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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VI - N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 S peciale: L’autonomismo piemontese 32 La Libera Compagnia Padana Quaderni Padani Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara Direttore Responsabile: Alberto E. Cantù Direttore Editoriale: Gilberto Oneto Redazione: Alfredo Croci Corrado Galimberti Flavio Grisolia Elena Percivaldi Andrea Rognoni Gianni Sartori Carlo Stagnaro Alessandro Storti Grafica: Laura Guardinceri Collaboratori Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante, Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Fabrizio Bartaletti, Alessandro Barzanti, Batsòa, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Gustavo Buratti, Beppe Burzio, Luca Busatti, Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo de Leonardis, Alexandre Del Valle, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Marco Giabardo, Davide Gianetti, Giacomo Giovannini, Michela Grosso, Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian Merlo, Martino Mestolo, Ettore Micol, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura Rangoni, Igino RebeschiniFikinnar, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Marco Signori, Stefano Spagocci, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili. Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95 Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277 Periodico Bimestrale Anno VI - N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. L’autonomismo piemontese Il Partito dei Contadini - Gustavo Buratti Da “La Permanente” al M.A.R.P.: breve viaggio nell’autonomismo piemontese - Beppe Burzio U.O.P.A. - Nascita e declino di un movimento autonomista - Donata Legnani Maggi Il Movimento Autonomista Occitano - Batsòa Coumboscuro - Adriano Anghilante Il MAV - Movimento Autonomista Valsesiano - Marco Giabardo Le comunità walser di fronte all’autonomia - Ferruccio Vercellino Il voto valdese - Ettore Micol I più recenti sviluppi dell’autonomismo piemontese - Martino Mestolo Intervista ai personaggi della cultura piemontesista Intervista a Tavo Burat - Intervista a Beppe Burzio Intervista a Sergio Hertel - Intervista a Ettore Micol Intervista a Mariella Pintus - Intervista a Gioanin Ross Intervista a Silvano Straneo L’autonomismo piemontese oggi - Gilberto Oneto Documentazione storica Note sulla condizione linguistica in Piemonte Contrassegni di confusione 1 2 5 12 20 23 25 26 28 30 39 56 62 66 69 L’autonomismo piemontese L a Padania è la grande e antica madre di Piccole Patrie gloriose e dalla robustissima coscienza identitaria. Una di queste è la Patria Cita piemontese. Il Piemonte è da sempre in prima linea nella battaglia autonomista di cui è stato addirittura il più vecchio e più efficace laboratorio di incubazione. Se con il Partito dei Contadini sono apparsi i primi segni etno-identitari del Novecento in Padania, è con il MARP che si è avuta la prima manifestazione di maturità dell’autonomismo fuori dalle più alte valli alpine. Non è stato neppure un caso che la Carta di Chivasso sia stata redatta nel cuore del Piemonte. Fra gli anni ’70 e ’80 i semi gettati dal MARP (ma anche da valdostani come Salvadori, baschi come Sagredo e occitani come Fontan) hanno cominciato a dare i loro frutti: e quella piemontese è stata una delle messi cresciute più in fretta e più rigogliosamente. Da allora l’autonomismo subalpino ha conosciuto giorni di vittorie e di sconfitte, di unità e di sciagurate divisioni. Questo numero dei Quaderni Padani è interamente dedicato a cercare di scrivere la storia complessa e spesso contraddittoria di questo periodo, e di comprenderne le motivazioni: lo fa Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Allegoria del Piemonte nel primo volume del Theatrum Sabaudiae (1682) essenzialmente descrivendo le vicende dei movimenti autonomisti e con una serie di interviste ad alcuni dei personaggi più autorevoli e significativi del piemontesismo contemporaneo. In chiusura, vengono riportati alcuni documenti che servono a capire meglio gli avvenimenti di cui si è parlato. Quaderni Padani - 1 Il Partito dei Contadini di Gustavo Buratti N el 1921 nasceva nell’Astigiano una formazione a torto dimenticata, radicata nella civiltà contadina e portatrice di valori etnici: guardata con diffidenza e accusata di gretto corporativismo dai comunisti, perseguitata dai fascisti, visse faticosamente fino al 1970. Piero Gobetti in Risorgimento senza eroi scriveva a proposito del Piemonte prerisorgimentale: “Il Piemonte è un paese naturalmente montuoso, senza facili comunicazioni col mare, senza vie commerciali, rovinato dalle guerre, dai tributi, con privilegi ecclesiastici e feudali (...). Ma il dramma di queste sofferenze (nelle plebi piemontesi), messe a ferro e fuoco per la loro resistenza ad una tassa iniqua (anche durante la “liberazione” francese, n.d.r.), la cupa rassegnazione dei contadini delle valli alpine e della contea di Nizza, condannati alla fame ed ad un lavoro senza redenzione, capaci di tutti gli egoismi e di tutte le sopportazioni durante secoli di guerre che non avevano alcun senso per la loro vita, gratuite ed infernali come la peste, l’inutilità di questo dolore per chi lo soffre è uno degli aspetti essenziali della preparazione al Risorgimento”. Il mondo contadino fu spremuto per finanziare la nascente industria nello Stato unitario attingendo dalla Cassa Depositi e Prestiti e dai risparmi postali, e formare così il primo plafond all’accumulazione originaria. Alla gente delle campagne, “le guerre per l’indipendenza prima, e le guerre coloniali in seguito, ultima quella di Libia, propagandate con la retorica dei governi assolutisti, pur con la patina liberale acquisita dal Risorgimento, avevano sempre riservato il diritto-dovere di combattere, di soffrire e di morire per una Patria che nulla faceva per andare incontro alle proprie esigenze economiche e sociali”. In questa denuncia, e nella conseguente rivendicazione, Giuseppe Brandone vede correttamente l’origine del Partito dei Contadini (Quando si votava “contadino”, Gli amici del Moscato ed.: Alba, 1983), fondato come “Gruppo” nell’Astigiano nel 1920 da Urbano Prunotto e divenuto “partito” nel 1921; una formazione a 2 - Quaderni Padani torto dimenticata e che sino al 1970 ha coerentemente onorato il proprio motto: “Dare ai rurali una coscienza politica e agli Italiani una coscienza rurale”. Il programma era ispirato al socialismo riformista, ma sino al 1953 rimase indipendente da altre formazioni e subì una dura persecuzione da parte del fascismo. Il Partito si presentò per la prima volta alle elezioni del 1921, eleggendo alla Camera il suo fondatore Urbano Prunotto. La nuova formazione politica denunciava la secolare incomprensione del mondo urbano progressista per la civiltà contadina: una triste eredità trasmessa dai giacobini alla sinistra contemporanea. Il Partito Comunista, nato in quello stesso anno, guardava infatti con molta diffidenza al movimento politico rurale, tacciandolo di gretto corporativismo. Nelle elezioni del 1924 (le ultime democratiche, ma già condizionate dal fascismo al potere) il PcdI (Partito dei Contadini di Italia) otterrà quattro seggi: Prunotto, riconfermato; Giacomo Scotti, già deputato da due legislature nel Partito Popolare; il medico dottor Enrico Insabato, che assumerà la carica di segretario del partito; ed Alfredo Romanini, ex ufficiale eletto in Lombardia (con i voti della Valtellina). Quando il fascismo mostrerà il suo vero volto, si avrà la prima spaccatura del partito. I due deputati di estrazione autenticamente contadina denunciano al congresso del partito (1924) “l’intolleranza fascista e tutta la politica del partito dominante (in quanto) contraria all’interesse ed alle aspirazioni della classe contadina”; il consiglio nazionale, quindi, delibera che “il Partito abbia ad operare all’opposizione senza perdere la propria fisionomia”. Soprattutto il giornale Il contadino valtellinese (13 luglio 1924), che affiancava l’organo del partito, La voce del contadino (che cesserà le pubblicazioni soltanto negli anni ‘60), si distingue per la dura opposizione al fa- L’articolo era stato originariamente pubblicato sul numero 11 (Anno VII, 1986) di Etnie. Viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 scismo. Gli altri due parlamentari, di estrazione borghese, plauderanno invece al fascismo e saranno espulsi dal partito. L’onorevole Giacomo Scotti lascerà però l’Aventino, dove si era trovato emarginato e senza alcun peso, e tornerà in Parlamento, schernito dalle beffe dei fascisti; il 9 novembre del 1926 l’onorevole G. Scotti è fra i soli 12 deputati che voteranno contro il ripristino della pena di morte: ciò gli varrà un’aggressione nella Camera dei deputati da parte dei fascisti Starace e Ceci che, in pratica, gli abbreviarono la vita. Ricorderà Alessandro Scotti: “Mio fratello si difese come poté, ma gli fu offeso il cervelletto, gli si offese il nervo sciatico, tanto che dovette vivere il restante della vita camminando zoppo e con il capogiro”. Già nel 1922, poco dopo la marcia su Roma, La voce del contadino era stata bruciata in Piazza San Martino ad Asti, dove il PCdI aveva la sede. L’11 novembre di quell’anno, le squadracce fasciste distrussero la “Casa del contadino” (che era stata inaugurata il 1° maggio) ed assaltarono i fratelli Scotti, Giacomo ed Alessandro, che si difesero sparando dalla loro cascina di Montegrosso d’Asti; nel 1925 Alessandro Scotti, mentre il fratello deputato si schierava con l’opposizione, riparava in esilio in Francia, dove si stabilì ad Amiens iscrivendosi all’Italia Libera. Alla liberazione il Partito dei Contadini risorse con nuovo slancio. Chi scrive questa nota fece da ragazzo il suo primo comizio proprio con l’onorevole Alessandro Scotti nel basso Biellese, a Cavaglià; ed è quindi in grado di integrare con alcuni dati la storia di Brandone. Alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946, il Partito si presentò nelle circoscrizioni di Torino-Novara-Vercelli (1,1%; preferenze: F. Pianta, 1.750; G. Osella, 1.094; Rigazio, 1.020); Cuneo-Alessandria-Asti (8,8%; in provincia di Asti il 20,9%!!; preferenze: Alessandro Scotti, 20.776, eletto deputato; D. Giovine, 12.365; E. Baino, 11.467; U. Prunotto, ex deputato prefascista, 9.133; G. Cerrutti, 6.958); Liguria (0,3%; preferenze: E. Airenti, 247; G. Traverso, 99; F. Enrico, 91); Como-Sondrio-Varese (1,1%; in provincia di Sondrio: 5,1%; preferenze: Alessandro Rota, leader dei contadini valtellinesi nel prefascismo, 3.216; Galdino Pini, 505; C. Giussani, 276); Roma (0,2%; preferenze: Equilio Tocchi, 667; G. Milani, 461; C. Prosperi, 180); L’Aquila- Chieti- Pescara- Teramo (0,6%; preferenze: Giuseppe Menotti De Francesco, poi rettore dell’Università degli Studi e deputato del PNM, 552; Ugo RamAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 pelli, 57). L’onorevole Francesco Caroleo, eletto in Calabria per il Blocco Nazionale della Libertà, aderirà subito al Partito dei Contadini d’Italia che potè così contare su due deputati. Ma già nel 1947, nelle Langhe, si delineò proprio nell’area più forte il contrasto tra il gruppo di Scotti, cattolico e moderato, e quello del professor Cerruti, singolare personaggio della sinistra laica (oggi lo diremmo “radicaleggiante”) che alla lotta dei contadini dedicò tutta la sua esistenza, scontrandosi sempre con i metodi, piuttosto paternalistici e “giolittiani” dell’onorevole Scotti. Cerruti fondò allora il “Partito Indipendente dei Contadini” che presentò, sotto il simbolo della “vanga” (il PCdI aveva la “vanga, la spiga ed i grappoli d’uva”, il tutto chiuso in una losanga), la propria lista nel II collegio alle elezioni del 1948, riportando 6.754 voti (circa 0,8%) contro i 55.779 (6,5%) del PCdI (scottiano) presente nei seguenti collegi: Torino-Novara-Vercelli (1 %; preferenze: A. Scotti, 2.551; R. Baronis, 1907; G. Trivero, 1550); Cuneo-Alessandria-Asti (6,5%; A. Scotti, 14.553, rieletto; D. Giovine, 13. 696; E. Bajno, 11.800; Lidia Prunotto, 8.792; G. Boeris, 8.790); Milano-Pavia (0,3%; Virgilio Forni, 1.210; P. Secondi, 661 ; A. Borioli, 341); Como-Sondrio-Varese (0,7%; Sondrio: 2, l; M.L. Pedrini, 799; G. Rubini, 590; F. Jachello, 498); Brescia-Bergamo (0,1%; M. Bellometti, 35); Firenze-Pistoia (0, 1 %; F. Vieri, 237); Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli Piceno (0,2%; S. Liberati, 143); Perugia-TerniRieti (0,4; E. Carloni, 148); Roma-Viterbo-Latina-Frosinone (0, 1 %; E. Mercurio, 183); Campobasso (1,1%; G. Baratta, 744); BeneventoAvellino-Salerno (0,2; C. Prosperi, 195); Catanzaro-Cosenza-Reggio Calabria (0,2; F. Caroleo, deputato uscente, 854: N. Tropeano, 162); Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanisetta (0,05 %; M. Giancana, 54). Con il professor Cerruti (che aveva raccolto 2.315 preferenze) nei secessionisti passarono anche Agostino Pera e Francesco Pianta (rispettivamente 1.368 e 769 preferenze). Queste saranno le ultime elezioni politiche in cui i contadini presenteranno proprie liste. Nel 1953, dopo un fallito tentativo di unificazione, l’onorevole Scotti si presenterà con Giovanni Bosia, l’uno per Camera e l’altro per il Senato, nelle liste del PNM unendosi alla componente dei monarchici antifascisti (cui apparteneva anche il milanese onorevole Cesare degli Occhi); entrambi saranno eletti. Il professor Cerruti invece, con il suo “Movimento Rurale Quaderni Padani - 3 Italiano”, si presenterà nelle liste del PRI, che non ottenne seggi nella circoscrizione ma, proprio grazie all’apporto dei “cerrutiani”, cominciò a porre salde basi nell’Astigiano e nel Cuneese dove fino ad allora aveva avuto un seguito assai scarso. Nel 1958 ci fu il grande congresso all’Alfieri di Torino; dopo un’apparente esaltante unificazione (che lasciava fuori però l’onorevole Scotti) si addivenne ad un’ulteriore suddivisione del movimento per le elezioni politiche: l’onorevole Scotti si ripresenterà con i monarchici, senza essere rieletto; Cerruti rimarrà fedele all’intesa con il PRI; il senatore Bosia, Bruno Massobrio, il professor Boerisi appoggeranno “Comunità” di Olivetti. Al Congresso dell’Alfieri partecipò anche una delegazione del Partito Sardo d’Azione (dottoressa Casu) che si dichiarò molto vicina al movimento politico rurale piemontese, tanto che si addivenne ad un’intesa elettorale. Mentre all’onorevole Scotti rimane la vecchia testata della Voce del contadino, il PCdI passa al gruppo del professor Cerruti. Organo del partito diventa Il Rurale italiano che fino ad allora aveva guidato la dissidenza. Cerruti si ripresenta candidato alle elezioni politiche del 1963 con il PRI, ancora una volta senza successo; invece sarà eletto uno dei vecchi leader, Bruno Massobrio, che aveva accettato la candidatura del PLI nel collegio senatoriale di Torino-Fiat-Mirafiori. L’onorevole Scotti è travolto dal crollo dei monarchici. Il PCdI diventa “Partito Rurale Demo- 4 - Quaderni Padani cratico” e si dichiara favorevole al centrosinistra; l’onorevole La Malfa partecipa personalmente al V Congresso (Asti, 5 settembre 1965). Nel 1968, Cerruti ( che era stato rieletto sindaco a Cossano Belbo e dal 1964 Consigliere provinciale di Cuneo) si presenterà per l’ultima volta nelle liste dell’Edera. Nel gennaio 1970 il PRD confluisce nel PRI e nel maggio di quell’anno muore il professor Cerruti. Nel 1971 muore anche il senatore Massobrio; deceduti pure gli ex parlamentari onorevole Scotti e senatore Bosia. Nella storia politica della campagne piemontesi (e valtellinesi) il Partito dei Contadini ha svolto un suo ruolo. In un certo senso, fu anche un partito “etnico”, radicato com’era nella civiltà contadina. Memorabili sono i comizi in piemontese del professor Cerruti; ed in quella lingua erano quasi tutti gli interventi ai congressi. L’auspicio era fé vòla, vincere, far cappotto (nel gioco dei tarocchi o nel pallone elastico, e per traslato anche nella lotta politica). Quel partito fu sotto alcuni aspetti antesignano dei “Verdi”, i quali oggi purtroppo dimenticano (non dovrebbero, però, dimenticare) che alla battaglia ecologica va unita quella per la difesa dell’agricoltura, sempre più minacciata dalla speculazione edilizia e dallo sviluppo urbano in genere. Le cascine che nella Padania ancora resistono, assediate dal cemento che le vuole spazzar via, continuano la lotta che fu dei Prunotto, Scotti e Cerruti. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Da “La Permanente” al M.A.R.P: breve viaggio nell’autonomismo piemontese di Beppe Burzio C redo che un discorso serio sul MA.R.P. (Mo- Peruzzi toscano, Gioacchino Napoleone, marvimento per l’Autonomia Regionale Pie- chese di Pepoli e cugino dell’imperatore francemontese) e sul suo fondatore, professor En- se, emiliano e Silvio Spaventa napoletano, tutti rico Villarboito, che caratterizzarono la vita po- in posizioni di rilievo ai ministeri dell’interno e litica piemontese alla metà degli anni cinquanta degli esteri. e che sono considerati, non a piena ragione, coUn governo che doveva far dimenticare ai citme prima espressione e primo coordinatore de- tadini lo scandalo delle Ferrovie Meridionali gli impulsi autonomistici della nostra regione, (l’amministrazione italiana appena nata aveva debba partire da ben più lontano. già iniziato le pratiche delle tangenti!) e far loro Debba partire da quel lontano settembre del digerire il peso delle nuove imposizioni fiscali 1864 quando, nelle sere del 21 e 22, i Torinesi (nihil sub sole novi!). che dimostravano, in piazza Castello prima e in Un governo che aveva deciso di prendere due piazza San Carlo poi, contro il trasferimento piccioni con una fava (sviare l’attenzione popodella capitale a Firenze, furono presi a fucilate lare e ricavarne un utile personale) e, in consedall’esercito italiano e lasciarono sul selciato guenza, aveva sollevato la “questione della capiuna sessantina di morti e un centinaio abbon- tale” da risolvere. E, per risolverla, aveva mandante di feriti. dato a Parigì, all’insaputa di tutti, Parlamento, Pur nella tragicità dell’evento (i morti son Re e persino dell’Ambasciatore in Francia Cosempre morti!), non sono le vittime a suscitare stantino Nigra, che ne fu informato solo al mol’indignazione dei pochi piemontesi che cono- mento conclusivo, due factotum: Visconti Venoscono il copione della tragedia: nel travaglio sta e il marchese di Pepoli, da dove erano tornati conseguente alla formaziocon un trattato secondo il ne di uno stato qualche avPier Carlo Boggio quale la Francia avrebbe rivenimento luttuoso può estirato i suoi battaglioni poser messo in bilancio. sti a difesa degli Stati PontiQuel che indigna è che fici, e l’Italia avrebbe rinunquelle dimostrazioni, quegli ciato a Roma e, per dimospari e quei morti furono strare la sua buona fede, voluti, progettati e organizavrebbe trasferito la capitale zati dal governo in carica. Il da Torino a Firenze. primo governo italiano nel A questo punto era necessaquale i piemontesi non averio un atto di forza che vano più un peso determistroncasse sul nascere le lenante. gittime proteste dei PieUn governo nel quale la montesi; e un atto di forza gestione del potere era affifu studiato, programmato e data ad una cricca italiana organizzato; si iniziò con genuina e composita: Marco una campagna di stampa Minghetti bolognese e priantipiemontese alla quale mo ministro, con Visconti parteciparono tutti i giornaVenosta lombardo, Ubaldino li di orientamento governaAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 5 tivo, compresi quelli di Torino, si proseguì con l’organizzazione, a cura del ministero dell’interno, di manifestazioni