, senza essere rieletto; Cerruti rimarrà fedele all’intesa con il PRI; il senatore Bosia, Bruno Massobrio, il professor Boerisi appoggeranno “Comunità” di Olivetti. Al Congresso dell’Alfieri partecipò anche una delegazione del Partito Sardo d’Azione (dottoressa Casu) che si dichiarò molto vicina al movimento politico rurale piemontese, tanto che si addivenne ad un’intesa elettorale.
Mentre all’onorevole Scotti rimane la vecchia
testata della Voce del contadino, il PCdI passa al
gruppo del professor Cerruti. Organo del partito
diventa Il Rurale italiano che fino ad allora aveva guidato la dissidenza. Cerruti si ripresenta
candidato alle elezioni politiche del 1963 con il
PRI, ancora una volta senza successo; invece
sarà eletto uno dei vecchi leader, Bruno Massobrio, che aveva accettato la candidatura del PLI
nel collegio senatoriale di Torino-Fiat-Mirafiori.
L’onorevole Scotti è travolto dal crollo dei monarchici. Il PCdI diventa “Partito Rurale Demo-
4 - Quaderni Padani
cratico” e si dichiara favorevole al centrosinistra; l’onorevole La Malfa partecipa personalmente al V Congresso (Asti, 5 settembre 1965).
Nel 1968, Cerruti ( che era stato rieletto sindaco a Cossano Belbo e dal 1964 Consigliere provinciale di Cuneo) si presenterà per l’ultima
volta nelle liste dell’Edera. Nel gennaio 1970 il
PRD confluisce nel PRI e nel maggio di quell’anno muore il professor Cerruti. Nel 1971
muore anche il senatore Massobrio; deceduti
pure gli ex parlamentari onorevole Scotti e senatore Bosia.
Nella storia politica della campagne piemontesi (e valtellinesi) il Partito dei Contadini ha
svolto un suo ruolo. In un certo senso, fu anche
un partito “etnico”, radicato com’era nella civiltà contadina. Memorabili sono i comizi in
piemontese del professor Cerruti; ed in quella
lingua erano quasi tutti gli interventi ai congressi. L’auspicio era fé vòla, vincere, far cappotto (nel gioco dei tarocchi o nel pallone elastico, e per traslato anche nella lotta politica).
Quel partito fu sotto alcuni aspetti antesignano
dei “Verdi”, i quali oggi purtroppo dimenticano
(non dovrebbero, però, dimenticare) che alla
battaglia ecologica va unita quella per la difesa
dell’agricoltura, sempre più minacciata dalla
speculazione edilizia e dallo sviluppo urbano in
genere. Le cascine che nella Padania ancora resistono, assediate dal cemento che le vuole
spazzar via, continuano la lotta che fu dei Prunotto, Scotti e Cerruti.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Da “La Permanente” al M.A.R.P:
breve viaggio
nell’autonomismo piemontese
di Beppe Burzio
C
redo che un discorso serio sul MA.R.P. (Mo- Peruzzi toscano, Gioacchino Napoleone, marvimento per l’Autonomia Regionale Pie- chese di Pepoli e cugino dell’imperatore francemontese) e sul suo fondatore, professor En- se, emiliano e Silvio Spaventa napoletano, tutti
rico Villarboito, che caratterizzarono la vita po- in posizioni di rilievo ai ministeri dell’interno e
litica piemontese alla metà degli anni cinquanta degli esteri.
e che sono considerati, non a piena ragione, coUn governo che doveva far dimenticare ai citme prima espressione e primo coordinatore de- tadini lo scandalo delle Ferrovie Meridionali
gli impulsi autonomistici della nostra regione, (l’amministrazione italiana appena nata aveva
debba partire da ben più lontano.
già iniziato le pratiche delle tangenti!) e far loro
Debba partire da quel lontano settembre del digerire il peso delle nuove imposizioni fiscali
1864 quando, nelle sere del 21 e 22, i Torinesi (nihil sub sole novi!).
che dimostravano, in piazza Castello prima e in
Un governo che aveva deciso di prendere due
piazza San Carlo poi, contro il trasferimento piccioni con una fava (sviare l’attenzione popodella capitale a Firenze, furono presi a fucilate lare e ricavarne un utile personale) e, in consedall’esercito italiano e lasciarono sul selciato guenza, aveva sollevato la “questione della capiuna sessantina di morti e un centinaio abbon- tale” da risolvere. E, per risolverla, aveva mandante di feriti.
dato a Parigì, all’insaputa di tutti, Parlamento,
Pur nella tragicità dell’evento (i morti son Re e persino dell’Ambasciatore in Francia Cosempre morti!), non sono le vittime a suscitare stantino Nigra, che ne fu informato solo al mol’indignazione dei pochi piemontesi che cono- mento conclusivo, due factotum: Visconti Venoscono il copione della tragedia: nel travaglio sta e il marchese di Pepoli, da dove erano tornati
conseguente alla formaziocon un trattato secondo il
ne di uno stato qualche avPier Carlo Boggio
quale la Francia avrebbe rivenimento luttuoso può estirato i suoi battaglioni poser messo in bilancio.
sti a difesa degli Stati PontiQuel che indigna è che
fici, e l’Italia avrebbe rinunquelle dimostrazioni, quegli
ciato a Roma e, per dimospari e quei morti furono
strare la sua buona fede,
voluti, progettati e organizavrebbe trasferito la capitale
zati dal governo in carica. Il
da Torino a Firenze.
primo governo italiano nel
A questo punto era necessaquale i piemontesi non averio un atto di forza che
vano più un peso determistroncasse sul nascere le lenante.
gittime proteste dei PieUn governo nel quale la
montesi; e un atto di forza
gestione del potere era affifu studiato, programmato e
data ad una cricca italiana
organizzato; si iniziò con
genuina e composita: Marco
una campagna di stampa
Minghetti bolognese e priantipiemontese alla quale
mo ministro, con Visconti
parteciparono tutti i giornaVenosta lombardo, Ubaldino
li di orientamento governaAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 5
tivo, compresi quelli di Torino, si proseguì con
l’organizzazione, a cura del ministero dell’interno, di manifestazioni antipiemontesi che videro
entusiasticamente coinvolte tutte le province
italiane con la sola eccezione di Brescia, il cui
prefetto, Zino Zini, ebbe a scrivere: “In parola
d’onore mi sento soffocare dal dispetto per il
trasloco della capitale che è l’obiettivo di una
lunga e coperta campagna contro il Piemonte,
compita, ruminata, intrappresa in società dallo
Spaventa e dal Peruzzi, complice inscente l’insipido Minghetti ...”, e si finì col dirottare a Torino
sobillatori e mestatori pagati dalla polizia, come
l’ispettore Buffoni di Milano e il questore di Palermo Serafini, a Torino in quel momenti “per
diporto”.
Con queste premesse la dimostrazione del popolo piemontese non poteva che avvenire. Ed
avvenne.
Ma doveva anche scorrere sangue e anche a
ciò ebbe a provvedere il lungimirante governo
Minghetti.
Vietò al questore
torinese Chiapusso il tempestivo
intervento della
Guardia Nazionale (milizia cittadina), fece invadere
Torino da seimila
militari italiani
accuratamente
scelti fra le reclute di regioni lontane per aver la
certezza che non
Enrico Villarboito
comprendessero
il piemontese e,
dulcis in fundo, fornì anche i due figuri (uno dei
quali, secondo testimonianze popolari mai avallate da documenti ufficiali, fu il già nominato filosofo napoletano Silvio Spaventa) che, sparando due colpi all’impazzata nel momento di maggior tensione, diedero il via all’operazione. E fu
massacro.
Da questa strage, e soprattutto dalle attività
politiche che la precedettero e la seguirono
emersero alcune verità inconfutabili. La prima è
che fra tutti i popoli che abitavano la penisola
nessuno, neanche quello piemontese, aveva una
vocazione unitaria e se il popolo piemontese
partecipò al Risorgimento con uomini e soldi,
6 - Quaderni Padani
addirittura al di là delle proprie possibilità, la
sua partecipazione fu coatta: tasse e ferma militare (di nove anni!) dipendono dalle leggi e non
da generosità spontanea.
E’ anche vero che quell’esoso prelievo governativo di uomini e soldi non provocò agitazioni
popolari, ma ciò è dovuto alla profonda lealtà
che i piemontesi hanno sempre avuto verso i
propri governanti.
Gli altri popoli subirono il Risorgimento nella
più completa indifferenza (i volontari italiani furono in tutto poco più di 14.000).
Probabilmente i popoli italiani ritenevano le
loro condizioni di vita accettabili e, specialmente al nord, li gratificava l’idea di esser parte di
un grosso Impero.
Il professor Miglio, per alcuni anni ideologo
della Lega Nord, dichiarò con orgoglio, alcuni
anni fa, che “sua nonna contava le galline in tedesco”.
In Piemonte le galline e quant’altro si contavano in piemontese e la differenza è meno piccola di quel che possa apparire. L’altra inconfutabile verità è che i vari popoli italiani, tutti, dal
Ticino a Pantelleria, odiavano i Piemontesi che
consideravano invasori barbari montanari ignoranti e di scarso valore intellettuale.
Carlo Moriondo, insigne giornalista, scrittore
apprezzato e profondo conoscitore della storia
risorgimentale, ha scritto, in merito al Cuore di
De Amicis, che considerava uno dei veicoli propagandistici più efficaci per promuovere l’idea
dell’Italia unita, che l’episodio della “Piccola vedetta lombarda”, dove un giovanetto lombardo
perde la vita per segnalare, salendo su un albero,
i movimenti dei nemici austriaci alle truppe piemontesi, sarebbe stato molto più credibile e rispondente a verità se le partì fossero state invertite, cioè se i segnali fossero stati a favore degli
Austriaci e contro i Piemontesi.
D’altra parte bisogna riconoscere che i Piemontesi ricambiavano con generosità, e con
qualche ragione in più, l’odio che ricevevano.
Avevano creduto che il sangue versato e i tanti
soldi presi dai loro portafogli, per mantenere le
migliaia di fuorusciti che il Piemonte aveva
ospitato, avrebbero dato loro, nel nuovo stato,
una posizione di privilegio, non foss’altro che
per gratitudine. E si trovarono a essere emarginati.
Tanto per fare un esempio, alle prime elezioni
del Regno d’Italia si aveva diritto al voto se si sapeva leggere e scrivere e se l’ammontare delle
tasse annualmente versate raggiungeva le venti
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
lire. Per i Piemontesi, e solo per loro, questo limite fu elevato a quaranta lire.
Queste verità inconfutabili, che il massacro di
Torino aveva fatto emergere, spinsero uno sparuto gruppo di deputati piemontesi, guidati da
Pier Carlo Boggio, a cercare di opporsi alla straripante melassa italianista che finanzieri astuti e
politicanti corrotti spandevano a piene mani sul
nuovo stato.
Facendo proprie le teorie del lombardo Cattaneo e consci che, essendo impossibile avere con
gli Italiani quel rapporto di fratellanza, reclamizzato dal nuovo inno di Mameli con un motivo musicale più congruo alla “sagra dei taralli”
che alla dignità di uno Stato, tanto valeva avere
con loro solo un rapporto di buon vicinato e di
collaborazione, anche per non irridere al tanto
sangue piemontese versato.
E diedero vita, il 30 ottobre del 1864 a un movimento politico battezzato
con il nome altisonante di:
Commissione Permanente
dei Comitati Riuniti, subito
condensato in “La Permanente” i cui scopi erano quelli di ottenere, in qualche modo, l’organizzazione federale
dello Stato affinché fossero
riconosciuti i meriti delle
“antiche province” (quelle
piemontesi), e di ottenere altresì che sul massacro di Torino fosse fatta piena luce.
E’ quindi conseguentemente chiaro che il primo
movimento autonomista piemontese fu “La Permanente”
di Pier Carlo Boggio. Che
durò poco.
Affondò con il Boggio, insieme alla nave Re
d’Italia e 600 marinai, il 20 luglio del 1866, nelle acque di Lissa, in Dalmazia, dove la flotta italiana subì la prima delle tante ingloriose sconfitte della sua storia.
Il deputato Boggio si trovava su quella nave
perché aveva accettato la carica di governatore
dell’Istria liberata, carica a valere se la battaglia
fosse stata vinta e l’Istria liberata. E’ dunque improbabile che, anche ammesso che tutto fosse
andato secondo i piani, Boggio avrebbe potuto
continuare dall’Istria a essere l’animatore de “La
Permanente”.
Dopo d’allora, sul fronte autonomista, novant’anni di assoluto silenzio. Novant’anni duAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
rante i quali i governi italiani, tanto monarchici
che repubblicani, vietarono l’uso della lingua
piemontese e il suo insegnamento nelle scuole,
tradussero gli onorati nomi di paesi e città del
Piemonte in un italiano beota e approssimato, e
derubarono i Piemontesi di tutte (tutte!) le attività industriali create in Piemonte per trasferirle, come la capitale, in altre regioni.
Per la verità qualche piccolo sussulto si ebbe
negli anni ‘20 con il “Partito dei contadini”, fondato in provincia di Cuneo che aveva, nello statuto, qualche riferimento autonomista e, soprattutto, nel 1943 quando i capi delle formazioni
partigiane delle Valli del Pellice e d’Aosta, riuniti
a Chivasso il 19 dicembre, stilarono un documento, la “Carta di Chivasso” sul quale espressero a chiare lettere gli scopi per i quali si battevano, tra i quali, prime fra tutti, le autonomie culturali ed economiche.
Tessera del MARP
Ma della Resistenza si impadronirono presto
le segreterie dei partiti e anche su questo documento, tanto giusto e, perciò, altrettanto inopportuno, calò presto la coltre del silenzio.
Ed arriviamo agli anni cinquanta e al M.A.R.P.
Il M.A.R.P., Movimento per l’Autonornia Regionale Piemontese, nacque a Torino nel settembre del 1955, a opera del professor Enrico
Cesare Carlo Villarboito.
E nacque bene. Il primo articolo dello statuto
diceva: “Il Movimento per l’Autonomia Regionale del Piemonte, con sede in Torino, è un’associazione di cittadini che si propone il conseguimento dell’autonomia regionale per il Piemonte
entro l’unità politica dello stato italiano e sulla
Quaderni Padani - 7
base dei principi sanciti dalla Costituzione, e giornali, la discussione ancora aperta sui dismira, con i mezzi democratici consentiti, alla servizi e sugli ambulatori dell’INAM a Torino, ed
tutela degli interessi presenti e futuri della re- è perciò inutile che vi ricordi, per dichiarazione
gione”.
esplicita dello stesso dirigente democristiano
Questo statuto, firmato dal suo primo presi- che ad essi sovrintende, come essi siano del tutdente, professor Villarboito e dai primi cinquan- to inadeguati ed insufficienti, malgrado i numeta soci in qualità di testimoni, fu depositato alla rosi miliardi che da Torino sono avviati a Roma.
Questura di Torino. E questo, secondo chi scrive
E di oggi, e voi l’avrete letto sui giornali, cocon il senno di poi, fu un errore poiché la Que- me sia stata ancora ridotta per Torino la sovstura non è il luogo deputato alla conservazione venzione al Teatro Regio, cosicché il cartellone,
degli atti pubblici e ciò consentì ad alcuni perso- già scarso l’anno scorso, si è ancora ridotto in
naggi di dar luogo, poco dopo, a un contenzioso questa stagione. Questo a Torino, mentre per le
su chi fosse l’effettivo titolare dei simbolo del altre città di eguale importanza, come Genova,
M.A.R.P.
Milano, Roma e Napoli la sovvenzione si aggira
In origine H M.A.R.P. era nato come movi- su alcune centinaia di milioni e, per manifestamento d’opinione tendente a unire uomini poli- zioni straordinarie, mai concesse alla nostra
tici piemontesi appartenenti a tutti i partiti del città, le sovvenzioni raggiungono cifre iperbolicosiddetto arco costituzionale, affinché impron- che.
tassero la loro azione al conseguimento, per la
E di oggi, e voi l’avete letto sui giornali, a
regione piemontese, di quella autonomia ammi- quale imponente carico di miliardi ammonta il
nistrativa prevista dalla Costituzione italiana.
deficit dei Comuni italiani; tra essi primeggia
E questo fu un altro errore di cui si resero su- naturalmente quello lasciato dall’uscente ambito conto, constatando che tutti i politici, di ministrazione democristiana di Roma che, senqualsiasi colore siano e da qualsiasi posizione za considerare le somme avute con le leggi
geografica provengano, sono molto più sensibili stralcio, si aggira sui 15 miliardi e, di ben poco
agli interessi del partito cui devono lo scranno inferiore è quello della città di Napoli che gode
parlamentare che a quelli della terra che li ha del privilegio di essere nel mezzogiorno e quindi
espressi. E, secondo logica, decisero di presenta- dei favori dell’omonima Cassa. A questi deficit
re una lista M.A.R.P. alle elezioni amministrative comunali dovrà pensare, come per il passato, lo
(riferite solo a Comuni e Province visto
Stato e, come al solito, a pagare in parche le Regioni, pur previste dalla Cote sarà il contribuente torinese, restituzione, non esistevano ancora)
stando a lui la ben magra soddisfache si sarebbero tenute nella prizione di ricevere le congratulaziomavera del 1956.
ni del presidente della Repubblica
Sui motivi socioeconomici, che
per aver chiuso il bilancio in paistigarono questa partecipazione
reggio.
elettorale, è illuminante il discorso
Mette conto di segnalare alcune
di presentazione della lista, tenuto
cifre non da noi inventale come
dal capofila dei candidati M.A.R.P.,
scrisse l’on. Quarello, ma apprese
dottor Michele Rosboch, al teatro Alsui giornali quotidiani, tra i quali
fieri, il 10 maggio 1956, che viene qui Simbolo del MARP anche il Popolo Nuovo, per raffronriportato nella sua parte essenziale:
tare il gravame fiscale sopportato dai
“(..) Dopo questa lunga, ma necessaria, premes- torinesi con quelli di altre città: nell’esercizio
sa chiarificatrice, concedetemi di esaminare 1955 i torinesi hanno versato procapite tributi
con voi, serenamente e con obiettività, alcuni per lire 16.468, i romani 10. 960 ed i napoletani
fra i più importanti problemi insoluti che ri- 5.5 70.
guardano la nostra città ed il Piemonte, e da
Inoltre dal 1951 al 1955 sono giunti a Torino
cittadini coscienti giudicare l’operato delle ces- ben 123.000 immigrati, mentre nello stesso pesate amministrazioni, soprattutto per constata- riodo sono giunti a Roma ed a Milano rispettire il “nonfatto “.
vamente 65. 000 e 45. 000 individui.
Basta guardarsi attorno o scorrere le pagine
Sono cifre che fanno riflettere e pensare.
dei due nostri maggiori quotidiani per trovarvi
Torino in cinque anni ha accolto tra le sue
affioranti quali e quanti problemi sono ancora mura quasi un’intera città come Alessandria e
da risolvere: è di oggi, e voi l’avrete seguita sui qui la gran parte dei nuovi residenti ha trovato
8 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
una sistemazione: Torino ha dato ad essi lavoro, gano dì tasca propria il loro aeroporto e contricasa e la speranza di una vita migliore. Gli uffi- buiscono a pagare quello delle altre città.
ci municipali hanno dichiarato che la sistemaNon apriamo, per carità di patria, il libro dei
zione di questi nuovi torinesi graverà per circa trasferimenti o dei tentati trasferimenti di enti
1. 200. 000 lire. Non credo che la Cassa del Mez- od istituzioni create o sorte a Torino ed esamizogiorno in questi anni abbia potuto dare lavo- niamo le vie di comunicazione ed i trafori. Toro ad un numero altrettanto alto di persone pur rino è in un’ottima situazione geografica e soavendo speso centinaia di miliardi pagati anche no quindi valide e preminenti le richieste per
da noi piemontesi. . .......
trafori, vitali per la sua economia regionale e
Un settore che fra gli altri è stato trascurato per la nazione tutta. Ciò malgrado il governo
in questi anni è quello dell’edilizia per la co- centrale, sordo alle nostre richieste, ha sempre
struzione di alloggi a favore del celo medio sot- ostacolato ogni nostro tentativo. Altrettanto dito la forma di cooperative finanziale dagli enti casi per le autostrade: il raddoppio della
statali. Detto finanziamento è stato così esiguo Milano-Torino, ormai satura e pericolosa e
nella nostra città che si possono contare sulle l’autostrada Ivrea-Torino, porta da aprire al tudita di una mano le case costruite con il finan- rismo ed al traffico, non sono state nemmeno
ziamento dello stato, mentre a Roma sono deci- considerale dal Piano Romita.
ne di migliaia le case e le palazzine costruite
Uguale sorte per la Torino-Savona (o più mocon finanziamento statale e da enti parastatali destamente Ceva-Savona) strada naturale per
fra le quali i due grandiosi e lussuosi palazzi co- la corsa al sole dei turisti del nord Europa e
struiti per le cooperative degli onorevoli senato- sbocco delle merci nel porto di Savona. In comri e deputati. Anche in questo settore Roma ha penso il piemontese ministro Romita ha dato la
come sempre prevaricato e purtroppo nessuna precedenza alla costruzione di altre autostrade:
voce si è levata dai banchi del consiglio comu- la Serravalle-Milano, la Brescia-Padova, la Nanale o provinciale per denunciare l’ingiustizia.
poli-Bari, la Napoli-Pompei e la Padova-Mestre
L’aeroporto di Caselle, completato dall’uscen- e, solo nel clima di questa vigilia elettorale, ha
te amministrazione che lo presenta come una promesso di inserire la Ceva-Savona in questo
delle sue opere più rilevanti è stato fatto con i lotto di lavori.
soldi dei contribuenti torinesi, ed il Comune
Per quanto riguarda le linee ferroviarie, è da
dovette lanciaFac-simile della scheda elettorale del 27 maggio 1956
re un nuovo
prestito obbligazionario di 6
miliardi, mentre per altre
città, come Genova e Firenze,
il governo ha
stanziato i miliardi necessari
e Roma, dopo
aver speso miliardi per l’aeroporto
di
Ciampino, ne
sia costruendo
uno nuovo e
più grande nella zona di Fiumicino, anche
questo a spese
del contribuente italiano e dei
torinesi che paAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 9
anni che si attende l’elettrificazione della Milano-Torino continuamente rinviata, mentre la
Cuneo-Nizza è ancor sempre da ricostruire, dopo oltre dieci anni dalla fine della guerra.
E, mentre Torino langue, altrove si installano,
si raddoppiano e si elettrificano linee ferroviarie, che chiameremo politiche, morte prima di
nascere per mancanza di traffico.
E il deficit statale cresce ed il Piemonte paga...
Roma ormai volge il suo sguardo verso il sud,
sia pur per ragioni politiche, e non pensa che
anche in Piemonte vi sono aree altrettanto depresse, che buona parte dei comuni piemontesi
sono ancora sprovvisti di acquedotti e fognature
e che le nostre zone montane, senza aiuti e prive di mezzi, con il graduale abbandono degli
abitanti, stanno decadendo paurosamente.
A questo punto ci chiediamo: perché non sì
devono aiutare i montanari della Val Susa o
dell’Alto Canavese come quelli della Calabria?
Perché il governo di Roma e la burocrazia centrale che, sempre più avidamente, spreme il
contribuente piemontese è così sorda ai nostri
problemi?... ”
Se mi è consentito un inciso, vorrei ricordare
che, con il passare degli anni, le condizioni di
emarginazione del Piemonte nel contesto dello
stato italiano, sono ancora peggiorate: vari governi italiani concedettero provvidenze economiche alla FIAT, la grande industria automobilistica nata a Torino, affinché impiantasse stabilimenti al sud e ciò provocò la contemporanea
chiusura di vari stabilimenti piemontesi, fra cui
quello importante di Chivasso; all’inizio degli
anni ’90 quando, soprattutto per fattori esterni,
l’economia piemontese entrò in sofferenza e il
Piemonte retrocesse di alcuni posti nella graduatoria dei PIL (Prodotti Interni Lordi) regionali, per alleviare la delusione di questo regresso
l’amministrazione finanziaria dello Stato incentivò il prelievo fiscale, portandolo al 45% del PIL
e fece in modo che il Piemonte potesse raggiungere il primo posto nella graduatoria del prelievo fiscale (dati Fondazione agnelli); un paio di
anni fa Torino pose la sua candidatura come sede per la ”Autority” delle telecomunicazioni,
portando come referenza il fatto incontestabile
che le aziende telefoniche, radiofoniche e televisive erano torinesi di nascita, e le fu preferita
Napoli sulle cui referenze è caritatevole non approfondire.
Ma torniamo al MAR.P.
La decisione di partecipare alla vita politica fu,
in qualche modo, traumatica. Si dimisero alcuni
membri del Comitato Regionale (Burdese, Laini,
Pipino ed Enrico) e il vice presidente del Comitato stesso (Mario Bernatti). Le motivazioni furono le stesse, sempre addotte dai rappresentanti della più vecchia associazione culturale piemontese, tutrice del patrimonio linguistico, “Ij
Brandé” per evitare di impegnarsi nella lotta sociale a difesa della propria ideologia: “Noi operiamo ad un piano superiore, intellettuale e non
vogliamo sporcarci le mani con la politica” (Pinin Pacot). Ma, nonostante tutto, le elezioni furono un successo.
Il M.A.R.P. risultò il quinto partito cittadino, a
pari merito con i liberali, ed ebbe 31.526 voti e
L’ing. Attilio Burello e il principe Mario Chigi con Enrico Villarboito
10 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
quattro consiglieri al Comune (Rosboch, Bruno.
Vezzani e Nobile) e 34.727 voti e un consigliere
alla Provincia (Resiale).
Il professor Villarboito non fu eletto perché
non era in lista; si era provveduto a estrometterlo in qualche modo fin dall’inizio della primavera e questo la dice lunga tanto sulla natura ideologica del professore che su quella dei suoi comprimari.
Sulla base dei successo ottenuto in Piemonte,
Villarboito decise di estendere l’ideologia autonomista in tutta l’Italia e promosse la nascita di
movimenti analoghi al M.A.R.P. in altre regioni,
movimenti federati in un’unica organizzazione,
il M.A.R. (Movimenti Autonomisti Regionali)
con sede centrale a Torino e sedi regionali a Milano, Venezia, Trieste, Genova, Bologna e Roma.