antipiemontesi che videro entusiasticamente coinvolte tutte le province italiane con la sola eccezione di Brescia, il cui prefetto, Zino Zini, ebbe a scrivere: “In parola d’onore mi sento soffocare dal dispetto per il trasloco della capitale che è l’obiettivo di una lunga e coperta campagna contro il Piemonte, compita, ruminata, intrappresa in società dallo Spaventa e dal Peruzzi, complice inscente l’insipido Minghetti ...”, e si finì col dirottare a Torino sobillatori e mestatori pagati dalla polizia, come l’ispettore Buffoni di Milano e il questore di Palermo Serafini, a Torino in quel momenti “per diporto”. Con queste premesse la dimostrazione del popolo piemontese non poteva che avvenire. Ed avvenne. Ma doveva anche scorrere sangue e anche a ciò ebbe a provvedere il lungimirante governo Minghetti. Vietò al questore torinese Chiapusso il tempestivo intervento della Guardia Nazionale (milizia cittadina), fece invadere Torino da seimila militari italiani accuratamente scelti fra le reclute di regioni lontane per aver la certezza che non Enrico Villarboito comprendessero il piemontese e, dulcis in fundo, fornì anche i due figuri (uno dei quali, secondo testimonianze popolari mai avallate da documenti ufficiali, fu il già nominato filosofo napoletano Silvio Spaventa) che, sparando due colpi all’impazzata nel momento di maggior tensione, diedero il via all’operazione. E fu massacro. Da questa strage, e soprattutto dalle attività politiche che la precedettero e la seguirono emersero alcune verità inconfutabili. La prima è che fra tutti i popoli che abitavano la penisola nessuno, neanche quello piemontese, aveva una vocazione unitaria e se il popolo piemontese partecipò al Risorgimento con uomini e soldi, 6 - Quaderni Padani addirittura al di là delle proprie possibilità, la sua partecipazione fu coatta: tasse e ferma militare (di nove anni!) dipendono dalle leggi e non da generosità spontanea. E’ anche vero che quell’esoso prelievo governativo di uomini e soldi non provocò agitazioni popolari, ma ciò è dovuto alla profonda lealtà che i piemontesi hanno sempre avuto verso i propri governanti. Gli altri popoli subirono il Risorgimento nella più completa indifferenza (i volontari italiani furono in tutto poco più di 14.000). Probabilmente i popoli italiani ritenevano le loro condizioni di vita accettabili e, specialmente al nord, li gratificava l’idea di esser parte di un grosso Impero. Il professor Miglio, per alcuni anni ideologo della Lega Nord, dichiarò con orgoglio, alcuni anni fa, che “sua nonna contava le galline in tedesco”. In Piemonte le galline e quant’altro si contavano in piemontese e la differenza è meno piccola di quel che possa apparire. L’altra inconfutabile verità è che i vari popoli italiani, tutti, dal Ticino a Pantelleria, odiavano i Piemontesi che consideravano invasori barbari montanari ignoranti e di scarso valore intellettuale. Carlo Moriondo, insigne giornalista, scrittore apprezzato e profondo conoscitore della storia risorgimentale, ha scritto, in merito al Cuore di De Amicis, che considerava uno dei veicoli propagandistici più efficaci per promuovere l’idea dell’Italia unita, che l’episodio della “Piccola vedetta lombarda”, dove un giovanetto lombardo perde la vita per segnalare, salendo su un albero, i movimenti dei nemici austriaci alle truppe piemontesi, sarebbe stato molto più credibile e rispondente a verità se le partì fossero state invertite, cioè se i segnali fossero stati a favore degli Austriaci e contro i Piemontesi. D’altra parte bisogna riconoscere che i Piemontesi ricambiavano con generosità, e con qualche ragione in più, l’odio che ricevevano. Avevano creduto che il sangue versato e i tanti soldi presi dai loro portafogli, per mantenere le migliaia di fuorusciti che il Piemonte aveva ospitato, avrebbero dato loro, nel nuovo stato, una posizione di privilegio, non foss’altro che per gratitudine. E si trovarono a essere emarginati. Tanto per fare un esempio, alle prime elezioni del Regno d’Italia si aveva diritto al voto se si sapeva leggere e scrivere e se l’ammontare delle tasse annualmente versate raggiungeva le venti Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 lire. Per i Piemontesi, e solo per loro, questo limite fu elevato a quaranta lire. Queste verità inconfutabili, che il massacro di Torino aveva fatto emergere, spinsero uno sparuto gruppo di deputati piemontesi, guidati da Pier Carlo Boggio, a cercare di opporsi alla straripante melassa italianista che finanzieri astuti e politicanti corrotti spandevano a piene mani sul nuovo stato. Facendo proprie le teorie del lombardo Cattaneo e consci che, essendo impossibile avere con gli Italiani quel rapporto di fratellanza, reclamizzato dal nuovo inno di Mameli con un motivo musicale più congruo alla “sagra dei taralli” che alla dignità di uno Stato, tanto valeva avere con loro solo un rapporto di buon vicinato e di collaborazione, anche per non irridere al tanto sangue piemontese versato. E diedero vita, il 30 ottobre del 1864 a un movimento politico battezzato con il nome altisonante di: Commissione Permanente dei Comitati Riuniti, subito condensato in “La Permanente” i cui scopi erano quelli di ottenere, in qualche modo, l’organizzazione federale dello Stato affinché fossero riconosciuti i meriti delle “antiche province” (quelle piemontesi), e di ottenere altresì che sul massacro di Torino fosse fatta piena luce. E’ quindi conseguentemente chiaro che il primo movimento autonomista piemontese fu “La Permanente” di Pier Carlo Boggio. Che durò poco. Affondò con il Boggio, insieme alla nave Re d’Italia e 600 marinai, il 20 luglio del 1866, nelle acque di Lissa, in Dalmazia, dove la flotta italiana subì la prima delle tante ingloriose sconfitte della sua storia. Il deputato Boggio si trovava su quella nave perché aveva accettato la carica di governatore dell’Istria liberata, carica a valere se la battaglia fosse stata vinta e l’Istria liberata. E’ dunque improbabile che, anche ammesso che tutto fosse andato secondo i piani, Boggio avrebbe potuto continuare dall’Istria a essere l’animatore de “La Permanente”. Dopo d’allora, sul fronte autonomista, novant’anni di assoluto silenzio. Novant’anni duAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 rante i quali i governi italiani, tanto monarchici che repubblicani, vietarono l’uso della lingua piemontese e il suo insegnamento nelle scuole, tradussero gli onorati nomi di paesi e città del Piemonte in un italiano beota e approssimato, e derubarono i Piemontesi di tutte (tutte!) le attività industriali create in Piemonte per trasferirle, come la capitale, in altre regioni. Per la verità qualche piccolo sussulto si ebbe negli anni ‘20 con il “Partito dei contadini”, fondato in provincia di Cuneo che aveva, nello statuto, qualche riferimento autonomista e, soprattutto, nel 1943 quando i capi delle formazioni partigiane delle Valli del Pellice e d’Aosta, riuniti a Chivasso il 19 dicembre, stilarono un documento, la “Carta di Chivasso” sul quale espressero a chiare lettere gli scopi per i quali si battevano, tra i quali, prime fra tutti, le autonomie culturali ed economiche. Tessera del MARP Ma della Resistenza si impadronirono presto le segreterie dei partiti e anche su questo documento, tanto giusto e, perciò, altrettanto inopportuno, calò presto la coltre del silenzio. Ed arriviamo agli anni cinquanta e al M.A.R.P. Il M.A.R.P., Movimento per l’Autonornia Regionale Piemontese, nacque a Torino nel settembre del 1955, a opera del professor Enrico Cesare Carlo Villarboito. E nacque bene. Il primo articolo dello statuto diceva: “Il Movimento per l’Autonomia Regionale del Piemonte, con sede in Torino, è un’associazione di cittadini che si propone il conseguimento dell’autonomia regionale per il Piemonte entro l’unità politica dello stato italiano e sulla Quaderni Padani - 7 base dei principi sanciti dalla Costituzione, e giornali, la discussione ancora aperta sui dismira, con i mezzi democratici consentiti, alla servizi e sugli ambulatori dell’INAM a Torino, ed tutela degli interessi presenti e futuri della re- è perciò inutile che vi ricordi, per dichiarazione gione”. esplicita dello stesso dirigente democristiano Questo statuto, firmato dal suo primo presi- che ad essi sovrintende, come essi siano del tutdente, professor Villarboito e dai primi cinquan- to inadeguati ed insufficienti, malgrado i numeta soci in qualità di testimoni, fu depositato alla rosi miliardi che da Torino sono avviati a Roma. Questura di Torino. E questo, secondo chi scrive E di oggi, e voi l’avrete letto sui giornali, cocon il senno di poi, fu un errore poiché la Que- me sia stata ancora ridotta per Torino la sovstura non è il luogo deputato alla conservazione venzione al Teatro Regio, cosicché il cartellone, degli atti pubblici e ciò consentì ad alcuni perso- già scarso l’anno scorso, si è ancora ridotto in naggi di dar luogo, poco dopo, a un contenzioso questa stagione. Questo a Torino, mentre per le su chi fosse l’effettivo titolare dei simbolo del altre città di eguale importanza, come Genova, M.A.R.P. Milano, Roma e Napoli la sovvenzione si aggira In origine H M.A.R.P. era nato come movi- su alcune centinaia di milioni e, per manifestamento d’opinione tendente a unire uomini poli- zioni straordinarie, mai concesse alla nostra tici piemontesi appartenenti a tutti i partiti del città, le sovvenzioni raggiungono cifre iperbolicosiddetto arco costituzionale, affinché impron- che. tassero la loro azione al conseguimento, per la E di oggi, e voi l’avete letto sui giornali, a regione piemontese, di quella autonomia ammi- quale imponente carico di miliardi ammonta il nistrativa prevista dalla Costituzione italiana. deficit dei Comuni italiani; tra essi primeggia E questo fu un altro errore di cui si resero su- naturalmente quello lasciato dall’uscente ambito conto, constatando che tutti i politici, di ministrazione democristiana di Roma che, senqualsiasi colore siano e da qualsiasi posizione za considerare le somme avute con le leggi geografica provengano, sono molto più sensibili stralcio, si aggira sui 15 miliardi e, di ben poco agli interessi del partito cui devono lo scranno inferiore è quello della città di Napoli che gode parlamentare che a quelli della terra che li ha del privilegio di essere nel mezzogiorno e quindi espressi. E, secondo logica, decisero di presenta- dei favori dell’omonima Cassa. A questi deficit re una lista M.A.R.P. alle elezioni amministrative comunali dovrà pensare, come per il passato, lo (riferite solo a Comuni e Province visto Stato e, come al solito, a pagare in parche le Regioni, pur previste dalla Cote sarà il contribuente torinese, restituzione, non esistevano ancora) stando a lui la ben magra soddisfache si sarebbero tenute nella prizione di ricevere le congratulaziomavera del 1956. ni del presidente della Repubblica Sui motivi socioeconomici, che per aver chiuso il bilancio in paistigarono questa partecipazione reggio. elettorale, è illuminante il discorso Mette conto di segnalare alcune di presentazione della lista, tenuto cifre non da noi inventale come dal capofila dei candidati M.A.R.P., scrisse l’on. Quarello, ma apprese dottor Michele Rosboch, al teatro Alsui giornali quotidiani, tra i quali fieri, il 10 maggio 1956, che viene qui Simbolo del MARP anche il Popolo Nuovo, per raffronriportato nella sua parte essenziale: tare il gravame fiscale sopportato dai “(..) Dopo questa lunga, ma necessaria, premes- torinesi con quelli di altre città: nell’esercizio sa chiarificatrice, concedetemi di esaminare 1955 i torinesi hanno versato procapite tributi con voi, serenamente e con obiettività, alcuni per lire 16.468, i romani 10. 960 ed i napoletani fra i più importanti problemi insoluti che ri- 5.5 70. guardano la nostra città ed il Piemonte, e da Inoltre dal 1951 al 1955 sono giunti a Torino cittadini coscienti giudicare l’operato delle ces- ben 123.000 immigrati, mentre nello stesso pesate amministrazioni, soprattutto per constata- riodo sono giunti a Roma ed a Milano rispettire il “nonfatto “. vamente 65. 000 e 45. 000 individui. Basta guardarsi attorno o scorrere le pagine Sono cifre che fanno riflettere e pensare. dei due nostri maggiori quotidiani per trovarvi Torino in cinque anni ha accolto tra le sue affioranti quali e quanti problemi sono ancora mura quasi un’intera città come Alessandria e da risolvere: è di oggi, e voi l’avrete seguita sui qui la gran parte dei nuovi residenti ha trovato 8 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 una sistemazione: Torino ha dato ad essi lavoro, gano dì tasca propria il loro aeroporto e contricasa e la speranza di una vita migliore. Gli uffi- buiscono a pagare quello delle altre città. ci municipali hanno dichiarato che la sistemaNon apriamo, per carità di patria, il libro dei zione di questi nuovi torinesi graverà per circa trasferimenti o dei tentati trasferimenti di enti 1. 200. 000 lire. Non credo che la Cassa del Mez- od istituzioni create o sorte a Torino ed esamizogiorno in questi anni abbia potuto dare lavo- niamo le vie di comunicazione ed i trafori. Toro ad un numero altrettanto alto di persone pur rino è in un’ottima situazione geografica e soavendo speso centinaia di miliardi pagati anche no quindi valide e preminenti le richieste per da noi piemontesi. . ....... trafori, vitali per la sua economia regionale e Un settore che fra gli altri è stato trascurato per la nazione tutta. Ciò malgrado il governo in questi anni è quello dell’edilizia per la co- centrale, sordo alle nostre richieste, ha sempre struzione di alloggi a favore del celo medio sot- ostacolato ogni nostro tentativo. Altrettanto dito la forma di cooperative finanziale dagli enti casi per le autostrade: il raddoppio della statali. Detto finanziamento è stato così esiguo Milano-Torino, ormai satura e pericolosa e nella nostra città che si possono contare sulle l’autostrada Ivrea-Torino, porta da aprire al tudita di una mano le case costruite con il finan- rismo ed al traffico, non sono state nemmeno ziamento dello stato, mentre a Roma sono deci- considerale dal Piano Romita. ne di migliaia le case e le palazzine costruite Uguale sorte per la Torino-Savona (o più mocon finanziamento statale e da enti parastatali destamente Ceva-Savona) strada naturale per fra le quali i due grandiosi e lussuosi palazzi co- la corsa al sole dei turisti del nord Europa e struiti per le cooperative degli onorevoli senato- sbocco delle merci nel porto di Savona. In comri e deputati. Anche in questo settore Roma ha penso il piemontese ministro Romita ha dato la come sempre prevaricato e purtroppo nessuna precedenza alla costruzione di altre autostrade: voce si è levata dai banchi del consiglio comu- la Serravalle-Milano, la Brescia-Padova, la Nanale o provinciale per denunciare l’ingiustizia. poli-Bari, la Napoli-Pompei e la Padova-Mestre L’aeroporto di Caselle, completato dall’uscen- e, solo nel clima di questa vigilia elettorale, ha te amministrazione che lo presenta come una promesso di inserire la Ceva-Savona in questo delle sue opere più rilevanti è stato fatto con i lotto di lavori. soldi dei contribuenti torinesi, ed il Comune Per quanto riguarda le linee ferroviarie, è da dovette lanciaFac-simile della scheda elettorale del 27 maggio 1956 re un nuovo prestito obbligazionario di 6 miliardi, mentre per altre città, come Genova e Firenze, il governo ha stanziato i miliardi necessari e Roma, dopo aver speso miliardi per l’aeroporto di Ciampino, ne sia costruendo uno nuovo e più grande nella zona di Fiumicino, anche questo a spese del contribuente italiano e dei torinesi che paAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 9 anni che si attende l’elettrificazione della Milano-Torino continuamente rinviata, mentre la Cuneo-Nizza è ancor sempre da ricostruire, dopo oltre dieci anni dalla fine della guerra. E, mentre Torino langue, altrove si installano, si raddoppiano e si elettrificano linee ferroviarie, che chiameremo politiche, morte prima di nascere per mancanza di traffico. E il deficit statale cresce ed il Piemonte paga... Roma ormai volge il suo sguardo verso il sud, sia pur per ragioni politiche, e non pensa che anche in Piemonte vi sono aree altrettanto depresse, che buona parte dei comuni piemontesi sono ancora sprovvisti di acquedotti e fognature e che le nostre zone montane, senza aiuti e prive di mezzi, con il graduale abbandono degli abitanti, stanno decadendo paurosamente. A questo punto ci chiediamo: perché non sì devono aiutare i montanari della Val Susa o dell’Alto Canavese come quelli della Calabria? Perché il governo di Roma e la burocrazia centrale che, sempre più avidamente, spreme il contribuente piemontese è così sorda ai nostri problemi?... ” Se mi è consentito un inciso, vorrei ricordare che, con il passare degli anni, le condizioni di emarginazione del Piemonte nel contesto dello stato italiano, sono ancora peggiorate: vari governi italiani concedettero provvidenze economiche alla FIAT, la grande industria automobilistica nata a Torino, affinché impiantasse stabilimenti al sud e ciò provocò la contemporanea chiusura di vari stabilimenti piemontesi, fra cui quello importante di Chivasso; all’inizio degli anni ’90 quando, soprattutto per fattori esterni, l’economia piemontese entrò in sofferenza e il Piemonte retrocesse di alcuni posti nella graduatoria dei PIL (Prodotti Interni Lordi) regionali, per alleviare la delusione di questo regresso l’amministrazione finanziaria dello Stato incentivò il prelievo fiscale, portandolo al 45% del PIL e fece in modo che il Piemonte potesse raggiungere il primo posto nella graduatoria del prelievo fiscale (dati Fondazione agnelli); un paio di anni fa Torino pose la sua candidatura come sede per la ”Autority” delle telecomunicazioni, portando come referenza il fatto incontestabile che le aziende telefoniche, radiofoniche e televisive erano torinesi di nascita, e le fu preferita Napoli sulle cui referenze è caritatevole non approfondire. Ma torniamo al MAR.P. La decisione di partecipare alla vita politica fu, in qualche modo, traumatica. Si dimisero alcuni membri del Comitato Regionale (Burdese, Laini, Pipino ed Enrico) e il vice presidente del Comitato stesso (Mario Bernatti). Le motivazioni furono le stesse, sempre addotte dai rappresentanti della più vecchia associazione culturale piemontese, tutrice del patrimonio linguistico, “Ij Brandé” per evitare di impegnarsi nella lotta sociale a difesa della propria ideologia: “Noi operiamo ad un piano superiore, intellettuale e non vogliamo sporcarci le mani con la politica” (Pinin Pacot). Ma, nonostante tutto, le elezioni furono un successo. Il M.A.R.P. risultò il quinto partito cittadino, a pari merito con i liberali, ed ebbe 31.526 voti e L’ing. Attilio Burello e il principe Mario Chigi con Enrico Villarboito 10 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 quattro consiglieri al Comune (Rosboch, Bruno. Vezzani e Nobile) e 34.727 voti e un consigliere alla Provincia (Resiale). Il professor Villarboito non fu eletto perché non era in lista; si era provveduto a estrometterlo in qualche modo fin dall’inizio della primavera e questo la dice lunga tanto sulla natura ideologica del professore che su quella dei suoi comprimari. Sulla base dei successo ottenuto in Piemonte, Villarboito decise di estendere l’ideologia autonomista in tutta l’Italia e promosse la nascita di movimenti analoghi al M.A.R.P. in altre regioni, movimenti federati in un’unica organizzazione, il M.A.R. (Movimenti Autonomisti Regionali) con sede centrale a Torino e sedi regionali a Milano, Venezia, Trieste, Genova, Bologna e Roma. Segretario nazionale era il professor Villarboito stesso e Segretario per il nord Italia l’ingegner Attilio Burello e per il sud Italia il principe Mario Chigi. Il M.A.R. aveva altresì un giornale Le nostre tasche diretto da Giorgio Rosso. Ma anche in questa nuova iniziativa la voracità politica ebbe il sopravvento. Il Movimento cambiò nome: da “Movimento Autonomie Regionali” divenne “Movimento d’Azione e Rinnovamento”. Questo cambiamento avvenne al Congresso del 21 luglio del 1957, che elesse a Segretario nazionale l’avvocato torinese Luigi Lombardi e vice segretari Salvatore Spinello e il già citato principe Chigi. Villarboito rimase a far parte della segreteria nazionale, ma poi, come già era avvenuto con il MAR.P., fu estromesso in breve tempo. Ma non si diede per vinto e, con il “tuttologo” (come si definisce lui stesso) Gianluigi Mariannini, diede vita a un nuovo movimento autonomista: “La Scopa” con il quale si presentò, senza successo, alle elezioni politiche nel 1958 e scomparve subito dopo. Lo stesso calvario lo ebbe la lista del M.A.R. Invece il M.A.R.P. ebbe ancora un piccolo ritorno di fiamma alle elezioni amministrative del 1960, dove ottenne due consiglieri per sparire poi definitivamente dopo quelle del 1964. I suoi uomini finirono in altre formazioni politiche a “lavorare” per il Piemonte (e per i propri interessi). Il sogno dell’autonomia piemontese era finito e la Democrazia Cristiana, che aveva edito un opuscoletto in cui indicava gli appartenenti al M.A.R.P. come “i nemici del Piemonte” aveva vinto. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Per i 25 anni successivi, sull’autonomia piemontese scese il silenzio. Quel che avvenne dopo è sotto gli occhi di tutti e, per la stessa carità cristiana che mi ha indotto a non specificare le referenze che Napoli ha prodotto per aggiudicarsi la “Autority” sulle telecomunicazioni, preferisco non parlare. Credo che sia tuttavia giusto accennare alla parte negativa che nella vicenda ha avuto il maggior quotidiano cittadino. All’epoca in cui i fatti avvennero ha sempre diligentemente ignorato vita e attività dei movimenti autonomisti, salvo poi ripescarli ad anni di distanza scrivendo su di essi colossali inesattezze, forse per ignoranza o forse per creare un blasone a qualcuno da cui potesse averne un tornaconto. Da La Stampa del 22/1/1992: il professor Antonio Bodrero, eletto Consigliere regionale nelle file della Lega Nord, “autonomista da sempre, esordisce nel M.A.R.P.”. Barba Toni (appellativo confidenziale del professor Bodrero), autonomista sincero e genuino di cui ero amico, iniziò la sua vita politica alla fine degli anni ‘60 nel M.A.O. (Movimento Autonomista Occitano), quindi almeno cinque anni dopo che il M.A.R.P. aveva esalato il suo ultimo respiro. Da La Stampa del 12/4/1994: Pietro Molino, capogruppo al Comune di Torino, eletto nelle file della Lega Nord (e oggi dell’’A.P.E.) dichiara di essere stato uno dei ragazzi del volantinaggio del M.A.R.P. che aveva anche un giornale in lingua piemontese dal titolo Arnassita Piemontèisa edito da tal Giuseppe Cerchio”. Entrambe le notizie sono false. Arnassita Piemontèisa non ha mai avuto niente a che vedere con il M.A.R.P. e neanche con un editore dal nome Giuseppe Cerchio, che non è mai esistito. Non si capisce poi perché in un movimento, che aveva un disperato bisogno di uomini e nel quale tanti erano giovani e giovanissimi, a Molino (che a quell’epoca doveva avere 27/28 anni) fosse riservato il solo compito marginale di distribuire volantini. Il professor Enrico Villarboito è deceduto, a quasi 73 anni, il 10 febbraio 1996, proprio il giorno in cui era fissata la prima udienza del processo relativo all’azione legale da lui intentata contro Pietro Molino e Gipo Farassino per quelle che lui aveva ritenuto “calunnie tramite mezzi di informazione”. Questo è quanto. Poco, ma sufficiente per far comprendere che se i Torinesi hanno soprannominato il loro quotidiano “La Busiarda” (la bugiarda) non hanno tutti i torti. Quaderni Padani - 11 U.O.P.A. - Nascita e declino di un movimento autonomista di Donata Legnani Maggi N el dicembre 1977 nasceva a Domodossola un movimento di opinione apartitico, che ebbe il dono di saper riportare alla luce il desiderio di autonomia da sempre latente nel cuore degli Ossolani, e la soddisfazione di mandare in fibrillazione tutte le segreterie politiche della provincia. Fu chiamato U.O.P.A., Unione Ossolana Per l’Autonomia e il suo scopo principale fu l’acquisizione dell’istituzione di Regione a statuto speciale per l’Ossola e la Val Cannobina, quel territorio che già nel 1944 era diventato, seppur per poco tempo, un’isola di libertà nell’orrore dell’occupazione nazista e repubblichina, convertendosi, dopo mesi di lotta partigiana, in una repubblica indipendente. Nell’attuazione delle finalità di questo movimento, saranno anche stati commessi degli errori, ma resta fondamentale il fatto che, nella sua pur breve vita, il movimento abbia contribuito in modo determinante a risvegliare l’orgoglio e l’autostima di un popolo che si stava piegando sotto il peso di una morale qualunquista e meschina, fornendo allora modelli di pensiero che ancor oggi sono validi per tutti noi che vediamo nella cultura delle autonomie locali il fondamento della libertà. A quasi vent’anni dalla sua scomparsa dalla scena politica, cercherò, attingendo da articoli di vecchi giornali e dalla memoria di alcuni protagonisti, di spiegarne la storia, le tematiche principali e le ripercussioni nell’ambito politico e sociale. L’impulso alla creazione del movimento venne da due componenti essenziali, una di carattere storico, l’altra di carattere socio-economico, entrambe ugualmente importanti per il successo dell’operazione. Da un punto di vista strettamente storico, il movimento ha tratto la sua forza oltre che dalla eco della gloriosa repubblica partigiana del ‘44, anche da quella tradizione autonomistica che da sempre ha contraddistinto gli Ossolani, popolo 12 - Quaderni Padani che in ogni circostanza si è riconosciuto come parte di una medesima unità territoriale, conservando un’identità culturale radicata e profonda, che ha saputo resistere, nel corso dei secoli, a invasioni e scorrerie straniere senza mai essere stravolta, poiché, per dirlo con una frase di Alvaro Corradini, che dell’U.O.P.A. è stato il padre spirituale, “Gli Ossolani sono come le loro montagne: sopra di essi vi è solo il cielo”. Questo sentimento di libertà che ha sempre spinto gli Ossolani a fare da sé, ha naturalmente stimolato in essi l’istinto di autodifesa, soprattutto nei momenti di maggiore necessità, quando sistematicamente veniva a mancare all’Ossola, l’appoggio di quelle stesse istituzioni che l’avevano voluta appartenente al Piemonte e poi, subito abbandonata a se stessa, emarginandola dalle iniziative programmatiche dei centri di potere o tradendola con promesse mai mantenute. Anche in quella seconda metà degli anni ‘70, la Valle stava soffrendo in modo particolare la crisi economica che minava il Paese. I suoi problemi erano di vecchia data: una viabilità da terzo mondo faceva lievitare i costi dei trasporti che, di conseguenza, andavano a gravare sul già impoverito bilancio delle aziende locali; per di più il dissesto idrogeologico, esasperato da condizioni meteorologiche di inaudita violenza, aveva reso la situazione viaria ancora più malsicura e le località turistiche impraticabili, facendo segnare il passo anche all’economia di quel settore. Una dopo l’altra, le industrie erano entrate in crisi. Alcune avevano chiuso i battenti e altre, anche le più grandi, davano vistosi segni di cedimento. La scarsità di danaro dovuta ai licenziamenti o al timore di questi, aveva poi innescato una reazione a catena che stava trascinando al fallimento anche le attività commerciali e ricreative completando un quadro già di per sé desolante. I politici locali, dopo le doverose quanto insinAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 cere geremiadi, si erano lanciati in promesse puntualmente disattese, vittime anch’essi, forse, del vezzo diffuso nei palazzi di Roma e di Torino, di concedere favori solo alle aree più appetibili dal punto di vista elettorale. Così non ci si curò di costruire gli argini dei fiumi e a ogni giornata di pioggia insistente seguiva un’inondazione; non si costruì lo scalo ferroviario, e la Svizzera trasferì le sue merci su Chiasso; infine, la superstrada che avrebbe dovuto collegare Genova al Sempione, fu deviata verso Santhià e la Valle d’Aosta e ciò tolse definitivamente la speranza di ridare al Passo del Sempione il ruolo chiave di “porta” per gli scambi internazionali. Questa fu la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso: per salvare l’economia era necessario che l’Ossola ritornasse agli Ossolani. Una sera piovosa di novembre una piccola folla si accalcava nella sala consiliare del Comune di Domodossola per partecipare a un incontro, definito “economico e non politico”, promosso dal geometra Corradini, personaggio che definire eclettico è ancora limitativo. Studioso di matematica, (a lui si deve la dimostrazione del teorema di Fermat), ecologia, glottologia, datazioni bibliche, era vissuto per molti anni in Svizzera, ove aveva potuto rendersi conto di come, con una suddivisione del territorio in Cantoni, fosse possibile far convivere popolazioni di culture diverse, salvaguardando con puntiglioso rigore lingua, usi e costumi di ciascuna. Divenne un convinto assertore del federalismo cantonale su modello elvetico, e quindi, intuendo che la sua applicazione avrebbe potuto essere migliorativa anche nei territori al di qua delle Alpi, dove l’idea di Regione era ancora legata più alla posizione geografica che non al concetto di Popolo o Nazione, si dedicò all’attuazione del proposito. Nel 1975, il vulcanico geometra aveva già tentato di far accettare l’idea di amministrare il V.C.O. a livello cantonale, fondando il M.A.C. (Movimento Autonomista Confederale). La sua proposta risultò tuttavia prematura e destò solo l’attenzione delle forze dell’ordine che, trattandolo alla stregua di un pericoloso sovversivo, un mattino fecero irruzione nella sua abitazione, Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 alla ricerca di chissà quale materiale compromettente, ponendo temporaneamente fine al proposito. I successivi due anni di crisi, però, fecero montare il malcontento e maturare gli eventi, così, in quella fatidica sera novembrina si videro gli intervenuti, dei quali facevano parte anche parecchi sindaci, trasformare la riunione in una durissima requisitoria contro il potere centrale, accusato di aver deliberatamente trascurato l’Ossola per troppo tempo, dilapidandone il pa- trimonio umano, culturale ed economico senza dare nulla in cambio se non la beffa di vane promesse. La proposta autonomistica scaturita dalla ribellione venne perfezionata qualche giorno dopo, il 17 novembre, nel corso di una affollatissima assemblea tenuta nel cinema Corso di Domodossola. Era nata ufficialmente l’U.O.P.A., i cui dirigenti (Cattani, Coffano, Corradini, Gandolfi, Lincio, Zammaretti, per citarne alcuni) il giorno successivo, riunitisi all’Hotel Corona, dettarono il loro decalogo e approvarono lo statuto del Movimento, dichiarando quest’ultimo ossolano e apartitico. Una particolarità delle norme dello Statuto, curiosa, ma rivelatrice di grande democraticità, fu l’obbligo di cambiare il presidente ogni trimestre perché tutti potessero avere le stesse opportunità e gli stessi obblighi. Obiettivo primario del movimento fu la trasformazione dell’Ossola in regione autonoma a statuto speciale, sul modello del Trentino e della Valle d’Aosta, giacché solo in questo modo si sarebbe finalmente avviato il processo di risanamento dell’economia locale, dando corpo alle speranze e alle rivendicazioni sognate per decenni dagli Ossolani: l’autostrada, lo scalo ferroviario, gli investimenti per lo sfruttamento delle risorse del territorio. A completamento vi era la proposta di creazione di una zona franca, con tutti i vantaggi che ne sarebbero derivati, come la diminuzione del prezzo della benzina e dell’I.V.A. su alcuni proQuaderni Padani - 13 dotti, per incentivare il turismo e il commercio locale. Il progetto era ambizioso anche perché, come previsto dall’Art. 71 della Costituzione, per l’ottenimento dello statuto speciale, era necessario raccogliere un minimo di 50.000 firme, il che, in un territorio di circa 80.000 abitanti compresi i minorenni, risultava un’impresa non da poco. Per nulla intimoriti, i dirigenti del Movimento si diedero da fare con incontri pubblici, volantinaggio, comunicati e articoli sui giornali locali e, nel giro di pochi mesi vennero raccolte trentacinque mila firme. Ovunque, nella Valle, compariva il camoscio bianco in un’Ossola verde, azzurra e rossa, i colori dei fazzoletti delle tre formazioni partigiane del ‘44. Questo era il simbolo adottato dall’U.O.P.A., un simbolo forte, di coraggio ritrovato, che suscitò grande entusiasmo nella gente e accese le speranze; in ogni cittadina o paese, si aprivano nuove sezioni: nei bar, nelle fabbriche, a scuola, si parlava solo di quello. Tutto ciò suscitò, in un primo momento, l’interesse della stampa italiana ed estera, un interesse manifestato con articoli di plauso e incoraggiamento da parte delle testate strettamente locali o straniere, mentre dai giornali di regime si evidenziò subito un’aperta opposizione o, nella migliore delle ipotesi, un atteggiamento di allarme per la “pericolosa sovversione”. Emblematica di questo contegno, la Gazzetta del Popolo dell’8 gennaio 1978, che titolava: “Anacronistica e sbagliata la richiesta dell’Ossola” commentando positivamente l’impegno di tutti i partiti, decisi a rimuovere in profondità le cause che avevano consentito l’irrobustirsi delle aspirazioni autonomistiche, con l’elaborazione di un programma comune di interventi da attuarsi immediatamente. Anche allora, come oggi, niente di nuovo sotto il sole: quando traballano le poltrone, si dimenticano le divergenze ideologiche e si fa causa comune contro il terremoto! I panegirici velenosi dei soliti noti non fermarono però la determinazione del movimento: una delegazione guidata dal geometra Corradini si recò in Valle d’Aosta allo scopo di studiare lo statuto di quella regione per poterne applicarne le norme al futuro statuto dell’Ossola, e un opuscolo, scritto dallo stesso Corradini in collaborazione con Roberto Gremmo, direttore della rivista Arnassita Piemontèisa, venne distribuito tra 14 - Quaderni Padani gli Ossolani, per illustrare le ragioni e i vantaggi di una scelta autonomistica . Sempre risoluti a ottenere la massima “visibilità”, pubblicarono sui giornali locali ogni iniziativa, ogni proposta presentata ai Comuni della Valle o alla Comunità Montana, e, soprattutto, gli elenchi delle sezioni che, in poco tempo avevano superato le sessanta unità, con migliaia di iscritti. Il terreno su cui si battevano dirigenti e simpatizzanti spaziava dalle semplici e sacrosante rivendicazioni di carattere pratico, come vie di comunicazione migliori o aiuti per le aziende locali in crisi, a temi di più vasta portata socioculturale, quali la promozione e la protezione del patrimonio linguistico, delle tradizioni e della personalità etnica dell’Ossola e dell’enclave Walser. Intanto proseguiva la raccolta delle firme, incrementata in modo determinante nel corso di una affollata adunata degli Alpini, a Roma, dove gli incaricati dell’U.O.P.A. raccolsero altre 20.000 adesioni; un margine più che sicuro per il superamento anche del vaglio formale della Cassazione. Era il 15 ottobre del 1978, quando una legazione di 15 persone, guidata da un Corradini emozionatissimo che si era assicurato al polso con un paio di manette, la valigia contenente i preziosi moduli, giunse al Palazzo di Giustizia di Roma per presentare alla Corte Suprema di Cassazione la proposta di legge di Iniziativa Popolare. Il più era fatto, ora non restava altro che attendere l’espletamento delle formalità burocratiche ma, in base alla Costituzione Italiana, l’Ossola era già ad un passo dall’ambito traguardo. Nel frattempo, ai primi di agosto, una spaventosa alluvione aveva provocato nelle valli ossolane, la morte di una ventina di persone, il ferimento di altre quaranta e danni ingenti, dando una triste conferma delle reiterate proteste popolari, appoggiate dal movimento autonomista. Solo allora, finalmente, Roma e Torino si riscossero dal torpore, mobilitandosi con leggi speciali per il finanziamento della ricostruzione e centri operativi nelle località maggiormente colpite. Nell’Ossola, dopo la pioggia vera, ci fu una pioggia di ministri: giunse Nicolazzi, poi Vittorino Colombo, Donat Cattin, Stammati, Bodrato, Marcora e altri ancora. Sull’onda del ritrovato interesse per la Valle, iniziarono immediatamente i lavori per la costruzione dello scalo ferroviario e si promossero iniziative per il completamento dell’autostrada Voltri-Sempione. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Questa precipitosa e tardiva sollecitudine fu una manovra, neanche tanto velata, dei politici locali che tentarono, chiamando sul posto i loro referenti dai nomi altisonanti, di assumersi il merito per la realizzazione degli obiettivi dell’U.O.P.A., raggiungendo così il doppio scopo di rifarsi un’immagine sul territorio e di impedire agli autonomisti di cavalcare, una volta di più, la tigre del malcontento. Era comunque prevedibile che, fin dai suoi primi passi, il movimento destasse il timore e l’antipatia dei partiti, i quali, infastiditi dal suo successo e, soprattutto, preoccupati della perdita di potere conseguente all’ottenimento dell’autonomia, lo considerarono una minaccia e, come tale lo combatterono con tutte le armi disponibili. Alcuni, come P.C.I. e Socialdemocratici, si erano posti in aperto contrasto, non perdendo occasione per tacciare l’U.O.P.A. di qualunquismo e, tanto per usare l’espressione a loro più cara, di filofascismo; mentre la D.C. e il P.S.I., pur mantenendosi su posizioni più moderate, avevano chiaramente lasciato intendere che non avrebbero accettato la trasformazione di questa in partito politico. Le ripercussioni di un tale atteggiamento si manifestarono anche nell’ambito delle associazioni legate in qualche modo all’ambiente politico; così l’A.N.P.I. (Associazione Partigiani) fu squassata al suo interno da una profonda crisi originata da alcuni suoi membri che sostenevano l’incompatibilità tra gli ideali partigiani e quelli dell’U.O.P.A., arrivando ad accusare i dirigenti di quest’ultimo di essersi abusivamente impadroniti dei colori che contrassegnavano le tre formazioni partigiane. Ed evidentemente, al coro di dissenso non potevano mancare i sindacati: C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. rimproverarono al movimento, come d’abitudine, uno scarso interesse per i problemi occupazionali dei lavoratori, come se, la preoccupazione di tenere in vita le imprese non ne coinvolgesse, di conseguenza, anche i dipendenti. Intanto, in attesa di un riscontro dalla Corte di Cassazione, che stava tacendo in maniera sospetta, il movimento prendeva contatto con altri movimenti analoghi di tutto il Nord Italia, come gli “Autonomisti Trentini e Tirolesi” di Fedel, l’Associazione “Piemont Occitan” di Bodrero (il rimpianto Barba Toni), la “Lista per Trieste” di Lokar, e il Movimento Arnàssita Piemontèisa, di Gremmo. Con questi vennero discusse le strategie comuni e vennero gettate le basi per una federazione di partiti autonomisti Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 che avrebbe abbracciato tutta la Padania. Nei primi mesi del 1979 si costituì anche una società editoriale, denominata “Società cooperativa editoriale Ossola Cannobina a.r.l.” che ammetteva come soci tutti gli aderenti all’U.O.P.A., mediante la quale fu possibile pubblicare materiale illustrativo e l’organo informativo del movimento, L’autonomia, un giornale non periodico che ebbe in qualità di direttore responsabile prima Corradini, poi, dal settembre 1979, un nome come Bruno Salvadori, “(..) la cui lungimiranza aveva favorito, su un terreno di reciproca unione, l’incontro fra partiti delle minoranze linguistiche e partiti federalisti o gruppi antipartitocratici (..)”, come scriverà nel 1982 Gremmo su Autonomie padane e alpine, ricordando l’amico compianto. Questo giornale, che oltre a contenere articoli di carattere culturale sulla storia e i costumi delle popolazioni locali, quali Ossolani e Walser, riferiva con puntiglioso rigore tutte le iniziative e i progetti del movimento, riportava sotto il titolo una frase emblematica di Rousseau: “La vera democrazia può essere raggiunta soltanto in collettività relativamente picAlvaro Corradini cole”. La decisione di uscire con un proprio foglio, sebbene rappresentasse un gravoso impegno economico, si rese necessaria per rettificare l’informazione scorretta o addirittura mancante fornita dai media i quali, dopo il citato fuggevole interesse iniziale, che, pur essendo in larga misura ostile, serviva almeno a dare visibilità, avevano, prima cercato di far passare gli ideali del movimento per utopie un po’ folkloristiche, poi, accantonato sdegnosamente l’argomento U.O.P.A., relegandolo nel limbo del silenzio stampa. Significativa è l’accorata protesta, riportata sul primo numero di L’autonomia, verso l’arroganza della R.A.I. che, invitata al primo congresso del movimento con le televisioni Svizzera e Austriaca, aveva volutamente e ripetutamente ignorato l’invito, contrariamente alle sue omologhe straniere, presenti e molto interessate. Quaderni Padani - 15 Queste rivendicazioni, più o meno vibrate, ricorsero in quasi tutti i numeri che seguirono, e la cocciuta disinformazione di stampa e televisione fu, in quel momento, interpretata come una tattica del sistema arrogante e centralista per non prestare orecchio alle richieste di aiuti economici e di infrastrutture volte a migliorare la situazione dell’Ossola. Alla luce dei fatti si può invece ritenere che l’ordine tassativo di far passare sotto silenzio ogni iniziativa del movimento, fu un preciso e sottile disegno per ridimensionare l’entusiasmo della gente e frapporre del tempo tra la richiesta di statuto speciale e l’esame della stessa, in modo da trovare qualche pretesto per non concedere l’autonomia, come in effetti accadde. Così, all’inizio del 1980, sebbene molto fosse stato fatto, cominciò a essere evidente che il traguardo autonomistico si stava allontanando, nascosto da cortine fumogene di giorno in giorno più dense. Per ridare smalto e visibilità al movimento si rendeva necessaria una svolta che lo portasse concretamente a misurarsi nell’ambito dell’amministrazione locale. Questo costrinse i dirigenti a venire a patti con il loro stesso ideale, che disdegnava qualunque rapporto con i partiti politici, ma, alla fine, convennero di presentarsi alle elezioni amministrative. Non fu una decisione facile e generò contrasti interni con coloro i quali temevano che la scelta effettuata riuscisse a snaturare il ruolo di un movimento ideologicamente di rottura, che avrebbe perso la sua forza e la sua integrità, una volta entrato a far parte dei quelle stesse istituzioni che aveva combattuto e da cui rifuggiva. Prevalse comunque la tesi “interventista” e, dalle urne uscì un responso largamente lusinghiero, un successo trionfale, che vide l’U.O.P.A. al terzo posto tra i partiti presenti, con ben cinque consiglieri a Domodossola, ove il suo consenso esterno, insieme a quello del P.L.I., permise la nascita di una giunta D.C.- P.S.D.I. Divenuto determinante per la formazione di numerose giunte, il movimento ottenne anche due assessorati in Comunità Montana e altri due esponenti in seno al comitato di gestione dell’U.S.L. Con l’energia e la freschezza dei neofiti, i nuovi eletti si buttarono con entusiasmo nel lavoro presentando interrogazioni e interpellanze, avanzando richieste alla Regione per apparecchiature ospedaliere, applicandosi con puntiglio alla stesura del nuovo Piano Regolatore. Contemporaneamente all’attività amministra16 - Quaderni Padani tiva, un’altra importante iniziativa impegnava il movimento: le relazioni da tempo intercorse tra questo e gli altri partiti o movimenti federalisti e autonomisti del Nord si stavano fondendo in una grande coalizione che avrebbe preso il nome di “Federazione Alpino-Padana dei Movimenti Autonomisti, Etnici e Federalisti” alla quale si interessarono, oltre ai movimenti che già nel 1979 si erano avvicinati, il Partito Federalista Europeo, (P.F.E.) rappresentato da Dacirio Ghizzi Ghidorzi, la Lega Autonomista Lombarda (L.A.L.) rappresentata da Umberto Bossi, la Liga Veneta da Negrisolo e Rebesco. A questi si aggiungeranno poi “Alpazur”, il Partito Popolare Trentino, l’Union Valdotaine, il Movimento Friuli, il Movimento Occitano- Provenzale, e la Wolkspartei. Il nascente movimento, promosso da U.O.P.A., M.A.R.P., L.A.L. e P.F.E., redasse il suo statuto il 30 maggio del 1982, nel corso del congresso di fondazione, tenutosi a Domodossola, che vide Corradini come presidente e Bossi come segretario. Argomenti fondamentali dello statuto erano: “(..) l’autodeterminazione dei popoli con scelta democratica del proprio presente e del proprio futuro, federalismo integrale dei popoli europei, autonomia quale sintesi di Giustizia e Libertà, primato e salvaguardia dei valori culturali delle singole comunità, riservando ad ognuna pari dignità e diritto di espressione (..)” La Federazione, nella ferma convinzione che una gestione autonoma dei territori costituisse la forma più avanzata di democrazia, cercò innanzitutto di contrastare la progressiva mediterraneizzazione dell’area padano-alpina che stava compromettendone irreparabilmente l’identità storica, opponendo a questa una filosofia più europeista, basata su quattro pilastri fondamentali: Cristianesimo, Liberalismo, Socialismo e Antifascismo. “(..) Questa politica assume dal Cristianesimo la tolleranza, dal Liberalismo la difesa e la promozione dell’iniziativa privata, dal Socialismo l’esigenza di difesa del lavoro e di giustizia sociale, ed infine dall’Antifascismo il rigetto di ogni e qualsiasi dittatura. Meta di questa carica ideale sarà il raggiungimento delle autonomie nei Comuni come nelle Provincie e nelle Regioni (..)”. Sono parole dell’articolo di fondo di Vento del Nord, il periodico informativo della federazione, profondamente chiarificatrici dell’ideologia che spinse i numerosi movimenti a unirsi per ottenere l’obiettivo che li accomunava. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Questa fu per l’U.O.P.A. una fase particolarmente feconda e ricca di nuovi impulsi, sia nell’ambito amministrativo locale, con un impegno concreto sui temi più pressanti, sia in quello della Federazione autonomista, dalla quale trasse una importante spinta ideologica, mediante il confronto con movimenti affini, e maggiore forza dovuta all’unione con questi. In più, proprio in quel periodo, i partiti tradizionali, spaventati dall’avanzata degli autonomisti e nell’intenzione di frenarne la protesta, avevano fatto pressioni affinché venissero impegnate in Ossola il massimo delle risorse economiche con il completamento delle opere iniziate dopo l’alluvione del 1978, ottenendo però l’effetto contrario poiché l’U.O.P.A., nell’opinione della gente, ebbe comunque il merito di un risultato conseguito, in parte, con la sola minaccia della sua presenza. Paradossalmente, una congiuntura così fruttuosa coincise con l’inizio di una crisi interna che, anche se resterà latente ancora per qualche tempo, porterà il Movimento al declino. Le molteplici cause di questo malessere sono da ricercare prima di tutto nella cronica mancanza di fondi che, a distanza di anni pesava sempre più. Non avendo un finanziamento come gli altri partiti, ogni volantino, ogni pubblicazione, ogni trasferta, per non parlare della Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Volantino dell’UOPA campagna elettorale per le amministrative del 1980, era un onere considerevole sulle spalle dei dirigenti, di giorno in giorno più preoccupati, e delle sezioni che cominciarono a chiudere i battenti. A questo dobbiamo aggiungere il reiterato silenzio, da parte dello Stato, in merito alla richiesta di autonomia, atteggiamento che contribuì a spegnere gli entusiasmi verso l’importante obietQuaderni Padani - 17 tivo e a farlo dimenticare, soppiantato, nelle simbolo a tutti quei movimenti della federazioaspirazioni volubili della popolazione, dalla pro- ne che desideravano presentarsi alle elezioni posta di una provincia dell’Alto Novarese, caldeg- con la speranza di “portare a Roma gli interessi giata dai partiti, soprattutto il P.C.I., dalle orga- locali per anteporli a quelli dei partiti” (la frase nizzazioni sindacali e dall’Unione Industriali. è tratta da un manifesto elettorale). E così anche Determinante fu comunque il danno d’imma- l’U.O.P.A., che aveva visto sfumare la possibilità gine provocato dall’ingenuità o dalla malafede di di accettazione del progetto autonomistico con alcuni esponenti della stessa U.O.P.A., i quali, o la fine della legislatura, presentò i suoi candidati soggiogati dal “canto delle sirene” delle vecchie alla Camera: Giancarlo Bianchi, Alvaro Corradivolpi della politica, o già entrati nel movimento ni, Arturo Carlo Lincio. con mire “poltronistiche”, si erano lasciati conE in questo frangente, proprio quando sarebvincere dagli scontati giochetti di potere favo- be stato indispensabile presentarsi all’elettorato rendo questo o quel come un movimenpartito per ottenere to monolitico, successi personali. scoppiò la bagarre. In questo clima di A suon di comunitensioni interne cati stampa due ex proseguiva comunpresidenti, si lanque l’attività del ciarono pesanti acmovimento che, ancuse, con relativa cora attivo e vitale, reciproca richiesta si oppose con tutte di espulsione. Motile sue forze alla vo della violenta creazione della nuodiatriba fu la scelta va provincia che sulla strategia eletavrebbe invalidato il torale, poiché alcusuo sforzo, definenni esponenti di do l’operazione un spicco del moviBandiera dell’Ossola “pateracchio P.C.I.mento, facenti capo V.C.O. (Verbano Cua uno dei due, ritesio Ossola)” e scagliandosi contro quello che in- nevano preferibile appoggiare la candidatura del dicavano come “(..) un lontano cugino deboluc- socialdemocratico Nicolazzi piuttosto che porcio del progetto di autonomia (..)”. tare acqua ai movimenti di altre zone, accusanCon volantini e articoli roventi cercarono di do l’altra fazione di dare il loro contributo a liste far capire l’inutilità del proposito, che oltre a es- sorte per la difesa dei propri interessi locali a disere oneroso per lo sdoppiamento di uffici e in- scapito degli interessi dell’Ossola. frastrutture, avrebbe allontanato l’Ossola dalla Tali affermazioni, se espresse in buonafede, vera autonomia per accomunarla a territori con darebbero l’impressione che, anche ai vertici del i quali aveva pochissima attinenza sia dal punto movimento, parecchi non avessero compreso a di vista storico sia da quello logistico e delle ri- fondo l’importanza strategica di un legame con sorse. altri movimenti autonomisti, ma credo che in Proseguivano anche i lavori della Federazione questo frangente abbia giocato molto più la dePadano - Alpina, la quale con un nutrito calen- lusione per l’ormai chiara inutilità della raccolta dario di incontri e congressi, stava valutando la di firme, che non la mancanza di sensibilità popossibilità di partecipare alle elezioni politiche litica; delusione che creò nervosismo, incomdel 26 giugno 1983. Fu modello ed elemento prensioni e, soprattutto la voglia di buttare tutto trainante la “Lista Per Trieste”, detta anche “del alle ortiche tipica di chi, magari emotivamente Melone” a causa del simbolo recante in centro fragile, vede franare il suo obiettivo. una grande sfera. Questa, dal 1978, sostenuta In ogni caso, quali che fossero i reali motivi dal solo volontariato popolare, era divenuta for- destabilizzanti, ormai il guaio era fatto: la za di maggioranza alla guida della città, aveva profonda spaccatura che si era creata aveva inottenuto numerosi consiglieri regionali, un de- fluito non poco a disorientare l’opinione pubbliputato al Parlamento e un deputato europeo e ca e il risultato elettorale fu estremamente deluquindi, forte della sua esperienza, offrì il suo dente, basti il solo dato di Domodossola: 590voti 18 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 contro i 2144 del 1980, per definire la portata del fallimento. I mesi che seguirono videro l’U.O.P.A. invischiata in una ragnatela di verifiche, chiarimenti, accordi e autocritiche. Non più proclami infuocati, iniziative clamorose, proposte o denunce; ormai le sezioni, ad una ad una erano state chiuse, e tanti elementi di spicco del movimento, demotivati o …. troppo motivati, erano passati, come purtroppo spesso accade, nelle file di altri partiti che in quel momento davano maggiori garanzie di successo. Nel giro di neanche un anno il movimento si estinse, portando con sé le speranze di un vero cambiamento. Forse, quello che era stato il suo punto di forza, l’autonomia per l’Ossola, divenne il suo punto debole, la chiave di volta che, venuta a mancare, provocò il crollo di tutta la struttura. Mancarono la volontà per proseguire la lotta appoggiandosi e appoggiando gli altri movimenti della Federazione autonomista, confluiti poi, in parte, nella Lega Nord, e l’elasticità necessaria ad aggirare gli ostacoli, traendo tutto il vantaggio e gli insegnamenti possibili dalle circostanze, anche e soprattutto quelle negative, per perseguire l’obiettivo primario. Comunque, qualunque sia l’opinione che si possa avere dell’U.O.P.A., non si può negare che con la sua presenza abbia scritto una pagina importante della storia dell’Ossola e che abbia dato un contributo notevole alla presa di coscienza di Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 un popolo riscoprendo le sue radici, combattendone l’emarginazione e riportandone alla luce l’antica identità. Quello che, nonostante tutto, non riesco a mandare giù, è la fine ingloriosa di quelle 55.000 firme lasciate a marcire in qualche scantinato romano. La caduta del governo ne ha invalidato la funzione, d’accordo, ma in quattro anni la procedura accelerata prevista dalla Costituzione avrebbe dovuto avere il suo iter, cosa evidentemente non avvenuta; inoltre quale stato che si definisce democratico subordina la volontà popolare ai cambiamenti delle giunte governative? Come di consueto, la volontà del popolo sovrano è stata calpestata, 55.000 volte, e proprio da quelli che di populismo e di democrazia si riempiono la bocca continuamente. Fonti ❐ Ambiente - attualità e cultura dell’alto novarese, novembre 1983 ❐ La Stampa, articoli vari ❐ La Gazzetta del Popolo, articoli vari ❐ Autonomie Alpine e Padane - Agenzia di informazioni stampa della Federazione alpinopadana dei movimenti autonomisti, etnici e federalisti ❐ Vento del Nord - Periodico d’informazione politica, costume, attualità delle regioni alpino-padane ❐ L’Autonomia - Periodico di informazione dell’U.O.P.A. Quaderni Padani - 19 Il Movimento Autonomista Occitano di Batsòa P er comprendere la situazione storica che favorì la nascita del Movimento Autonomista Occitano, occorre compiere qualche passo indietro. È il 14 agosto del 1961 quando su un’idea di Tavo Burat (Gustavo Buratti), “grande vecchio” del piemontesismo, convergono a Crissolo anime e gruppi differenti ma uniti dalla passione per le lingue e le culture minoritarie del nostro versante alpino, decisi a riscoprirle e a rivitalizzarle, e fondano la “Escolo dou Po”. Fra i ventisette fondatori ci sono Pinin Pacott e Sergio Arneodo, testimoni di due realtà differenti: piemontesista il primo, provenzalista (il termine “occitania-occitanisti” verrà adottato solo più avanti e non da tutti) il secondo. La Escolo dou Po iniziò a stabilire rapporti col Felibrige, associazione provenzalista che da tempo lavorava ad analoghi obiettivi sul versante francese. Con le medesime intenzioni e un contatto diretto col Felibrige, Gaetano de Sales fonderà le Rescountre Piemont-Provenzo che lavorerà insieme all’Escolo. La Escolo dou Po provvede a darsi uno statuto e a eleggere un direttivo convocandosi una volta all’anno nelle valli provenzali per fare il punto della situazione e del lavoro svolto nel territorio. Fra il 1959 e il 1960 era nato il giornale di Coumboscuro, il solo, in quegli anni, 20 - Quaderni Padani che assicurava l’informazione e la ripresa di coscienza nelle valli. Nel 1964, dovendo lasciare la Francia a causa delle sue idee politiche, era venuto ad abitare a Frassino, in valle Varaita, Francès Fontan fondatore del Partito Nazionale Occitano. Grazie all’interessamento di Tavo Burat trovò lì casa e conobbe Barba Toni Baudrie (Antonio Bodrero). E’ il 1968, quando su spinta di Francès Fontan con l’appoggio di un gruppo di giovani, per lo più aderenti alla sinistra (Dino Matteodo, Dario Anghilante, Ines Cavalcanti, Fredo Valla), viene fondato il Movimento Autonomista Occitano (MAO). Con Barba Toni segretario, nel 1971, vengono approvati lo statuto e il programma politico che prevede il riconoscimento di una regione autonoma a statuto speciale per le valli occitane. Se Coumboscuro fa esplicito riferimento al Felibrige che fa un discorso limitato all’area e all’appellativo provenzale, pur non disconoscendo le affinità con le regioni limitrofe, il MAO abbraccia le posizioni dell’Istituto Europeo Occitano (IEO) che adotta una grafia differente, parla di un’Occitania (e non più solo di Provenza) che a partire dalle valli piemontesi (e in minima parte anche liguri) si estende oltre i Pirenei. Anche l’IEO ha una forte connotazione derivante dall’ideologia marxista che lo acco- Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 muna al MAO che oggi però cerca opportunamente di tenere piuttosto velata anche se sempre riconoscibile. Intanto nel 1970 nascono le regioni e l’Escolo dou Po si appresta a rinnovare il proprio statuto, non senza discussioni e frammentazioni fra piemontesisti e provenzalisti, e a formulare delle proposte di tutela delle minoranze da inserire nello statuto regionale. Prevale in questa occasione la posizione occitanista che mira a superare quella provenzalista ritenuta ambigua. Sarà purtroppo, anche l’inizio della fine di un sodalizio che certamente , se è vero che l’unione fa la forza, avrebbe potuto concretizzare le aspirazioni identitarie con più determinazione e successo di quanto non abbia in seguito saputo fare il mon- pre riconducibili alla sinistra alle elezioni per il do polverizzato di gruppi e riviste che iniziò al- parlamento europeo, per il quale non otterrà lora a formarsi. nemmeno la staffetta a metà mandato. Il MAO Su Lou Soulestrelh (“Fuochi di carnevale”), non riuscì a radicarsi politicamente sul territonato nel 1971 come giornale alternativo a rio, tant’è che con l’avvento della Lega Nord, il Coumboscuro, e voluto da Barba Toni, viene uf- voto degli occitani o provenzali dalla DC passò ficializzata la nascita dell’UDAVO, Unione degli in blocco al movimento federalista-secessioniAutonomisti delle Valli Occitane, che proponeva la crea- Bandiera delle valli occitane piemontesi (Croce di Tolosa e stella gialle su campo rosso) zione di tre distretti alpini e che riteneva il MAO un partito nazionalista e non un movimento