Segretario nazionale era il professor Villarboito
stesso e Segretario per il nord Italia l’ingegner
Attilio Burello e per il sud Italia il principe Mario Chigi.
Il M.A.R. aveva altresì un giornale Le nostre
tasche diretto da Giorgio Rosso.
Ma anche in questa nuova iniziativa la voracità politica ebbe il sopravvento. Il Movimento
cambiò nome: da “Movimento Autonomie Regionali” divenne “Movimento d’Azione e Rinnovamento”. Questo cambiamento avvenne al
Congresso del 21 luglio del 1957, che elesse a
Segretario nazionale l’avvocato torinese Luigi
Lombardi e vice segretari Salvatore Spinello e il
già citato principe Chigi.
Villarboito rimase a far parte della segreteria
nazionale, ma poi, come già era avvenuto con il
MAR.P., fu estromesso in breve tempo. Ma non si
diede per vinto e, con il “tuttologo” (come si definisce lui stesso) Gianluigi Mariannini, diede vita a un nuovo movimento autonomista: “La Scopa” con il quale si presentò, senza successo, alle
elezioni politiche nel 1958 e scomparve subito
dopo. Lo stesso calvario lo ebbe la lista del
M.A.R.
Invece il M.A.R.P. ebbe ancora un piccolo ritorno di fiamma alle elezioni amministrative del
1960, dove ottenne due consiglieri per sparire
poi definitivamente dopo quelle del 1964.
I suoi uomini finirono in altre formazioni politiche a “lavorare” per il Piemonte (e per i propri interessi).
Il sogno dell’autonomia piemontese era finito
e la Democrazia Cristiana, che aveva edito un
opuscoletto in cui indicava gli appartenenti al
M.A.R.P. come “i nemici del Piemonte” aveva
vinto.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Per i 25 anni successivi, sull’autonomia piemontese scese il silenzio.
Quel che avvenne dopo è sotto gli occhi di tutti e, per la stessa carità cristiana che mi ha indotto a non specificare le referenze che Napoli
ha prodotto per aggiudicarsi la “Autority” sulle
telecomunicazioni, preferisco non parlare.
Credo che sia tuttavia giusto accennare alla
parte negativa che nella vicenda ha avuto il
maggior quotidiano cittadino. All’epoca in cui i
fatti avvennero ha sempre diligentemente ignorato vita e attività dei movimenti autonomisti,
salvo poi ripescarli ad anni di distanza scrivendo
su di essi colossali inesattezze, forse per ignoranza o forse per creare un blasone a qualcuno
da cui potesse averne un tornaconto.
Da La Stampa del 22/1/1992: il professor Antonio Bodrero, eletto Consigliere regionale nelle
file della Lega Nord, “autonomista da sempre,
esordisce nel M.A.R.P.”. Barba Toni (appellativo
confidenziale del professor Bodrero), autonomista sincero e genuino di cui ero amico, iniziò la
sua vita politica alla fine degli anni ‘60 nel
M.A.O. (Movimento Autonomista Occitano),
quindi almeno cinque anni dopo che il M.A.R.P.
aveva esalato il suo ultimo respiro.
Da La Stampa del 12/4/1994: Pietro Molino,
capogruppo al Comune di Torino, eletto nelle file della Lega Nord (e oggi dell’’A.P.E.) dichiara
di essere stato uno dei ragazzi del volantinaggio
del M.A.R.P. che aveva anche un giornale in lingua piemontese dal titolo Arnassita Piemontèisa
edito da tal Giuseppe Cerchio”.
Entrambe le notizie sono false. Arnassita Piemontèisa non ha mai avuto niente a che vedere
con il M.A.R.P. e neanche con un editore dal nome Giuseppe Cerchio, che non è mai esistito.
Non si capisce poi perché in un movimento,
che aveva un disperato bisogno di uomini e nel
quale tanti erano giovani e giovanissimi, a Molino (che a quell’epoca doveva avere 27/28 anni)
fosse riservato il solo compito marginale di distribuire volantini.
Il professor Enrico Villarboito è deceduto, a
quasi 73 anni, il 10 febbraio 1996, proprio il
giorno in cui era fissata la prima udienza del
processo relativo all’azione legale da lui intentata contro Pietro Molino e Gipo Farassino per
quelle che lui aveva ritenuto “calunnie tramite
mezzi di informazione”.
Questo è quanto. Poco, ma sufficiente per far
comprendere che se i Torinesi hanno soprannominato il loro quotidiano “La Busiarda” (la bugiarda) non hanno tutti i torti.
Quaderni Padani - 11
U.O.P.A. - Nascita e declino
di un movimento autonomista
di Donata Legnani Maggi
N
el dicembre 1977 nasceva a Domodossola
un movimento di opinione apartitico, che
ebbe il dono di saper riportare alla luce il
desiderio di autonomia da sempre latente nel
cuore degli Ossolani, e la soddisfazione di mandare in fibrillazione tutte le segreterie politiche
della provincia. Fu chiamato U.O.P.A., Unione
Ossolana Per l’Autonomia e il suo scopo principale fu l’acquisizione dell’istituzione di Regione a statuto speciale per l’Ossola e la Val Cannobina, quel territorio che già nel 1944 era diventato, seppur per poco tempo, un’isola di libertà
nell’orrore dell’occupazione nazista e repubblichina, convertendosi, dopo mesi di lotta partigiana, in una repubblica indipendente.
Nell’attuazione delle finalità di questo movimento, saranno anche stati commessi degli errori, ma resta fondamentale il fatto che, nella
sua pur breve vita, il movimento abbia contribuito in modo determinante a risvegliare l’orgoglio e l’autostima di un popolo che si stava piegando sotto il peso di una morale qualunquista
e meschina, fornendo allora modelli di pensiero
che ancor oggi sono validi per tutti noi che vediamo nella cultura delle autonomie locali il
fondamento della libertà.
A quasi vent’anni dalla sua scomparsa dalla
scena politica, cercherò, attingendo da articoli
di vecchi giornali e dalla memoria di alcuni
protagonisti, di spiegarne la storia, le tematiche
principali e le ripercussioni nell’ambito politico e sociale.
L’impulso alla creazione del movimento venne
da due componenti essenziali, una di carattere
storico, l’altra di carattere socio-economico, entrambe ugualmente importanti per il successo
dell’operazione.
Da un punto di vista strettamente storico, il
movimento ha tratto la sua forza oltre che dalla
eco della gloriosa repubblica partigiana del ‘44,
anche da quella tradizione autonomistica che da
sempre ha contraddistinto gli Ossolani, popolo
12 - Quaderni Padani
che in ogni circostanza si è riconosciuto come
parte di una medesima unità territoriale, conservando un’identità culturale radicata e profonda, che ha saputo resistere, nel corso dei secoli,
a invasioni e scorrerie straniere senza mai essere stravolta, poiché, per dirlo con una frase di
Alvaro Corradini, che dell’U.O.P.A. è stato il padre spirituale, “Gli Ossolani sono come le loro
montagne: sopra di essi vi è solo il cielo”.
Questo sentimento di libertà che ha sempre
spinto gli Ossolani a fare da sé, ha naturalmente
stimolato in essi l’istinto di autodifesa, soprattutto nei momenti di maggiore necessità, quando sistematicamente veniva a mancare all’Ossola, l’appoggio di quelle stesse istituzioni che l’avevano voluta appartenente al Piemonte e poi,
subito abbandonata a se stessa, emarginandola
dalle iniziative programmatiche dei centri di potere o tradendola con promesse mai mantenute.
Anche in quella seconda metà degli anni ‘70,
la Valle stava soffrendo in modo particolare la
crisi economica che minava il Paese. I suoi problemi erano di vecchia data: una viabilità da terzo mondo faceva lievitare i costi dei trasporti
che, di conseguenza, andavano a gravare sul già
impoverito bilancio delle aziende locali; per di
più il dissesto idrogeologico, esasperato da condizioni meteorologiche di inaudita violenza,
aveva reso la situazione viaria ancora più malsicura e le località turistiche impraticabili, facendo segnare il passo anche all’economia di quel
settore.
Una dopo l’altra, le industrie erano entrate in
crisi. Alcune avevano chiuso i battenti e altre,
anche le più grandi, davano vistosi segni di cedimento.
La scarsità di danaro dovuta ai licenziamenti o
al timore di questi, aveva poi innescato una reazione a catena che stava trascinando al fallimento anche le attività commerciali e ricreative
completando un quadro già di per sé desolante.
I politici locali, dopo le doverose quanto insinAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
cere geremiadi, si erano lanciati in promesse
puntualmente disattese, vittime anch’essi, forse,
del vezzo diffuso nei palazzi di Roma e di Torino, di concedere favori solo alle aree più appetibili dal punto di vista elettorale.
Così non ci si curò di costruire gli argini dei
fiumi e a ogni giornata di pioggia insistente seguiva un’inondazione; non si costruì lo scalo
ferroviario, e la Svizzera trasferì le sue merci su
Chiasso; infine, la superstrada che avrebbe dovuto collegare Genova al Sempione, fu deviata
verso Santhià e la
Valle d’Aosta e ciò
tolse definitivamente la speranza
di ridare al Passo
del Sempione il
ruolo chiave di
“porta” per gli
scambi internazionali.
Questa fu la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso: per salvare l’economia era necessario che l’Ossola ritornasse agli Ossolani.
Una sera piovosa di novembre una piccola folla si accalcava nella sala consiliare del Comune
di Domodossola per partecipare a un incontro,
definito “economico e non politico”, promosso
dal geometra Corradini, personaggio che definire eclettico è ancora limitativo. Studioso di matematica, (a lui si deve la dimostrazione del teorema di Fermat), ecologia, glottologia, datazioni bibliche, era vissuto per molti anni in Svizzera, ove aveva potuto rendersi conto di come,
con una suddivisione del territorio in Cantoni,
fosse possibile far convivere popolazioni di culture diverse, salvaguardando con puntiglioso rigore lingua, usi e costumi di ciascuna. Divenne
un convinto assertore del federalismo cantonale su modello elvetico, e quindi, intuendo che la
sua applicazione avrebbe potuto essere migliorativa anche nei territori al di qua delle Alpi,
dove l’idea di Regione era ancora legata più alla
posizione geografica che non al concetto di Popolo o Nazione, si dedicò all’attuazione del
proposito.
Nel 1975, il vulcanico geometra aveva già tentato di far accettare l’idea di amministrare il
V.C.O. a livello cantonale, fondando il M.A.C.
(Movimento Autonomista Confederale). La sua
proposta risultò tuttavia prematura e destò solo
l’attenzione delle forze dell’ordine che, trattandolo alla stregua di un pericoloso sovversivo, un
mattino fecero irruzione nella sua abitazione,
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
alla ricerca di chissà quale materiale compromettente, ponendo temporaneamente fine al
proposito.
I successivi due anni di crisi, però, fecero
montare il malcontento e maturare gli eventi,
così, in quella fatidica sera novembrina si videro
gli intervenuti, dei quali facevano parte anche
parecchi sindaci, trasformare la riunione in una
durissima requisitoria contro il potere centrale,
accusato di aver deliberatamente trascurato
l’Ossola per troppo tempo, dilapidandone il pa-
trimonio umano, culturale ed economico senza
dare nulla in cambio se non la beffa di vane promesse. La proposta autonomistica scaturita dalla ribellione venne perfezionata qualche giorno
dopo, il 17 novembre, nel corso di una affollatissima assemblea tenuta nel cinema Corso di
Domodossola.
Era nata ufficialmente l’U.O.P.A., i cui dirigenti (Cattani, Coffano, Corradini, Gandolfi, Lincio,
Zammaretti, per citarne alcuni) il giorno successivo, riunitisi all’Hotel Corona, dettarono il
loro decalogo e approvarono lo statuto del Movimento, dichiarando quest’ultimo ossolano e
apartitico.
Una particolarità delle norme dello Statuto,
curiosa, ma rivelatrice di grande democraticità,
fu l’obbligo di cambiare il presidente ogni trimestre perché tutti potessero avere le stesse opportunità e gli stessi obblighi.
Obiettivo primario del movimento fu la trasformazione dell’Ossola in regione autonoma a
statuto speciale, sul modello del Trentino e della
Valle d’Aosta, giacché solo in questo modo si sarebbe finalmente avviato il processo di risanamento dell’economia locale, dando corpo alle
speranze e alle rivendicazioni sognate per decenni dagli Ossolani: l’autostrada, lo scalo ferroviario, gli investimenti per lo sfruttamento delle
risorse del territorio.
A completamento vi era la proposta di creazione di una zona franca, con tutti i vantaggi che
ne sarebbero derivati, come la diminuzione del
prezzo della benzina e dell’I.V.A. su alcuni proQuaderni Padani - 13
dotti, per incentivare il turismo e il commercio
locale.
Il progetto era ambizioso anche perché, come
previsto dall’Art. 71 della Costituzione, per l’ottenimento dello statuto speciale, era necessario
raccogliere un minimo di 50.000 firme, il che,
in un territorio di circa 80.000 abitanti compresi i minorenni, risultava un’impresa non da poco.
Per nulla intimoriti, i dirigenti del Movimento
si diedero da fare con incontri pubblici, volantinaggio, comunicati e articoli sui giornali locali
e, nel giro di pochi mesi vennero raccolte trentacinque mila firme.
Ovunque, nella Valle, compariva il camoscio
bianco in un’Ossola verde, azzurra e rossa, i colori dei fazzoletti delle tre formazioni partigiane
del ‘44.
Questo era il simbolo adottato dall’U.O.P.A.,
un simbolo forte, di coraggio ritrovato, che suscitò grande entusiasmo nella gente e accese le
speranze; in ogni cittadina o paese, si aprivano
nuove sezioni: nei bar, nelle fabbriche, a scuola,
si parlava solo di quello.
Tutto ciò suscitò, in un primo momento, l’interesse della stampa italiana ed estera, un interesse manifestato con articoli di plauso e incoraggiamento da parte delle testate strettamente
locali o straniere, mentre dai giornali di regime
si evidenziò subito un’aperta opposizione o, nella migliore delle ipotesi, un atteggiamento di allarme per la “pericolosa sovversione”.
Emblematica di questo contegno, la Gazzetta
del Popolo dell’8 gennaio 1978, che titolava:
“Anacronistica e sbagliata la richiesta dell’Ossola” commentando positivamente l’impegno di
tutti i partiti, decisi a rimuovere in profondità le
cause che avevano consentito l’irrobustirsi delle
aspirazioni autonomistiche, con l’elaborazione
di un programma comune di interventi da attuarsi immediatamente. Anche allora, come oggi, niente di nuovo sotto il sole: quando traballano le poltrone, si dimenticano le divergenze
ideologiche e si fa causa comune contro il terremoto!
I panegirici velenosi dei soliti noti non fermarono però la determinazione del movimento:
una delegazione guidata dal geometra Corradini
si recò in Valle d’Aosta allo scopo di studiare lo
statuto di quella regione per poterne applicarne
le norme al futuro statuto dell’Ossola, e un opuscolo, scritto dallo stesso Corradini in collaborazione con Roberto Gremmo, direttore della rivista Arnassita Piemontèisa, venne distribuito tra
14 - Quaderni Padani
gli Ossolani, per illustrare le ragioni e i vantaggi di una scelta autonomistica .
Sempre risoluti a ottenere la massima “visibilità”, pubblicarono sui giornali locali ogni iniziativa, ogni proposta presentata ai Comuni della Valle o alla Comunità Montana, e, soprattutto,
gli elenchi delle sezioni che, in poco tempo avevano superato le sessanta unità, con migliaia di
iscritti.
Il terreno su cui si battevano dirigenti e simpatizzanti spaziava dalle semplici e sacrosante
rivendicazioni di carattere pratico, come vie di
comunicazione migliori o aiuti per le aziende
locali in crisi, a temi di più vasta portata socioculturale, quali la promozione e la protezione
del patrimonio linguistico, delle tradizioni e della personalità etnica dell’Ossola e dell’enclave
Walser.
Intanto proseguiva la raccolta delle firme, incrementata in modo determinante nel corso di
una affollata adunata degli Alpini, a Roma, dove
gli incaricati dell’U.O.P.A. raccolsero altre
20.000 adesioni; un margine più che sicuro per
il superamento anche del vaglio formale della
Cassazione.
Era il 15 ottobre del 1978, quando una legazione di 15 persone, guidata da un Corradini
emozionatissimo che si era assicurato al polso
con un paio di manette, la valigia contenente i
preziosi moduli, giunse al Palazzo di Giustizia di
Roma per presentare alla Corte Suprema di Cassazione la proposta di legge di Iniziativa Popolare. Il più era fatto, ora non restava altro che attendere l’espletamento delle formalità burocratiche ma, in base alla Costituzione Italiana, l’Ossola era già ad un passo dall’ambito traguardo.
Nel frattempo, ai primi di agosto, una spaventosa alluvione aveva provocato nelle valli ossolane, la morte di una ventina di persone, il ferimento di altre quaranta e danni ingenti, dando
una triste conferma delle reiterate proteste popolari, appoggiate dal movimento autonomista.
Solo allora, finalmente, Roma e Torino si riscossero dal torpore, mobilitandosi con leggi
speciali per il finanziamento della ricostruzione
e centri operativi nelle località maggiormente
colpite. Nell’Ossola, dopo la pioggia vera, ci fu
una pioggia di ministri: giunse Nicolazzi, poi
Vittorino Colombo, Donat Cattin, Stammati, Bodrato, Marcora e altri ancora. Sull’onda del ritrovato interesse per la Valle, iniziarono immediatamente i lavori per la costruzione dello scalo
ferroviario e si promossero iniziative per il completamento dell’autostrada Voltri-Sempione.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Questa precipitosa e tardiva sollecitudine fu
una manovra, neanche tanto velata, dei politici
locali che tentarono, chiamando sul posto i loro
referenti dai nomi altisonanti, di assumersi il
merito per la realizzazione degli obiettivi dell’U.O.P.A., raggiungendo così il doppio scopo di
rifarsi un’immagine sul territorio e di impedire
agli autonomisti di cavalcare, una volta di più, la
tigre del malcontento.
Era comunque prevedibile che, fin dai suoi
primi passi, il movimento destasse il timore e
l’antipatia dei partiti, i quali, infastiditi dal suo
successo e, soprattutto, preoccupati della perdita di potere conseguente all’ottenimento dell’autonomia, lo considerarono una minaccia e, come tale lo combatterono con tutte le armi disponibili. Alcuni, come P.C.I. e Socialdemocratici, si erano posti in aperto contrasto, non perdendo occasione per tacciare l’U.O.P.A. di qualunquismo e, tanto per usare l’espressione a loro
più cara, di filofascismo; mentre la D.C. e il
P.S.I., pur mantenendosi su posizioni più moderate, avevano chiaramente lasciato intendere
che non avrebbero accettato la trasformazione
di questa in partito politico.
Le ripercussioni di un tale atteggiamento si
manifestarono anche nell’ambito delle associazioni legate in qualche modo all’ambiente politico; così l’A.N.P.I. (Associazione Partigiani) fu
squassata al suo interno da una profonda crisi
originata da alcuni suoi membri che sostenevano l’incompatibilità tra gli ideali partigiani e
quelli dell’U.O.P.A., arrivando ad accusare i dirigenti di quest’ultimo di essersi abusivamente
impadroniti dei colori che contrassegnavano le
tre formazioni partigiane. Ed evidentemente, al
coro di dissenso non potevano mancare i sindacati: C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. rimproverarono al
movimento, come d’abitudine, uno scarso interesse per i problemi occupazionali dei lavoratori, come se, la preoccupazione di tenere in vita
le imprese non ne coinvolgesse, di conseguenza,
anche i dipendenti.
Intanto, in attesa di un riscontro dalla Corte
di Cassazione, che stava tacendo in maniera sospetta, il movimento prendeva contatto con altri movimenti analoghi di tutto il Nord Italia,
come gli “Autonomisti Trentini e Tirolesi” di Fedel, l’Associazione “Piemont Occitan” di Bodrero (il rimpianto Barba Toni), la “Lista per Trieste” di Lokar, e il Movimento Arnàssita Piemontèisa, di Gremmo. Con questi vennero discusse le strategie comuni e vennero gettate le
basi per una federazione di partiti autonomisti
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
che avrebbe abbracciato tutta la Padania.
Nei primi mesi del 1979 si costituì anche una
società editoriale, denominata “Società cooperativa editoriale Ossola Cannobina a.r.l.” che ammetteva come soci tutti gli aderenti all’U.O.P.A.,
mediante la quale fu possibile pubblicare materiale illustrativo e l’organo informativo del movimento, L’autonomia, un giornale non periodico che ebbe in qualità di direttore responsabile
prima Corradini, poi, dal settembre 1979, un
nome come Bruno Salvadori, “(..) la cui lungimiranza aveva favorito, su un terreno di reciproca unione, l’incontro fra partiti delle minoranze linguistiche e partiti federalisti o gruppi
antipartitocratici (..)”, come scriverà nel 1982
Gremmo su Autonomie padane e alpine, ricordando l’amico compianto.
Questo giornale, che oltre a contenere articoli
di carattere culturale sulla storia e i costumi
delle popolazioni
locali, quali Ossolani e Walser, riferiva con puntiglioso
rigore tutte le iniziative e i progetti
del movimento, riportava sotto il titolo una frase emblematica di Rousseau: “La vera democrazia può essere raggiunta soltanto in collettività
relativamente picAlvaro Corradini
cole”.
La decisione di
uscire con un proprio foglio, sebbene rappresentasse un gravoso impegno economico, si rese
necessaria per rettificare l’informazione scorretta o addirittura mancante fornita dai media i
quali, dopo il citato fuggevole interesse iniziale,
che, pur essendo in larga misura ostile, serviva
almeno a dare visibilità, avevano, prima cercato
di far passare gli ideali del movimento per utopie un po’ folkloristiche, poi, accantonato sdegnosamente l’argomento U.O.P.A., relegandolo
nel limbo del silenzio stampa.
Significativa è l’accorata protesta, riportata
sul primo numero di L’autonomia, verso l’arroganza della R.A.I. che, invitata al primo congresso del movimento con le televisioni Svizzera e
Austriaca, aveva volutamente e ripetutamente
ignorato l’invito, contrariamente alle sue omologhe straniere, presenti e molto interessate.
Quaderni Padani - 15
Queste rivendicazioni, più o meno vibrate, ricorsero in quasi tutti i numeri che seguirono, e
la cocciuta disinformazione di stampa e televisione fu, in quel momento, interpretata come
una tattica del sistema arrogante e centralista
per non prestare orecchio alle richieste di aiuti
economici e di infrastrutture volte a migliorare
la situazione dell’Ossola.
Alla luce dei fatti si può invece ritenere che
l’ordine tassativo di far passare sotto silenzio
ogni iniziativa del movimento, fu un preciso e
sottile disegno per ridimensionare l’entusiasmo
della gente e frapporre del tempo tra la richiesta
di statuto speciale e l’esame della stessa, in modo da trovare qualche pretesto per non concedere l’autonomia, come in effetti accadde.
Così, all’inizio del 1980, sebbene molto fosse
stato fatto, cominciò a essere evidente che il traguardo autonomistico si stava allontanando,
nascosto da cortine fumogene di giorno in giorno più dense. Per ridare smalto e visibilità al
movimento si rendeva necessaria una svolta che
lo portasse concretamente a misurarsi nell’ambito dell’amministrazione locale. Questo costrinse i dirigenti a venire a patti con il loro
stesso ideale, che disdegnava qualunque rapporto con i partiti politici, ma, alla fine, convennero
di presentarsi alle elezioni amministrative.
Non fu una decisione facile e generò contrasti
interni con coloro i quali temevano che la scelta
effettuata riuscisse a snaturare il ruolo di un
movimento ideologicamente di rottura, che
avrebbe perso la sua forza e la sua integrità, una
volta entrato a far parte dei quelle stesse istituzioni che aveva combattuto e da cui rifuggiva.
Prevalse comunque la tesi “interventista” e,
dalle urne uscì un responso largamente lusinghiero, un successo trionfale, che vide l’U.O.P.A.
al terzo posto tra i partiti presenti, con ben cinque consiglieri a Domodossola, ove il suo consenso esterno, insieme a quello del P.L.I., permise la nascita di una giunta D.C.- P.S.D.I.
Divenuto determinante per la formazione di
numerose giunte, il movimento ottenne anche
due assessorati in Comunità Montana e altri due
esponenti in seno al comitato di gestione dell’U.S.L.
Con l’energia e la freschezza dei neofiti, i nuovi eletti si buttarono con entusiasmo nel lavoro
presentando interrogazioni e interpellanze,
avanzando richieste alla Regione per apparecchiature ospedaliere, applicandosi con puntiglio
alla stesura del nuovo Piano Regolatore.
Contemporaneamente all’attività amministra16 - Quaderni Padani
tiva, un’altra importante iniziativa impegnava il
movimento: le relazioni da tempo intercorse tra
questo e gli altri partiti o movimenti federalisti
e autonomisti del Nord si stavano fondendo in
una grande coalizione che avrebbe preso il nome di “Federazione Alpino-Padana dei Movimenti Autonomisti, Etnici e Federalisti” alla
quale si interessarono, oltre ai movimenti che
già nel 1979 si erano avvicinati, il Partito Federalista Europeo, (P.F.E.) rappresentato da Dacirio Ghizzi Ghidorzi, la Lega Autonomista Lombarda (L.A.L.) rappresentata da Umberto Bossi,
la Liga Veneta da Negrisolo e Rebesco. A questi
si aggiungeranno poi “Alpazur”, il Partito Popolare Trentino, l’Union Valdotaine, il Movimento
Friuli, il Movimento Occitano- Provenzale, e la
Wolkspartei.
Il nascente movimento, promosso da U.O.P.A.,
M.A.R.P., L.A.L. e P.F.E., redasse il suo statuto il
30 maggio del 1982, nel corso del congresso di
fondazione, tenutosi a Domodossola, che vide
Corradini come presidente e Bossi come segretario.
Argomenti fondamentali dello statuto erano:
“(..) l’autodeterminazione dei popoli con scelta
democratica del proprio presente e del proprio
futuro, federalismo integrale dei popoli europei,
autonomia quale sintesi di Giustizia e Libertà,
primato e salvaguardia dei valori culturali delle
singole comunità, riservando ad ognuna pari
dignità e diritto di espressione (..)”