identitario. Si tratta di un sodalizio che avrà poca fortuna e che nel 1978 verrà sciolto. Il MAO nel 1972 si presenta per la prima volta alle amministrative ottenendo buoni risultati ma in pochi comuni. In definitiva la ricerca di acquisire peso politico nelle valli risulterà vana nonostante le alleanze coi Verdi alle provinciali (dove si aggiudicherà un seggio con staffetta), con l’Union Valdotaine e con altre forze autonomiste (come il Partito Sardo d’Azione) semAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 21 sta, pur non avendo questo mai manifestato particolari attenzioni verso queste popolazioni. Come afferma Massimo Manarella, membro della redazione di Ousitanio Vivo (organo ufficiale del MAO) fin dal 1974 quando è stato creato: “(..) l’aver voluto dare una connotazione politica lontana dalla tradizione conservatrice delle valli, fu la causa del negativo riscontro elettoraledel MAO”. La proposta di legge Calzolaro (dal nome del primo firmatario fra i consiglieri regionali) presentata nel 1972 con l’intento di “Tutelare il patrimonio linguistico e culturale del Piemonte”, dopo anni di giacenza in qualche fondo di cassetto, viene rigettata dal Commissario di governo il 22 giugno del 1977. La risposta dei movimenti autonomisti occitani e provenzale, in quella occasione uniti, non si fa attendere: stilano il 22 luglio un documento unitario di protesta contro quella che definiscono una manifestazione di centralismo romano. Definitivamente archiviati i tempi di condivisione di una comune lotta anticentralista della Escolo dou Po, il MAO si impegna in una battaglia contro quello che viene definito colonialismo piemontesista. Quando viene organizzata a Pontechianale una “veglia piemontese”, il MAO organizza una contromanifestazione che richiamerà un buon numero di persone. I vari movimenti occitanisti, guidati dal MAO, stilano inoltre un documento dove si chiede di non tenere manifestazioni piemontesiste nelle vallate: giova infatti ricordare che proprio in quegli anni aveva preso l’avvio l’uso di organizzare periodicamente la Festa del Piemonte. Nel 1977 Barba Toni abbandona il movimento occitanista e l’occitanismo: di estrazione non marxista, evidentemente non condivideva più la linea che stava assumendo il MAO. La segreteria passa a Dino Matteodo definito “un giovane dalle idee chiare” che dà infatti una svolta chiara al MAO, ma ancora di più verso sinistra. Nel 1980 muore a soli 50 anni l’ispiratore del MAO Fontan. Negli anni successivi i congressi del movimento cercheranno di fare il punto sulla propria situazione organizzativa sul territorio, relazioneranno sulle realtà economiche, culturali e agricole dell’area valligiana, insisteranno sulla penetrazione di occitanisti nelle amministrazioni. Se sul versante della presa di coscienza va dato atto al MAO, insieme ad altri, di aver contribuito a promuovere positivi passi in avanti, anche mediante la pubblicazione di validi libri e la 22 - Quaderni Padani realizzazione di film, cosi non è stato nell’ambito politico: gli uomini che ha saputo “produrre” e inserire nelle istituzioni sono pochi e sono ancora e sempre gli stessi che lo avevano fondato anni prima. La presa di coscienza, seppur ancora superficiale, è notevolmente migliorata da quando aveva avuto inizio la Escolo dou Po. Purtroppo – sempre secondo quanto affermato da Manarella, nel corso del piacevole incontro intercorso per redigere questo breve resoconto - “Il MAO ha aggiunto estremismi politici che hanno favorito le divisioni invece che assorbirle”. Rileggendo la storia di trent’anni di occitanismo scritta da Bronzat su Ousitanio Vivo si constata con una certa amarezza la continua frammentazione dei movimenti autonomisti. Le parole di Massimo Manarella confermano l’opinione che era emersa sentendo anche altri esponenti del mondo occitanista: la matrice politica che ha istigato la lotta fra classi sociali ha evidentemente sparso le proprie tossine anche in questo piccolo mondo dell’autonomia locale, producendo divisioni fra gruppi che conducevano con eguali meriti le nobili battaglie per le genti delle nostre montagne, battaglie che avrebbero condotto a miglior esito se fossero state condotte con un fronte unito. Purtroppo le battaglie per la sopravvivenza di queste culture non sono ancora finite: alcune valli continuano a spopolarsi e sarebbe davvero auspicabile, nell’interesse di queste genti, trovare in ambito politico interlocutori forti e sensibili. Il MAO pur non essendosi ufficialmente sciolto, opera oggi solo attraversoil periodico Ousitanio Vivo, una casa editrice, e una associazione culturale; ha una quarantina di iscritti. Fanno anche parte dell’universo editoriale provenzale o occitano queste pubblicazioni: Valados Usitanos: trimestrale di ricerca sul mondo occitano. Usa la grafia fonetica di Fontan. Novel Temp: trimestrale. Dopo due anni di assenza torna adottando la denominazione Lou Temp Nouvel usando la grafia provenzale associata a quella della Escolo dou Po. La Valado: bimestrale di cultura e attualità della Val Chisone, pubblicato dall’Associazione “La Valado”, con grafia della Escolo dou Po. R ‘Ni D’Aigura (“Il Nido dell’Aquila”): Rivista brigasca, con grafia della Escolo dou Po. Ousitanio Vivo: mensile, nato come organo ufficiale del MAO, notiziario delle valli, in contrasto aperto coi piemontesisti, usa la grafia dello IEO e quella della Escolo dou Po. Coumboscuro: mensile simile a Ousitanio Vivo, aperto però alle posizioni piemontesiste. Usa la grafia della Escolo dou Po. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Coumboscuro di Adriano Anghilante P er parlare con Sergio Arneodo, insegnante in pensione, raggiungo Santa Lucio de Coumboscuro, diramazione della Val Grana, località dove Arneodo abita e che dà il nome sia al movimento culturale sia al giornale che guida e anima con i suoi collaboratori da quarant’anni. Si tratta di una borgata di Monterosso che ti accoglie con le sculture di Bernard Damianò di cui la chiesa, sia all’esterno che all’interno, è adorna. Bernard de Rose, come era conosciuto a Santa Lucio dal nome della madre, è pittore e scultore emigrato nella Provenza francese ove si è fatto conoscere per il suo valore che ha travalicato poi le frontiere. Alla ricerca della Casa di Arneodo mi imbatto in una classe, scoprirò poi essere una pluriclasse elementare “vecchia maniera”, riscaldata con quelle stufe a legna in ghisa che ti fan correre i ricordi ai racconti nostalgici dei nostri vecchi. Chiedo indicazioni all’insegnante che mi affida a un allievo, Lorenzo, nipote di Arneodo. Lorenzo mi guida alla casa del nonno annuncia la mia visita in provenzale e io penso immediatamente che le nostre lingue non moriranno se hanno già, come le piante a primavera, nuovi germogli. Lorenzo mi saluta con un arveire e torna a scuola ove impara anche la sua lingua. Sergio Arneodo mi accoglie nella casa adorna di mobili provenzali dove l’intaglio si esalta e il sole delle alpi non manca. Cosi com’è fin troppo evidente, visto che l’altro ospite in sala è il leader del gruppo sardo dei Tazenda, in questa casa si susseguono incontri, confronti e collaborazioni con esponenti delle culture e musiche considerate a torto minori: in un esempio che vale per tutti, il cantautore Fabrizio De Andrè, venne a conoscere Coumboscuro e la sua attività culturale. Arneodo ha dedicato gran parte della sua vita a tenere viva la storia, la lingua e la tradizione dei valori della gente di montagna senza lesinaAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 re le sue stesse risorse, e offrendo spazio nei suoi locali a un pregevole museo etnografico che raccoglie tremila pezzi coi quali si possono ricostruire i processi di lavorazione della canapa, della fienagione, dell’artigianato domestico. Mi racconta che fu Tavo Burat, il grande piemontesista, a gettare il primo seme della rinascita provenzale, arrampicatosi, lui grande e grosso, con la sua lambretta su per la sua vallata per dimostrargli che la loro parlata era provenzale e non una variante del piemontese come lui stesso e la sua gente aveva sempre creduto. Si avvia cosi l’esperienza di Coumboscuro, una vera fucina dove la loro lingua, la loro storia, riprende vigore. Nasce nel 1960 il mensile Coumboscuro. La popolazione, grazie al lavoro promosso dal centro culturale, riprende via via consapevolezza del suo essere minoranza etno-linguistica: sono passi lenti pieni di fatica ma anche di sicura soddisfazione per i risultati indubbiamente raggiunti, a partire dall’insegnamento della lingua materna ai propri figli Una sana cocciutaggine montanara ha il suo ruolo nel voler tenere lì la scuola anche a costo di mettere mano al portafoglio quando le leggi italiane dicono che l’aula non è a norma! Sergio Arneodo non parla volentieri del MAO e dei rapporti fra i due movimenti, freddi e tesi fin dall’inizio e comunque peggiorati nel periodo successivo all’abbandono del movimento occitanista da parte di Barba Toni, che lo aveva guidato agli esordi. Ne parla come chi ha proteso spesso la sua mano e se l’è vista respinta troppe volte. Quaderni Padani - 23 Dal MAO li divide la grafia adottata, la concezione di nazionalismo estremo, l’ideologia marxista che anima il MAO, tutti aspetti che il movimento di Coumboscuro non ha mai condiviso. Il movimento di Santa Lucio che a differenza del MAO non assumerà mai vere connotazioni politiche, grazie a un piccolo, troppo piccolo, finanziamento regionale e alla grande passione del gruppo, realizza durante tutto l’anno una serie di attività culturali, editoriali e, a differenza di altri gruppi provenzalisti od occitanisti, accoglie anche la sfera spirituale della tradizione religiosa locale naturalmente nella lingua provenzale. Arneodo mi descrive l’azione del “Centre Provengal de Coumboscuro” durante tutto l’anno, con appuntamenti ampiamente collaudati che non sono e non vogliono essere folclore ma riaffermazione della vita di ieri ma anche di oggi. Il 6 gennaio: si apre l’anno con Lou journ di Rei (l’Epifania). Bambini e adulti recitano il dramma di storia locale che Arneodo prepara tutti gli anni e che è l’unico teatro provenzale sul versante padano, seguono musiche e danze provenzali. La seconda domenica di luglio vi è Lou Roumiage de Provenço a la Vierge Maria Adoulourado. La popolazione percorre un tracciato di tappe e soste a piloni votivi recitando il rosario “senz gene” in provenzale e con i propri costumi. Ad agosto c’è il Festenàl (festival), du- 24 - Quaderni Padani ra tutto il mese e vi partecipano gruppi di musica etnica europea e non solo: quando i gruppi sono più numerosi, el Festenàl si estende a diverse località alpine. Il primo fine settimana di settembre si realizza l’appuntamento principale con “La Traversado”. Gruppi di provenzali si danno appuntamento in gruppi di 50-70 persone in diverse località d’oltralpe (Barcelonette, Queiras, Saint Martin Vésubie, eccetera) e di lì a piedi raggiungono la Provenza padana e di qui Coumboscuro, ove vengono accolti con fiori e abbracci. La Traversado testimonia l’unità di lingue e di culture ed è la prova che le Alpi non hanno mai separato popoli differenti ma hanno storicamente sempre unito le medesime popolazioni. Il sabato si apre il salone di liuteria tradizionale e di gastronomia alpina, e si svolge un convegno dibattito con temi d’interesse provenzale; la sera si chiude con “La nuech dal fueiasser” quando si brucia il fantoccio che rappresenta la fine dell’estate. La domenica concludono il Roumiage (derivazione di “romeo”, colui che percorreva per pellegrinaggio la via romea) la messa in lingua e, quest’anno, la presentazione in anteprima del film coprodotto da Coumboscuro “Aiga d’en viage” nel quale si racconta l’alluvione che colpì le montagne nel 1957. Ad arricchire ulteriormente il Centre Prouvençal, visitato da numerose scolaresche, non mancano corsi di aggiornamento e concorsi letterari. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Il MAV – Movimento Autonomista Valsesiano di Marco Giabardo I l 3 Febbraio 1980, con atto del Notaio Giulio Cortese di Varallo Sesia, si costituiva l’Associazione denominata “MAV - Movimento Autonomista Valsesiano”. Lo scopo del Movimento era, come descritto nell’articolo 3 del suo atto costitutivo, di “sviluppare l’autonomia della Valsesia nelle forme costituzionali più opportune”. L’idea era nata pochi mesi prima dall’incontro di tre amici, che vivevano in quel periodo le loro prime (deludenti) esperienze nel campo amministrativo locale (in qualità di aderenti al PSDI ), con una quarta persona (il locale Segretario del PLI ) che poteva mettere a disposizione la sua esperienza nell’amministrazione comunale maturata in precedenza. L’obiettivo era, per l’appunto, quello di slegare la Valsesia e il suo possibile futuro sviluppo, dalle pesanti pastoie politico-burocratiche che impedivano a chiunque non fosse strettamente legato a un partito politico di esprimere qualche idea o tentare la realizzazione di un qualsiasi progetto; oltre che promuovere azioni al fine di restituire ai Comuni i poteri decisionali e la gestione delle risorse economiche che territorial- mente gli competono e, ancora, di eliminare gli ostacoli di comunicazione diretta con la Regione costituiti dalle istituzioni locali allora operanti (Consiglio della Valle e Comunità Montana) e dalla Provincia. Queste, a grandi linee, erano le principali aspirazioni di quel Movimento che intendeva costituirsi, ispirandosi alle formazioni analoghe che erano sorte da tempo in Valle D’Aosta, in Val d’Ossola e a Trieste (il cosiddetto Melone). Ma proprio durante le riunioni per la stesura dello Statuto vi furono già le prime divergenze che riguardavano gli Enti di cui si sarebbe dovuto chiedere l’eliminazione e, prima ancora di costituirsi ufficialmente, il MAV ha conosciuto la prima dissidenza, con l’abbandono di uno dei suoi promotori. Avrebbe potuto restare un dettaglio marginale, che infatti non impedì all’idea di concretarsi con la ufficializzazione di un atto costitutivo avvenuta anche con l’apporto di altre persone, ma in realtà quella prima divisione era lo specchio di un malessere e di una propensione al frazionismo che avrebbero impedito al Movimento qualsiasi operatività. Infatti, tutte le persone che vi aderirono e che in sua rappresentanza entrarono in Bandiera della Valsesia (Aquila gialla su campo a fasce qualche modo nei vari Consigli Coalternate bianche e verdi) munali e nel Consiglio della Comunità Montana non fecero granchè e mai tentarono neppure di affrontare in maniera concreta il tema dell’autonomia e del suo raggiungimento. Quel movimento era di fatto nato morto: l’idea di autonomia e, soprattutto, la consapevolezza della sua necessità per la Valsesia (che ha una forte tradizione identitaria e di autogoverno storico) non sono però mai venute meno. In questi ultimi mesi si è nuovamente costituito un movimento di opinione con lo stesso nome ma – si spera – con esiti più confortanti. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 25 Le comunità walser di fronte all’autonomia di Ferruccio Vercellino O ggi, almeno in Europa, i movimenti autonomisti sono particolarmente attivi e, per il solo fatto di esistere, evidenziano l’attuale crisi storica dei grandi stati-nazione, nati artificiosamente, e quindi privi di quell’afflato popolare che avrebbe potuto giustificarli. Gli attenti osservatori di questi fenomeni hanno ben presto notato, non senza stupore, come le comunità Walser mai si siano costituite in movimento politico autonomista ed hanno fornito a tale comportamento le più svariate spiegazioni, non esimendosi da quelle piuttosto balzane di inattività e disinteresse politico. La realtà mi pare diversa e può essere semplificata dal fatto che i Walser (qui si parla delle comunità del versante meridionale alpino, ma il discorso può valere per qualsiasi altro loro insediamento) desiderano l’autonomia nè più nè meno di qualsiasi altro cittadino padano, che sempre più sente il distacco da un potere centrale di cui percepisce solo l’arrogante aspetto impositivo. Se la risposta è semplice, essa costituisce anche l’effetto di concause più complesse che è opportuno indagare e che affondano le loro radici nella storia. I Walser, come ormai tutti sanno, sono originari dell’Alto Vallese tedesco (si tratta della valle del Rodano e, più in particolare, della sua testata chiamata Goms). Si può dunque sgomberare il campo dal facile errore che vorrebbe queste genti costituire un’etnia: non esiste un popolo Walser, ma alemanno o germanico. La loro specificità deriva non da motivi etnici, ma giuridici. Gli Alemanni, provenienti dal nord e venuti a coltivare l’Alto Vallese, possedevano già lo status di coloni con le relative “libertà dovute al dissodamento”, che li distingueva da qualsiasi altro contadino medievale, su cui gravava la pesante oppressione del potere politico locale. Tale caratteristica giuridica si concretizzava nella libertà personale, nel basso canone di affitto ereditario (vera innovazione concettuale del tempo) e nell’autonomia giudiziaria e ammini26 - Quaderni Padani strativa. Il primo documento scritto in cui compaiono questi elementi, pare essere la dichiarazione di libertà rilasciata da Marquandus di Morel della famiglia dei Conti di Castello sin dal 1277. Altro esempio, relativo al desueto concetto di basso canone d’affitto ereditario, è quello di Formazza del 23 giugno 1416: “Henricus fq. Petri Suzii di Antillone di Sopra (Formazza), riscatta da Guifredinus Rodis Baceno le terre di Antillone da lui godute fino allora a titolo di affitto ereditario per il canone annuo di 20 libbre di formaggio buono” (Orig. perg. lat., Formazza, Arch. Priv.). Il particolarismo giuridico walser trova la sua ragion d’essere nel desiderio che i “Signori delle Alpi” avevano di sfruttare le terre incolte, per trarne profitti economici, e anche politici per quelle valli collegate a passi alpini rilevanti. Niente di meglio, dunque, che utilizzare quei “colonizzatori di ventura” che erano i Walser e che avevano già dato, nell’Alto Vallese, prova di indubbia capacità e di adattabilità in insediamenti ambientalmente difficili. Gli stanziamenti walser, che si consolidano tra il XIII e il XV secolo in molte località alpine (per citare le più conosciute: Juf nei Grigioni, Gressoney, Alagna, Macugnaga, Formazza, Zermatt, Andermatt e Davos) vedranno sempre riconosciute quelle particolarità giuridiche che costituiranno il “diritto dei Walser”, vero segno distintivo delle “genti del Goms” ( lo stesso termine “Walser” - derivato di Walliser che significa Vallesani - è convenzionale, e compare nel versante meridionale delle Alpi solo a partire dagli anni ‘30 del XX secolo). È del tutto evidente che nel corso degli anni sia venuto meno, perchè progressivamente privo di significato sociale e politico, il particolarismo giuridico dei Walser e, quindi, il secondo motivo (il primo, quello etnico, non è mai esistito) che potrebbe oggi portare a una rivendicazione di autonomismo. Esiste una terza, possibile motivazione: la tiAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 pologia socio-economente sono anche il mica di una comurisultato di nuovi nità walser e che riequilibri interni che corre in tutti (e sono si sono realizzati nel molti e distinti) i loro momento in cui le atinsediamenti. Gli stutività agro-pastorali diosi sono tutti consono progressivacordi nel riconoscere mente scadute d’imall’organizzazione portanza, in consewalser la connotazioguenza di una minor ne di “gruppi corpoconcentrazione della rativi chiusi”, seconpopolazione, e con do la ben nota definiesse tutta una costelzione dell’antropololazione di pratiche go inglese S. F. Naeconomiche, di