La Federazione, nella ferma convinzione che
una gestione autonoma dei territori costituisse
la forma più avanzata di democrazia, cercò innanzitutto di contrastare la progressiva mediterraneizzazione dell’area padano-alpina che stava
compromettendone irreparabilmente l’identità
storica, opponendo a questa una filosofia più europeista, basata su quattro pilastri fondamentali:
Cristianesimo, Liberalismo, Socialismo e Antifascismo.
“(..) Questa politica assume dal Cristianesimo
la tolleranza, dal Liberalismo la difesa e la promozione dell’iniziativa privata, dal Socialismo
l’esigenza di difesa del lavoro e di giustizia sociale, ed infine dall’Antifascismo il rigetto di
ogni e qualsiasi dittatura. Meta di questa carica
ideale sarà il raggiungimento delle autonomie
nei Comuni come nelle Provincie e nelle Regioni (..)”. Sono parole dell’articolo di fondo di Vento del Nord, il periodico informativo della federazione, profondamente chiarificatrici dell’ideologia che spinse i numerosi movimenti a unirsi
per ottenere l’obiettivo che li accomunava.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Questa fu per
l’U.O.P.A. una fase
particolarmente feconda e ricca di nuovi impulsi, sia nell’ambito amministrativo locale, con un
impegno concreto sui
temi più pressanti,
sia in quello della Federazione autonomista, dalla quale trasse
una importante spinta ideologica, mediante il confronto
con movimenti affini,
e maggiore forza dovuta all’unione con
questi.
In più, proprio in
quel periodo, i partiti
tradizionali, spaventati dall’avanzata degli autonomisti e nell’intenzione di frenarne la protesta,
avevano fatto pressioni affinché venissero
impegnate in Ossola
il massimo delle risorse economiche
con il completamento delle opere iniziate
dopo l’alluvione del
1978, ottenendo però
l’effetto contrario
poiché l’U.O.P.A., nell’opinione della gente, ebbe comunque il
merito di un risultato
conseguito, in parte,
con la sola minaccia
della sua presenza.
Paradossalmente,
una congiuntura così
fruttuosa coincise con l’inizio di una crisi interna che, anche se resterà latente ancora per qualche tempo, porterà il Movimento al declino.
Le molteplici cause di questo malessere sono
da ricercare prima di tutto nella cronica mancanza di fondi che, a distanza di anni pesava
sempre più. Non avendo un finanziamento come gli altri partiti, ogni volantino, ogni pubblicazione, ogni trasferta, per non parlare della
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Volantino dell’UOPA
campagna elettorale per le amministrative del
1980, era un onere considerevole sulle spalle dei
dirigenti, di giorno in giorno più preoccupati, e
delle sezioni che cominciarono a chiudere i battenti.
A questo dobbiamo aggiungere il reiterato silenzio, da parte dello Stato, in merito alla richiesta di autonomia, atteggiamento che contribuì a
spegnere gli entusiasmi verso l’importante obietQuaderni Padani - 17
tivo e a farlo dimenticare, soppiantato, nelle simbolo a tutti quei movimenti della federazioaspirazioni volubili della popolazione, dalla pro- ne che desideravano presentarsi alle elezioni
posta di una provincia dell’Alto Novarese, caldeg- con la speranza di “portare a Roma gli interessi
giata dai partiti, soprattutto il P.C.I., dalle orga- locali per anteporli a quelli dei partiti” (la frase
nizzazioni sindacali e dall’Unione Industriali.
è tratta da un manifesto elettorale). E così anche
Determinante fu comunque il danno d’imma- l’U.O.P.A., che aveva visto sfumare la possibilità
gine provocato dall’ingenuità o dalla malafede di di accettazione del progetto autonomistico con
alcuni esponenti della stessa U.O.P.A., i quali, o la fine della legislatura, presentò i suoi candidati
soggiogati dal “canto delle sirene” delle vecchie alla Camera: Giancarlo Bianchi, Alvaro Corradivolpi della politica, o già entrati nel movimento ni, Arturo Carlo Lincio.
con mire “poltronistiche”, si erano lasciati conE in questo frangente, proprio quando sarebvincere dagli scontati giochetti di potere favo- be stato indispensabile presentarsi all’elettorato
rendo questo o quel
come un movimenpartito per ottenere
to
monolitico,
successi personali.
scoppiò la bagarre.
In questo clima di
A suon di comunitensioni interne
cati stampa due ex
proseguiva comunpresidenti, si lanque l’attività del
ciarono pesanti acmovimento che, ancuse, con relativa
cora attivo e vitale,
reciproca richiesta
si oppose con tutte
di espulsione. Motile sue forze alla
vo della violenta
creazione della nuodiatriba fu la scelta
va provincia che
sulla strategia eletavrebbe invalidato il
torale, poiché alcusuo sforzo, definenni esponenti di
do l’operazione un
spicco del moviBandiera dell’Ossola
“pateracchio P.C.I.mento, facenti capo
V.C.O. (Verbano Cua uno dei due, ritesio Ossola)” e scagliandosi contro quello che in- nevano preferibile appoggiare la candidatura del
dicavano come “(..) un lontano cugino deboluc- socialdemocratico Nicolazzi piuttosto che porcio del progetto di autonomia (..)”.
tare acqua ai movimenti di altre zone, accusanCon volantini e articoli roventi cercarono di do l’altra fazione di dare il loro contributo a liste
far capire l’inutilità del proposito, che oltre a es- sorte per la difesa dei propri interessi locali a disere oneroso per lo sdoppiamento di uffici e in- scapito degli interessi dell’Ossola.
frastrutture, avrebbe allontanato l’Ossola dalla
Tali affermazioni, se espresse in buonafede,
vera autonomia per accomunarla a territori con darebbero l’impressione che, anche ai vertici del
i quali aveva pochissima attinenza sia dal punto movimento, parecchi non avessero compreso a
di vista storico sia da quello logistico e delle ri- fondo l’importanza strategica di un legame con
sorse.
altri movimenti autonomisti, ma credo che in
Proseguivano anche i lavori della Federazione questo frangente abbia giocato molto più la dePadano - Alpina, la quale con un nutrito calen- lusione per l’ormai chiara inutilità della raccolta
dario di incontri e congressi, stava valutando la di firme, che non la mancanza di sensibilità popossibilità di partecipare alle elezioni politiche litica; delusione che creò nervosismo, incomdel 26 giugno 1983. Fu modello ed elemento prensioni e, soprattutto la voglia di buttare tutto
trainante la “Lista Per Trieste”, detta anche “del alle ortiche tipica di chi, magari emotivamente
Melone” a causa del simbolo recante in centro fragile, vede franare il suo obiettivo.
una grande sfera. Questa, dal 1978, sostenuta
In ogni caso, quali che fossero i reali motivi
dal solo volontariato popolare, era divenuta for- destabilizzanti, ormai il guaio era fatto: la
za di maggioranza alla guida della città, aveva profonda spaccatura che si era creata aveva inottenuto numerosi consiglieri regionali, un de- fluito non poco a disorientare l’opinione pubbliputato al Parlamento e un deputato europeo e ca e il risultato elettorale fu estremamente deluquindi, forte della sua esperienza, offrì il suo dente, basti il solo dato di Domodossola: 590voti
18 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
contro i 2144 del 1980, per definire la portata
del fallimento.
I mesi che seguirono videro l’U.O.P.A. invischiata in una ragnatela di verifiche, chiarimenti, accordi e autocritiche. Non più proclami infuocati, iniziative clamorose, proposte o denunce; ormai le sezioni, ad una ad una erano state
chiuse, e tanti elementi di spicco del movimento, demotivati o …. troppo motivati, erano passati, come purtroppo spesso accade, nelle file di
altri partiti che in quel momento davano maggiori garanzie di successo.
Nel giro di neanche un anno il movimento si
estinse, portando con sé le speranze di un vero
cambiamento. Forse, quello che era stato il suo
punto di forza, l’autonomia per l’Ossola, divenne
il suo punto debole, la chiave di volta che, venuta a mancare, provocò il crollo di tutta la struttura.
Mancarono la volontà per proseguire la lotta
appoggiandosi e appoggiando gli altri movimenti della Federazione autonomista, confluiti poi,
in parte, nella Lega Nord, e l’elasticità necessaria ad aggirare gli ostacoli, traendo tutto il vantaggio e gli insegnamenti possibili dalle circostanze, anche e soprattutto quelle negative, per
perseguire l’obiettivo primario.
Comunque, qualunque sia l’opinione che si
possa avere dell’U.O.P.A., non si può negare che
con la sua presenza abbia scritto una pagina importante della storia dell’Ossola e che abbia dato
un contributo notevole alla presa di coscienza di
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
un popolo riscoprendo le sue radici, combattendone l’emarginazione e riportandone alla luce
l’antica identità.
Quello che, nonostante tutto, non riesco a
mandare giù, è la fine ingloriosa di quelle
55.000 firme lasciate a marcire in qualche scantinato romano. La caduta del governo ne ha invalidato la funzione, d’accordo, ma in quattro
anni la procedura accelerata prevista dalla Costituzione avrebbe dovuto avere il suo iter, cosa
evidentemente non avvenuta; inoltre quale stato
che si definisce democratico subordina la volontà popolare ai cambiamenti delle giunte governative? Come di consueto, la volontà del popolo sovrano è stata calpestata, 55.000 volte, e
proprio da quelli che di populismo e di democrazia si riempiono la bocca continuamente.
Fonti
❐ Ambiente - attualità e cultura dell’alto novarese, novembre 1983
❐ La Stampa, articoli vari
❐ La Gazzetta del Popolo, articoli vari
❐ Autonomie Alpine e Padane - Agenzia di
informazioni stampa della Federazione alpinopadana dei movimenti autonomisti, etnici e federalisti
❐ Vento del Nord - Periodico d’informazione politica, costume, attualità delle regioni alpino-padane
❐ L’Autonomia - Periodico di informazione dell’U.O.P.A.
Quaderni Padani - 19
Il Movimento Autonomista
Occitano
di Batsòa
P
er comprendere la situazione storica che
favorì la nascita del Movimento Autonomista Occitano, occorre compiere qualche
passo indietro.
È il 14 agosto del 1961 quando su un’idea di
Tavo Burat (Gustavo Buratti), “grande vecchio”
del piemontesismo, convergono a Crissolo anime e gruppi differenti ma uniti dalla passione
per le lingue e le culture minoritarie del nostro
versante alpino, decisi a riscoprirle e a rivitalizzarle, e fondano la “Escolo dou Po”.
Fra i ventisette fondatori ci sono Pinin Pacott
e Sergio Arneodo, testimoni di due realtà differenti: piemontesista il primo, provenzalista (il
termine “occitania-occitanisti” verrà adottato
solo più avanti e non da tutti) il secondo.
La Escolo dou Po iniziò a stabilire rapporti
col Felibrige, associazione provenzalista che da
tempo lavorava ad analoghi obiettivi sul versante francese. Con le medesime intenzioni e un
contatto diretto col Felibrige, Gaetano de Sales
fonderà le Rescountre Piemont-Provenzo che
lavorerà insieme all’Escolo.
La Escolo dou Po provvede a darsi uno statuto e a eleggere un direttivo convocandosi una
volta all’anno nelle valli provenzali per fare il
punto della situazione e del lavoro svolto nel
territorio. Fra il 1959 e il 1960 era nato il giornale di Coumboscuro, il solo, in quegli anni,
20 - Quaderni Padani
che assicurava l’informazione e la ripresa di coscienza nelle valli.
Nel 1964, dovendo lasciare la Francia a causa
delle sue idee politiche, era venuto ad abitare a
Frassino, in valle Varaita, Francès Fontan fondatore del Partito Nazionale Occitano. Grazie
all’interessamento di Tavo Burat trovò lì casa e
conobbe Barba Toni Baudrie (Antonio Bodrero).
E’ il 1968, quando su spinta di Francès Fontan
con l’appoggio di un gruppo di giovani, per lo
più aderenti alla sinistra (Dino Matteodo, Dario
Anghilante, Ines Cavalcanti, Fredo Valla), viene
fondato il Movimento Autonomista Occitano
(MAO). Con Barba Toni segretario, nel 1971,
vengono approvati lo statuto e il programma
politico che prevede il riconoscimento di una
regione autonoma a statuto speciale per le valli
occitane.
Se Coumboscuro fa esplicito riferimento al
Felibrige che fa un discorso limitato all’area e
all’appellativo provenzale, pur non disconoscendo le affinità con le regioni limitrofe,
il MAO abbraccia le posizioni dell’Istituto Europeo Occitano (IEO) che adotta una grafia differente, parla di un’Occitania (e non più solo di
Provenza) che a partire dalle valli piemontesi (e
in minima parte anche liguri) si estende oltre i
Pirenei. Anche l’IEO ha una forte connotazione
derivante dall’ideologia marxista che lo acco-
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
muna al MAO che oggi però
cerca opportunamente di tenere piuttosto velata anche se
sempre riconoscibile.
Intanto nel 1970 nascono le
regioni e l’Escolo dou Po si
appresta a rinnovare il proprio statuto, non senza discussioni e frammentazioni
fra piemontesisti e provenzalisti, e a formulare delle proposte di tutela delle minoranze da inserire nello statuto regionale.
Prevale in questa occasione
la posizione occitanista che
mira a superare quella provenzalista ritenuta ambigua.
Sarà purtroppo, anche l’inizio
della fine di un sodalizio che
certamente , se è vero che l’unione fa la forza, avrebbe potuto concretizzare le aspirazioni identitarie con più determinazione e successo di
quanto non abbia in seguito saputo fare il mon- pre riconducibili alla sinistra alle elezioni per il
do polverizzato di gruppi e riviste che iniziò al- parlamento europeo, per il quale non otterrà
lora a formarsi.
nemmeno la staffetta a metà mandato. Il MAO
Su Lou Soulestrelh (“Fuochi di carnevale”), non riuscì a radicarsi politicamente sul territonato nel 1971 come giornale alternativo a rio, tant’è che con l’avvento della Lega Nord, il
Coumboscuro, e voluto da Barba Toni, viene uf- voto degli occitani o provenzali dalla DC passò
ficializzata la nascita dell’UDAVO, Unione degli in blocco al movimento federalista-secessioniAutonomisti delle Valli Occitane, che proponeva la crea- Bandiera delle valli occitane piemontesi (Croce di Tolosa e stella gialle su campo rosso)
zione di tre distretti alpini e
che riteneva il MAO un partito nazionalista e non un movimento identitario. Si tratta
di un sodalizio che avrà poca
fortuna e che nel 1978 verrà
sciolto.
Il MAO nel 1972 si presenta
per la prima volta alle amministrative ottenendo buoni risultati ma in pochi comuni. In
definitiva la ricerca di acquisire peso politico nelle valli risulterà vana nonostante le alleanze coi Verdi alle provinciali (dove si aggiudicherà un
seggio con staffetta), con l’Union Valdotaine e con altre
forze autonomiste (come il
Partito Sardo d’Azione) semAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 21
sta, pur non avendo questo mai manifestato particolari attenzioni verso queste popolazioni.
Come afferma Massimo Manarella, membro
della redazione di Ousitanio Vivo (organo ufficiale del MAO) fin dal 1974 quando è stato creato: “(..) l’aver voluto dare una connotazione politica lontana dalla tradizione conservatrice
delle valli, fu la causa del negativo riscontro
elettoraledel MAO”.
La proposta di legge Calzolaro (dal nome del
primo firmatario fra i consiglieri regionali) presentata nel 1972 con l’intento di “Tutelare il patrimonio linguistico e culturale del Piemonte”,
dopo anni di giacenza in qualche fondo di cassetto, viene rigettata dal Commissario di governo il 22 giugno del 1977. La risposta dei movimenti autonomisti occitani e provenzale, in
quella occasione uniti, non si fa attendere: stilano il 22 luglio un documento unitario di protesta contro quella che definiscono una manifestazione di centralismo romano.
Definitivamente archiviati i tempi di condivisione di una comune lotta anticentralista della
Escolo dou Po, il MAO si impegna in una battaglia contro quello che viene definito colonialismo piemontesista. Quando viene organizzata a
Pontechianale una “veglia piemontese”, il MAO
organizza una contromanifestazione che richiamerà un buon numero di persone. I vari movimenti occitanisti, guidati dal MAO, stilano inoltre un documento dove si chiede di non tenere
manifestazioni piemontesiste nelle vallate: giova infatti ricordare che proprio in quegli anni
aveva preso l’avvio l’uso di organizzare periodicamente la Festa del Piemonte.
Nel 1977 Barba Toni abbandona il movimento
occitanista e l’occitanismo: di estrazione non
marxista, evidentemente non condivideva più la
linea che stava assumendo il MAO. La segreteria
passa a Dino Matteodo definito “un giovane dalle idee chiare” che dà infatti una svolta chiara al
MAO, ma ancora di più verso sinistra.
Nel 1980 muore a soli 50 anni l’ispiratore del
MAO Fontan. Negli anni successivi i congressi
del movimento cercheranno di fare il punto sulla propria situazione organizzativa sul territorio, relazioneranno sulle realtà economiche,
culturali e agricole dell’area valligiana, insisteranno sulla penetrazione di occitanisti nelle
amministrazioni.
Se sul versante della presa di coscienza va dato atto al MAO, insieme ad altri, di aver contribuito a promuovere positivi passi in avanti, anche mediante la pubblicazione di validi libri e la
22 - Quaderni Padani
realizzazione di film, cosi non è stato nell’ambito politico: gli uomini che ha saputo “produrre”
e inserire nelle istituzioni sono pochi e sono
ancora e sempre gli stessi che lo avevano fondato anni prima.
La presa di coscienza, seppur ancora superficiale, è notevolmente migliorata da quando aveva avuto inizio la Escolo dou Po. Purtroppo –
sempre secondo quanto affermato da Manarella,
nel corso del piacevole incontro intercorso per
redigere questo breve resoconto - “Il MAO ha
aggiunto estremismi politici che hanno favorito le divisioni invece che assorbirle”.
Rileggendo la storia di trent’anni di occitanismo scritta da Bronzat su Ousitanio Vivo si
constata con una certa amarezza la continua
frammentazione dei movimenti autonomisti.
Le parole di Massimo Manarella confermano
l’opinione che era emersa sentendo anche altri
esponenti del mondo occitanista: la matrice politica che ha istigato la lotta fra classi sociali ha
evidentemente sparso le proprie tossine anche
in questo piccolo mondo dell’autonomia locale,
producendo divisioni fra gruppi che conducevano con eguali meriti le nobili battaglie per le
genti delle nostre montagne, battaglie che
avrebbero condotto a miglior esito se fossero
state condotte con un fronte unito. Purtroppo
le battaglie per la sopravvivenza di queste culture non sono ancora finite: alcune valli continuano a spopolarsi e sarebbe davvero auspicabile, nell’interesse di queste genti, trovare in ambito politico interlocutori forti e sensibili. Il
MAO pur non essendosi ufficialmente sciolto,
opera oggi solo attraversoil periodico Ousitanio Vivo, una casa editrice, e una associazione
culturale; ha una quarantina di iscritti.
Fanno anche parte dell’universo editoriale provenzale o occitano queste pubblicazioni:
Valados Usitanos: trimestrale di ricerca sul mondo occitano.
Usa la grafia fonetica di Fontan.
Novel Temp: trimestrale. Dopo due anni di assenza torna
adottando la denominazione Lou Temp Nouvel usando la
grafia provenzale associata a quella della Escolo dou Po.
La Valado: bimestrale di cultura e attualità della Val Chisone, pubblicato dall’Associazione “La Valado”, con grafia della Escolo dou Po.
R ‘Ni D’Aigura (“Il Nido dell’Aquila”): Rivista brigasca, con
grafia della Escolo dou Po.
Ousitanio Vivo: mensile, nato come organo ufficiale del
MAO, notiziario delle valli, in contrasto aperto coi piemontesisti, usa la grafia dello IEO e quella della Escolo dou Po.
Coumboscuro: mensile simile a Ousitanio Vivo, aperto però
alle posizioni piemontesiste. Usa la grafia della Escolo dou
Po.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Coumboscuro
di Adriano Anghilante
P
er parlare con Sergio Arneodo, insegnante
in pensione, raggiungo Santa Lucio de
Coumboscuro, diramazione della Val Grana, località dove Arneodo abita e che dà il nome
sia al movimento culturale sia al giornale che
guida e anima con i suoi collaboratori da quarant’anni. Si tratta di una borgata di Monterosso che ti accoglie con le sculture di Bernard Damianò di cui la chiesa, sia all’esterno che all’interno, è adorna. Bernard de Rose, come era conosciuto a Santa Lucio dal nome della madre, è
pittore e scultore emigrato nella Provenza francese ove si è fatto conoscere per il suo valore
che ha travalicato poi le frontiere.
Alla ricerca della Casa di Arneodo mi imbatto
in una classe, scoprirò poi essere una pluriclasse elementare “vecchia maniera”, riscaldata con
quelle stufe a legna in ghisa che ti fan correre i
ricordi ai racconti nostalgici dei nostri vecchi.
Chiedo indicazioni all’insegnante che mi affida a un allievo, Lorenzo, nipote di Arneodo. Lorenzo mi guida alla
casa del nonno annuncia la
mia visita in provenzale e io
penso immediatamente che
le nostre lingue non moriranno se hanno già, come le
piante a primavera, nuovi
germogli. Lorenzo mi saluta con un arveire e
torna a scuola ove impara anche la sua lingua.
Sergio Arneodo mi accoglie nella casa adorna
di mobili provenzali dove l’intaglio si esalta e il
sole delle alpi non manca. Cosi com’è fin troppo
evidente, visto che l’altro ospite in sala è il leader del gruppo sardo dei Tazenda, in questa casa
si susseguono incontri, confronti e collaborazioni con esponenti delle culture e musiche
considerate a torto minori: in un esempio che
vale per tutti, il cantautore Fabrizio De Andrè,
venne a conoscere Coumboscuro e la sua attività culturale.
Arneodo ha dedicato gran parte della sua vita
a tenere viva la storia, la lingua e la tradizione
dei valori della gente di montagna senza lesinaAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
re le sue stesse risorse, e offrendo spazio nei
suoi locali a un pregevole museo etnografico
che raccoglie tremila pezzi coi quali si possono
ricostruire i processi di lavorazione della canapa, della fienagione, dell’artigianato domestico.
Mi racconta che fu Tavo Burat, il grande piemontesista, a gettare il primo seme della rinascita provenzale, arrampicatosi, lui grande e
grosso, con la sua lambretta su per la sua vallata
per dimostrargli che la loro parlata era provenzale e non una variante del piemontese come lui
stesso e la sua gente aveva sempre creduto.
Si avvia cosi l’esperienza di Coumboscuro,
una vera fucina dove la loro lingua, la loro storia, riprende vigore.
Nasce nel 1960 il mensile Coumboscuro. La
popolazione, grazie al lavoro promosso dal centro culturale, riprende via via consapevolezza
del suo essere minoranza etno-linguistica: sono
passi lenti pieni di fatica ma anche di sicura
soddisfazione per i risultati indubbiamente raggiunti, a partire dall’insegnamento della lingua
materna ai propri figli Una sana cocciutaggine
montanara ha il suo ruolo nel voler tenere lì la
scuola anche a costo di mettere mano al portafoglio quando le leggi italiane dicono che
l’aula non è a norma!
Sergio Arneodo non parla volentieri del MAO
e dei rapporti fra i due movimenti, freddi e tesi
fin dall’inizio e comunque peggiorati nel periodo successivo all’abbandono del movimento occitanista da parte di Barba Toni, che lo aveva
guidato agli esordi. Ne parla come chi ha proteso spesso la sua mano e se l’è vista respinta
troppe volte.
Quaderni Padani - 23
Dal MAO li divide la grafia adottata, la concezione di nazionalismo estremo, l’ideologia
marxista che anima il MAO, tutti aspetti che il
movimento di Coumboscuro non ha mai condiviso. Il movimento di Santa Lucio che a differenza del MAO non assumerà mai vere connotazioni politiche, grazie a un piccolo, troppo piccolo, finanziamento regionale e alla grande passione del gruppo, realizza durante tutto l’anno
una serie di attività culturali, editoriali e, a differenza di altri gruppi provenzalisti od occitanisti, accoglie anche la sfera spirituale della tradizione religiosa locale naturalmente nella lingua
provenzale.
Arneodo mi descrive l’azione del “Centre Provengal de Coumboscuro” durante tutto l’anno,
con appuntamenti ampiamente collaudati che
non sono e non vogliono essere folclore ma riaffermazione della vita di ieri ma anche di oggi.
Il 6 gennaio: si apre l’anno con Lou journ di
Rei (l’Epifania). Bambini e adulti recitano il
dramma di storia locale che Arneodo prepara
tutti gli anni e che è l’unico teatro provenzale
sul versante padano, seguono musiche e danze
provenzali. La seconda domenica di luglio vi è
Lou Roumiage de Provenço a la Vierge Maria
Adoulourado. La popolazione percorre un tracciato di tappe e soste a piloni votivi recitando il
rosario “senz gene” in provenzale e con i propri
costumi. Ad agosto c’è il Festenàl (festival), du-
24 - Quaderni Padani
ra tutto il mese e vi partecipano gruppi di musica etnica europea e non solo: quando i gruppi
sono più numerosi, el Festenàl si estende a diverse località alpine. Il primo fine settimana di
settembre si realizza l’appuntamento principale
con “La Traversado”. Gruppi di provenzali si
danno appuntamento in gruppi di 50-70 persone in diverse località d’oltralpe (Barcelonette,
Queiras, Saint Martin Vésubie, eccetera) e di lì a
piedi raggiungono la Provenza padana e di qui
Coumboscuro, ove vengono accolti con fiori e
abbracci. La Traversado testimonia l’unità di
lingue e di culture ed è la prova che le Alpi non
hanno mai separato popoli differenti ma hanno
storicamente sempre unito le medesime popolazioni. Il sabato si apre il salone di liuteria tradizionale e di gastronomia alpina, e si svolge un
convegno dibattito con temi d’interesse provenzale; la sera si chiude con “La nuech dal fueiasser” quando si brucia il fantoccio che rappresenta la fine dell’estate. La domenica concludono il Roumiage (derivazione di “romeo”, colui
che percorreva per pellegrinaggio la via romea)
la messa in lingua e, quest’anno, la presentazione in anteprima del film coprodotto da Coumboscuro “Aiga d’en viage” nel quale si racconta
l’alluvione che colpì le montagne nel 1957. Ad
arricchire ulteriormente il Centre Prouvençal,
visitato da numerose scolaresche, non mancano
corsi di aggiornamento e concorsi letterari.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Il MAV – Movimento
Autonomista Valsesiano
di Marco Giabardo
I
l 3 Febbraio 1980, con atto del Notaio Giulio
Cortese di Varallo Sesia, si costituiva l’Associazione denominata “MAV - Movimento Autonomista Valsesiano”.
Lo scopo del Movimento era, come descritto
nell’articolo 3 del suo atto costitutivo, di “sviluppare l’autonomia della Valsesia nelle forme
costituzionali più opportune”.
L’idea era nata pochi mesi prima dall’incontro
di tre amici, che vivevano in quel periodo le loro
prime (deludenti) esperienze nel campo amministrativo locale (in qualità di aderenti al PSDI ),
con una quarta persona (il locale Segretario del
PLI ) che poteva mettere a disposizione la sua
esperienza nell’amministrazione comunale maturata in precedenza.
L’obiettivo era, per l’appunto, quello di slegare
la Valsesia e il suo possibile futuro sviluppo, dalle pesanti pastoie politico-burocratiche che impedivano a chiunque non fosse strettamente legato a un partito politico di esprimere qualche
idea o tentare la realizzazione di un qualsiasi
progetto; oltre che promuovere azioni al fine di
restituire ai Comuni i poteri decisionali e la gestione delle risorse economiche che territorial-
mente gli competono e, ancora, di eliminare gli
ostacoli di comunicazione diretta con la Regione costituiti dalle istituzioni locali allora operanti (Consiglio della Valle e Comunità Montana) e dalla Provincia.
Queste, a grandi linee, erano le principali aspirazioni di quel Movimento che intendeva costituirsi, ispirandosi alle formazioni analoghe che
erano sorte da tempo in Valle D’Aosta, in Val
d’Ossola e a Trieste (il cosiddetto Melone).
Ma proprio durante le riunioni per la stesura
dello Statuto vi furono già le prime divergenze
che riguardavano gli Enti di cui si sarebbe dovuto chiedere l’eliminazione e, prima ancora di costituirsi ufficialmente, il MAV ha conosciuto la
prima dissidenza, con l’abbandono di uno dei
suoi promotori. Avrebbe potuto restare un dettaglio marginale, che infatti non impedì all’idea
di concretarsi con la ufficializzazione di un atto
costitutivo avvenuta anche con l’apporto di altre
persone, ma in realtà quella prima divisione era
lo specchio di un malessere e di una propensione al frazionismo che avrebbero impedito al Movimento qualsiasi operatività.
Infatti, tutte le persone che vi aderirono e che
in sua rappresentanza entrarono in
Bandiera della Valsesia (Aquila gialla su campo a fasce qualche modo nei vari Consigli Coalternate bianche e verdi)
munali e nel Consiglio della Comunità Montana non fecero granchè e
mai tentarono neppure di affrontare
in maniera concreta il tema dell’autonomia e del suo raggiungimento.
Quel movimento era di fatto nato
morto: l’idea di autonomia e, soprattutto, la consapevolezza della sua
necessità per la Valsesia (che ha una
forte tradizione identitaria e di autogoverno storico) non sono però mai
venute meno. In questi ultimi mesi
si è nuovamente costituito un movimento di opinione con lo stesso nome ma – si spera – con esiti più
confortanti.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 25
Le comunità walser
di fronte all’autonomia
di Ferruccio Vercellino
O
ggi, almeno in Europa, i movimenti autonomisti sono particolarmente attivi e, per il
solo fatto di esistere, evidenziano l’attuale
crisi storica dei grandi stati-nazione, nati artificiosamente, e quindi privi di quell’afflato popolare che avrebbe potuto giustificarli. Gli attenti
osservatori di questi fenomeni hanno ben presto
notato, non senza stupore, come le comunità
Walser mai si siano costituite in movimento politico autonomista ed hanno fornito a tale comportamento le più svariate spiegazioni, non esimendosi da quelle piuttosto balzane di inattività
e disinteresse politico. La realtà mi pare diversa
e può essere semplificata dal fatto che i Walser
(qui si parla delle comunità del versante meridionale alpino, ma il discorso può valere per
qualsiasi altro loro insediamento) desiderano
l’autonomia nè più nè meno di qualsiasi altro
cittadino padano, che sempre più sente il distacco da un potere centrale di cui percepisce solo
l’arrogante aspetto impositivo.
Se la risposta è semplice, essa costituisce anche l’effetto di concause più complesse che è opportuno indagare e che affondano le loro radici
nella storia.
I Walser, come ormai tutti sanno, sono originari dell’Alto Vallese tedesco (si tratta della valle
del Rodano e, più in particolare, della sua testata
chiamata Goms). Si può dunque sgomberare il
campo dal facile errore che vorrebbe queste genti costituire un’etnia: non esiste un popolo Walser, ma alemanno o germanico. La loro specificità deriva non da motivi etnici, ma giuridici.
Gli Alemanni, provenienti dal nord e venuti a
coltivare l’Alto Vallese, possedevano già lo status
di coloni con le relative “libertà dovute al dissodamento”, che li distingueva da qualsiasi altro
contadino medievale, su cui gravava la pesante
oppressione del potere politico locale.
Tale caratteristica giuridica si concretizzava
nella libertà personale, nel basso canone di affitto ereditario (vera innovazione concettuale del
tempo) e nell’autonomia giudiziaria e ammini26 - Quaderni Padani
strativa. Il primo documento scritto in cui compaiono questi elementi, pare essere la dichiarazione di libertà rilasciata da Marquandus di Morel della famiglia dei Conti di Castello sin dal
1277. Altro esempio, relativo al desueto concetto di basso canone d’affitto ereditario, è quello di
Formazza del 23 giugno 1416: “Henricus fq. Petri Suzii di Antillone di Sopra (Formazza), riscatta da Guifredinus Rodis Baceno le terre di
Antillone da lui godute fino allora a titolo di affitto ereditario per il canone annuo di 20 libbre
di formaggio buono” (Orig. perg. lat., Formazza,
Arch. Priv.).
Il particolarismo giuridico walser trova la sua
ragion d’essere nel desiderio che i “Signori delle
Alpi” avevano di sfruttare le terre incolte, per
trarne profitti economici, e anche politici per
quelle valli collegate a passi alpini rilevanti.
Niente di meglio, dunque, che utilizzare quei
“colonizzatori di ventura” che erano i Walser e
che avevano già dato, nell’Alto Vallese, prova di
indubbia capacità e di adattabilità in insediamenti ambientalmente difficili.
Gli stanziamenti walser, che si consolidano tra
il XIII e il XV secolo in molte località alpine (per
citare le più conosciute: Juf nei Grigioni, Gressoney, Alagna, Macugnaga, Formazza, Zermatt,
Andermatt e Davos) vedranno sempre riconosciute quelle particolarità giuridiche che costituiranno il “diritto dei Walser”, vero segno distintivo delle “genti del Goms” ( lo stesso termine “Walser” - derivato di Walliser che significa
Vallesani - è convenzionale, e compare nel versante meridionale delle Alpi solo a partire dagli
anni ‘30 del XX secolo).
È del tutto evidente che nel corso degli anni
sia venuto meno, perchè progressivamente privo
di significato sociale e politico, il particolarismo
giuridico dei Walser e, quindi, il secondo motivo
(il primo, quello etnico, non è mai esistito) che
potrebbe oggi portare a una rivendicazione di
autonomismo.
Esiste una terza, possibile motivazione: la tiAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
pologia socio-economente sono anche il
mica di una comurisultato di nuovi
nità walser e che riequilibri interni che
corre in tutti (e sono
si sono realizzati nel
molti e distinti) i loro
momento in cui le atinsediamenti. Gli stutività agro-pastorali
diosi sono tutti consono progressivacordi nel riconoscere
mente scadute d’imall’organizzazione
portanza, in consewalser la connotazioguenza di una minor
ne di “gruppi corpoconcentrazione della
rativi chiusi”, seconpopolazione, e con
do la ben nota definiesse tutta una costelzione dell’antropololazione di pratiche
go inglese S. F. Naeconomiche, di oriendel: “raggruppamenti
tamenti di valore e di
a base territoriale che
principi di organizzasvolgono un comzione sociale, politica
plesso di attività coe religiosa”.
muni in vista del ragL’impoverimento delgiungimento di mete Bandiera delle comunità Walser di Padania la tradizione, è oggi
sia individuali che (Dieci stelle bianco-rosse su campo bianco e confermato dal pernicollettive”. Anche rosso)
cioso affermarsi dello
questo modello è ve“pseudotradizionalinuto meno sotto i colpi di maglio di due diversi smo”. Si osservano, infatti, in diverse comunità
e prioritari elementi. Il primo è che la stessa co- walser taluni atteggiamenti che denotano un demunità ha da sempre avuto la necessità di siderio di ritornare alla tradizione, ma senza
aprirsi all’esterno, per la commercializzazione l’opportuna conoscenza della stessa. Casi embledei propri prodotti e per l’acquisto di ciò che al- matici tra i molti sono “antiche” maschere carla stessa occorreva e l’altro è il fenomeno dell’e- nevalesche, strani abiti tradizionali (soprattutto
migrazione, soprattutto stagionale, che vede il maschili) e bandiere che spesso non hanno alcusuo massimo sviluppo nei primi decenni del na giustificazione storica.
‘900 e che reca con sè nuovi modelli e nuovi biAltro elemento che ha contribuito al dissolvisogni (un banale esempio è l’introduzione, in mento del “gruppo corporativo chiuso”, è il vequegli anni, delle bevande superalcoliche nelle nir meno della territorialità, fondata sulla procomunità walser con gravissime ripercussioni prietà comune (tra famiglie o “fuochi”) delle tersociali). Questi elementi hanno favorito il dis- re a pascolo. Oggi, e per effetto di una legislaziosolvimento del “gruppo corporativo chiuso” ed ne che risale agli anni ‘20, le poche proprietà cohanno fortemente inciso anche sulla tipicità muni che ancora esistono, sono gestite dal Codella cultura walser. A tale proposito sono em- mune anche se i terrieri radunati in consiglio
blematiche le considerazioni di un valente stu- hanno il diritto di esprimere le loro opinioni che
dioso quale Paolo Sibilla (I luoghi della memo- dovrebbero essere tenute in gran conto.
ria, San Giovanni in Persiceto, 1985): “Per
Ciò che ho evidenziato, non deve comunque
quanto le comunità walser abbiano conservato giustificare un atteggiamento pessimista nei
più a lungo che altrove taluni modelli di cultu- confronti delle potenzialità autonomiste dei
ra, anche rilevanti, che denotano ancor’oggi Walser. Queste però vanno indirizzate a un prouna origine indubbiamente arcaica, tuttavia getto più vasto: autonomismo non in quanto
tali modelli hanno subito nel tempo dei sensibi- Walser, ma come parte di una più vasta “famili mutamenti, adattandosi alla situazione gene- glia” di popoli (quelli padani) che, valorizzando
rale e locale che si andava modificando. Questi le loro lingue e i loro retroterra culturali e storiadattamenti sono da collegarsi ad un fenome- ci, sentono questi elementi come motivo di
no globale, che riguarda la società nel suo in- unione, in contrapposizione a quelli imposti da
sieme e riflettono il passaggio da un equilibrio una sempre più estranea e ringhiosa “unità nacongiunturale ad un altro. Contemporanea- zionale”.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 27
Il voto valdese
di Ettore Micol
R
iassumere l’orientamento politico dei Valdesi nel dopoguerra non è cosa facile né
può essere fatto con pretesa di obiettività
sicura date le numerose variabili da considerare.
Diremo subito che nelle Valli del Pellice, del
Germanasca e in una parte della bassa Val Chisone, nucleo storico residuo della popolazione
Valdese, il voto non è mai stato compatto e che
la stessa natura del collegio elettorale, comprendente una buona parte di pianura, colloca questo popolo-chiesa in una posizione di minoranza
valutabile in uno scarso trenta per cento dell’elettorato. Per questo gli eletti locali sono stati in
maggioranza di area democristiana, fin che la
cosa è stata possibile, con qualche affermazione
socialista o repubblicana.
Ma veniamo al tema: i Valdesi non hanno forza sufficiente per eleggere un loro rappresentante nel parlamento romano ma potrebbero, se
uniti, essere il valore determinante per decretare la vittoria di qualcuno. Tuttavia, uniti politicamente non lo sono mai stati. Da secoli abituati alla democrazia partecipativa, alla discussione
e al confronto assembleare non hanno mai saputo riconoscersi in un partito o in un leader che
li rappresentasse al di là delle scelte di schieramento. Se a questo aggiungiamo che la chiesa,
intesa come istituzione, non ha mai preso posizione a favore di qualcuno, ostentando, almeno
fino agli anni ‘70, il suo distacco dalla politica il
quadro si definisce meglio. Nel passato più recente molte cose sono cambiate ma la ricaduta
in termini di voti di chi ha ritenuto di completare il suo vivere la fede con un impegno politico è
sempre stata deludente. Con queste premesse
possiamo tentare qualche analisi del voto. Nel
primo dopoguerra, in Val Pellice, il Partito d’Azione ha avuto un buon seguito, così come i Liberali che si sono mantenuti numerosi forse soprattutto per la loro tradizione di rigorosa laicità. In Val Germanasca gli elettori si sono meno
definiti ma, in genere, si sono rivolti all’area socialista. Persino banale dire che la Democrazia
Cristiana ha avuto sempre nelle Valli Valdesi un
seguito di assoluta marginalità trovando i pochi
voti di cui disponeva attraverso la sua organizzazione agricola. Nonostante queLa bandiera della Comunità Valdese (Candeliere bianco, con sto, come accennato, i risultati
luce e stelle gialle in campo azzurro). Solitamente il simbolo è di Collegio l’hanno spesso preaccompagnato dal motto: “Lux lucet in tenebris”.
miata. I Comunisti sono stati
numerosi, soprattutto nella bassa Val Chisone, ma mai veramente protagonisti.
E veniamo a osservare il voto di
area autonomista. I Valdesi delle
Valli, per improvvida scelta dei
loro rappresentanti nella chiesa,
non hanno saputo cogliere l’occasione offerta dalla Costituente
per rivendicare la loro autonomia. Speravano di poter portare
la loro testimonianza in un paese più grande e temevano l’isolamento.
In fondo, l’autonomia l’avevano
sempre vissuta nei fatti. Avevano i loro ospedali, le loro scuole
anche di grado elevato, forme
28 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
evolute di assistenza per gli anziani, i poveri e i
malati e non vedevano l’utilità di chiedere ad altri quanto da soli già si erano costruiti. Ma, nonostante gli errori, l’idea autonomista è rimasta, ha dialogato, si è riproposta ed è cresciuta.
Trascurate le liste minori, dal MARP al movimento di Gremmo che soffrivano di un’impostazione eccessivamente piemontesista - i Valdesi
delle Valli sono Occitani! - e venivano vissute in
termini di estraneità culturale e di linguaggio, è
stata la comparsa della Lega a segnare un cambiamento. Nel 1994 il leghista e valdese Lucio
Malan riuscì a battere il suo autorevolissimo avversario Giorgio Bouchard, pastore valdese e
candidato delle sinistre. C’era allora l’alleanza
con il Polo ma il voto delle alte Valli, fortemente
connotato in favore della Lega, fu sostanzioso
molto più di quanto si prevedesse. Dirò, per inciso, che il neo deputato Malan uscì molto presto dal movimento che lo aveva sostenuto provocando il giusto rammarico dei suoi elettori
che la volta successiva, quando si presentò con il
Polo, non gli rinnovarono la fiducia. Nel 1996 si
ebbe la conferma, soprattutto fra gli elettori della montagna, Valdesi compresi e determinanti,
del seguito ottenuto dalla Lega. Citerò un esempio personale perché ero io il candidato per il
Senato. Alle due della notte dello spoglio, mentre stavo tranquillamente dormendo, fui svegliato da una telefonata degli amici della sede di To-
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
rino. Urlavano il loro entusiasmo per il grande
successo. Ma non erano ancora pervenuti i voti
della pianura. Tornai a dormire e, alle sei, avevo
perso... Per me, meglio così perché sono uso alla
bronchite e il ponentino di Roma non mi avrebbe giovato.
Ma l’esperienza è significativa, e indica come
le minoranze, popoli o montanari, raramente
trovano una rappresentanza: i numeri le condannano. Di questo sarebbe giusto discutere prima che sia troppo tardi.
Tornando ai Valdesi, noterò ancora come i referendum più significativi, quello sul divorzio e
sull’aborto, abbiano avuto nelle Valli percentuali di no addirittura bulgare, spesso superiori al
90 per cento. Forse i Valdesi sono i più divorzisti, abortisti o, come dice qualcuno, libertini del
paese? No, una lunga tradizione puritana li rende sostanzialmente immuni da questi problemi.
Credono nella coscienza e nella sua libertà. Non
delegano le loro scelte a chi, a destra o a sinistra del Tevere, vorrebbe arrogarsi il potere di
farlo. Questo io lo chiamo federalismo morale e
questo è quanto ha permesso al mio popolo di
continuare a esistere nonostante secoli di persecuzioni, angherie, ghettizzazione. Non abbiamo molto da dare al paese se non una testimonianza di coerenza e libertà. Se ci dovessimo rinunciare diventeremmo il paese e sanciremo la
nostra fine.
Quaderni Padani - 29
I più recenti sviluppi
dell’autonomismo piemontese
di Martino Mestolo
L
a sparizione del M.A.R.P., diventata definitiva alle elezioni del 1964, aveva lasciato il
vuoto totale nell’autonomismo piemontese
che si era ancora una volta rifugiato nelle associazioni e nelle attività culturali. I soli segni di
qualche vitalità politica giungono dalle valli occitane: nel 1968 viene fondato il M.A.O., ma si
nel 1975 il M.A.C. (Movimento Autonomista
Confederale) e nel 1977 è il principale animatore dell’U.O.P.A. che è il primo vero movimento
autonomista della nuova generazione di tutto il
Piemonte amministrativo. Nel 1973 un Gremmo
poco più che ventenne inizia a pubblicare un
giornalino in lingua locale chiamato Alp (un nome anche troppo ricorrente nel mondo autonomista padano). Nel 1978 lo stesso Gremmo fonda la rivista Rinascita Piemontese, che diventerà
nel 1980 Arnassita Piemontèisa, una testata gloriosissima.
Fino ad allora la scena politica era sempre stata dominata dai partiti “ideologici” italiani e le
sole presenze autonomiste erano costituite dai
tratta in qualche modo di riflessi
della stagione politica generale
caratterizzata da un grande attivismo soprattutto all’estrema sinistra più ideologizzata e velleitaria. Non è infatti un caso che
proprio nello stesso anno Barba
Toni (Antonio) Bodrero non sia
riuscito a raccogliere nelle valli
del Cuneese le firme necessarie
alla presentazione della lista della
SudTiroler Volkspartei in quel
collegio elettorale, in funzione
autonomista.
Attorno agli anni ’70 si cominciano a diffondere le idee di Bruno Salvadori e anche di Federico
Krutwig Sagredo, il grande teorico basco che frequentava le nostre valli, e i frutti cominciano a
intravedersi principalmente in
Valle d’Aosta, in Ossola e nel Biellese. I primi segnali di ripresa di
una nuova stagione di sensibilità
hanno come principali protagonisti Alvaro Corradini e Roberto
Gremmo. Il primo aveva fondato
30 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
movimenti di riferimento delle
minoranze etno-linguistiche “tradizionali” (Val d’Aosta, Sud Tirolo) e delle aree padane di confine
con più forte tradizione identitaria (Friuli, Trentino, Trieste). Il
vero punto di svolta è rappresentato, nella primavera del 1978, dal
tentativo effettuato dall’Union
Valdotaine di costituire una lista
unitaria per le elezioni europee
dell’anno successivo che raccodi razzismo, favorite anche da taluni degli atteggiamenti più radicali di Gremmo. Si inquadra in
queste prime vicende il famoso episodio di Luciano Violante che, già ex magistrato ed esponente locale del PCI, interviene a una manifestazione autonomista per “ordinare” alle forze
dell’ordine azioni contro i piemontesisti.
Alle elezioni europee del 1984, Gremmo si allea con la sigla Union Piemontèisa alla Liga Veneta, alla neonata Lega Autonomista Lombarda
(subito dopo Lega Lombarda), al Partito Federalista Europeo e al Partito del Popolo Trentino
gliesse il voto di tutte le minoranze. L’obiettivo era di raggiungere
il quorum necessario a ottenere
almeno un rappresentante. Il partito valdostano si rivolge per la
prima volta anche ai rappresentanti di quelle organizzazioni padane che muovono i primi passi
sul cammino della coscienza
identitaria. I tre candidati che
rappresentano l’autonomismo
piemontese sono il solito Gremmo, Mario Bodrero (un medico di
Fossano) e Michele Vecchiano di
Assion Piemontèisa, gruppo fondato a Torino da Luigi Cerchio. La
lista raccoglie in Piemonte 31.000
voti (di cui metà in Ossola e fra
gli Occitani): i 4.000 voti presi a
Biella sono un successo personale per Gremmo,
anche se nessuno viene eletto.
Incoraggiato dal successo, Gremmo si presenta alle elezioni amministrative del 1980 e ottiene a Torino 15.500 voti con una lista Piemont.
Non riesce a essere eletto ma la presenza di una
forza autonomista in evidente crescita comincia
a preoccupare i partiti romani che inaugurano
la stagione delle accuse di antimeridionalismo e
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Tirolese: sotto il simbolo del leone della Liga e
con la denominazione di Unione per l’Europa
Federalista, l’alleanza prende 160.000 voti nel
collegio nord-ovest. I numeri non sono sufficienti per eleggere un rappresentante. Il colpo
riesce invece, e per una manciata di voti, all’Union Valdotaine che aveva formato una lista alternativa appoggiata dagli antipiemontesisti occitani: un precedente che peserà a lungo sui rapQuaderni Padani - 31
nale. Il gruppo di
Renzo Rabellino e
Piero Molino ritiene
di ravvisare motivi
sufficienti per operare
la prima di una lunga
e dolorosa serie di
scissioni. In particolare, Molino, nel corso
di una trasmissione
radiofonica lancia un
chiaro messaggio a
Gipo Farassino (“Caro
Gipo il Piemonte
aspetta te”), cantante
ed esponente della
cultura regionale
piuttosto noto, che da
tempo andava manifeL’effimero “Patto di pacificazione” del 1988 (Da sinistra: Roberto stando aperte simpaGremmo, Umberto Bossi, Franco Rocchetta e Gipo Farassino)
tie per il movimento
piemontesista. A Faporti fra questi e gli autonomisti piemontesi.
rassino (che da questo momento giocherà un
Nello stesso anno il movimento si presenta ruolo primario nelle vicende politiche regionali)
anche alle elezioni comunali di Casale Monfer- viene offerta la dirigenza di un neonato gruppo
rato e dell’Università di Torino, prendendo in denominato Piemont Autonomista, organizzato
entrambi i casi il 3% dei voti.
in fretta per le imminenti elezioni. Gremmo, alAlle amministrative del 1985 il gruppo prende leato alla Lega Lombarda, anticipa le mosse dei
35.000 voti in Regione e 7.000 voti nel Comune suoi nuovi avversari depositandone il “marchio”
di Torino, senza nessun seggio. Per la prima vol- e costringendoli a presentarsi agli elettori con la
ta però Gremmo riesce a diventare consigliere sigla Piemont Autonomia Regionale. La presenprovinciale a Torino con i voti della Valsusa: il za di due sigle simili sconcerta un elettorato in
suo primo discorso in piemontese suscita scal- rapida crescita. Alle politiche del 1987 Gremmo
pore proprio come quello di Giuseppe Leoni che prende in tutta la regione 61.883 voti e Farassiè contestualmente eletto a Varese per la Lega. Al no 72.041 voti: la somma dei due schieramenti
gruppo si aggrega Renzo Rabellino.
arriva al 4,2% e avrebbe consentito di eleggere
Nel 1986 Arnassita Piemontèisa diventa uno o due deputati (in Lombardia con una perUnion Piemontèisa e gli si affianca un movi- centuale del 3% erano stati eletti Bossi al Senamento politico finalmente regolato da uno sta- to e Leoni alla Camera). Molte schede vengono
tuto: resta di fatto una struttura a gestione fami- annullate perché votavano un simbolo esprigliare di Roberto Gremmo e di sua moglie Anna mendo la preferenza per il candidato dell’altro
Sartoris (che ne sono soci inamovibili) ma è al- schieramento. Dalla rissa esce sconfitto il Piemeno dotato di una parvenza di regolarità for- monte.
male.
La lotta continua anche nelle elezioni locali,
Nel 1987 la formazione ottiene un consigliere dove sembra però godere di qualche vantaggio
comunale a Santhià con la promettente percen- Union Piemontèisa-Piemont (collegata con la
tuale del 5%, segno di una generale crescita di Lega Lombarda dal Congresso di Grugliasco del
consenso.
1987) che elegge più consiglieri della lista conNello stesso anno viene alla luce la vicenda corrente a Pino Torinese, Carignano, Ciriè e
poco chiara di un finanziamento (o di un presti- Bussoleno. Fra i due schieramenti si scatena anto) di 55 milioni concesso dalla Liga Veneta a che una lotta giudiziaria a colpi di querele: comGremmo, che, alle accuse di alcuni dei suoi non pare sulla scena in questo periodo Mario Borrisponde con argomentazioni ritenute soddisfa- ghezio, come avvocato di Gremmo contro Farascenti a diradare ogni dubbio di vantaggio perso- sino.