oriendel: “raggruppamenti tamenti di valore e di a base territoriale che principi di organizzasvolgono un comzione sociale, politica plesso di attività coe religiosa”. muni in vista del ragL’impoverimento delgiungimento di mete Bandiera delle comunità Walser di Padania la tradizione, è oggi sia individuali che (Dieci stelle bianco-rosse su campo bianco e confermato dal pernicollettive”. Anche rosso) cioso affermarsi dello questo modello è ve“pseudotradizionalinuto meno sotto i colpi di maglio di due diversi smo”. Si osservano, infatti, in diverse comunità e prioritari elementi. Il primo è che la stessa co- walser taluni atteggiamenti che denotano un demunità ha da sempre avuto la necessità di siderio di ritornare alla tradizione, ma senza aprirsi all’esterno, per la commercializzazione l’opportuna conoscenza della stessa. Casi embledei propri prodotti e per l’acquisto di ciò che al- matici tra i molti sono “antiche” maschere carla stessa occorreva e l’altro è il fenomeno dell’e- nevalesche, strani abiti tradizionali (soprattutto migrazione, soprattutto stagionale, che vede il maschili) e bandiere che spesso non hanno alcusuo massimo sviluppo nei primi decenni del na giustificazione storica. ‘900 e che reca con sè nuovi modelli e nuovi biAltro elemento che ha contribuito al dissolvisogni (un banale esempio è l’introduzione, in mento del “gruppo corporativo chiuso”, è il vequegli anni, delle bevande superalcoliche nelle nir meno della territorialità, fondata sulla procomunità walser con gravissime ripercussioni prietà comune (tra famiglie o “fuochi”) delle tersociali). Questi elementi hanno favorito il dis- re a pascolo. Oggi, e per effetto di una legislaziosolvimento del “gruppo corporativo chiuso” ed ne che risale agli anni ‘20, le poche proprietà cohanno fortemente inciso anche sulla tipicità muni che ancora esistono, sono gestite dal Codella cultura walser. A tale proposito sono em- mune anche se i terrieri radunati in consiglio blematiche le considerazioni di un valente stu- hanno il diritto di esprimere le loro opinioni che dioso quale Paolo Sibilla (I luoghi della memo- dovrebbero essere tenute in gran conto. ria, San Giovanni in Persiceto, 1985): “Per Ciò che ho evidenziato, non deve comunque quanto le comunità walser abbiano conservato giustificare un atteggiamento pessimista nei più a lungo che altrove taluni modelli di cultu- confronti delle potenzialità autonomiste dei ra, anche rilevanti, che denotano ancor’oggi Walser. Queste però vanno indirizzate a un prouna origine indubbiamente arcaica, tuttavia getto più vasto: autonomismo non in quanto tali modelli hanno subito nel tempo dei sensibi- Walser, ma come parte di una più vasta “famili mutamenti, adattandosi alla situazione gene- glia” di popoli (quelli padani) che, valorizzando rale e locale che si andava modificando. Questi le loro lingue e i loro retroterra culturali e storiadattamenti sono da collegarsi ad un fenome- ci, sentono questi elementi come motivo di no globale, che riguarda la società nel suo in- unione, in contrapposizione a quelli imposti da sieme e riflettono il passaggio da un equilibrio una sempre più estranea e ringhiosa “unità nacongiunturale ad un altro. Contemporanea- zionale”. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 27 Il voto valdese di Ettore Micol R iassumere l’orientamento politico dei Valdesi nel dopoguerra non è cosa facile né può essere fatto con pretesa di obiettività sicura date le numerose variabili da considerare. Diremo subito che nelle Valli del Pellice, del Germanasca e in una parte della bassa Val Chisone, nucleo storico residuo della popolazione Valdese, il voto non è mai stato compatto e che la stessa natura del collegio elettorale, comprendente una buona parte di pianura, colloca questo popolo-chiesa in una posizione di minoranza valutabile in uno scarso trenta per cento dell’elettorato. Per questo gli eletti locali sono stati in maggioranza di area democristiana, fin che la cosa è stata possibile, con qualche affermazione socialista o repubblicana. Ma veniamo al tema: i Valdesi non hanno forza sufficiente per eleggere un loro rappresentante nel parlamento romano ma potrebbero, se uniti, essere il valore determinante per decretare la vittoria di qualcuno. Tuttavia, uniti politicamente non lo sono mai stati. Da secoli abituati alla democrazia partecipativa, alla discussione e al confronto assembleare non hanno mai saputo riconoscersi in un partito o in un leader che li rappresentasse al di là delle scelte di schieramento. Se a questo aggiungiamo che la chiesa, intesa come istituzione, non ha mai preso posizione a favore di qualcuno, ostentando, almeno fino agli anni ‘70, il suo distacco dalla politica il quadro si definisce meglio. Nel passato più recente molte cose sono cambiate ma la ricaduta in termini di voti di chi ha ritenuto di completare il suo vivere la fede con un impegno politico è sempre stata deludente. Con queste premesse possiamo tentare qualche analisi del voto. Nel primo dopoguerra, in Val Pellice, il Partito d’Azione ha avuto un buon seguito, così come i Liberali che si sono mantenuti numerosi forse soprattutto per la loro tradizione di rigorosa laicità. In Val Germanasca gli elettori si sono meno definiti ma, in genere, si sono rivolti all’area socialista. Persino banale dire che la Democrazia Cristiana ha avuto sempre nelle Valli Valdesi un seguito di assoluta marginalità trovando i pochi voti di cui disponeva attraverso la sua organizzazione agricola. Nonostante queLa bandiera della Comunità Valdese (Candeliere bianco, con sto, come accennato, i risultati luce e stelle gialle in campo azzurro). Solitamente il simbolo è di Collegio l’hanno spesso preaccompagnato dal motto: “Lux lucet in tenebris”. miata. I Comunisti sono stati numerosi, soprattutto nella bassa Val Chisone, ma mai veramente protagonisti. E veniamo a osservare il voto di area autonomista. I Valdesi delle Valli, per improvvida scelta dei loro rappresentanti nella chiesa, non hanno saputo cogliere l’occasione offerta dalla Costituente per rivendicare la loro autonomia. Speravano di poter portare la loro testimonianza in un paese più grande e temevano l’isolamento. In fondo, l’autonomia l’avevano sempre vissuta nei fatti. Avevano i loro ospedali, le loro scuole anche di grado elevato, forme 28 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 evolute di assistenza per gli anziani, i poveri e i malati e non vedevano l’utilità di chiedere ad altri quanto da soli già si erano costruiti. Ma, nonostante gli errori, l’idea autonomista è rimasta, ha dialogato, si è riproposta ed è cresciuta. Trascurate le liste minori, dal MARP al movimento di Gremmo che soffrivano di un’impostazione eccessivamente piemontesista - i Valdesi delle Valli sono Occitani! - e venivano vissute in termini di estraneità culturale e di linguaggio, è stata la comparsa della Lega a segnare un cambiamento. Nel 1994 il leghista e valdese Lucio Malan riuscì a battere il suo autorevolissimo avversario Giorgio Bouchard, pastore valdese e candidato delle sinistre. C’era allora l’alleanza con il Polo ma il voto delle alte Valli, fortemente connotato in favore della Lega, fu sostanzioso molto più di quanto si prevedesse. Dirò, per inciso, che il neo deputato Malan uscì molto presto dal movimento che lo aveva sostenuto provocando il giusto rammarico dei suoi elettori che la volta successiva, quando si presentò con il Polo, non gli rinnovarono la fiducia. Nel 1996 si ebbe la conferma, soprattutto fra gli elettori della montagna, Valdesi compresi e determinanti, del seguito ottenuto dalla Lega. Citerò un esempio personale perché ero io il candidato per il Senato. Alle due della notte dello spoglio, mentre stavo tranquillamente dormendo, fui svegliato da una telefonata degli amici della sede di To- Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 rino. Urlavano il loro entusiasmo per il grande successo. Ma non erano ancora pervenuti i voti della pianura. Tornai a dormire e, alle sei, avevo perso... Per me, meglio così perché sono uso alla bronchite e il ponentino di Roma non mi avrebbe giovato. Ma l’esperienza è significativa, e indica come le minoranze, popoli o montanari, raramente trovano una rappresentanza: i numeri le condannano. Di questo sarebbe giusto discutere prima che sia troppo tardi. Tornando ai Valdesi, noterò ancora come i referendum più significativi, quello sul divorzio e sull’aborto, abbiano avuto nelle Valli percentuali di no addirittura bulgare, spesso superiori al 90 per cento. Forse i Valdesi sono i più divorzisti, abortisti o, come dice qualcuno, libertini del paese? No, una lunga tradizione puritana li rende sostanzialmente immuni da questi problemi. Credono nella coscienza e nella sua libertà. Non delegano le loro scelte a chi, a destra o a sinistra del Tevere, vorrebbe arrogarsi il potere di farlo. Questo io lo chiamo federalismo morale e questo è quanto ha permesso al mio popolo di continuare a esistere nonostante secoli di persecuzioni, angherie, ghettizzazione. Non abbiamo molto da dare al paese se non una testimonianza di coerenza e libertà. Se ci dovessimo rinunciare diventeremmo il paese e sanciremo la nostra fine. Quaderni Padani - 29 I più recenti sviluppi dell’autonomismo piemontese di Martino Mestolo L a sparizione del M.A.R.P., diventata definitiva alle elezioni del 1964, aveva lasciato il vuoto totale nell’autonomismo piemontese che si era ancora una volta rifugiato nelle associazioni e nelle attività culturali. I soli segni di qualche vitalità politica giungono dalle valli occitane: nel 1968 viene fondato il M.A.O., ma si nel 1975 il M.A.C. (Movimento Autonomista Confederale) e nel 1977 è il principale animatore dell’U.O.P.A. che è il primo vero movimento autonomista della nuova generazione di tutto il Piemonte amministrativo. Nel 1973 un Gremmo poco più che ventenne inizia a pubblicare un giornalino in lingua locale chiamato Alp (un nome anche troppo ricorrente nel mondo autonomista padano). Nel 1978 lo stesso Gremmo fonda la rivista Rinascita Piemontese, che diventerà nel 1980 Arnassita Piemontèisa, una testata gloriosissima. Fino ad allora la scena politica era sempre stata dominata dai partiti “ideologici” italiani e le sole presenze autonomiste erano costituite dai tratta in qualche modo di riflessi della stagione politica generale caratterizzata da un grande attivismo soprattutto all’estrema sinistra più ideologizzata e velleitaria. Non è infatti un caso che proprio nello stesso anno Barba Toni (Antonio) Bodrero non sia riuscito a raccogliere nelle valli del Cuneese le firme necessarie alla presentazione della lista della SudTiroler Volkspartei in quel collegio elettorale, in funzione autonomista. Attorno agli anni ’70 si cominciano a diffondere le idee di Bruno Salvadori e anche di Federico Krutwig Sagredo, il grande teorico basco che frequentava le nostre valli, e i frutti cominciano a intravedersi principalmente in Valle d’Aosta, in Ossola e nel Biellese. I primi segnali di ripresa di una nuova stagione di sensibilità hanno come principali protagonisti Alvaro Corradini e Roberto Gremmo. Il primo aveva fondato 30 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 movimenti di riferimento delle minoranze etno-linguistiche “tradizionali” (Val d’Aosta, Sud Tirolo) e delle aree padane di confine con più forte tradizione identitaria (Friuli, Trentino, Trieste). Il vero punto di svolta è rappresentato, nella primavera del 1978, dal tentativo effettuato dall’Union Valdotaine di costituire una lista unitaria per le elezioni europee dell’anno successivo che raccodi razzismo, favorite anche da taluni degli atteggiamenti più radicali di Gremmo. Si inquadra in queste prime vicende il famoso episodio di Luciano Violante che, già ex magistrato ed esponente locale del PCI, interviene a una manifestazione autonomista per “ordinare” alle forze dell’ordine azioni contro i piemontesisti. Alle elezioni europee del 1984, Gremmo si allea con la sigla Union Piemontèisa alla Liga Veneta, alla neonata Lega Autonomista Lombarda (subito dopo Lega Lombarda), al Partito Federalista Europeo e al Partito del Popolo Trentino gliesse il voto di tutte le minoranze. L’obiettivo era di raggiungere il quorum necessario a ottenere almeno un rappresentante. Il partito valdostano si rivolge per la prima volta anche ai rappresentanti di quelle organizzazioni padane che muovono i primi passi sul cammino della coscienza identitaria. I tre candidati che rappresentano l’autonomismo piemontese sono il solito Gremmo, Mario Bodrero (un medico di Fossano) e Michele Vecchiano di Assion Piemontèisa, gruppo fondato a Torino da Luigi Cerchio. La lista raccoglie in Piemonte 31.000 voti (di cui metà in Ossola e fra gli Occitani): i 4.000 voti presi a Biella sono un successo personale per Gremmo, anche se nessuno viene eletto. Incoraggiato dal successo, Gremmo si presenta alle elezioni amministrative del 1980 e ottiene a Torino 15.500 voti con una lista Piemont. Non riesce a essere eletto ma la presenza di una forza autonomista in evidente crescita comincia a preoccupare i partiti romani che inaugurano la stagione delle accuse di antimeridionalismo e Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Tirolese: sotto il simbolo del leone della Liga e con la denominazione di Unione per l’Europa Federalista, l’alleanza prende 160.000 voti nel collegio nord-ovest. I numeri non sono sufficienti per eleggere un rappresentante. Il colpo riesce invece, e per una manciata di voti, all’Union Valdotaine che aveva formato una lista alternativa appoggiata dagli antipiemontesisti occitani: un precedente che peserà a lungo sui rapQuaderni Padani - 31 nale. Il gruppo di Renzo Rabellino e Piero Molino ritiene di ravvisare motivi sufficienti per operare la prima di una lunga e dolorosa serie di scissioni. In particolare, Molino, nel corso di una trasmissione radiofonica lancia un chiaro messaggio a Gipo Farassino (“Caro Gipo il Piemonte aspetta te”), cantante ed esponente della cultura regionale piuttosto noto, che da tempo andava manifeL’effimero “Patto di pacificazione” del 1988 (Da sinistra: Roberto stando aperte simpaGremmo, Umberto Bossi, Franco Rocchetta e Gipo Farassino) tie per il movimento piemontesista. A Faporti fra questi e gli autonomisti piemontesi. rassino (che da questo momento giocherà un Nello stesso anno il movimento si presenta ruolo primario nelle vicende politiche regionali) anche alle elezioni comunali di Casale Monfer- viene offerta la dirigenza di un neonato gruppo rato e dell’Università di Torino, prendendo in denominato Piemont Autonomista, organizzato entrambi i casi il 3% dei voti. in fretta per le imminenti elezioni. Gremmo, alAlle amministrative del 1985 il gruppo prende leato alla Lega Lombarda, anticipa le mosse dei 35.000 voti in Regione e 7.000 voti nel Comune suoi nuovi avversari depositandone il “marchio” di Torino, senza nessun seggio. Per la prima vol- e costringendoli a presentarsi agli elettori con la ta però Gremmo riesce a diventare consigliere sigla Piemont Autonomia Regionale. La presenprovinciale a Torino con i voti della Valsusa: il za di due sigle simili sconcerta un elettorato in suo primo discorso in piemontese suscita scal- rapida crescita. Alle politiche del 1987 Gremmo pore proprio come quello di Giuseppe Leoni che prende in tutta la regione 61.883 voti e Farassiè contestualmente eletto a Varese per la Lega. Al no 72.041 voti: la somma dei due schieramenti gruppo si aggrega Renzo Rabellino. arriva al 4,2% e avrebbe consentito di eleggere Nel 1986 Arnassita Piemontèisa diventa uno o due deputati (in Lombardia con una perUnion Piemontèisa e gli si affianca un movi- centuale del 3% erano stati eletti Bossi al Senamento politico finalmente regolato da uno sta- to e Leoni alla Camera). Molte schede vengono tuto: resta di fatto una struttura a gestione fami- annullate perché votavano un simbolo esprigliare di Roberto Gremmo e di sua moglie Anna mendo la preferenza per il candidato dell’altro Sartoris (che ne sono soci inamovibili) ma è al- schieramento. Dalla rissa esce sconfitto il Piemeno dotato di una parvenza di regolarità for- monte. male. La lotta continua anche nelle elezioni locali, Nel 1987 la formazione ottiene un consigliere dove sembra però godere di qualche vantaggio comunale a Santhià con la promettente percen- Union Piemontèisa-Piemont (collegata con la tuale del 5%, segno di una generale crescita di Lega Lombarda dal Congresso di Grugliasco del consenso. 1987) che elegge più consiglieri della lista conNello stesso anno viene alla luce la vicenda corrente a Pino Torinese, Carignano, Ciriè e poco chiara di un finanziamento (o di un presti- Bussoleno. Fra i due schieramenti si scatena anto) di 55 milioni concesso dalla Liga Veneta a che una lotta giudiziaria a colpi di querele: comGremmo, che, alle accuse di alcuni dei suoi non pare sulla scena in questo periodo Mario Borrisponde con argomentazioni ritenute soddisfa- ghezio, come avvocato di Gremmo contro Farascenti a diradare ogni dubbio di vantaggio perso- sino. 32 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Per risolvere la dolorosa divisione interviene MAO, Union Piemuntèisa, Unione Slovena, infine Umberto Bossi che costringe i due con- Partito Sardo d’Azione, Partito Autonomista tendenti a pacificarsi in nome del comune inte- Trentino Tirolese. Alle inconciliabilità ideologiresse della lotta autonomista. Nel 1988 i due che e storiche fra alcuni dei movimenti si era movimenti piemontesi confluiscono nello schie- aggiunta nello specifico caso piemontese l’eviramento autonomista che si andava riorganiz- dente incompatibilità personale fra Gremmo e zando attorno alla Lega Lombarda che, grazie ai Farassino che neanche la forte personalità di recenti successi elettorali, aveva ormai soppian- Bossi era riuscita a fare convivere per più di potato la più antica Liga Veneta nella leadership che settimane. A seguito della decisione di fare dei gruppi autonomisti e federalisti. da soli, Gremmo viene abbandonato da alcuni La pace è però di brevissima durata: nello stes- dei suoi collaboratori, come il noto Barba Toni so anno Gremmo si presenta senza consultare Bodrero, Vastapane di Pino Torinese e Angelo gli alleati alle elezioni regionali della Valle d’Ao- Colli, che passano con Farassino e perciò con la sta con una lista denominata Union Autonomi- Lega. Colli diventerà in seguito Presidente della sta e la cosa viene vista come uno sgarbo all’U- Lega Nord Piemont e sarà espulso da Farassino nion Valdotaine, verso cui tutti gli autonomisti alla vigilia delle elezioni del 1992 in una delle padani avevano comunque sempre tenuto un at- tante purghe che seguiranno. Avviene in quel teggiamento deferente, se non altro per i tratti momento un autentico rovesciamento di alleandi strada percorsi assieme nel passato. Conferme ze che avrà notevoli conseguenze sulla vicenda delle ambiguità della politica di Gremmo vengo- piemontesista: Gremmo che aveva vissuto da no da una serie di accuse e di forti sospetti circa protagonista tutta la prima fase del generale rifinanziamenti occulti che lo stesso avrebbe avu- sveglio autonomista si stacca dai suoi alleati di to da Roma. Nella vicenda si schierano con lui i sempre (Lega e Liga) e il suo posto viene preso suoi fedelissimi, fra cui Roberto Vaglio e Andrea da gente che fino ad allora era rimasta estranea Fogliato. a quel mondo. La precaria alleanza si rompe definitivamente Piemont cerca perciò da sola le firme necessaquando l’Union Piemontèisa decide di presen- rie alla presentazione della lista nel collegio tarsi da sola alle elezioni europee del 1989 con Nord-Ovest: con Gremmo ci sono Roberto Sela sigla Piemont: la decisione viene presa