32 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Per risolvere la dolorosa divisione interviene MAO, Union Piemuntèisa, Unione Slovena,
infine Umberto Bossi che costringe i due con- Partito Sardo d’Azione, Partito Autonomista
tendenti a pacificarsi in nome del comune inte- Trentino Tirolese. Alle inconciliabilità ideologiresse della lotta autonomista. Nel 1988 i due che e storiche fra alcuni dei movimenti si era
movimenti piemontesi confluiscono nello schie- aggiunta nello specifico caso piemontese l’eviramento autonomista che si andava riorganiz- dente incompatibilità personale fra Gremmo e
zando attorno alla Lega Lombarda che, grazie ai Farassino che neanche la forte personalità di
recenti successi elettorali, aveva ormai soppian- Bossi era riuscita a fare convivere per più di potato la più antica Liga Veneta nella leadership che settimane. A seguito della decisione di fare
dei gruppi autonomisti e federalisti.
da soli, Gremmo viene abbandonato da alcuni
La pace è però di brevissima durata: nello stes- dei suoi collaboratori, come il noto Barba Toni
so anno Gremmo si presenta senza consultare Bodrero, Vastapane di Pino Torinese e Angelo
gli alleati alle elezioni regionali della Valle d’Ao- Colli, che passano con Farassino e perciò con la
sta con una lista denominata Union Autonomi- Lega. Colli diventerà in seguito Presidente della
sta e la cosa viene vista come uno sgarbo all’U- Lega Nord Piemont e sarà espulso da Farassino
nion Valdotaine, verso cui tutti gli autonomisti alla vigilia delle elezioni del 1992 in una delle
padani avevano comunque sempre tenuto un at- tante purghe che seguiranno. Avviene in quel
teggiamento deferente, se non altro per i tratti momento un autentico rovesciamento di alleandi strada percorsi assieme nel passato. Conferme ze che avrà notevoli conseguenze sulla vicenda
delle ambiguità della politica di Gremmo vengo- piemontesista: Gremmo che aveva vissuto da
no da una serie di accuse e di forti sospetti circa protagonista tutta la prima fase del generale rifinanziamenti occulti che lo stesso avrebbe avu- sveglio autonomista si stacca dai suoi alleati di
to da Roma. Nella vicenda si schierano con lui i sempre (Lega e Liga) e il suo posto viene preso
suoi fedelissimi, fra cui Roberto Vaglio e Andrea da gente che fino ad allora era rimasta estranea
Fogliato.
a quel mondo.
La precaria alleanza si rompe definitivamente
Piemont cerca perciò da sola le firme necessaquando l’Union Piemontèisa decide di presen- rie alla presentazione della lista nel collegio
tarsi da sola alle elezioni europee del 1989 con Nord-Ovest: con Gremmo ci sono Roberto Sela sigla Piemont: la decisione viene presa nel ghesio, Jean-Michel Novero, Dario Barattin, Ancorso di una infuocata riunione nella sala consi- drea Fogliato, Franca Billi, Roberto Vaglio, Anna
gliare del Comune di
Rivoli che entra con Convegno di Torino contro la droga e l’immigrazione del marzo 1990
una inquietante con- (Da sinistra: Anna Sartoris, Roberto Gremmo e Enrico Villarboito)
notazione di luogo infelice nella storia dell’autonomismo piemontese. La vicenda
non è chiarissima e
nasce dal mancato accordo di tutti gli autonomisti a presentarsi
con una lista unica,
cui avrebbero dovuto
partecipare (secondo
uno slancio di ottimismo veramente eccessivo, viste le pulsioni
del mondo autonomista) Liga Veneta, Movimento Friul, SVP,
HeimatBund, Partito
Indipendentista Sudtirolese, Lega Lombarda, Union Valdotaine,
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 33
Sartoris, Mario Tosco e gran parte del gruppo dirigente originario del movimento. Qualche tentativo di ricomporre la frattura viene operato da
Bossi, che fino all’ultimo non vuole abbandonare
il discusso vecchio amico nonostante la scarsa
coerenza del suo comportamento. L’obiettivo
non viene raggiunto per poche decine di firme:
perché – secondo alcuni – c’era un cospicuo numero di firme fasulle e taroccate, o perché – secondo Gremmo - 62 certificati pieni di firme provenienti dalla Valle d’Aosta sarebbero stati fatti
sparire da Fogliato. L’episodio sarà oggetto di
una interminabile serie di procedimenti giudiziari che si concluderanno con sentenze molto
mediterranee del tipo “il Segretario di un movimento politico non può essere ritenuto responsabile di atti illeciti (la produzione di firme fasulle) commessi all’interno del movimento stesso”.
suo macabro simbolo) cui dà una forte connotazione di intolleranza e con la quale tenta di
coinvolgere anche Enrico Villarboito, il vecchio
fondatore del M.A.R.P. Allo stesso momento allaccia rapporti con i fuoriusciti della Lega Lombarda inaugurando una linea di condotta che ricomparirà spesso nel futuro, con il riaffiorare
periodico di accuse di “centralismo lombardo” al
movimento padanista. L’insieme di questi personaggi crea la Lega Alpina Lombarda che riuscirà
a sopravvivere per un po’ sulla scia del successo
della Lega vera e giocando sull’equivoco dei simboli elettorali. In questo clima, nell’ottobre del
1989 Mario Costero, un dirigente di Moncalieri
dell’Union Piemontèisa viene ucciso a revolverate da un meridionale.
Nel frattempo il gruppo di Farassino (Piemont
Autonomista – Movimento Autonomista Piemontese) aveva dato vita, nel dicembre del 1989, alla Lega Nord assieme
agli altri movimenti autonomisti regionali padani: Lega Lombarda, Liga
Veneta, Union Ligure, Alleanza Toscana, Lega Emiliano-Romagnola.
Alle elezioni regionali del 1990 i due
movimenti si presentano ovviamente
separati e antagonisti: Piemont prende
64.000 voti e un seggio (Anna Sartoris) e Piemont Autonomista, col 5,4%,
elegge tre consiglieri: Gipo Farassino
(poi sostituito dal 1992 da Antonio Bodrero), Renzo Rabellino e Roberto Vaglio. Gremmo viene rieletto in Provincia di Torino. Va segnalato che le varie
liste autonomiste avevano raccolto il
7,3% dei voti (12,7% se sommati a
Il “Presidio antilombardo” del giugno 1991 a Trecate
quelli della Lega).
La sconfitta accentua il rancore antileLa divisione politica e le tristi vicende delle ghista di Gremmo che organizza nel giorno delfirme hanno un riflesso fortemente negativo la adunata di Pontida (giugno 1991) un folclorisull’elettorato autonomista che non partecipa al co presidio dei ponti sul Ticino per impedire il
voto: la Lega (che in tutto il collegio riesce a fa- passaggio dei “lumbard”: è l’ultimo atto di forte
re eleggere due parlamentari europei) arriva in visibilità di un personaggio che pure aveva dato
Piemonte a circa 40.000 voti soltanto (2,1%). La molto alla causa dell’autonomismo piemontese
poco chiara vicenda delle firme false o sparite ma che, alla fine, si era ridotto a uno sterile reproduce un’altra scissione in Piemont: Tosco, gionalismo dalle connotazioni identitarie e geoFogliato e Vaglio passano con il movimento di grafiche piuttosto stravaganti. Alle elezioni del
Farassino che assume importanza sempre più 1992 raggranella i voti di pochi intimi e, allo
forte soprattutto in virtù della sua alleanza con scadere dei mandati elettivi conquistati dai suoi
gli altri gruppi padani.
famigliari e ultimi sodali, scompare dalla scena
A questo punto Gremmo, per cercare di inver- politica per dedicarsi ad attività di ricerca storiotire un trend che sembra inarrestabile, fonda grafica e a iniziative editoriali nelle quali riesce
una Lega contro la droga e l’immigrazione a mettere a frutto le sue indubbie capacità e a
clandestina (detta “Lega del teschio” a causa del continuare a contribuire in maniera qualificata
34 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
sul piano culturale
alla causa piemontesista.
Le elezioni politiche del 1992 sono
invece un grande
successo per la Lega
Nord Piemont che,
con il 17,7% dei suffragi, fa eleggere
quattro senatori
(Giuseppe Bodo, Luciano Lorenzi, Marco
Preioni e Massimo
Scaglione) e nove
deputati (Stefano Aimone Prina, Mario
Borghezio, Domenico Comino, Gipo Farassino, Alda Grassi,
Bruno Matteja, Claudio Pioli, Mauro Polli e Oreste Rossi).
L’Alleanza Alpina di
Gremmo e Brivio
(fatta da Union Piemontèisa, Alleanza
Lombarda e Veneto
Autonomo) arriva al
2,5%, la lista Federalismo allo 0,3% e
uno sconosciuto Piemont Liber allo
0,5%.
La forte crescita
del movimento leghista non sopisce Schema indicativo delle scissioni e del consenso elettorale dei movimenti
però la vocazione al- autonomisti piemontesi dal 1984 a oggi. La larghezza del tracciolo è prola rissosità interna porzionale al numero dei voti ricevuti alle consultazioni indicate. I tratche costituisce una teggi denotano sparizioni temporanee o definitive. L’incrocio in alto fra
sorta di maledizione le due principali tendenze testimonia l’effimero “Patto di pacificazione”
costante del pie- fra Gremmo e Farassino del 1988. Sulla destra del tracciolo della Lega
montesismo: nel Nord Piemont sono segnati i periodi dei vari Segretari Nazionali
1993 se ne va, per
contrasti con Farassino e per non essere riuscito con esiti meno che modesti. Con lui si schierano
a scalzarlo dalla Segreteria, Renzo Rabellino, in un primo momento anche il deputato Claudio
che fonda un suo partitino (Lega per il Piemon- Pioli e il periodico Vento del Piemonte.
te e poi Piemonte Nazione) che si presenta alle
È anche la stagione dei successi amministraamministrative dello stesso anno senza grande tivi: favorita dalla sparizione di gran parte dei
successo. Ci riproverà alle politiche del 1994 partiti tradizionali e dal temporaneo disorienta(raggranellando un 2,5% circa) e alle europee mento dei gruppi di potere che hanno sempre
dello stesso anno (ribattezzato Piemonte Nazio- gestito gli enti locali della regione, la Lega vinne d’Europa) con l’Union Valdotaine (lista Fe- ce alcune importanti elezioni locali. Prende i
deralismo) e alle regionali del 1995, ma sempre sindaci di Alessandria, Acqui Terme, Vercelli,
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Quaderni Padani - 35
Novara, Stresa e Domodossola, oltre a molti altri centri minori. A Torino arriva a un interessante 23,4% e manca il ballottaggio per un soffio e, probabilmente, per qualche pastrugno di
regime nei conteggi dei voti. Gran parte di queste amministrazioni finiranno male: una debole
signora a Vercelli si dimette dopo pochi mesi,
Novara, Stresa e Domo vivacchiano fino alla fine ma tutti i tre sindaci escono dal Movimento
per seguire tristi strade in altri partiti o verso
l’oblio. Solo Alessandria ed Acqui resistono e i
loro sindaci vengono riconfermati per un secondo mandato.
Nel febbraio del 1994 ben 250 militanti sfiduciano Farassino che li espelle in blocco.
Nel 1994 la Lega Nord Piemont, pur penalizzata dalla presenza di Forza Italia che catalizza i
consensi di tanti sedicenti autonomisti o di piemontesisti tiepidi, non va oltre il 15,8 % ma, in
virtù della legge elettorale maggioritaria, manda
a Roma 11 senatori e 23 deputati.
Si tratta di un gruppo raccogliticcio, poco
coeso ed evidentemente anche poco motivato
giacchè, allo strappo con Belsusconi, ben 18 di
loro (il 53%, la percentuale più alta fra tutte le
nazioni padane) se ne vanno dalla Lega. La abbandonano i senatori Giovanna Briccarello, Gilberto Cormegna, Giorgio Gandini, Bruno Matteja e Maria Grazia Siliquini, e i deputati Stefano
Aimone Prina, Luca Basso, Alida Benetto Ravetto, Gian Piero Broglia, Flavio Caselli, Furio Gubetti, Lelio Lantella, Lucio Malan, Valerio Malvezzi, Francesco Miroglio, Mauro Polli, Pier
Corrado Salino, Riccardo Sandrone. Qualcuno
di loro forma un movimento di federalisti che
cerca di legittimarsi come la “quarta gamba” del
Polo ma che non ottiene nessuna attenzione
reale né spazio dai suoi nuovi alleati. Altri si intruppano direttamente in altri partiti ma solo la
Siliquini riesce a farsi rieleggere nel 1996 nel
CCD. Ad essi si unisce poco più tardi il consigliere regionale Vaglio che forma un nuovo
gruppo di Federalisti Europei, piuttosto contiguo ad AN.
Nella Lega restano invece i senatori Matteo
Brigandì, Luciano Lorenzi, Marco Preioni, Claudio Regis, Mario Rosso e Massimo Scaglione; e i
deputati Luciano Bistaffa, Mario Borghezio, Roberto Ceresa, Domenico Comino, Sebastiano Fogliato, Tibaldeo Franzini, Claudio Percivalle,
Oreste Rossi, Paolo Tagini ed Emilio Zenoni. Nel
Governo Berlusconi il Piemonte era rappresentato da Comino (Ministro per il Coordinamento
delle politiche della Comunità europea), Bor36 - Quaderni Padani
ghezio (Sottosegretario alla Giustizia), Aimone
Prina (Sottosegretario ai Lavori Pubblici) e Polli
(Sottosegretario alla Difesa).
Alle europee del 1994 viene eletto per la prima
volta un piemontese, Gipo Farassino che si trova
a concentrare sulla sua persona o ad avere collezionato un cumulo di cariche incredibile: Consigliere Comunale e Regionale, Deputato a Roma,
Eurodeputato e Segretario Nazionale. È un record assoluto.
Alle elezioni del Sagretario Nazionale nell’ottobre 1994 Farassino riesce a prevalere su Tino
Rossi per poco più della metà dei voti dei delegati.
Alle elezioni regionali del 1995 la Lega scende
al 9,9% ed elegge 5 consiglieri (Giancarlo Bellinceri, Claudio Dutto, Gipo Farassino, Daniele
Galli e Roberto Rosso). Vaglio riesce a farsi rieleggere come autonomista del Polo e diventa Assessore. Dopo pochi mesi dall’elezione, Galli,
con grande tempismo, passa a Forza Italia. Le
politiche del 1996 rappresentano anche per il
Piemonte il momento di maggiore consenso
elettorale della Lega: con il 18,2% vengono
eletti tre senatori (Guido Brignome, Luciano
Lorenzi e Marco Preioni) e quattro deputati
(Mario Barral, Mario Borghezio, Domenico Comino, Oreste Rossi). Il Movimento conferma la
propria forza nelle sue roccaforti storiche: il Cuneese, le Valli occitane e franco-provenzali e
l’Ossola.
Nel 1996 viene formato il primo Governo
provvisorio della Padania nel quale il Piemonte è
rappresentato da Gilberto Oneto (Identità) e da
Massimo Scaglione (Cultura e Spettacolo): una
presenza che lascerebbe intendere – purtroppo a
torto - una speciale attenzione per la cultura all’interno dell’ambiente del leghismo piemontese. Nei Governi successivi il Piemonte sarà rappresentato da Mario Borghezio che diventa addirittura il capo dell’ultima edizione.
Sul Po e a Venezia il 15 di settembre del 1996
il Piemonte è presente con un numero grandissimo di persone: per l’occasione si riavvicinano
al Movimento anche numerosi autonomisti che
si erano allontanati o che erano stati allontanati
dal dirigenti locali.
Poco dopo, nel 1997, Comino sostituisce alla
Segreteria Nazionale Farassino che comincia la
sua parabola discendente: ha rappresentato per
anni e nel periodo di massima crescita il leghismo piemontese di cui è stato una sorta di padre-padrone. Ha però avuto grandi responsabilità anche nel prepararne il declino: cattiva scelta dei collaboratori, nepotismo, indifferenza per
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
le istanze culturali e identitarie, abuso dello niani: questi costituiscono un movimento destrumento dell’espulsione.
nominato Piemont – Movimento Federalista
A confermare l’importanza della regione all’in- Piemontese che si allea – con una prassi già
terno del movimento padanista, Comino è eletto collaudata a suo tempo da Gremmo – con tutti
l’anno successivo capogruppo alla Camera.
gli altri fuoriusciti della Lega (Gnutti, ComenLa stagione di crisi del consenso autonomista cini, eccetera) che danno vita all’Ape (Autononon risparmia il Piemonte che ne è anzi una misti per l’Europa).
delle cause. Comino continua la politica di FaCon Comino se ne vanno il deputato Barral, il
rassino di insensibilità per le istanze culturali consigliere regionale Rosso e il senatore Lorenidentitarie (a parte un inutile tentativo effettua- zi. Ad essi si uniscono il sindaco di Alessandria
to da Barral nel 1998 di instaurare rapporti di (Francesca Calvo) e quello di Mondovì (Riccardo
collaborazione
con gli esponenti
più noti dell’occitanesimo) e di
propensione alle
epurazioni facili.
Il Movimento
perde di efficienza e di capacità
di contatto con
la gente: vengono trascurati i
temi dell’autonomia e dell’identità, la cultura padanista viene ignorata e si
concede troppo
spazio al cadreghismo e al frazionismo interno. Alle elezioni
europee del 1999
la Lega precipita
Grafico del consenso elettorale leghista nelle cinque regioni amministrative
in Piemonte al
a statuto ordinario della Padania
7,8 % e non
manda nessun
rappresentante a Strasburgo. Subito dopo, Co- Vaschetti, da alcuni considerato il vero ispiratomino, seguendo oscuri e non interpretabili di- re di tutta la vicenda), il presidente del Consiglio
segni, si mette in rotta di collisione con la Lega: provinciale di Novara (l’ex deputato Emilio Zea Pontida (giugno 1999) attacca duramente la noni) e Piero Molino, uno degli ultimi superstiti
base indipendentista e viene rumorosamente del primo autonomismo. Ma si tratta di una
contestato. Da questo momento il suo compor- compagine troppo eterogenea, unita da motivatamento diventa inspiegabile: si scusa per le sue zioni di interesse personale e di rancore verso la
dichiarazioni (in un incontro a Rivoli, in un Lega, per poter costruire qualcosa di positivo:
luogo evidentemente infausto per la piemonte- fin da subito scoppiano dissidi interni. La comisità) ma organizza una scissione in grande stile, tiva finisce poi per confluire in larga parte e docondanna l’isolamento della Lega ma critica i po le elezioni in AN, con grande coerenza autosuoi successivi riavvicinamenti al Polo, dopo nomista e padanista.
averne sollecitato il vassallaggio. Al Congresso
Non va però molto meglio alla Lega che, in un
straordinario della Lega Nord tenutosi a Varese agitatissimo Congresso tenutosi a Torino nel
il 25 luglio del 1999 lo strappo è sancito con gennaio 2000, elegge con il voto di circa un
una serie di provocazioni organizzate dai comi- quarto degli aventi diritto come suo nuovo SeAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 37
gretario Nazionale Bernardino Bosio, sindaco di
Acqui Terme: le modalità di svolgimento e gli
esiti del Congresso infieriscono un colpo pesantissimo alle anime più profonde e vitali - piemontesista e padanista – dell’autonomismo subalpino. La dirigenza storica si è dissolta (solo 8
dei 40 parlamentari eletti nel 1992, 1994 e nel
1996 sono ancora parte del Movimento) e alla
guida di una base frastornata e demotivata restano solo uomini di apparato, senza carisma personale né forti e sincere motivazioni ideali da
trasmettere al popolo leghista.
I due movimenti piemontesi si presentano divisi e concorrenti alle regionali del 2000. L’Ape
non raccoglie che pochi consensi (1,3%) e la Lega finisce al suo minimo storico (7,6%) con
quattro consiglieri (Matteo Brigandì, Roberto
Cota, Claudio Dutto e Oreste Rossi): a testimonianza della serietà della crisi, il Piemonte è l’unica regione dove la Lega non recuperi rispetto
alle europee. Sembra essere questo il momento
più triste del Movimento: pochi i voti raccolti,
labili i legami con la forte tradizione autonomista locale, e fiacca partecipazione della militanza
alla campagna elettorale. La metà degli eletti
non sono neppure di origine piemontese. A Torino città il Movimento incontra le maggiori difficoltà: con circa il 3,5%, ha preso molto meno di
quello che aveva raccolto il M.A.R.P. quasi cinquant’anni prima (5,87%), e circa un decimo di
quelli che aveva raccolto nel 1993.
Grazie all’accordo con il Polo, la Lega partecipa però al governo regionale: ha, con Roberto
Cota, la carica di Presidente del Consiglio Regionale ma non ottiene l’Assessorato alla cultura a causa di maldestre manovre interne e di
diatribe clientelari che mettono la dirigenza locale in dissidio con la linea di chiarezza di quella federale.
La base si rifugia ancora una volta nell’associazionismo culturale che non sembra però godere di maggiore coesione: a un indubbio successo in numero di aderenti e in fervore di iniziative, le Associazioni oppongono una crescente rissosità che nei giorni in cui questo articolo
viene redatto vede due delle maggiori organizzazioni protagoniste di una furibonda lite giudiziaria. L’arrivo di finanziamenti e di sovvenzioni
regionali non fa evidentemente bene a certa parte dell’associazionismo piemontesista o sedicente tale. Negli ultimi dieci anni hanno ricevuto finanziamenti regionali: Alp, Noste Reis, Centro
Studi “Pinin Pacot”, Associazione Effepi (Franco-provenzali), Associazione piemontesi nel
38 - Quaderni Padani
Mondo, Musicalbrandé, Ousitanio Vivo, Associazione Soulestrelh (occitani), Valados Usitanos,
Centro Studi “Don Minzoni” (Armanach Brandé
e poi Piemontèis Ancheuj), ACLOP (Associazione Cultura Locale Piemontese), Famija Turinèisa, Cà Nostra, Al Sol dj Alp, Gioventura Piemontèisa e altre che si occupano di corsi di piemontese.
Restano fuori dalla rissa le associazioni più
esplicitamente padaniste, quelle più legate alla
concretezza del progetto unitario e immuni da
vaneggiamenti micronazionalistici, che rappresentano il vero incubatore dove conservare e fare crescere ideali e cultura autonomista in attesa di tempi migliori. Qui sopravvivono le forze
per rendere possibile un nuovo rilancio di cui ci
sono sia le premesse che la necessità.
Fonti consultate
Libri:
❐ Umberto Bossi e Daniele Vimercati. La rivoluzione. La Lega: storia e idee (Sperling & Kupfer:
Milano, 1993)
❐ Umberto Bossi. La lega 1979-1989 (La Padania: Milano, 1999)
❐ Raffaello Cantieri e Achille Ottaviani. I cento
giorni della Lega (Euronobel: Verona, 1992)
❐ Domenico Comino. Io sto con la Lega (Sintagma: Torino, 1996)
❐ Ilvo Diamanti. La Lega. Geografia, storia e
sociologia di un nuovo soggetto politico (Donzelli: Roma, 1993)
❐ Claus Gatterer. In lotta contro Roma (Praxis
3: Bolzano, 1994)
❐ Roberto Gremmo. Contro Roma (Aosta, 1992)
❐ Alessandro Leto. La Lega Nord e le altre Leghe tricolori (Delta: Perugia, 1990)
❐ Alessandro Mazzarelli. Né schiavi di Roma, né
servi di Milano (Il Cerchio: Rimini, 1998)
❐ Fiorenzo Toso. Frammenti d’Europa (Baldini
& Castoldi: Milano, 1996)
❐ Daniele Vimercati. I Lombardi alla nuova
Crociata (Mursia: Milano, 1990)
Riviste:
❐ Arnassita Piemontèisa
❐ Etnie
❐ La Padania
❐ Lega Nord
❐ Lombardia Autonomista
❐ L’Union Piemontèisa
❐ Piemont
Interviste personali
Documentazione Segreteria Lega Nord Piemont
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
L
a redazione dei Quaderni Padani ha interpellato i
personaggi più significativi del panorama della cultura
piemontesista contemporanea cui ha rivolto una serie di
domande. Quasi tutti gli interpellati hanno risposto con
grande disponibilità: qualcuno in maniera puntuale alle
singole domande, altri producendo un testo di risposta
complessivo.
Di seguito riportiamo le risposte che ci sono pervenute. Degli interpellati
hanno risposto Gustavo Buratti (Tavo Burat), Beppe Burzio, Sergio Hertel, Ettore Micol, Mariella Pintus, Giovanni Rosso (Gioanin Ross) e Silvano Straneo.
Roberto Gremmo ha con gentilezza declinato l’invito dichiarandosi non interessato agli argomenti trattati in quanto non si occupa “più di queste cose
ormai da alcuni anni”. Solo Bernardino Bosio non ha ritenuto opportuno
farci avere alcun cenno di riscontro.
Le domande sono state:
1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione.
2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale
impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte.
3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti
dei possibili nuovi scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa.
4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
5. Quali sono i confini ideali della Patria Cita.
6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un
rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista.
Tutte le risposte, i testi e le note biografiche che ci sono pervenute vengono
pubblicate senza modifiche né commenti.
I testi sono corredati dalla riproduzione di alcune testate di pubblicazioni
culturali piemontesi che sono riportate senza nessun ordine cronologico o
tematico e senza alcuna attinenza diretta con le persone intervistate.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 39
TAVO BURAT
itengo innanzi tutto che i movimenti autonomisti che caratterizzano molte regioni d’Europa (“nazioni
proibite”) siano un manifesto segno
premonitore della Storia in evoluzione, che reclama una profonda mutazione dello “Stato-Nazione” centralizzato d’ispirazione giacobina (e quindi
soprattutto configurato dalla Repubblica francese e da quella italiana), ormai obsoleto di fronte alla costruzione dell’Europa e alla mondializzazio-
R
ne. Con la soppressione delle frontiere
politiche ed economiche, questi due
grandi sconvolgimenti devono riequilibrarsi sulla scala regionale sino a oggi negletta e repressa. La battaglia per
l’autonomia e per i diritti dei popoli e
delle comunità angariate dallo StatoNazione, hanno costituito, e costituiscono, pertanto, delle battaglie autenticamente “moderne”. I “giacobini”, acciecati, non vi hanno visto che una deriva, un regresso, un’eresia. Il problema delle autonomie bretoni, alsaziane-lorenesi, occitane, catalane, basche,
normanne, corse e, in Italia, valdosta40 - Quaderni Padani
ne, sarde, friulane, trentino-tirolesi, venete, occitane, lombarde, liguri, emiliano-romagnole e piemontesi – ma non
si dovrebbero dimenticare quelle del
Mezzogiorno, siciliane, napoletane e
in genere attinenti allo Stato delle
“Due Sicilie”, il più antico d’Italia – rimettono dunque in causa tutto il sistema, con conseguente confusione e
smarrimento dei partiti politici tradizionali, “classici”. Lo Stato giacobino,
ora costretto a evolversi, a mutare,
scuote tutte le formazioni politiche, sia
di destra che di sinistra. Il problema
delle autonomie è un problema di Stato a due facce come Giano: una riflette
i bisogni delle comunità locali e dei loro diritti, l’altra sta solo ora iniziando a
intravedere una inevitabile evoluzione
di tutto “l’insieme” italiano.
Ciò premesso, per quanto mi riguarda
non condivido l’impostazione di chi
auspica uno “Stato indipendente piemontese”, cioè ancora uno Stato-Nazione, sia pure a
dimensione più
ridotta, perché
questa mi appare come una
battaglia anacronistica, tesa a
costituire un Ordinamento giuridico territoriale
superato, che
affonda le sue
radici nella vecchia concezione di “Stato” formatosi
per favorire gli interessi di una classe
dominante, “forte”. E tanto meno una
“Repubblica del Nord” o “Padania” che
dir si voglia. Sono fondamentalmente
un anarco-socialista, e quindi diffido,
direi quasi per istinto, dell’Ordinamento giuridico sovrano, statale. Tutto ciò
che va oltre la dimensione umana
(quanto si può vedere, dall’alto della
valle o del campanile; quanto si può
percorrere camminando in una giornata, dall’alba al tramonto…) è, a mio
avviso, estremamente pericoloso, falso. La “patria”- così come era sino alla
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
formazione dei grandi Stati-Nazione è solo quella “cita”, perché è semplicemente la terra dei padri: la valle, la comunità in cui siamo nati e cresciuti; o
quella in cui abbiamo deciso di vivere
e di operare, inserendocisi attivamente; la terra in cui sono sepolti i nostri
progenitori; il resto è retorica, artificiosa invenzione. Quindi, patria è il mio
paese (quello con la “p” minuscola) e
poi, più in là, il mondo intero dei
fratelli. Non c’è ragione perché io
senta “più fratello” un bolognese, di
uno zurighese; un finlandese , di un
bantù. Il “confine” non mi interessa.
Qual è il confine dell’Europa? Perché
dovrei provare sentimenti diversi di
qua o di là di un confine?
Proprio questa esigenza di “concretezza” dà una particolare configurazione alla mia istanza regionalista.
“Regione”: non certo come divisione
artificiale, amministrativo-burocratica, ma “regione della natura”, cioè
“bioregione”. Intendo con questo termine il luogo geografico riconoscibile
per le sue caratteristiche di suolo, di
specie animali e vegetali, di microclima, oltre che per la cultura umana
che, da tempo immemorabile, si è sviluppata in armonia con tutto ciò. L’optimum sarebbe che anche l’Ente regionale fosse una “Ecoregione”, una sorta
di federazione di bioregioni, cioè di
insieme biologici tendenti all’autosufficienza e all’autoproduttività, che si
sono adattati alle condizioni del loro
habitat, dove si realizza un “equilibrio
circolare” fra tutti i fattori (produttori
di energia, consumatori di energia, eliminatori di rifiuti). La Regione dovrà
realizzare la “comunità locale” (non è
privo di significato che le ultime “Regioni” nate dal superamento dello Stato centralizzato, in Spagna e nel Belgio, si chiamino appunto “Comunità”)
che dà veste concreta a quello spirito
di Gemeinschaft, di comunità di destino, entro cui si esprimono secoli di
produzione culturale, di attività non
sempre eterodiretta, in spazi il più
possibile liberi da condizionamenti e
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
affrancati dalla subordinazione; una
“comunità di destino” che si contrappone alla Gesellschaft, una società in
cui gli individui hanno rapporti di tipo
utilitaristico (e pertanto, non apprezzo
il regionalismo che agita per lo più
proteste fiscali e paure del diverso). È
la partecipazione che crea la “comunità”. Ma la partecipazione può operare a due livelli: 1) partecipazione alla
gestione dei servizi collettivi: ed è questo l’ambito che finora ha caratterizzato l’Ente locale; 2) partecipazione nella
creazione della cultura e dei valori del
proprio tempo: e questo è il vero ambito comunitario, finora alquanto –
per non dire completamente – trascurato nel dibattito autonomistico e federalistico. Prendendo in considerazione soltanto il primo tipo di partecipazione, si realizza un Ente burocratico di decentramento, non una “comunità” che costituisca anche un centrodi
Quaderni Padani - 41
“contro-potere” nei confronti degli organismi superiori, sovente occupati da
“potentati” con interessi diversi, quando non opposti, a quelli delle comunità locali. Se si intende fare adempiere alla Regione la funzione essenziale
di costituire centri di contropotere in
una Società effettivamente pluralista,
occorre dunque rendersi conto che è
nella dimensione culturale che può
venire il richiamo di una svolta necessaria nel disporsi della struttura, come
chiaramente testimonia la “Dichiarazione di Chivasso” elaborata da esponenti della Resistenza delle valli valdostane e valdesi, in clandestinità, il 19
dicembre 1943. Sono convinto che
l’autonomismo piemontese debba
realizzare proprio i postulati di quella
“Dichiarazione” che metteva appunto
in
primo
piano l’esigenza di autonomia “culturale”, accanto a quella politica e amministrativa.
Il Piemonte, sul quale pesa storicamente la responsabilità di aver dato
un fondamentale contributo alla costruzione dello Stato italiano centralizzato e oligarchico, dovrebbe quindi,
42 - Quaderni Padani
oggi, essere in prima linea, per il completo superamento dello Stato-Nazione, ritrovando antiche e tradizionali
fraternità transfrontaliere (bioregioni a
cavallo delle Alpi, posto che lo spartiacque è una frontiera artificiale, imposta; dall’una e dall’altra parte ci sono occitano-provenzali, franco-provenzali, walser…) e la costruzione di
un’Europa delle Regioni.
Per la realizzazione di una RegioneComunità, la questione della lingua
è fondamentale: ma
anche qui, occorre
essere “concreti” e
libertari. Ciò significa esaltare le parlate locali, in quanto
strumento di liberazione. E’ ora di finirla con l’alienazione ingiusta e
crudele voluta dalla scuola centralizzata, che offende sin nel profondo
dell’anima le classi popolari, facendole
vergognare delle loro origini popolari,
contadine o montanare; occorre liberare il bambino dal dogmatismo di
una sola grammatica, favorire in ogni
modo il plurilinguismo, partendo dalla
lingua della bioregione, e cioè da
quella locale. Renderlo edotto di
quanto si è potuto “creare” nella lingua locale, e dimostrargli così che l’accademismo non è il solo criterio valido per giungere a una cultura superiore e a valori artistici. Essere libertari
significa non essere “imperialisti”. Non
ammettere le varietà locali della lingua,
e le minoranze linguistiche, significa
appunto “imperialismo linguistico”. Il
Piemontese comune (koiné) ha una
sua tradizione letteraria plurisecolare,
con una sua grafia storica come l’hanno le lingue più illustri; non ha quindi
senso inventare nuove grafie, creare
una lingua “padana” inesistente: ciò
non costituirebbe un antidoto all’alienazione, ma una maggior confusione,
e non servirebbe, appunto, a liberare
l’allievo dalla trappola “dialetto”, che lo
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
avvilisce complessandolo di parlare
un linguaggio che “vale meno”, un
“minus-valore”. Sono convinto che il
giorno in cui la classe dominata dovrà
presentare il conto delle “rapine” patite, non ci sarà soltanto il valore del
bene prodotto (accumulato dall’imprenditore, oggi sovente da imprese
multinazionali); quanto perduto in salute, lavorando in ambienti e con materiali malsani; quanto perduto in scolarità, poiché soltanto gli abbienti potevano accedere agli studi superiori;
quanto perduto in dignità ogni giorno, dovendo piegare la testa al “superiore”: ma anche quanto gli è stato
portato via culturalmente, degradando
la sua forma d’espressione da plusvalore “lingua” a minus-valore “dialetto”: la rapina del “minus-valore”, dopo
quella del “plus-valore”. Neppure Marx
poteva pensare che si sarebbe arrivati
a tanto.
Da tutto quanto sopra esposto, è
chiaro dunque che il mio “piemontesismo” non muove affatto da istanze
nazionalistiche, ma internazionalistiche; ch’io mi ritengo al tempo stesso
biellese, piemontese e cittadino del
mondo; e soprattutto che le motivazioni della mia battaglia, che hanno
costituito per me ragione di vita, sarebbero state le medesime se fossi
stato lombardo, napoletano o siciliano.
Certamente, come Piemontese non mi
sento davvero “über alles”, ma fratello
di quanti combattono per la propria
lingua negletta e per la propria Comunità.
❐
Nota biografica
Nato nel 1932, di famiglia biellese. Laureato in
diritto svizzero con tesi su “Diritto pubblico del
Cantone dei Grigioni” alla Statale di Milano. Docente di lingua e di letteratura francese ora in
pensione. Ha diretto per conto del Ministero
della Pubblica Istruzione due seminari per insegnanti su “Dialetto e scuola”: in quello di Lecce
(1975) ha collaborato con P.P. Pasolini. Nel 1961
ha fondato a Crissolo l’Escolo dòu Po per la salvaguardia delle parlate provenzali (occitane) e
franco-provenzali (arpitane) delle valli di Cuneo
e di Torino. Nel 1964 ha fondato a Tolosa con il
professor Pèire Naert l’Association Internationale pour la Défense des Langues et des Cultures
Ménacées (AIDLCM) di cui è tuttora segretario
per la Repubblica italiana. Nel 1968, recatosi in
Euskadi per l’Aberri Eguna, è stato arrestato ed
espulso dalla polizia franchista. Pubblicista, è
stato direttore di Etnie e di periodici sardi, friulani e italo-albanesi; dirige tuttora il provenzale
Coumboscuro e le riviste piemontesi La Slòira e
Alp da lui fondato nel 1974, e la Rivista Dolciniana. Come scrittore in in lingua piemontese è
compreso in antologie delle edizioni Mondadori, Garzanti ed Einaudi. Ha promosso nel 1960
la scuola Walser di Alagna e i primi Walsertreffen internazionali. Dal 1956 al 1994 è stato Consigliere comunale di Biella, e dal 1970 al 1993
Assessore all’agricoltura di Comunità montana.
E’ socio onorario del provenzale Felibrige e della
Societé de Langue et de Litératures Wallonnes.
E’ Consigliere nazionale della Federazione dei
verdi e Fiduciario a Biella dell’Opera Nomadi. È
membro del comitato scientifico dell’Istituto per
la Storia della Resistenza nelle province di Biella
e di Vercelli (Borgosesia).
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 43
modello di civiltà socio culturale autonoma e prestigiosa, anche se misconosciuta, può essere un tassello importante per la realizzazione di un’Europa fondata sui popoli e non sulla
massificazione globalizzante delle
economie e dei cervelli.
2.
I progetti di devoluzione regionale
di cui tanto si parla avranno un reale
BEPPE BURZIO
1.
Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in
particolare, di fronte al pericolo di una
crescente globalizzazione.
La piemontesità non riveste assolutamente nessun ruolo nel mondo contemporaneo, quando per piemontesità
si intenda il complesso di manifestazioni folcloristiche o pseudo culturali,
generosamente finanziate dalla Regione Piemonte e organizzate in vari paesi del mondo, specialmente in Argentina, da abitanti locali di origini pie-
montesi più o meno lontane. Questo
rinfocolare ricordi sopiti, quando non
sia un modo subdolo per farsi finanziare le attività del tempo libero, è inutile per la cultura piemontese e dannoso per l’omogeneità sociale del
nuovo stato di appartenenza. Invece la
conoscenza approfondita del Piemonte, inteso come nazione titolare di un
44 - Quaderni Padani
impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte.
Credo che il concetto basilare non sia
cambiato in questi ultimi anni: il federalismo sincero e genuino è il libero e
volontario accordo fra libere nazioni,
che decidono di gestire in comune alcuni settori della loro vita sociale ed
economica. Il federalismo non può essere un’elargizione benevolmente e
gradualmente concessa dal potere
centrale. Così è una truffa. La prima
cosa da recuperare è quindi la libertà,
cioè l’autonomia. Tutto il resto: federalismo solidale, amministrazione periferica, devoluzione, secessione eccetera
altro non sono che aria fritta, parole
vuote per imbrogliare i creduloni.
3.
Come vede la costruzione di nuovi
rapporti organici fra i diversi soggetti
dei possibili nuovi scenari
istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa.
Quando i patti sono chiari e liberamente sottoscritti non è poi molto
importante la composizione e la dimensione del
“condominio”. Padania,
Italia, Europa sono praticamente la stessa cosa a condizione
che questa entità sovranazionale non
abbia la tendenza a prevaricare oltre il
lecito quella nazionale come avviene
con l’Europa dei banchieri di oggi.
4.
Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla preAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
senza di minoranze etno-linguistiche.
Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
La maggior parte di queste “minoranze etnico linguistiche” altro non sono
che comunità utilizzanti alcuni dei tanti dialetti della lingua piemontese, che,
per ragioni strettamente politiche (tentativo di sminuire l’importanza della
lingua piemontese) sono state fatte diventare “minoranze linguistiche” titolari di “lingue” differenti all’uopo inventate. Non parlo ovviamente dell’Occitano, lingua antica, caduta in disuso
alla metà del tredicesimo secolo e ripresa all’inizio del
ventesimo, il cui uso è, in Piemonte, molto, ma molto meno
diffuso di quanto si voglia far
credere.
5.
Quali sono i confini
ideali della Patria Cita.
Quelli che comprendono la
gente che ha il desiderio e l’orgoglio
di far parte della nazione Piemontese.
6.
Quale ritiene essere il vero ruolo
delle attività culturali all’interno di un
rafforzamento del processo identitario e
del cammino autonomista.
Nota biografica
Beppe Burzio è lo pseudonimo di Pierpaolo Salvaja (nato a Torino il 5/6/1935).
Ha iniziato l’attività giornalistica su Piemont Autonomista, testata avente lo stesso nome del
movimento politico successivamente trasformatosi in Lega Nord. Trasformazione che ha provocato il suo allontanamento, in quanto autonomista piemontese convinto (è stato a suo
tempo sostenitore del Marp).
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
In ogni nazione le attività culturali,
quando siano espletate in modo corretto e genuino (quindi non disinformazione ed attività ludiche o pseudo
tali che di culturale hanno solo il nome) sono importantissime in quanto
motore di altre attività decisive per
l’avvenire di una nazione..
❐
Fondatore e Direttore responsabile del mensile
in lingua piemontese Assion Piemontèisa.
Ha pubblicato, come autore,: Arsivòli & Maciafer
(poesie piemontesi), Cola la lenga del Quart
ëStat (breve storia della lingua piemontese correlata al quadro di Pellizza da Volpedo).
È stato coautore di: Sudor Antich (storie di umanità varia legata ai mestieri in via di estinzione),
Fàule sensa moral (storie partigiane).
Quaderni Padani - 45
della nostra identità, a patto che, tramite il voto, il popolo riesca poi a neutralizzare nel governo regionale l’azione
delle forze politiche ostili (Per intenderci quelle che, trescando con l’immigrazione più o meno clandestina, centri
sociali e delinquenza varia, mirano a
creare insicurezza e a distruggere il tessuto sociale nelle nostre città).
SERGIO HERTEL
1.
Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in
particolare, di fronte al pericolo di una
crescente globalizzazione.
È chiaro che il ruolo della piemontesità
è di difendere l’identità del Popolo Piemontese dalla massificazione e dalla
omogeneizzazione. Ma per noi piemontesi non esiste soltanto il peri-colo di
veder scomparire tutto ciò che caratterizza un popolo: lingua, cultura, tradizioni, memoria storica, canti, cucina,
costumi, eccetera a causa della globalizzazione, ma anche a causa dell’azione
di quelle forze politiche ed economiche
animate da un antipiemontesismo viscerale che, grazie alla potenza dei
mass media a loro disposizione, tendono a confezionare per i Piemontesi
identità fasulle.
2.
I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e
sull’identità culturale del Piemonte.
Di decentramento, federalismo, devoluzione, autonomia se ne è parlato e se ne
parla tuttora. Di risultati consistenti se
ne vedono pochi, di progetti tanti. Non
ho mai creduto, del resto, che la lotta al
centralismo statale potesse concludersi
in breve e con un tocco di bacchetta
magica. È scontato che una reale autonomia, non solo politica, ma anche economica e legislativa del Piemonte rappresenta la base per la difesa concreta
46 - Quaderni Padani
3.
Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi
soggetti dei possibili nuovi scenari isti
tuzionali: Piemonte, Padania, Italia ed
Europa.
Sarà utopia, ma continuo a credere che
si debba lottare per ottenere un’Europa
costituita da una federazione di Popoli
Europei, cioè di regioni rappresentanti
identità storiche etno-lin-guistiche e
non da Stati nazionali ormai anacronistici, con confini giurisdizionali assurdi
e dipendenti dagli interessi economici e
finanziari delle società multinazionali.
Il reciproco rispetto fra i popoli e un
governo europeo avente funzione di
coordinare interessi, attività e sviluppo
delle diverse regioni e di dirimere eventuali controversie o conflitti d’interesse
rendono inutili altri scenari istituzionali.
4.
Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche.
Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
Le piccole comunità etno-linguistiche
del Piemonte sono portatrici di valori
che arricchi-scono il patrimonio culturale piemontese; questi valori vanno difesi strenuamente, ma con intelligenza.
Sarebbe cosa abominevole, per esempio, se col pretesto di salvare le parlate
provenzali alpine delle alte valli del Piemonte sud-occidentale si insegnasse la
lingua occi-tana di Tolosa. La difesa di
questi valori, inoltre, non deve diventare, per pochi facinorosi, occasione per
rivendicazioni territoriali, né, tanto meAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
no, alimentare un infondato fanatismo
nazionalista animatore di odio interetnico.
5.
Quali sono i confini ideali della
Patria Cita.
Il Piemonte, nel tempo, ha avuto confini che gli eventi storici hanno modificato in conti-nuazione e non è dato per
scontato che siano “ideali”. Non sta certo a me definire quali potrebbero essere. È il popolo piemontese stesso, semmai, che li potrà stabilire, occorrendo.
6.
Quale ritiene essere il vero ruolo
delle attività culturali all’interno di un
rafforzamento del processo identitario
e del cammino autonomista.
Da un secolo e mezzo circa assistiamo
ad un’azione distruttrice dell’identità
del nostro po-polo condotta dal colonialismo di Stato, animatore di una cultura centralista. Credo perciò risulti urgente, ora, la necessità di diffondere fra
le vecchie e soprattutto fra le nuove generazioni la conoscenza del nostro patrimonio culturale, della nostra lingua
e della nostra storia. Questo per rafforzare nella Gente piemontese il sent-
mento di appartenenza a un popolo
che, in Piemonte, è portatore di un’identità specifica e unica. Un popolo
che, come ha dimostrato in passato, ha
tutte le capacità di autoamministrarsi e
che in regime di autonomia potrebbe
sviluppare al massimo la sua potenzialità.
❐
Note biografiche
Nato a Torino il 07.07.1933, coniugato, pensionato. Ha due figlie laureate. Lingua familiare: piemontese.Presidente del ”Grup d’Assion Piemontèisa Val Pélis” con sede in Torre Pellice, fondato nel 1985. Redattore del foglio bimestrale Val
Pélis portavoce del Gruppo da dodici anni. Consigliere del Comune di Torre Pellice e della Comunità Montana Val Pellice dal 1990 al 1999. Reggente per il primo anno della fondazione della
“Consulta për la Lenga Piemontèisa”.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 47
si vedranno più avanti. Nell’attesa, io
mi colloco in una posizione di pessimismo moderato dalla speranza ma
nutrito dall’esperienza.
3.
ETTORE MICOL
1.
Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in
particolare, di fronte al pericolo di una
crescente globalizzazione.
Non so se sia giusto parlare di piemontesità. Preferisco riferirmi a popoli
ai quali la storia del paese che ci racchiude nei suoi confini, Piemonte sabaudo compreso, ha spesso negato la
possibilità di testimoniare della loro
presenza e di quanto la loro cultura
ha prodotto. Oggi questi popoli rischiano di potersi esprimere al solo livello di folclore o residuato archeologico non per colpa della globalizzazione ma per l’insipienza e la violenza
di oltre un secolo di azione politica
dello stato italiano.
La globalizzazione non è un pericolo
di cui servirci per giustificare la nostra
debolezza ma un fatto che dobbiamo
gestire con intelligenza.
2.
I progetti di devoluzione regionale
di cui tanto si parla avranno un reale
impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte.
I progetti di devoluzione sono una cosa di per sè‚ positiva ma rimangono in
una logica di continuità. In fondo, anche la legge Bassanini non è cattiva...
Un conto, tuttavia, è lavorare per un
autentico federalismo, altro il ritagliarsi spazi di efficienza, autonomia e potere. I risultati di quanto si sta facendo
48 - Quaderni Padani
Come vede la costruzione di nuovi
rapporti organici fra i diversi soggetti
dei possibili nuovi scenari istituzionali:
Piemonte, Padania, Italia ed Europa.
I rapporti, se ispirati ad una logica di
federalismo senza aggettivi, dovrebbero essere insieme facili e precisi: i Popoli si riconoscono e si contano, poi
stipulano patti di collaborazione con
chi è geograficamente vicino o ragionevolmente affine e così, progressivamente, salgono a comprendere chi è
separato da profonde differenze fino
a giungere a basi continentali e, forse
un giorno, mondiali.
In questo quadro termini come regione, stato e così via diventano passaggi, non traguardi. Come e quando
tradurre tutto questo in realtà è cosa
che spetta ai politici.
4.
Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche.
Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
Il Piemonte è terra di minoranze…
certamente nobili ma troppo spesso
silenziose. L’ansia di essere accettati e,
in qualche caso, l’illusione di poter
contribuire a cambiare il paese nel suo
insieme hanno indotto gli uomini più
in vista di queste minoranze a seguire
percorsi di inserimento più che di testimonianza.
Il timore di gridare un naturale diritto
di forte autonomia si è storicamente
tradotto in riconoscimenti formali, a
volte anche onorifici, di una presenza
che, nei fatti, si è ridotta a dosi omeopatiche e non è stata di alcun disturbo
per il potere. Detto in altri termini:
quando un presidente della Repubblica o della Camera dei Deputati viene a
Torre Pellice che, come noto, è il cenAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
tro del mondo valdese, è accolto con
grandi onori, si rallegra con noi, ci dice quanto siamo bravi. Poi torna a Roma...
Ma sul significato dell’essere minoranza vorrei provare a riflettere un attimo e, sia pure scusandomene, userò
un esempio personale. Io sono, per
nascita e cultura, un Valdese delle Valli. In questo faccio parte del mondo
protestante e, al suo interno, mi richiamo al calvinismo.
Il mio paese e la lingua della
mia infanzia sono di area occitana. Ancora, sono un uomo della montagna con
quanto questo comporta.
Non posso negare di aver
letto Dante e Manzoni e di
averne derivato, anche se
non me ne rallegro troppo,
la ventura di crescere un po’
italiano. Qui mi fermo con
una domanda: sono valdese,
occitano, padano, italiano? La mia visione del mondo e, in definitiva, il mio
modo di essere e rapportarmi con gli
altri a quale di questi popoli si riferisce? La risposta non può essere che
una mediazione ed una scelta: sono
valdese e montanaro perchè‚ ho scelto di esserlo.
greca, indica il territorio dove posso
conoscere chi incontro e riconoscermi
in lui.
6.
Quali sono i confini ideali della
Patria Cita.
La Patria Cita è il luogo dove si è nati,
dove si è appreso a parlare e si è diventati grandi. Per me è la mia montagna, il suo piccolo cielo, la saggezza e
l’impegno di chi mi ha preceduto nel
viverci. Non ha confini politici ed amministrativi nel senso burocratico del
termine. Al massimo, come nella polis
Quale ritiene essere il vero ruolo
delle attività culturali all’interno di un
rafforzamento del processo identitario e
del cammino autonomista.
Le attività culturali hanno un ruolo assolutamente fondamentale per il proseguo di un cammino autonomista.
Ma, se non si accompagnano ad un
progetto politico, rischiano, per dirla
con un teologo tedesco contemporaneo, di essere il salotto buono nell’appartamento di un condominio di periferia. Danno gratificazione, riposo e
un po’ di memoria. Lasciate sole, non
produrranno riscatto.
❐
Nota biografica
Ettore Micol è nato nel 1943 a Massello, un piccolo comune di montagna del Pinerolese. Valdese non praticante, è interessato allo studio del
fenomeno religioso. È stato insegnante di Lettere a Perrero, non lontano dal suo paese di na-
scita. Da sempre in contatto con il mondo delle
autonomie piemontesi, è iscritto alla Lega Nord
da molti anni ed attualmente svolge il compito
di Consigliere Comunale in Villar Perosa dove
risiede.
5.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 49
MARIELLA PINTUS
1.
Quale è il ruolo della Piemontesità nel mondo contemporaneo e, in
particolare di fronte al pericolo di una
crescente globalizzazione.
È difficile parlare di piemontesità oggi,
poiché, tranne per alcuni gruppi di
persone riunite in Associazioni culturali o per intima convinzione, questo
ruolo è stato dimenticato. Il mescolamento forzato con le popolazioni meridionali e la conseguente necessità di
parlare in lingua franca per farsi comprendere, hanno condotto allo snaturamento del senso di appartenenza,
creando degli sradicati sia fra i meridionali, sia fra i piemontesi stessi. In
merito alla globalizzazione, ritengo
che essa abbia già raggiunto la Regione, con un proliferare di Supermercati,
Fast-food, Grandi Magazzini, Discoteche assordanti, Imprese, assolutamente anonimi, legati alle Multinazionali. Non si tratta di chiudere le porte
alle innovazioni, ma è necessario recuperare una sana economia gestita
da imprenditori padani attenti alle nostre produzioni. Storia, Letteratura e
Tradizioni, riscoperte con passione, ci
aiuteranno a recuperare le nostre
identità sopite.
2.
I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla, avranno un reale impatto sull’autonomia politica e
sull’identità culturale del Piemonte.
Non c’è dubbio che una devoluzione
regionale si ripercuoterà fortemente
50 - Quaderni Padani
sulla politica: in questo modo i governatori potranno influire sui programmi scolastici, dalle Elementari alle
Scuole superiori, introducendo materie specifiche atte al recupero delle
Tradizioni, delle Lingue e della vera
Storia del Piemonte.
All’autonomia politica dovrà corrispondere una autonomia economica
che permetterà radicali cambiamenti
in tutte le Istituzioni: Sanità, Urbanistica, Viabilità, Polizia e per l’appunto la
Scuola.
3.
Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti
dei possibili nuove scenari istituzionali:
Piemonte, Padania, Italia, Europa.