nel ghesio, Jean-Michel Novero, Dario Barattin, Ancorso di una infuocata riunione nella sala consi- drea Fogliato, Franca Billi, Roberto Vaglio, Anna gliare del Comune di Rivoli che entra con Convegno di Torino contro la droga e l’immigrazione del marzo 1990 una inquietante con- (Da sinistra: Anna Sartoris, Roberto Gremmo e Enrico Villarboito) notazione di luogo infelice nella storia dell’autonomismo piemontese. La vicenda non è chiarissima e nasce dal mancato accordo di tutti gli autonomisti a presentarsi con una lista unica, cui avrebbero dovuto partecipare (secondo uno slancio di ottimismo veramente eccessivo, viste le pulsioni del mondo autonomista) Liga Veneta, Movimento Friul, SVP, HeimatBund, Partito Indipendentista Sudtirolese, Lega Lombarda, Union Valdotaine, Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 33 Sartoris, Mario Tosco e gran parte del gruppo dirigente originario del movimento. Qualche tentativo di ricomporre la frattura viene operato da Bossi, che fino all’ultimo non vuole abbandonare il discusso vecchio amico nonostante la scarsa coerenza del suo comportamento. L’obiettivo non viene raggiunto per poche decine di firme: perché – secondo alcuni – c’era un cospicuo numero di firme fasulle e taroccate, o perché – secondo Gremmo - 62 certificati pieni di firme provenienti dalla Valle d’Aosta sarebbero stati fatti sparire da Fogliato. L’episodio sarà oggetto di una interminabile serie di procedimenti giudiziari che si concluderanno con sentenze molto mediterranee del tipo “il Segretario di un movimento politico non può essere ritenuto responsabile di atti illeciti (la produzione di firme fasulle) commessi all’interno del movimento stesso”. suo macabro simbolo) cui dà una forte connotazione di intolleranza e con la quale tenta di coinvolgere anche Enrico Villarboito, il vecchio fondatore del M.A.R.P. Allo stesso momento allaccia rapporti con i fuoriusciti della Lega Lombarda inaugurando una linea di condotta che ricomparirà spesso nel futuro, con il riaffiorare periodico di accuse di “centralismo lombardo” al movimento padanista. L’insieme di questi personaggi crea la Lega Alpina Lombarda che riuscirà a sopravvivere per un po’ sulla scia del successo della Lega vera e giocando sull’equivoco dei simboli elettorali. In questo clima, nell’ottobre del 1989 Mario Costero, un dirigente di Moncalieri dell’Union Piemontèisa viene ucciso a revolverate da un meridionale. Nel frattempo il gruppo di Farassino (Piemont Autonomista – Movimento Autonomista Piemontese) aveva dato vita, nel dicembre del 1989, alla Lega Nord assieme agli altri movimenti autonomisti regionali padani: Lega Lombarda, Liga Veneta, Union Ligure, Alleanza Toscana, Lega Emiliano-Romagnola. Alle elezioni regionali del 1990 i due movimenti si presentano ovviamente separati e antagonisti: Piemont prende 64.000 voti e un seggio (Anna Sartoris) e Piemont Autonomista, col 5,4%, elegge tre consiglieri: Gipo Farassino (poi sostituito dal 1992 da Antonio Bodrero), Renzo Rabellino e Roberto Vaglio. Gremmo viene rieletto in Provincia di Torino. Va segnalato che le varie liste autonomiste avevano raccolto il 7,3% dei voti (12,7% se sommati a Il “Presidio antilombardo” del giugno 1991 a Trecate quelli della Lega). La sconfitta accentua il rancore antileLa divisione politica e le tristi vicende delle ghista di Gremmo che organizza nel giorno delfirme hanno un riflesso fortemente negativo la adunata di Pontida (giugno 1991) un folclorisull’elettorato autonomista che non partecipa al co presidio dei ponti sul Ticino per impedire il voto: la Lega (che in tutto il collegio riesce a fa- passaggio dei “lumbard”: è l’ultimo atto di forte re eleggere due parlamentari europei) arriva in visibilità di un personaggio che pure aveva dato Piemonte a circa 40.000 voti soltanto (2,1%). La molto alla causa dell’autonomismo piemontese poco chiara vicenda delle firme false o sparite ma che, alla fine, si era ridotto a uno sterile reproduce un’altra scissione in Piemont: Tosco, gionalismo dalle connotazioni identitarie e geoFogliato e Vaglio passano con il movimento di grafiche piuttosto stravaganti. Alle elezioni del Farassino che assume importanza sempre più 1992 raggranella i voti di pochi intimi e, allo forte soprattutto in virtù della sua alleanza con scadere dei mandati elettivi conquistati dai suoi gli altri gruppi padani. famigliari e ultimi sodali, scompare dalla scena A questo punto Gremmo, per cercare di inver- politica per dedicarsi ad attività di ricerca storiotire un trend che sembra inarrestabile, fonda grafica e a iniziative editoriali nelle quali riesce una Lega contro la droga e l’immigrazione a mettere a frutto le sue indubbie capacità e a clandestina (detta “Lega del teschio” a causa del continuare a contribuire in maniera qualificata 34 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 sul piano culturale alla causa piemontesista. Le elezioni politiche del 1992 sono invece un grande successo per la Lega Nord Piemont che, con il 17,7% dei suffragi, fa eleggere quattro senatori (Giuseppe Bodo, Luciano Lorenzi, Marco Preioni e Massimo Scaglione) e nove deputati (Stefano Aimone Prina, Mario Borghezio, Domenico Comino, Gipo Farassino, Alda Grassi, Bruno Matteja, Claudio Pioli, Mauro Polli e Oreste Rossi). L’Alleanza Alpina di Gremmo e Brivio (fatta da Union Piemontèisa, Alleanza Lombarda e Veneto Autonomo) arriva al 2,5%, la lista Federalismo allo 0,3% e uno sconosciuto Piemont Liber allo 0,5%. La forte crescita del movimento leghista non sopisce Schema indicativo delle scissioni e del consenso elettorale dei movimenti però la vocazione al- autonomisti piemontesi dal 1984 a oggi. La larghezza del tracciolo è prola rissosità interna porzionale al numero dei voti ricevuti alle consultazioni indicate. I tratche costituisce una teggi denotano sparizioni temporanee o definitive. L’incrocio in alto fra sorta di maledizione le due principali tendenze testimonia l’effimero “Patto di pacificazione” costante del pie- fra Gremmo e Farassino del 1988. Sulla destra del tracciolo della Lega montesismo: nel Nord Piemont sono segnati i periodi dei vari Segretari Nazionali 1993 se ne va, per contrasti con Farassino e per non essere riuscito con esiti meno che modesti. Con lui si schierano a scalzarlo dalla Segreteria, Renzo Rabellino, in un primo momento anche il deputato Claudio che fonda un suo partitino (Lega per il Piemon- Pioli e il periodico Vento del Piemonte. te e poi Piemonte Nazione) che si presenta alle È anche la stagione dei successi amministraamministrative dello stesso anno senza grande tivi: favorita dalla sparizione di gran parte dei successo. Ci riproverà alle politiche del 1994 partiti tradizionali e dal temporaneo disorienta(raggranellando un 2,5% circa) e alle europee mento dei gruppi di potere che hanno sempre dello stesso anno (ribattezzato Piemonte Nazio- gestito gli enti locali della regione, la Lega vinne d’Europa) con l’Union Valdotaine (lista Fe- ce alcune importanti elezioni locali. Prende i deralismo) e alle regionali del 1995, ma sempre sindaci di Alessandria, Acqui Terme, Vercelli, Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 35 Novara, Stresa e Domodossola, oltre a molti altri centri minori. A Torino arriva a un interessante 23,4% e manca il ballottaggio per un soffio e, probabilmente, per qualche pastrugno di regime nei conteggi dei voti. Gran parte di queste amministrazioni finiranno male: una debole signora a Vercelli si dimette dopo pochi mesi, Novara, Stresa e Domo vivacchiano fino alla fine ma tutti i tre sindaci escono dal Movimento per seguire tristi strade in altri partiti o verso l’oblio. Solo Alessandria ed Acqui resistono e i loro sindaci vengono riconfermati per un secondo mandato. Nel febbraio del 1994 ben 250 militanti sfiduciano Farassino che li espelle in blocco. Nel 1994 la Lega Nord Piemont, pur penalizzata dalla presenza di Forza Italia che catalizza i consensi di tanti sedicenti autonomisti o di piemontesisti tiepidi, non va oltre il 15,8 % ma, in virtù della legge elettorale maggioritaria, manda a Roma 11 senatori e 23 deputati. Si tratta di un gruppo raccogliticcio, poco coeso ed evidentemente anche poco motivato giacchè, allo strappo con Belsusconi, ben 18 di loro (il 53%, la percentuale più alta fra tutte le nazioni padane) se ne vanno dalla Lega. La abbandonano i senatori Giovanna Briccarello, Gilberto Cormegna, Giorgio Gandini, Bruno Matteja e Maria Grazia Siliquini, e i deputati Stefano Aimone Prina, Luca Basso, Alida Benetto Ravetto, Gian Piero Broglia, Flavio Caselli, Furio Gubetti, Lelio Lantella, Lucio Malan, Valerio Malvezzi, Francesco Miroglio, Mauro Polli, Pier Corrado Salino, Riccardo Sandrone. Qualcuno di loro forma un movimento di federalisti che cerca di legittimarsi come la “quarta gamba” del Polo ma che non ottiene nessuna attenzione reale né spazio dai suoi nuovi alleati. Altri si intruppano direttamente in altri partiti ma solo la Siliquini riesce a farsi rieleggere nel 1996 nel CCD. Ad essi si unisce poco più tardi il consigliere regionale Vaglio che forma un nuovo gruppo di Federalisti Europei, piuttosto contiguo ad AN. Nella Lega restano invece i senatori Matteo Brigandì, Luciano Lorenzi, Marco Preioni, Claudio Regis, Mario Rosso e Massimo Scaglione; e i deputati Luciano Bistaffa, Mario Borghezio, Roberto Ceresa, Domenico Comino, Sebastiano Fogliato, Tibaldeo Franzini, Claudio Percivalle, Oreste Rossi, Paolo Tagini ed Emilio Zenoni. Nel Governo Berlusconi il Piemonte era rappresentato da Comino (Ministro per il Coordinamento delle politiche della Comunità europea), Bor36 - Quaderni Padani ghezio (Sottosegretario alla Giustizia), Aimone Prina (Sottosegretario ai Lavori Pubblici) e Polli (Sottosegretario alla Difesa). Alle europee del 1994 viene eletto per la prima volta un piemontese, Gipo Farassino che si trova a concentrare sulla sua persona o ad avere collezionato un cumulo di cariche incredibile: Consigliere Comunale e Regionale, Deputato a Roma, Eurodeputato e Segretario Nazionale. È un record assoluto. Alle elezioni del Sagretario Nazionale nell’ottobre 1994 Farassino riesce a prevalere su Tino Rossi per poco più della metà dei voti dei delegati. Alle elezioni regionali del 1995 la Lega scende al 9,9% ed elegge 5 consiglieri (Giancarlo Bellinceri, Claudio Dutto, Gipo Farassino, Daniele Galli e Roberto Rosso). Vaglio riesce a farsi rieleggere come autonomista del Polo e diventa Assessore. Dopo pochi mesi dall’elezione, Galli, con grande tempismo, passa a Forza Italia. Le politiche del 1996 rappresentano anche per il Piemonte il momento di maggiore consenso elettorale della Lega: con il 18,2% vengono eletti tre senatori (Guido Brignome, Luciano Lorenzi e Marco Preioni) e quattro deputati (Mario Barral, Mario Borghezio, Domenico Comino, Oreste Rossi). Il Movimento conferma la propria forza nelle sue roccaforti storiche: il Cuneese, le Valli occitane e franco-provenzali e l’Ossola. Nel 1996 viene formato il primo Governo provvisorio della Padania nel quale il Piemonte è rappresentato da Gilberto Oneto (Identità) e da Massimo Scaglione (Cultura e Spettacolo): una presenza che lascerebbe intendere – purtroppo a torto - una speciale attenzione per la cultura all’interno dell’ambiente del leghismo piemontese. Nei Governi successivi il Piemonte sarà rappresentato da Mario Borghezio che diventa addirittura il capo dell’ultima edizione. Sul Po e a Venezia il 15 di settembre del 1996 il Piemonte è presente con un numero grandissimo di persone: per l’occasione si riavvicinano al Movimento anche numerosi autonomisti che si erano allontanati o che erano stati allontanati dal dirigenti locali. Poco dopo, nel 1997, Comino sostituisce alla Segreteria Nazionale Farassino che comincia la sua parabola discendente: ha rappresentato per anni e nel periodo di massima crescita il leghismo piemontese di cui è stato una sorta di padre-padrone. Ha però avuto grandi responsabilità anche nel prepararne il declino: cattiva scelta dei collaboratori, nepotismo, indifferenza per Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 le istanze culturali e identitarie, abuso dello niani: questi costituiscono un movimento destrumento dell’espulsione. nominato Piemont – Movimento Federalista A confermare l’importanza della regione all’in- Piemontese che si allea – con una prassi già terno del movimento padanista, Comino è eletto collaudata a suo tempo da Gremmo – con tutti l’anno successivo capogruppo alla Camera. gli altri fuoriusciti della Lega (Gnutti, ComenLa stagione di crisi del consenso autonomista cini, eccetera) che danno vita all’Ape (Autononon risparmia il Piemonte che ne è anzi una misti per l’Europa). delle cause. Comino continua la politica di FaCon Comino se ne vanno il deputato Barral, il rassino di insensibilità per le istanze culturali consigliere regionale Rosso e il senatore Lorenidentitarie (a parte un inutile tentativo effettua- zi. Ad essi si uniscono il sindaco di Alessandria to da Barral nel 1998 di instaurare rapporti di (Francesca Calvo) e quello di Mondovì (Riccardo collaborazione con gli esponenti più noti dell’occitanesimo) e di propensione alle epurazioni facili. Il Movimento perde di efficienza e di capacità di contatto con la gente: vengono trascurati i temi dell’autonomia e dell’identità, la cultura padanista viene ignorata e si concede troppo spazio al cadreghismo e al frazionismo interno. Alle elezioni europee del 1999 la Lega precipita Grafico del consenso elettorale leghista nelle cinque regioni amministrative in Piemonte al a statuto ordinario della Padania 7,8 % e non manda nessun rappresentante a Strasburgo. Subito dopo, Co- Vaschetti, da alcuni considerato il vero ispiratomino, seguendo oscuri e non interpretabili di- re di tutta la vicenda), il presidente del Consiglio segni, si mette in rotta di collisione con la Lega: provinciale di Novara (l’ex deputato Emilio Zea Pontida (giugno 1999) attacca duramente la noni) e Piero Molino, uno degli ultimi superstiti base indipendentista e viene rumorosamente del primo autonomismo. Ma si tratta di una contestato. Da questo momento il suo compor- compagine troppo eterogenea, unita da motivatamento diventa inspiegabile: si scusa per le sue zioni di interesse personale e di rancore verso la dichiarazioni (in un incontro a Rivoli, in un Lega, per poter costruire qualcosa di positivo: luogo evidentemente infausto per la piemonte- fin da subito scoppiano dissidi interni. La comisità) ma organizza una scissione in grande stile, tiva finisce poi per confluire in larga parte e docondanna l’isolamento della Lega ma critica i po le elezioni in AN, con grande coerenza autosuoi successivi riavvicinamenti al Polo, dopo nomista e padanista. averne sollecitato il vassallaggio. Al Congresso Non va però molto meglio alla Lega che, in un straordinario della Lega Nord tenutosi a Varese agitatissimo Congresso tenutosi a Torino nel il 25 luglio del 1999 lo strappo è sancito con gennaio 2000, elegge con il voto di circa un una serie di provocazioni organizzate dai comi- quarto degli aventi diritto come suo nuovo SeAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 37 gretario Nazionale Bernardino Bosio, sindaco di Acqui Terme: le modalità di svolgimento e gli esiti del Congresso infieriscono un colpo pesantissimo alle anime più profonde e vitali - piemontesista e padanista – dell’autonomismo subalpino. La dirigenza storica si è dissolta (solo 8 dei 40 parlamentari eletti nel 1992, 1994 e nel 1996 sono ancora parte del Movimento) e alla guida di una base frastornata e demotivata restano solo uomini di apparato, senza carisma personale né forti e sincere motivazioni ideali da trasmettere al popolo leghista. I due movimenti piemontesi si presentano divisi e concorrenti alle regionali del 2000. L’Ape non raccoglie che pochi consensi (1,3%) e la Lega finisce al suo minimo storico (7,6%) con quattro consiglieri (Matteo Brigandì, Roberto Cota, Claudio Dutto e Oreste Rossi): a testimonianza della serietà della crisi, il Piemonte è l’unica regione dove la Lega non recuperi rispetto alle europee. Sembra essere questo il momento più triste del Movimento: pochi i voti raccolti, labili i legami con la forte tradizione autonomista locale, e fiacca partecipazione della militanza alla campagna elettorale. La metà degli eletti non sono neppure di origine piemontese. A Torino città il Movimento incontra le maggiori difficoltà: con circa il 3,5%, ha preso molto meno di quello che aveva raccolto il M.A.R.P. quasi cinquant’anni prima (5,87%), e circa un decimo di quelli che aveva raccolto nel 1993. Grazie all’accordo con il Polo, la Lega partecipa però al governo regionale: ha, con Roberto Cota, la carica di Presidente del Consiglio Regionale ma non ottiene l’Assessorato alla cultura a causa di maldestre manovre interne e di diatribe clientelari che mettono la dirigenza locale in dissidio con la linea di chiarezza di quella federale. La base si rifugia ancora una volta nell’associazionismo culturale che non sembra però godere di maggiore coesione: a un indubbio successo in numero di aderenti e in fervore di iniziative, le Associazioni oppongono una crescente rissosità che nei giorni in cui questo articolo viene redatto vede due delle maggiori organizzazioni protagoniste di una furibonda lite giudiziaria. L’arrivo di finanziamenti e di sovvenzioni regionali non fa evidentemente bene a certa parte dell’associazionismo piemontesista o sedicente tale. Negli ultimi dieci anni hanno ricevuto finanziamenti regionali: Alp, Noste Reis, Centro Studi “Pinin Pacot”, Associazione Effepi (Franco-provenzali), Associazione piemontesi nel 38 - Quaderni Padani Mondo, Musicalbrandé, Ousitanio Vivo, Associazione Soulestrelh (occitani), Valados Usitanos, Centro Studi “Don Minzoni” (Armanach Brandé e poi Piemontèis Ancheuj), ACLOP (Associazione Cultura Locale Piemontese), Famija Turinèisa, Cà Nostra, Al Sol dj Alp, Gioventura Piemontèisa e altre che si occupano di corsi di piemontese. Restano fuori dalla rissa le associazioni più esplicitamente padaniste, quelle più legate alla concretezza del progetto unitario e immuni da vaneggiamenti micronazionalistici, che rappresentano il vero incubatore dove conservare e fare crescere ideali e cultura autonomista in attesa di tempi migliori. Qui sopravvivono le forze per rendere possibile un nuovo rilancio di cui ci sono sia le premesse che la necessità. Fonti consultate Libri: ❐ Umberto Bossi e Daniele Vimercati. La rivoluzione. La Lega: storia e idee (Sperling & Kupfer: Milano, 1993) ❐ Umberto Bossi. La lega 1979-1989 (La Padania: Milano, 1999) ❐ Raffaello Cantieri e Achille Ottaviani. I cento giorni della Lega (Euronobel: Verona, 1992) ❐ Domenico Comino. Io sto con la Lega (Sintagma: Torino, 1996) ❐ Ilvo Diamanti. La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico (Donzelli: Roma, 1993) ❐ Claus Gatterer. In lotta contro Roma (Praxis 3: Bolzano, 1994) ❐ Roberto Gremmo. Contro Roma (Aosta, 1992) ❐ Alessandro Leto. La Lega Nord e le altre Leghe tricolori (Delta: Perugia, 1990) ❐ Alessandro Mazzarelli. Né schiavi di Roma, né servi di Milano (Il Cerchio: Rimini, 1998) ❐ Fiorenzo Toso. Frammenti d’Europa (Baldini & Castoldi: Milano, 1996) ❐ Daniele Vimercati. I Lombardi alla nuova Crociata (Mursia: Milano, 1990) Riviste: ❐ Arnassita Piemontèisa ❐ Etnie ❐ La Padania ❐ Lega Nord ❐ Lombardia Autonomista ❐ L’Union Piemontèisa ❐ Piemont Interviste personali Documentazione Segreteria Lega Nord Piemont Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 L a redazione dei Quaderni Padani ha interpellato i personaggi più significativi del panorama della cultura piemontesista contemporanea cui ha rivolto una serie di domande. Quasi tutti gli interpellati hanno risposto con grande disponibilità: qualcuno in maniera puntuale alle singole domande, altri producendo un testo di risposta complessivo. Di seguito riportiamo le risposte che ci sono pervenute. Degli interpellati hanno risposto Gustavo Buratti (Tavo Burat), Beppe Burzio, Sergio Hertel, Ettore Micol, Mariella Pintus, Giovanni Rosso (Gioanin Ross) e Silvano Straneo. Roberto Gremmo ha con gentilezza declinato l’invito dichiarandosi non interessato agli argomenti trattati in quanto non si occupa “più di queste cose ormai da alcuni anni”. Solo Bernardino Bosio non ha ritenuto opportuno farci avere alcun cenno di riscontro. Le domande sono state: 1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. 