Il Piemonte avrebbe maggiore forza e
rilevanza, grazie alla devoluzione, assumendo quindi una posizione paritaria e di massimo ascolto nei confronti
della Padania e dell’Europa, per quanto riguarda l’Italia (ma questo è un
mio parere), potrebbe finalmente decidere quale tipo di rapporti mantenere
con una patria oppressiva.
4.
Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche.
Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
Le popolazioni minoritarie devono
ancora trovare un loro ruolo politico,
diverso da quello folcloristico che conosciamo attraverso le sagre, le musiche e i balli tradizionali dei vari gruppi
asserviti al potere. È ingiusto accontentarsi di tali manifestazioni, quando
i veri problemi della montagna, molte
volte discussi e ampiamente sviscerati,
non vengono mai risolti; l’abbandono
del territorio, con grave rischio ambientale, è diventato un fenomeno
sempre più evidente: alluvioni sempre
più frequenti, incendi, frane, intere
borgate in rovina perché disabitate ne
sono la prova. Una rivalutazione delAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
l’agricoltura (vite, castagno, foraggi),
dell’artigianato in tutte le sue forme,
dell’allevamento e della produzione ad
esso legata, dello sfruttamento delle
risorse economiche da parte di coloro
che abitano le vallate dovrebbero dare
nuova vita ai comprensori montani;
senza peraltro scordare l’importanza
dei parchi naturali e di un turismo culturale alle ricerca di ricchezze storicoartistiche; e non è possibile scordare
la buona cucina di un tempo basata
sui prodotti locali.
5.
Quali sono i confini ideali della
“Patria Cita”.
I confini dovrebbero essere dettati dagli stessi popoli che abitano il territorio: inutile costringere le persone a
sentirsi ciò che non sono; è importante il senso di appartenenza che permette alle persone di conoscere meglio se stesse, di sentirsi più vicine a
una tradizione e a una lingua comuni.
6.
Quale ritiene essere il vero ruolo
delle attività culturali all’interno di un
rafforzamento del processo identitario e
del cammino autonomista.
L’attività delle Associazioni Culturali
come quelle di una Scuola di tipo regionale, vicina agli studenti, è indi
Nota biografica
Maria Giovanna Pintus (nota come Mariella) è
nata a Isola Dovarese (CR) e vive e lavora a Torino, sua città di adozione. Insegnante, docente
all’Università della Terza Età, giardinista.
Ha tenuto numerosi Corsi e Conferenze nei circoli culturali e nelle Circoscrizioni della Regione
Piemonte, da molto tempo svolge ricerche sugli
usi, sui costumi e sulle tradizioni popolari.
È responsabile dell’Associazione Padania Bella
per Torino e provincia; ha fondato, con Andrea
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
spensabile per preservare, tutelare, e
valorizzare tutto quanto abbia importanza storica, artistica e comunque
culturale. È chiaro che non ci potrà es
sere un cammino autonomista se le
persone non prenderanno coscienza
di sé, rivalutando un passato, troppo
presto dimenticato, per vivere meglio
il futuro. Difendere la propria identità,
con tutte le forze e con tutti i mezzi
democratici, non è soltanto un dovere
ma un diritto proprio dei popoli, ecco
perché è necessario che le varie Associazioni Culturali collaborino fra loro,
per il fine comune dell’autonomia, in
tutti i campi possibili .
❐
Rognoni, Gilberto Oneto e Joseph Henriet l’Università delle Genti e delle Tradizioni per il recupero delle identità padane. È Presidente dell’Associazione Culturale “Compagnia di San
Quintino” e socio de La Libera Compagnia Padana. Collabora a numerose testate con articoli
di carattere storico e identitario, e con servizi di
cultura locale. Si sta attualmente occupando
della stesura di un libro sulle Insorgenze piemontesi.
Quaderni Padani - 51
cettare e subire quello che già conoscono bene, e di pagare un nuovo
conto che sarà sicuramente più salato
del precedente.
2.
GIOANIN ROSS
1.
Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in
particolare, di fronte al pericolo di una
crescente globalizzazione.
Il ruolo della piemontesità nel mondo
contemporaneo è quello di mantenere
viva la propria diversità come valore
per il popolo piemontese e per poterla
trasmettere alle nuove generazioni. Le
problematiche legate alla globalizzazione sono iniziate in Piemonte con le
guerre espansionistiche di Casa Savoja, successivamente con l’immigrazione italiana degli anni 50 e 60 e oggi, con quella extracomunitaria. Per la
Patria Cita si prospetta nuovamente la
condizione di laboratorio socio-economico per i nuovi interessi della Stato Italiano e del “grande capitale”. Il
Presidente della Fiat Giovanni Agnelli
nel suo discorso fatto all’apertura dei
festeggiamenti per i 100 anni dell’azienda ha ricordato ai presenti che la
Fiat, in Italia, poteva nascere solo in
Piemonte. Questo discorso vale in
parte anche per: l’ex Enel, l’ex Sip,
l’Azienda Gas, l’Industria Cinematografica, la Radio, la Televisione e per
tutto quel patrimonio di risorse umane ed economiche nate e sviluppate in
Piemonte e poi, per motivi politici,
trasferite altrove. Ai piemontesi viene
nuovamente richiesto lo sforzo di ac52 - Quaderni Padani
I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e
sull’identità culturale del Piemonte.
Se i progetti di devoluzione verso il
basso porteranno a una vera autonomia politica regionale il primo passo
dovrà essere il riconoscimento del
Parlamento Subalpino da parte dello
Stato Italiano e questo, potrà dare
nuovo impulso alla identità culturale
del Piemonte.
3.
Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti
dei possibili nuovi scenari istituzionali:
Piemonte, Padania, Italia ed Europa.
La costruzione di nuovi rapporti organici tra i futuri diversi soggetti istituzionali saranno condizionati dagli accordi che gli Stati attuali e il Governo
d’Europa faranno. Per il Piemonte, se
ci sarà la volontà politica, potrà presentarsi la possibilità di ritornare in
quella che è sempre stata la sua naturale collocazione geografica-storica e
politica: l’Europa. Riprendendo con
accordi culturali, commerciali e politici
l’interscambio con la Valle d’Aosta, la
Savoja, il Nizzardo e la Provenza.
4.
Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche.
Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese.
In Piemonte vi è una sola presenza
definibile etno-linguistica ed è quella
Walser, una popolazione di ceppo
germanico che si esprime con una lingua germanica. Esistono infine nel
Piemonte occidentale delle vallate che
hanno a sud, una presenza linguistica
provenzale e più a nord franco-proAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
venzale. Il piemontese appartiene al
gruppo delle lingue Celto-Romanze
come il Provenzale e il Franco-Provenzale. Le montagne non hanno mai diviso gli abitanti dei due versanti ma
hanno da sempre avuto la funzione di
cerniera sotto tutti i punti di vista,
compresa quella etno-linguistica. Le
Alpi sud-occidentali, non sono da meno e rappresentano l’elemento di
unione tra il Piemonte, la Provenza e
la Savoja.
5.
Quali sono i confini ideali della
Patria Cita.
Definire e tracciare in modo burocratico i confini geografici è secondo me
un atto di violenza e di colonialismo.
Sono invece propenso a lasciare alle
persone che abitano una determinata
area, ad indicarla come propria. Per
quanto riguarda il Piemonte ritengo
che gli attuali confini Regionali, siano
riconosciuti e accettati dalla maggioranza dei suoi abitanti.
rafforzamento del processo identitario e
del cammino autonomista.
In questo momento con l’assenza totale di un soggetto politico autonomista credibile, le associazioni culturali
sono le uniche in grado di sostenere e
promuovere i valori delle identità locali. Questo senza cadere nell’errore
di pensare che il vuoto politico possa
essere riempito dalle associazioni, il
cui compito è dare un grosso contri
buto alla formazione e alla crescita di
una coscienza identitaria, lavorando in
modo trasversale nella società piemontese. Ed è veramente preoccupante che oggi, nell’ambiente piemontesista, alcune nuove associazioni approfittando della situazione di confusione,
si stanno muovendo per conquistare
una egemonia economico-politica
sulla questione culturale, con il risultato di mettere in difficoltà e di eliminare
di fatto le altre organizzazioni presenti
sul territorio.
❐
Nota biografica
Gioanin Ross è nato il 30/07/55 a Biella e è registrato all’anagrafe con il soprannome di Gianni
Rosso. Di madrelingua piemontese, in età giovanile ha militato nella sinistra extraparlamentare. Ha conosciuto Enea dij Ribat (Enea Ribatto),
Jaco Calleri (Giacomo Calleri), Tavo Burat (Gustavo Buratti) e Berto Grem (Roberto Gremmo).Dopo una breve parentesi nella Lega Nord,
è dal 1992 impegnato su un discorso etno-culturale.
6.
Quale ritiene essere il vero ruolo
delle attività culturali all’interno di un
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Quaderni Padani - 53
SILVANO STRANEO
affermarsi incontrastato del liberismo in una qualche sua forma insieme con le ricadute economiche
e culturali del fenomeno internet sviluppatosi sotto la supervisione degli
USA hanno generato una spinta alla
globalizzazione che può portare con
sé in un futuro più o meno prossimo
un governo unico mondiale di stampo americano e una progressiva
omologazione delle culture dei popoli
funzionale alle esigenze della finanza
e del controllo politico.
In un simile contesto, la nazione piemontese non ha un ruolo diverso da
quello di ogni altra nazione che non
intenda abdicare alla sua originalità e
L’
scomparire in quanto tale.
A differenza di quello lombardo, la
reazione del popolo piemontese ai
mille modi in cui è stato spogliato di
ciò che ha prodotto ed allo schiacciamento della sua cultura, lingua e modo d’essere, è stata alquanto flebile.
Fino alla nascita della Lega Nord, si è
vista in Piemonte solo una quantità di
piccole associazioni culturali, in genere ristrette all’ambito letterario e sempre gelosamente chiuse le une alle altre, che non hanno saputo comprendere la natura squisitamente politica
delle battaglie per la salvaguardia delle identità.
La devoluzione può essere allora un
54 - Quaderni Padani
primo, modesto passo verso lo sganciamento da Roma. Il suo successo,
se, ma solo se accompagnato da validi contenuti che sappiano sfruttare
appieno i nuovi spazi che si vengono
ad aprire, può dimostrare ai piemontesi, ossequiosi per secolare impronta
sabauda nei confronti dell’autorità
costituita, i vantaggi della gestione in
loco delle loro risorse.
In una parola, la credibilità del progetto autonomista, con una conseguente spinta verso quel recupero di
identità per il quale lavoriamo.
In tutto questo, giudico assolutamente fondamentale l’azione culturale.
La sinistra ha saputo costruire, soprattutto nella città di Torino, una
propria rete presente in tutte le istituzioni culturali cittadine, dall’università
alle (residue) case editrici, ai corpi insegnanti, alla miriade di circoli “democratici” la quale, nata con nobili intellettuali quali Antonio Gramsci e Piero
Gobetti, si è trasformata oggi negli
assai meno nobili personaggi che
scrivono sul giornale della Fiat o circolano a Palazzo civico e nelle scuole
di ogni ordine e grado
ma condiziona ancora
il consenso della città
ed esercita un’attiva
propaganda di parte
presso i giovani.
Conquisterà quella
Torino che non protesta per un’ICI alle stelle, che non si ribella agli ininterrotti trasferimenti delle sue attività,
che bisbiglia appena la propria disapprovazione per le continue ondate
migratorie che l’hanno denaturata, chi
saprà dimostrare con razionalità e
senza urlare la validità e la nobiltà del
proprio progetto politico, la propria
opposizione ad un mondo innaturale
ed alla trasformazione dell’uomo libero nell’uomo ad una sola dimensione.
In questo ambito un argomento di
importanza centrale è quello della lotta al mondialismo, cui un crescente
numero di giovani mostra di essere
sensibile.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Va purtroppo detto che questo lavoro, a distanza di molti anni, non solo
non è ancora seriamente incominciato ma addirittura non se ne è ancora
bene compresa la necessità.
In generale, nulla verrà regalato al
Piemonte o a chicchessia e solo la
forza congiunta di tutte le nazioni padane con il loro peso economico e
sociale sarà in grado di competere
con la reazione centralista.
Nazioni padane unite dai valori di
fondo che condividono, primo fra tutti l’etica del lavoro, per il raggiungimento di questo importante obiettivo
ma nel contempo rispettose delle minori differenze che le caratterizzano e
attente ad evitare ogni forma di accentramento all’interno della loro comunità.
Il processo di apertura dei mercati e
dei collegamenti telematici internazionali non è reversibile.
Per alcuni economisti, come ad esempio il premio Nobel Von Hayek, sarà
anzi proprio questo processo a fornire la più forte spinta verso le autonomie, venendo a cadere, per la facilità
degli scambi, la ragion d’essere delle
burocrazie degli attuali stati centralisti.
Si può allora ragionevolmente pensare ad un Piemonte con la sua identità
ed autonomia, nazione prima padana
Nota biografica
Silvano Straneo è nato a Torino il 12 agosto 1947.
Laureato in scienze matematiche presso l’Università di Torino, è ricercatore presso il Consiglio
Nazionale delle Ricerche, ha svolto attività didatAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
e poi europea in un’Europa costituita
da bacini realmente omogenei dal
punto di vista economico e culturale
(si pensi alla Scozia, alla Baviera, alla
Catalogna, al Brabante … e naturalmente alla Padania stessa), dotati ciascuno di parlamento e governo propri e coordinati ma non fusi a forza
gli uni con gli altri; un’Europa che abbia la capacità di non abdicare alla
sua millenaria e poliedrica cultura per
un modello di plastica americana che
non le è proprio..
❐
tica presso le Università di Torino e di Siegen
(Germania). È autore di libri e di articoli di ricerca di carattere scientifico. Dal gennaio 2000 è
Presidente Nazionale della Lega Nord Piemont.
Quaderni Padani - 55
L’autonomismo piemontese oggi
di Gilberto Oneto
Considerazioni
La vicenda dell’autonomismo piemontese, così ricca di fatti ma anche di intrighi e di misfatti, induce a una serie di considerazioni.
La prima riguarda la evidente e abnorme rissosità dei piemontesisti. Il mondo autonomista
in generale (dall’Irlanda alla Sicilia) è sempre
stato in verità percorso da divisioni e dissidi che
ne hanno indebolito la portata: si può dire in
questo senso che la vera forza di tutti i centralismi sia sempre stata la propensione al divisionismo degli autonomisti. Molti di loro sembrano
interpretare l’ansia di autonomia e di indipendenza (e il loro anche positivo spirito ribelle)
come una sorta di schizofrenico distacco da tutto e da tutti, compresi i propri compagni di lotta. Il Piemonte in questo senso non solo non fa
eccezione ma si pone sicuramente in una posizione di primato in quanto a propensioni masochiste alla autodistruzione.
Percorrere la storia del MARP, dell’UOPA,
della Lega e dei movimenti che hanno caratterizzato l’autonomismo subalpino è leggere una
dolorosa (fin quasi ridicola) storia di tradimenti, divisioni, autocastrazioni. Se ne deduce con
una certa amara sorpresa che non sono tanto
(come spesso è avvenuto altrove, e come potrebbe anche essere comprensibile) le sconfitte
elettorali ma anche quasi di più le vittorie (o le
prospettive di vittoria) e le crescite di consenso
a scatenare le divisioni e i frazionismi. Ci si è
spesso trovati di fronte ad avvenimenti e a prese
di posizione che non è possibile spiegare neppure come conseguenza degli individualismi più
sfrenati e di rancori personali, ma solo nell’ambito delle deviazioni psichiatriche.
La seconda considerazione ha a che fare con
le motivazioni che sono alla base dell’autonomismo. Spesso il piemontesismo si è basato sui
criticabili presupposti di un micronazionalismo
subalpino dai connotati inquietanti per centralismo e imperialismo in scala locale. In qualche
modo esso è condizionato dalla vicenda storica
sabauda che in troppi confondono con i destini
del Piemonte: succede così che alcuni si scatenino in una sorta di nostalgia del buon vecchio
(si fa per dire) Ducato esteso da Losanna al Ticino (vengono risparmiate la Sardegna e la Liguria ma non senza un po’ di rancore per chi è ritenuto colpevole di non aver saputo cogliere le
gioie delle caserme sabaude…). La Savoia e la
Valle d’Aosta rientrano in questo strano disegno
assieme alla Lomellina e all’Oltrepò, sbrigativamente ribattezzati Piccolo Piemonte. E’ solo in
questa ottica di patriottismo sabaudo (nel senso
della dinastia e delle sue antiche pulsioni allo
sgomitamento territoriale) che si riescono, ad
esempio, a capire certo feroce antioccitanesimo
(per i micronazionalisti gli Occitani in Piemonte non esistono..) o fenomeni come l’imperialismo linguistiGigantesco “striscione razzista” apparso allo stadio di Torino nel gennaio del co torinese
1989
esercitato a
danno di lombardofoni e ligurofoni ma
anche di tutte
le altre varianti del Piemontese.
Strettamente
connessa con
questa visione
di
grande
“stato di vali56 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
“Striscione patriottico” esibito al Consiglio Comunale di Bussolino nel settembre del 1988
co” alpino c’è una strana tendenza all’isolamento rispetto agli altri popoli padani.
A fronte di una conclamata differenza nei
confronti dei loro vicini orientali, i piemontardi
più duri vantano una comunanza (peraltro senza prova di reciprocità) nei confronti dei vicini
settentrionali e occidentali. Il progetto di una
entità comprendente il Piemonte, l’Arpitania
(fino a Lione), il Vallese, il Delfinato e la Provenza ricompare spesso nei disegni di taluni
piemontesisti senza suscitare nessun entusiasmo fra i popoli coinvolti loro malgrado in questa cosa che non ha nessuna giustificazione storica, economica, geografica né etnolinguistica.
In qualche modo il pervicace rifiuto di riconoscere l’esistenza dell’Occitania nasce anche da
queste aspirazioni di imperialismo alpino, di un
raffazzonato PaßStaat fra Rodano e Ticino. A
fronte di queste affermazioni di parentela transalpina, è invece sempre esistito un processo di
vocazione storica che ha spinto i Savoia e quindi il Piemonte (di nuovo una imbarazzante
identificazione..) verso la valle del Po in una
continua affermazione e ricerca di padanità.
Non si può infatti far finta di non vedere che la
vera aspirazione subalpina è stata per 700 anni
quella di diventare Padania. Una iattura storica
l’ha fatta diventare Italia e forse per una rimozione freudiana (o per reconditi complessi di
colpa) certi piemontesisti oggi rifiutano la loro
storia e si inventano una strana francesità giustificata solo dal precedente, peraltro poco felice, di una annessione napoleonica. Il pasticcio
italiano non può essere addebitato al popolo
piemontese (anche se certa retorica patriottarda
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
italiana tende ad attribuire al Piemonte un merito che dagli autonomisti non è certo visto come tale) che ne è stato anzi la prima vittima.
Non c’è perciò nessuna ragione per doversi cercare dei rifugi e degli alibi transalpini.
Un’altra inquietante costante di certo autonomismo subalpino è collegata con la strana mistura di cultura e di ignoranza che lo caratterizza. L’autonomismo piemontese è la somma di
tante associazioni culturali, di produzione letteraria enorme, di un numero senza uguali in altre regioni di riviste e giornali anche in Piemontese e - per contro - di una piattezza culturale infinita da parte di gran parte degli esponenti politici delle forze autonomiste, quasi fossero vittime di un complesso di superiorità etnica che non ha bisogno di cultura per esprimersi: una sorta di “Piemont fa grado” applicato alla politica. Questo ha finito per generare
uno iato fra le forze culturali e quelle politiche
isterilendo le une in attività accademiche (affette peraltro dalla solita rissosità) e le altre nell’incapacità di rappresentare veramente le istanze piemontesi.
Le motivazioni delle aspirazioni ondeggiano
così fra i due estremi rappresentati dall’imperialismo piemontardo e dal più becero qualunquismo che esclude ogni motivazione identitaria. Ci sono stati esponenti di grande preparazione culturale che non hanno saputo tradurla
in attività politiche e politici che non hanno saputo dare dignità culturale alle loro azioni. Ci
sono uomini di cultura pronti a scatenare risse
infernali per una dieresi e uomini di partito che
non si sono accorti della grande ricchezza e vaQuaderni Padani - 57
riegazione identitaria del Piemonte, che è un
bene da mettere a frutto e non un insopportabile fardello folclorico. Negli ultimi tempi il fenomeno si è aggravato per il completo distacco fra
i due mondi: chi si occupa di cultura disdegna
la politica e troppi politici non sanno neppure
più cosa voglia dire essere piemontesisti. In
questo senso è preoccupante che molti degli
esponenti più in vista dell’ultima generazione
del mondo federalista siano del tutto estranei
alla tradizione autonomista o, addirittura, che
non siano neppure più piemontesi.
L’ultima considerazione riguarda il ricorrente
riaffiorare di una un po’ freudiana antipadanità.
Non si vuole capire che il Piemonte non esiste
senza la Padania (e che la Padania non esiste
senza il Piemonte e le altre Piccole patrie) e si
cerca come scusa per le proprie sconfitte o per
la dilagante impotenza politica la negativa influenza di un centralismo padano, o di una contorta congiura “lombarda” o “milanese” ai danni del Piemonte. E’ una storia che torna fuori a
ritmi ciclici: l’aveva inventata Gremmo ai tempi
del suo scontro personale con i capi della Lega,
l’aveva rispolverata Rabellino pro domo sua,
l’ha ripescata Comino (che pure di Padania ha
lucrosamente vissuto), e ricompare in continuazione nelle elucubrazioni di alcune associazioni pseudo-culturali, alcune delle quali arrivano addirittura a teorizzare l’estraneità culturale e linguistica del Piemonte dalla Padania. Si
sentono strampalatezze del tipo: il Piemonte è
sempre stato libero e la Padania è sempre stata
schiava di qualcuno (dimenticandosi il trattamento riservato ai Valdesi o la storia millenaria
di Venezia), si racconta che il Ticino (neanche
più la Sesia) sia il confine fra le lingue celtoromanze e quelle italiche, e via folleggiando.
Si reinterpreta la storia in versione cabarettistica per cercare in ogni modo di provare l’estraneità del Piemonte dalla vicenda padana. Si
dimenticano venti secoli di storia comune, di
comunanza culturale, linguistica, economica e
anche geografica. Si dimentica la labilità dei
confini fra Piemonte e Lombardia Occidentale,
una interconnessione facilmente leggibile su
ogni atlante storico. Si dimentica che all’Assietta, luogo simbolico della piemontesità, una cospicua fetta dei combattenti era composta, oltre
che da volontari valdesi, da soldati imperiali alcuni dei quali reclutati in Padania. È uno iato
da intellettuali frustrati che il popolo non capisce. Il popolo piemontese è perfettamente conscio della sua padanità, soprattutto quello più
58 - Quaderni Padani
avanzato nella presa di coscienza autonomista.
Lo provano i risultati elettorali: nel 1996 parlando di Padania si è raccolto il massimo dei voti anche in Piemonte.
La storia dell’autonomismo piemontese non è
edificante ma neanche la sua attuale situazione
– a giudicare dagli ultimi avvenimenti e anche
da alcuni cenni che saltano fuori dalle interviste - è allegra. Non resta che fare una amara
constatazione: se non si riesce a fare tesoro degli errori e si persevera in taluni atteggiamenti
suicidi con subalpina testardaggine il Piemonte
resterà una regione italiana.
Possibili soluzioni
Nulla è naturalmente perduto e i presupposti
per una forte ripresa dell’avanzata autonomista
ci sono tutti. Occorre però con umiltà e con decisione reimpostare l’intera azione culturale e
politica.
Bisogna per prima cosa capire la forza delle
differenze. Si è creato un caso sul riconoscimento giuridico della lingua di Occitani e Arpitani. Invece di attaccare questi nostri fratelli (di
cui dovremmo se mai essere felicemente “invidiosi” per il successo conseguito) dobbiamo
renderci finalmente conto che in ordine sparso
non si va da nessuna parte: ci dobbiamo battere
non per lingue regionali che sono perdenti politicamente (e deboli scientificamente) ma per il
riconoscimento del Padano e di tutte le sue varianti locali. Contro le serie e documentate tesi
espresse da Sergio Salvi (ma anche da Clemente
Merlo, Angelo Monteverdi, Heinrich Lausberg,
Walther von Wartburg e Geoffrey Hull) il piemontesismo più becero ha invece scatenato un
putiferio degno di latitudini più mediterranee.
Eppure la vera forza del Piemonte (e della Padania di cui rappresenta il paradigma più variegato) è proprio quella di essere la regione con la
maggiore concentrazione di differenze: ci sono
minoranze etnolinguistiche padane (lombardi e
liguri), celto-romanze transalpine (Brigaschi,
Occitani e Arpitani) e tedesche (Walser), minoranze religiose territorializzate (Valdesi) e sparse, e antiche particolarità storiche (il Monferrato, il Canavese, l’Ossola, la Valsesia, eccetera).
Sono tutti elementi da riconoscere e valorizzare
e non da combattere come si è troppo spesso
fatto in nome di un becero micronazionalismo.
Si tratta oltre a tutto di un atteggiamento che
si scontra con la realtà: alcune delle comunità
citate si battono da tempo per la propria autonomia e la stragrande maggioranza dei comuni
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
La battaglia dell’Assietta
occitani anche di pianura (la cui differenza è
sempre stata negata da certi patrioti piemontardi) ha chiesto il bilinguismo previsto dalla legge
482. Un diverso atteggiamento, più aperto, intelligente e padanista, da parte degli autonomisti piemontesi avrebbe forse consentito di ottenere in quelle valli una condizione di trilinguismo in grado di superare le rigidità della legge.
Il centralismo italiano ha mostrato forme di accondiscendenza culturale e linguistica solo nei
confronti delle minoranze “innocue” (politicamente) o “sponsorizzate” da stati esteri: la presenza di un robusto blocco padano potrebbe
avere quella forza politica che non è in grado di
esprimere singolarmente nessuna entità regionale. In più la lingua padana possiede una oggettiva carica scientifica che le conferisce una
dignità che è più difficilmente attribuibile ad alcune delle sue singole varianti.
Il riconoscimento delle forti differenze locali
all’interno degli attuali limiti regionali dovrebbe portare alla richiesta della creazione di province o di entità amministrative autonome costruite sulle singole identità: province per OcciAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
tani, Arpitani e Valdesi, per il Monferrato, il Canavese, l’Ossola e la Valsesia, e la possibilità per
le aree di cultura lombarda e ligure di ricongiungersi con le loro comunità naturali. Invece
– ad esempio - di inventarsi pericolose stravaganze come il “Piemontese di Novara” converrebbe (e sarebbe prova di maggiore autonomismo) permettere ai Novaresi di scegliere in libertà il proprio futuro assetto amministrativo.
Nella politica linguistica sarebbe assai più
saggio e producente operare per la formazione e
diffusione di una comune grafia padana nella
quale esprimere liberamente tutte le varianti
locali: quelle classificabili come piemontesi andrebbero difese e valorizzate da istituzioni culturali regionali. E’ del tutto negativo (e politicamente suicida) insistere nella difesa di una grafia obsoleta che afferma solo la torinesità e l’elitarietà dell’attuale impostazione linguistica che
– oltre a tutto – viene sistematicamente frustrata e sconfessata da migliaia di spontanee iniziative locali che usano altre grafie. L’ottusità dell’attuale impostazione allontana la quasi totalità della popolazione dalla fruizione (lettura e
Quaderni Padani - 59
scrittura) del Piemontese in tutte le sue varianti, e denota una protervia centralista e passatista che male si concilia con le istanze autonomiste. L’atteggiamento è aggravato dall’acredine con cui i difensori della lingua iniziatica si
scatenano contro chi esprima un parere diverso, trasformandosi da compassati signori in
sguaiati e poco subalpini descamisados.
Sarebbe assai più produttivo (e morale) indirizzare l’attenzione verso la piemontesità vera,
fatta di tratti comuni forti e verificati ma anche
di mille differenze, come fanno cento associazioni locali e non accusarle di ignoranza e di
tradimento culturale. Esiste forse anche un
dentità padana si sono sviluppate anche dopo.
Se certe capziosità culturali, romanticismi
anarcoidi o deviazioni marxiste possono forse
essere giustificabili negli autonomisti più anziani, non hanno più senso fra i giovani ed è infatti fra gli esponenti delle ultime generazioni
(liberi da ogni condizionamento di italianità ma
anche di “sabaudità”) che si sta sviluppando con
forza la coscienza di un autonomismo piemontese intimamente collegato con l’indipendentismo padano e con il rispetto di tutte le identità
locali, anche le più piccole.
La coscienza delle differenze è la vera forza di
ogni autonomismo. L’Europa esisterà solo se riconoscerà i diritti e le identità
specifiche dei suoi mille popoli.
Lo stesso vale per la Padania e per
il Piemonte: rifiutare l’identità ossolana (per fare alcuni esempi) significa rinunciare a ogni speranza
di autonomia, negare dignità alla
lingua biellese significa solo preparare la vittoria dell’inglese da
computer o dell’arabo.
In termini politici tutto questo
deve significare una grande apertura verso le realtà organiche locali e il riconoscimento di tutte le
differenze storiche. Ciò può essere concretamente realizzato attivando il solo meccanismo istituzionale in grado di assicurare le
libertà e le differenze di tutti: la
Padania, intesa come contenitore
Il Drapò piemontese (Croce attraversante bianca in campo e garanzia di tutte le identità.
rosso bordato di azzurro, con lambello azzurro)
Il Piemonte è padano per storia,
lingua, cultura, geografia, per
problema generazionale: i primi autonomisti si struttura sociale ed economica, e per la libera
sono, ad esempio, formati sulla riscoperta del scelta delle sue componenti autonomiste che
Piemontese senza avere ancora a disposizione hanno dato la massima fiducia alla Lega quando
tutti gli studi linguistici che sono stati comple- questa ha espresso con più chiarezza il suo ditati a partire dagli anni ’60. Erano perciò del segno indipendentista padano e che hanno intutto consci della diversità del Piemontese ri- vece marginalizzato i movimenti micronazionaspetto all’Italiano ma non avevano ancora meta- listici.
bolizzato a fondo la sua appartenenza a una
Certo, la Patria Cita è dotata di un forte senkoiné padana. Hanno potuto anche conoscere timento di identità ed è ben radicata nell’immagli studi sulle minoranze e sulle culture mino- ginario collettivo e proprio per questo deve enritarie solo più tardi. Erano figli della scuola e trare in Padania con la piena consapevolezza del
della cultura italiana, nella sua più becera edi- suo valore, della sua differenza e del valore agzione fascista, costruita su menzogne e omis- giunto dei suoi legami esterni. Di questo suo
sioni nazionaliste sulla storia. Il migliore revi- speciale ruolo sono sempre stati pienamente
sionismo sul Risorgimento e sulla vera storia consapevoli i migliori autonomisti piemontesi.
padana e piemontese ha dato i suoi frutti solo L’argomento era stato affrontato con competendopo gli anni ’70 e le prese di coscienza sull’i- za e passione nel lontano e non sospetto 1983,
60 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
sulla gloriosa rivista Etnie, da Censin Pich in
un intervento sintomaticamente titolato “Il Piemonte e la Padania”. Vi si esaminavano la specialità alpina del Piemonte e i suoi legami “trasmontani”, ma si riconosceva la forza della sua
padanità. L’intervento si concludeva con una osservazione che è un po’ il vero riassunto di tutte le contraddizioni dell’autonomismo piemontese: “In definitiva, per capire l’atteggiamento
del Piemonte verso la Padania, è necessario riflettere sugli altri suoi legami e sul suo desiderio di rimediare, o quanto meno farsi perdonare, fatti e misfatti storici di cui fu, più per volontà di grandi che di popolo, protagonista e
corresponsabile”. È un complesso di colpa ingiustificato: se colpa c’è mai stata, il Piemonte
l’ha pagata abbondantemente soffrendo più di
ogni altra parte di Padania l’oppressione italiana nelle sue manifestazioni peggiori.
Negli anni del primo risveglio autonomista il
Piemonte è stato anima e motore dell’orgoglio
identitario ritrovato (come dimostra anche il
primato elettorale di quel periodo) ma poi si è
in qualche modo accartocciato su sé stesso, sulle divisioni e sulle frustrazioni dei suoi autonomisti. Oggi può ritornare al posto che gli spetta
nel cammino verso tutte le libertà se riprende
con coerenza la lotta per affermare la sua identità allo stesso tempo piemontesista e padanista.
Nessuno rimprovera più ai Piemontesi di aver
fatto l’Italia ma bisogna evitare la colpa anche
più grave di finire fra quelli che non hanno fatto la Padania.
Tutte queste riflessioni sulla necessità di mag-
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
giore coerenza identitaria, di forte coesione nella comune battaglia padana di libertà e di abbandono di ogni suicida atteggiamento frazionistico
sono corroborate dalla constatazione che l’unità
strutturale (sia di tutte le energie piemontesiste
che di queste con le omologhe manifestazioni
delle altre patrie padane) giova agli autonomisti
e al successo delle loro aspirazioni. Non solo anche l’autonomismo piemontese – come si è già
visto – ha mostrato il suo massimo vigore nei
momenti di maggiore impegno padanista, ma
nessuna organizzazione è riuscita a crescere e
neppure a sopravvivere al di fuori dal grande filone unitario oggi rappresentato dalla Lega. Tutti quelli che se ne sono staccati, anche quelli
che lo hanno fatto per ragioni dotate di qualche
giustificazione (al di là cioè dei soliti personalismi o interessi), anche quelli che avevano alle
spalle una lunga e solida militanza autonomista,
sono spariti, o hanno rinunciato alla battaglia
politica rifugiandosi in (pur lodevolissime e necessarie) attività solo culturali, o sono stati assorbiti da movimenti e partiti che non hanno
nulla di autonomista o che sono addirittura
espressioni del peggior centralismo italiano. Se
si vuole dare una valenza e un valore politico alle istanze identitarie localiste e piemontesiste
non c’è oggi altro spazio al di fuori del filone leghista, non c’è altra strada (e non ce ne potranno mai essere) che non sia quella della costruzione di una casa comune per tutte le comunità
padane.
Il sogno è una Padania libera e, al suo interno
un Piemont liber. Anzi un Piemunt liber!
Quaderni Padani - 61
Documentazione storica
La marcia dei Savoia verso la Padania
Le vere origini della dinastia sabauda sono
piuttosto oscure e si collocano geograficamente
fra il Lago di Ginevra e quello di Neuchâtel, nella Svizzera Romanda.
Il primo nome che viene ricordato è quello di
Umberto dalle Bianche Mani (o Biancamano),
morto nel 1048, che ha acquisito il primo possesso cisalpino occupando la Valle d’Aosta. L’operazione è stata proseguita da suo figlio Oddone che conquista le contee di Torino e di Susa.
L’espansione si arresta nel corso dei secoli XII e
XIII per la resistenza dei comuni piemontesi (i
Savoia sono alleati, anche troppo prudenti, del
Barbarossa), per l’opposizione dei Marchesati di
Saluzzo e del Monferrato, e per la divisione della dinastia: il ramo principale tiene Aosta e Susa
e gli Acaia Torino. L’avanzata verso la Padania
riprende solo con Amedeo VII, che acquista la
Contea di Nizza nel 1388, e con Amedeo VIII
che prende il Vercellese ed eredita i territori degli Acaia che si sono estinti. È stato il primo a
portare il titolo di Duca, dal 1416: lo stato passa
da Contea a Ducato di Savoia. Dopo un altro
lungo periodo di sostanziale stasi nelle conquiste, con una frenetica alternanza di avanzate e
1300
Pace di Lodi – 1454
1 – Principi di Acaia
2 – Marchesato di Saluzzo
3 – Marchesato del Monferrato
Le date indicano l’espansione cisalpina dei Savoia
1 – Principi di Acaia
2 – Marchesato di Saluzzo
3 – Marchesato del Monferrato
62 - Quaderni Padani
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Pace di Cherasco – 1631
Congresso di Vienna – 1814
3 – Marchesato del Monferrato
Pace di Utrecht – 1713
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
1859
Quaderni Padani - 63
di arretramenti, la marcia riprende con Vittorio Amedeo II che assume il titolo di Re
di Sardegna e riconquista tutti i territori
contesi nel basso Piemonte nel 1697. Carlo
Emanuele III arriva nel 1748 al Ticino. Vittorio Emanuele I, con il Congresso di
Vienna, si appropria nel 1815 della Liguria.
Dal 1859 Vittorio Emanuele II conquista la
Lombardia e poi tutto il resto. Alla lunga
avanzata verso la Padania corrisponde un
graduale abbandono degli originari possessi transalpini a vantaggio della Confederazione Helvetica (Vallese 1476, Friburgo
ALTRE TAVOLE STORICHE
☞ Popoli originari
Sono indicati gli stanziamenti approssimativi dei principali popoli originari, prima dell’invasione romana. Alcune delle tribù sono
da considerare celtiche a tutti gli effetti (Insubri, Vertamocori), tutte le altre appartengono a popolazioni di ceppo ligure e garalditano che sono state in seguito culturalmente
celtizzate in maniera sostanziale (Leponzi,
Taurini) o un po’ meno marcata (Salassi,
Bagienni).
☞ Fasi dell’occupazione romana
Sono indicati i limiti approssimativi dell’occupazione romana per quanto riguarda i
centri e le vie di comunicazioni più importanti. E’ anche riportata a tratteggio l’estensione delle ribellioni dei cosiddetti Bagaudi
che hanno caratterizzato la vita delle aree
alpine (soprattutto di quelle abitate da Leponzi e da Salassi) per gran parte della durata dell’occupazione romana e almeno per il
II e III secolo d.C.
1481, Vaud 1536) e del Regno di Francia
(Bresse 1659, Barcellonette 1715, Nizza e
Savoia 1859, Tenda e passi alpini 1947).
Il Piemonte, come entità a sé stante, compare nel 1418, all’estinzione del ramo degli
Acaia che avevano il titolo di Principi del
Piemonte: da quel momento il Principato
diventa appannaggio dell’erede al trono.
Le sei cartine storiche illustrano la situazione della graduale padanizzazione dei
territori sabaudi in tre momenti significati64 - Quaderni Padani
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
vi: il XIV secolo, il 1454 (Pace di Lodi), il
1631 (Pace di Cherasco), il 1713 (Pace di
Utrecht), il 1814 (Congresso di Vienna) e il
1859, alla conclusione della cosiddetta Seconda guerra di indipendenza. Sulle tavole
sono riportati anche i territori dei Principi
di Acaia (1), del Marchesato di Saluzzo (2)
e del Marchesato del Monferrato (3).
Tutta la storia regionale è la prova della
vocazione padana del Piemonte e di come
siano pretestuose le velleità di certi autonomisti che sottolineano (e auspicano) una
unione fra il Piemonte e le terre di oltr’Al-
Prima Lega Lombarda ☞
Sono indicati con tratteggio più fine i territori appartenenti a comunità che hanno aderito a una o più edizioni della Prima Lega
Lombarda. Con tratteggio più rado sono segnati i territori di entità fiancheggiatrici della Lega ma che non hanno mai formalizzato
la loro adesione. La linea continua segna i
confini del Regno d’Italia nell’Impero.
Massima estensione del Ducato
di Milano ☞
I limiti dell’estensione occidentale del Ducato (1396) coincidono in larga parte con quelli del Piemonte linguistico e ripropongono lo
stretto legame padano della regione, allora
contenuto dalla contrapposta espansione sabauda. A tratteggio più rado è segnata l’espansione del 1464.
pe (la Savoia, il Vallese, il Nizzardo e la
Provenza): c’è sicuramente un forte legame
con il versante alpino nord-occidentale ma
si tratta di una comunanza culturale e non
identitaria che si inserisce nell’ambito delle
strette parentele padane con tutti i popoli
confinanti. Tutta la storia del Piemonte è
una affermazione e una ricerca di padanità
e non ci può essere futuro per le sue aspirazioni autonomiste al di fuori di questa
eterna vocazione.
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Quaderni Padani - 65
Note sulla condizione linguistica
del Piemonte
L
e varianti del Piemontese appartengono a
quello che Sergio Salvi ha chiamato il “Padano continuo”, il cuore della lingua padana. Queste interessano in maniera esclusiva la
parte centrale dell’attuale territorio regionale
ma sono diffuse anche in tutte le valli occidentali, soprattutto nelle parti più basse.
Nelle attuali province di Novara e del VCO
(storicamente collegate al Ducato di Milano) si
parlano varianti del Lombardo occidentale (anch’esso parte del Padano continuo): il confine
viene convenzionalmente posto sulla Sesia anche sa la transizione fra i due gruppi di parlate
è assai più morbida e complessa.
In talune parti delle province di Cuneo (Alto,
Cabrauna, Garessio e Ormea) e di Alessandria
(Albera Ligure, Arquata Scrivia, Belforte Monferrato, Borghetto di Borbera, Bosio, Briga Alta,
Cabella Ligure, Cantalupo Ligure, Carrega Ligure, Cartosio, Casaleggio Borio, Castelletto
d’Orba, Cremolino, Fraconalto, Francavilla Bisio, Gavi, Grondona, Lerma, Molare, Mongiardino Ligure, Montaldeo, Mornese, Novi Ligure,
Ovada, Parodi Ligure, Pasturana, Rocca Grimalda, Roccaforte Ligure, Rocchetta Ligure, San
Cristoforo, Serravalle Scrivia, Silvano d’Orba,
Tagliolo Monferrato, Tascarolo, Vignole Borbera
e Voltaggio) che coincidono in buona misura
con l’estensione territoriale storica della Repubblica di Genova si parla il Ligure, altra variante della lingua padana.
Ad est di Alessandria si trova un’area linguisticamente molto complessa nella quale si sovrappongono influssi piemontesi, lombardi ed
emiliani. I comuni interessati sono grosso modo Alluvioni Cambiò, Alzano Scrivia, Avolasca,
Berzano di Tortona, Brignano Frascata, Carezzano, Carbonara Scrivia, Casalnoceto, Casasco,
Cassano Spinola, Castellania, Castellar Guidobono, Castelnuovo Scrivia, Cerreto Grue, Costa
Vescovato, Dernice, Fabbrica Curone Garbagna,
Gavazzana, Gremiasco, Guazzora, Isola San’Antonio, Momperone, Monleale, Montacuto, Montegioco, Montemarzino, Paderna, Pontecurone,
66 - Quaderni Padani
Pozzol Groppo, Pozzolo Formigaro, Sale, San
Sebastiano Curone, Sant’Agata Fossili, Sardigliano, Sarezzano, Spineto Scrivia, Stazzano,
Tortona, Viguzzolo, Villalvernia, Villaromagnano, Volpedo, Volpeglino.
La lingua padana e tutte le sue varianti locali
appartengono al grande ceppo delle parlate celto-romanze, cui appartengono anche l’Occitano
e l’Arpitano (o Franco-Provenzale).
L’Occitano è presente in forma prevalente e in
coesistenza con parlate piemontesi nei comuni
di Acceglio, Aisone, Argentera, Bagnolo Piemonte, Barge, Bernezzo, Bellino, Borgo San
Dalmazzo, Boves, Briga Alta, Brondello,
Brossasco, Canosio, Caraglio, Cartignano,
Casteldelfino, Castellàr, Castelmagno, Celle di
Macra, Cervasca, Chiusa di Pesio, Crissolo,
Demonte, Dronero, Elva, Entràcque, Envie,
Frabosa Soprana, Frabosa Sottana, Fràssino,
Gaiola, Gambasca, Isasca, Limone Piemonte,
Macra Albaretto, Marmora, Martiniana Po,
Melle, Moiola, Montemale, Monterosso Grana, Oncino, Ostana, Paesana, Pagno, Peveragno,
Piasco, Pietraporzio, Pontechinale, Pradléves,
Prazzo, Rossana, Revello, Rifreddo, Rittana,
Roàschia, Robilante, Roccabruna, Roccaforte
Mondovì, Roccasparvera, Roccavione, Sambuco, Sampéyre, San Damiano, Sanfrònt,
Stroppo, Valdieri, Valgrana, Valmala, Valloriate, Venasca, Vernante, Villar San Costanzo,
Vignolo e Vinàdio in Provincia di Cuneo; e nei i
comuni di Angrogna, Bardonecchia, Bibiana,
Bobbio Pellice, Bricherasio, Campiglione e
Fenile, Cantalupa, Cesana, Chiomonte, Clavière, Exilles, Fenestrelle, Frossasco, Inverso
Pinasca, Luserna San Giovanni, Lusernetta,
Massello, Oulx, Perosa, Perrero, Pinarca, Pomaretto, Porte, Pragelato, Prali, Pramollo, Prarostino, Rorà, Roure, Roletto, Salbertrand, Salza di Pinerolo, San Germano Chisone, San
Pietro Val Lemina, San Secondo di Pinerolo,
Sauze di Cesana, Sauze d’Oulx, Sestriere, Torre Pellice, Usseaux, Villar Pellice e Villar Perosa
in Provincia di Torino.
Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000
Strettamente imparentato con l’Occitano è il
Brigasco che in Piemonte interessa porzioni del
territorio del comune di Briga Alta, in Provincia
di Cuneo.
L’Arpitano o Franco-Provenzale è presente in
forma prevalente e in coesistenza con parlate
piemontesi nei comuni di Ala di Stura, Balme,
Borgone Susa, Bruzolo, Bussoleno, Cantoira,
Céres, Ceresole Reale, Chialamberto, Chianocco, Condove, Giaglione, Gravere, Groscaval-
lo, Ingria, Lémie, Locana, Màttie, Meana di Susa, Mezzemile, Mompantero, Moncenisio, Noasca, Novalesa, Ribordone, Ronco Canavese, San
Didero, San Giorio di Susa, Susa, Usseglio,
Valprato Soana, Venalzio, Villar Focchiardo e
Viù, in provincia di Torino.
Le varianti locali delle lingue walser interessano i territori dei Comuni di Alagna Valsesia,
Rima San Giuseppe, Fobello e Rimella (Provincia di Vercelli), e Macugnaga, Ornavasso e Formazza (Provincia di
Aree di influenza linguistica
Verbania). Esse sono
Lingue padane – 1 Area piemontese del Padano continuo, 2 Area lombarda occi- parlate alemanne che
dentale del Padano continuo, 3 Area ligure
appartengono al granAltre lingue celto-romanze – 4 Arpitano, 5 Occitano, 6 Brigasco
de gruppo linguistico
7 Lingue germaniche
tedesco.
Le lingue occitane,
franco-provenzali e
walser hanno ottenuto
un recente riconoscimento giuridico. Larga
parte dei Comuni indicati come interessati
da tali lingue hanno
già espressamente manifestato la loro volontà (come previsto
dalla Legge 482) di
usufruire delle forme
di tutela linguistica offerte. In particolare,
già 95 comuni sui 118
indicati hanno optato
per l’Occitano.
Il fattore linguistico
ha sempre rappresentato un punto di forza
ma anche di debolezza
del mondo autonomistico
piemontese.
Troppi piemontesisti
non hanno saputo cogliere il vero grande
valore della ricchezza
rappresentata dalla varietà linguistica presente all’interno degli
attuali confini regionali. I migliori di essi
(Tavo Turat, Barba Toni Bodrero e altri) si
sono dedicati con attenzione e rispetto alla
valorizzazione di tutte
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Quaderni Padani - 67
le presenze etnolinguistiche; i peggiori continuano ad affermare un poco autonomistico microimperialismo piemontese negando valore ed
esistenza alle diversità linguistiche. Proprio solo con la mancanza di vera coscienza autonomistica (ed espressione di fatto di una volontà
centralista e profondamente antidemocratica) si
può infatti spiegare l’insistenza a negare dignità
linguistica e identitaria agli Occitani e agli Arpitani delle valli piemontesi. Il vizio autoritario
e centralista è poi aggravato dalla pretesa di affermare l’unicità di una lingua piemontese dotata di sintassi e ortografia rigidamente codificate. Il tutto nasce dalla interpretazione equivoca e capziosa del lodevole sforzo di ambienti
culturali che hanno cercato di affermare il giusto valore letterario e storico del Torinese (gabbato per Piemontese), di cui hanno normato la
grafia nel 1933. Su questa base troppi piemontesisti hanno cercato di limitare o di cancellare
il valore di tutte le varianti locali e di imporre
una grafia che, al di fuori di un ristretto gruppo
di puristi, non viene rispettata né compresa, come dimostra la rigogliosa produzione letteraria
e poetica provinciale costruita su grafie locali
assai più intelleggibili. L’attaccamento a un Piemontese centralista è spesso giustificato dalla
paura di una visione padanista dell’autonomismo e dalla ricorrente ma ingiustificata paura
di una egemonia esterna, a volte individuata nel
venetismo e più spesso in un lombardismo, peraltro inesistente sul piano politico e soprattutto su quello linguistico.
Si affida con ciò la difesa della cultura piemontese non già alla propria innegabile forza
ma a trincee e confini privi di ogni giustifica-
68 - Quaderni Padani
zione storica e identitaria, si invoca addirittura
una poco scientifica (e poco storica) non-parentela con le lingue padane in favore di maggiori
comunanze con lingue transalpine: un Francese lontano e all’occorrenza assai più invasivo
del Padano e anche dell’Italiano, e un Occitano
di cui peraltro si sostiene periodicamente l’inesistenza. A motivare gli strenui difensori del
centralismo linguistico (e non solo linguistico)
piemontese ci sono poi anche i notevoli finanziamenti che cominciano a girare nell’ambiente
e che spiegano certi feroci patriottismi ma anche talune furibonde risse giudiziarie che coinvolgono i sciovinisti piemontardi più infervorati.
La difesa delle lingue locali è atto prioritario
di ogni movimento autonomista ma va fatta
sulla base del riconoscimento delle reali condizioni culturali e identitarie. Il Piemontese centralista non ha avuto nessun riconoscimento (a
parte quello del tutto formale del Bureau Européen pour les Langues moins répandues) perché non ha forza politica: le lingue padane (o,
per dirla con Salvi, la “lingua Padana e i suoi
dialetti”) disporrebbero invece di assai più convincente forza scientifica e forza politica per
trovare valorizzazione. Per questo l’azione deve
essere unitaria a scala padana e locale a difesa
di tutte le varianti. Si devono implementare
tutte le lingue padane anche con una grafia
unitaria, le si deve valorizzare per “famiglie” (e
quella piemontese è una delle più importanti) e
ne devono difendere e valorizzare tutte le varianti locali. In questa battaglia si vedrà chi è
autonomista e chi è centralista (magari sovvenzionato).
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Contrassegni di confusione
R
iproduciamo una ventina
di contrassegni elettorali
impiegati da formazioni,
gruppi e movimenti autonomisti piemontesi. Si tratta di una collezione largamente incompleta dei simboli utilizzati in qualche
elezione negli ultimi quindici anni.
Fa eccezione solo il simbolo
del MARP che è molto più vecchio ma che viene riproposto
solo per evidenziare la sua
funzione di origine anche
grafica cui si sono ispirati
molti dei segni più moderni.
Sono infatti largamente
presenti il termine “Piemonte” e il drapò rigirato in
tutte le salse.
Le eccezioni sono costituite
dal Leone della Liga utilizzato anche in Piemonte per le elezioni
europee del 1984, dal simbolo
dell’Union Autonomiste (dependance valdostana del
piemontesismo) e dall’inquietante teschio della formazione contro la droga e
l’immigrazione comparsa
all’inizio degli anni ’90 per
iniziativa di Gremmo.
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Quaderni Padani - 69
Stravaganze grafiche post-modern sono
diventate i simboli dei movimenti nati dalla scissione del 1999: animali e schemi si
distaccano nettamente dalla tradizione
70 - Quaderni Padani
iconografica e denotano con chiarezza anche eccessiva la loro dipendenza dalla
computer graphics, oltre che inquietanti
citazioni mondialiste.
La lettura dei simboli utilizzati
consente di tracciare un percorso che parte dalla grafica molto provinciale e artigianale
degli inizi (ma fortemente
legata a simbolismi antichi
e radicati), passa per rielaborazioni del tema e per approssimazioni simboliche
anche piuttosto brutte (montagne stilizzate, alpini, fiori e
stambecchi), tocca vertici di incisività con i segni leghisti (in seguito arricchiti dalla profonda arcaicità simbolica del Sole delle
Alpi), e finisce con la paccottiglia da depliandt pubblicitario
degli insetti disneyani e degli
aquilotti obesi e coronati di
simboli massonici, quasi sicuramente frutto di dabbenaggine culturale.
I simboli vengono riportati in
ordine cronologico approssimativo di comparsa.
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