2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. 3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuovi scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. 5. Quali sono i confini ideali della Patria Cita. 6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. Tutte le risposte, i testi e le note biografiche che ci sono pervenute vengono pubblicate senza modifiche né commenti. I testi sono corredati dalla riproduzione di alcune testate di pubblicazioni culturali piemontesi che sono riportate senza nessun ordine cronologico o tematico e senza alcuna attinenza diretta con le persone intervistate. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 39 TAVO BURAT itengo innanzi tutto che i movimenti autonomisti che caratterizzano molte regioni d’Europa (“nazioni proibite”) siano un manifesto segno premonitore della Storia in evoluzione, che reclama una profonda mutazione dello “Stato-Nazione” centralizzato d’ispirazione giacobina (e quindi soprattutto configurato dalla Repubblica francese e da quella italiana), ormai obsoleto di fronte alla costruzione dell’Europa e alla mondializzazio- R ne. Con la soppressione delle frontiere politiche ed economiche, questi due grandi sconvolgimenti devono riequilibrarsi sulla scala regionale sino a oggi negletta e repressa. La battaglia per l’autonomia e per i diritti dei popoli e delle comunità angariate dallo StatoNazione, hanno costituito, e costituiscono, pertanto, delle battaglie autenticamente “moderne”. I “giacobini”, acciecati, non vi hanno visto che una deriva, un regresso, un’eresia. Il problema delle autonomie bretoni, alsaziane-lorenesi, occitane, catalane, basche, normanne, corse e, in Italia, valdosta40 - Quaderni Padani ne, sarde, friulane, trentino-tirolesi, venete, occitane, lombarde, liguri, emiliano-romagnole e piemontesi – ma non si dovrebbero dimenticare quelle del Mezzogiorno, siciliane, napoletane e in genere attinenti allo Stato delle “Due Sicilie”, il più antico d’Italia – rimettono dunque in causa tutto il sistema, con conseguente confusione e smarrimento dei partiti politici tradizionali, “classici”. Lo Stato giacobino, ora costretto a evolversi, a mutare, scuote tutte le formazioni politiche, sia di destra che di sinistra. Il problema delle autonomie è un problema di Stato a due facce come Giano: una riflette i bisogni delle comunità locali e dei loro diritti, l’altra sta solo ora iniziando a intravedere una inevitabile evoluzione di tutto “l’insieme” italiano. Ciò premesso, per quanto mi riguarda non condivido l’impostazione di chi auspica uno “Stato indipendente piemontese”, cioè ancora uno Stato-Nazione, sia pure a dimensione più ridotta, perché questa mi appare come una battaglia anacronistica, tesa a costituire un Ordinamento giuridico territoriale superato, che affonda le sue radici nella vecchia concezione di “Stato” formatosi per favorire gli interessi di una classe dominante, “forte”. E tanto meno una “Repubblica del Nord” o “Padania” che dir si voglia. Sono fondamentalmente un anarco-socialista, e quindi diffido, direi quasi per istinto, dell’Ordinamento giuridico sovrano, statale. Tutto ciò che va oltre la dimensione umana (quanto si può vedere, dall’alto della valle o del campanile; quanto si può percorrere camminando in una giornata, dall’alba al tramonto…) è, a mio avviso, estremamente pericoloso, falso. La “patria”- così come era sino alla Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 formazione dei grandi Stati-Nazione è solo quella “cita”, perché è semplicemente la terra dei padri: la valle, la comunità in cui siamo nati e cresciuti; o quella in cui abbiamo deciso di vivere e di operare, inserendocisi attivamente; la terra in cui sono sepolti i nostri progenitori; il resto è retorica, artificiosa invenzione. Quindi, patria è il mio paese (quello con la “p” minuscola) e poi, più in là, il mondo intero dei fratelli. Non c’è ragione perché io senta “più fratello” un bolognese, di uno zurighese; un finlandese , di un bantù. Il “confine” non mi interessa. Qual è il confine dell’Europa? Perché dovrei provare sentimenti diversi di qua o di là di un confine? Proprio questa esigenza di “concretezza” dà una particolare configurazione alla mia istanza regionalista. “Regione”: non certo come divisione artificiale, amministrativo-burocratica, ma “regione della natura”, cioè “bioregione”. Intendo con questo termine il luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie animali e vegetali, di microclima, oltre che per la cultura umana che, da tempo immemorabile, si è sviluppata in armonia con tutto ciò. L’optimum sarebbe che anche l’Ente regionale fosse una “Ecoregione”, una sorta di federazione di bioregioni, cioè di insieme biologici tendenti all’autosufficienza e all’autoproduttività, che si sono adattati alle condizioni del loro habitat, dove si realizza un “equilibrio circolare” fra tutti i fattori (produttori di energia, consumatori di energia, eliminatori di rifiuti). La Regione dovrà realizzare la “comunità locale” (non è privo di significato che le ultime “Regioni” nate dal superamento dello Stato centralizzato, in Spagna e nel Belgio, si chiamino appunto “Comunità”) che dà veste concreta a quello spirito di Gemeinschaft, di comunità di destino, entro cui si esprimono secoli di produzione culturale, di attività non sempre eterodiretta, in spazi il più possibile liberi da condizionamenti e Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 affrancati dalla subordinazione; una “comunità di destino” che si contrappone alla Gesellschaft, una società in cui gli individui hanno rapporti di tipo utilitaristico (e pertanto, non apprezzo il regionalismo che agita per lo più proteste fiscali e paure del diverso). È la partecipazione che crea la “comunità”. Ma la partecipazione può operare a due livelli: 1) partecipazione alla gestione dei servizi collettivi: ed è questo l’ambito che finora ha caratterizzato l’Ente locale; 2) partecipazione nella creazione della cultura e dei valori del proprio tempo: e questo è il vero ambito comunitario, finora alquanto – per non dire completamente – trascurato nel dibattito autonomistico e federalistico. Prendendo in considerazione soltanto il primo tipo di partecipazione, si realizza un Ente burocratico di decentramento, non una “comunità” che costituisca anche un centrodi Quaderni Padani - 41 “contro-potere” nei confronti degli organismi superiori, sovente occupati da “potentati” con interessi diversi, quando non opposti, a quelli delle comunità locali. Se si intende fare adempiere alla Regione la funzione essenziale di costituire centri di contropotere in una Società effettivamente pluralista, occorre dunque rendersi conto che è nella dimensione culturale che può venire il richiamo di una svolta necessaria nel disporsi della struttura, come chiaramente testimonia la “Dichiarazione di Chivasso” elaborata da esponenti della Resistenza delle valli valdostane e valdesi, in clandestinità, il 19 dicembre 1943. Sono convinto che l’autonomismo piemontese debba realizzare proprio i postulati di quella “Dichiarazione” che metteva appunto in primo piano l’esigenza di autonomia “culturale”, accanto a quella politica e amministrativa. Il Piemonte, sul quale pesa storicamente la responsabilità di aver dato un fondamentale contributo alla costruzione dello Stato italiano centralizzato e oligarchico, dovrebbe quindi, 42 - Quaderni Padani oggi, essere in prima linea, per il completo superamento dello Stato-Nazione, ritrovando antiche e tradizionali fraternità transfrontaliere (bioregioni a cavallo delle Alpi, posto che lo spartiacque è una frontiera artificiale, imposta; dall’una e dall’altra parte ci sono occitano-provenzali, franco-provenzali, walser…) e la costruzione di un’Europa delle Regioni. Per la realizzazione di una RegioneComunità, la questione della lingua è fondamentale: ma anche qui, occorre essere “concreti” e libertari. Ciò significa esaltare le parlate locali, in quanto strumento di liberazione. E’ ora di finirla con l’alienazione ingiusta e crudele voluta dalla scuola centralizzata, che offende sin nel profondo dell’anima le classi popolari, facendole vergognare delle loro origini popolari, contadine o montanare; occorre liberare il bambino dal dogmatismo di una sola grammatica, favorire in ogni modo il plurilinguismo, partendo dalla lingua della bioregione, e cioè da quella locale. Renderlo edotto di quanto si è potuto “creare” nella lingua locale, e dimostrargli così che l’accademismo non è il solo criterio valido per giungere a una cultura superiore e a valori artistici. Essere libertari significa non essere “imperialisti”. Non ammettere le varietà locali della lingua, e le minoranze linguistiche, significa appunto “imperialismo linguistico”. Il Piemontese comune (koiné) ha una sua tradizione letteraria plurisecolare, con una sua grafia storica come l’hanno le lingue più illustri; non ha quindi senso inventare nuove grafie, creare una lingua “padana” inesistente: ciò non costituirebbe un antidoto all’alienazione, ma una maggior confusione, e non servirebbe, appunto, a liberare l’allievo dalla trappola “dialetto”, che lo Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 avvilisce complessandolo di parlare un linguaggio che “vale meno”, un “minus-valore”. Sono convinto che il giorno in cui la classe dominata dovrà presentare il conto delle “rapine” patite, non ci sarà soltanto il valore del bene prodotto (accumulato dall’imprenditore, oggi sovente da imprese multinazionali); quanto perduto in salute, lavorando in ambienti e con materiali malsani; quanto perduto in scolarità, poiché soltanto gli abbienti potevano accedere agli studi superiori; quanto perduto in dignità ogni giorno, dovendo piegare la testa al “superiore”: ma anche quanto gli è stato portato via culturalmente, degradando la sua forma d’espressione da plusvalore “lingua” a minus-valore “dialetto”: la rapina del “minus-valore”, dopo quella del “plus-valore”. Neppure Marx poteva pensare che si sarebbe arrivati a tanto. Da tutto quanto sopra esposto, è chiaro dunque che il mio “piemontesismo” non muove affatto da istanze nazionalistiche, ma internazionalistiche; ch’io mi ritengo al tempo stesso biellese, piemontese e cittadino del mondo; e soprattutto che le motivazioni della mia battaglia, che hanno costituito per me ragione di vita, sarebbero state le medesime se fossi stato lombardo, napoletano o siciliano. Certamente, come Piemontese non mi sento davvero “über alles”, ma fratello di quanti combattono per la propria lingua negletta e per la propria Comunità. ❐ Nota biografica Nato nel 1932, di famiglia biellese. Laureato in diritto svizzero con tesi su “Diritto pubblico del Cantone dei Grigioni” alla Statale di Milano. Docente di lingua e di letteratura francese ora in pensione. Ha diretto per conto del Ministero della Pubblica Istruzione due seminari per insegnanti su “Dialetto e scuola”: in quello di Lecce (1975) ha collaborato con P.P. Pasolini. Nel 1961 ha fondato a Crissolo l’Escolo dòu Po per la salvaguardia delle parlate provenzali (occitane) e franco-provenzali (arpitane) delle valli di Cuneo e di Torino. Nel 1964 ha fondato a Tolosa con il professor Pèire Naert l’Association Internationale pour la Défense des Langues et des Cultures Ménacées (AIDLCM) di cui è tuttora segretario per la Repubblica italiana. Nel 1968, recatosi in Euskadi per l’Aberri Eguna, è stato arrestato ed espulso dalla polizia franchista. Pubblicista, è stato direttore di Etnie e di periodici sardi, friulani e italo-albanesi; dirige tuttora il provenzale Coumboscuro e le riviste piemontesi La Slòira e Alp da lui fondato nel 1974, e la Rivista Dolciniana. Come scrittore in in lingua piemontese è compreso in antologie delle edizioni Mondadori, Garzanti ed Einaudi. Ha promosso nel 1960 la scuola Walser di Alagna e i primi Walsertreffen internazionali. Dal 1956 al 1994 è stato Consigliere comunale di Biella, e dal 1970 al 1993 Assessore all’agricoltura di Comunità montana. E’ socio onorario del provenzale Felibrige e della Societé de Langue et de Litératures Wallonnes. E’ Consigliere nazionale della Federazione dei verdi e Fiduciario a Biella dell’Opera Nomadi. È membro del comitato scientifico dell’Istituto per la Storia della Resistenza nelle province di Biella e di Vercelli (Borgosesia). Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 43 modello di civiltà socio culturale autonoma e prestigiosa, anche se misconosciuta, può essere un tassello importante per la realizzazione di un’Europa fondata sui popoli e non sulla massificazione globalizzante delle economie e dei cervelli. 2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale BEPPE BURZIO 1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. La piemontesità non riveste assolutamente nessun ruolo nel mondo contemporaneo, quando per piemontesità si intenda il complesso di manifestazioni folcloristiche o pseudo culturali, generosamente finanziate dalla Regione Piemonte e organizzate in vari paesi del mondo, specialmente in Argentina, da abitanti locali di origini pie- montesi più o meno lontane. Questo rinfocolare ricordi sopiti, quando non sia un modo subdolo per farsi finanziare le attività del tempo libero, è inutile per la cultura piemontese e dannoso per l’omogeneità sociale del nuovo stato di appartenenza. Invece la conoscenza approfondita del Piemonte, inteso come nazione titolare di un 44 - Quaderni Padani impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. Credo che il concetto basilare non sia cambiato in questi ultimi anni: il federalismo sincero e genuino è il libero e volontario accordo fra libere nazioni, che decidono di gestire in comune alcuni settori della loro vita sociale ed economica. Il federalismo non può essere un’elargizione benevolmente e gradualmente concessa dal potere centrale. Così è una truffa. La prima cosa da recuperare è quindi la libertà, cioè l’autonomia. Tutto il resto: federalismo solidale, amministrazione periferica, devoluzione, secessione eccetera altro non sono che aria fritta, parole vuote per imbrogliare i creduloni. 3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuovi scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa. Quando i patti sono chiari e liberamente sottoscritti non è poi molto importante la composizione e la dimensione del “condominio”. Padania, Italia, Europa sono praticamente la stessa cosa a condizione che questa entità sovranazionale non abbia la tendenza a prevaricare oltre il lecito quella nazionale come avviene con l’Europa dei banchieri di oggi. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla preAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 senza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. La maggior parte di queste “minoranze etnico linguistiche” altro non sono che comunità utilizzanti alcuni dei tanti dialetti della lingua piemontese, che, per ragioni strettamente politiche (tentativo di sminuire l’importanza della lingua piemontese) sono state fatte diventare “minoranze linguistiche” titolari di “lingue” differenti all’uopo inventate. Non parlo ovviamente dell’Occitano, lingua antica, caduta in disuso alla metà del tredicesimo secolo e ripresa all’inizio del ventesimo, il cui uso è, in Piemonte, molto, ma molto meno diffuso di quanto si voglia far credere. 5. Quali sono i confini ideali della Patria Cita. Quelli che comprendono la gente che ha il desiderio e l’orgoglio di far parte della nazione Piemontese. 6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. Nota biografica Beppe Burzio è lo pseudonimo di Pierpaolo Salvaja (nato a Torino il 5/6/1935). Ha iniziato l’attività giornalistica su Piemont Autonomista, testata avente lo stesso nome del movimento politico successivamente trasformatosi in Lega Nord. Trasformazione che ha provocato il suo allontanamento, in quanto autonomista piemontese convinto (è stato a suo tempo sostenitore del Marp). Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 In ogni nazione le attività culturali, quando siano espletate in modo corretto e genuino (quindi non disinformazione ed attività ludiche o pseudo tali che di culturale hanno solo il nome) sono importantissime in quanto motore di altre attività decisive per l’avvenire di una nazione.. ❐ Fondatore e Direttore responsabile del mensile in lingua piemontese Assion Piemontèisa. Ha pubblicato, come autore,: Arsivòli & Maciafer (poesie piemontesi), Cola la lenga del Quart ëStat (breve storia della lingua piemontese correlata al quadro di Pellizza da Volpedo). È stato coautore di: Sudor Antich (storie di umanità varia legata ai mestieri in via di estinzione), Fàule sensa moral (storie partigiane). Quaderni Padani - 45 della nostra identità, a patto che, tramite il voto, il popolo riesca poi a neutralizzare nel governo regionale l’azione delle forze politiche ostili (Per intenderci quelle che, trescando con l’immigrazione più o meno clandestina, centri sociali e delinquenza varia, mirano a creare insicurezza e a distruggere il tessuto sociale nelle nostre città). SERGIO HERTEL 1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. È chiaro che il ruolo della piemontesità è di difendere l’identità del Popolo Piemontese dalla massificazione e dalla omogeneizzazione. Ma per noi piemontesi non esiste soltanto il peri-colo di veder scomparire tutto ciò che caratterizza un popolo: lingua, cultura, tradizioni, memoria storica, canti, cucina, costumi, eccetera a causa della globalizzazione, ma anche a causa dell’azione di quelle forze politiche ed economiche animate da un antipiemontesismo viscerale che, grazie alla potenza dei mass media a loro disposizione, tendono a confezionare per i Piemontesi identità fasulle. 2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. Di decentramento, federalismo, devoluzione, autonomia se ne è parlato e se ne parla tuttora. Di risultati consistenti se ne vedono pochi, di progetti tanti. Non ho mai creduto, del resto, che la lotta al centralismo statale potesse concludersi in breve e con un tocco di bacchetta magica. È scontato che una reale autonomia, non solo politica, ma anche economica e legislativa del Piemonte rappresenta la base per la difesa concreta 46 - Quaderni Padani 3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuovi scenari isti tuzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa. Sarà utopia, ma continuo a credere che si debba lottare per ottenere un’Europa costituita da una federazione di Popoli Europei, cioè di regioni rappresentanti identità storiche etno-lin-guistiche e non da Stati nazionali ormai anacronistici, con confini giurisdizionali assurdi e dipendenti dagli interessi economici e finanziari delle società multinazionali. Il reciproco rispetto fra i popoli e un governo europeo avente funzione di coordinare interessi, attività e sviluppo delle diverse regioni e di dirimere eventuali controversie o conflitti d’interesse rendono inutili altri scenari istituzionali. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. Le piccole comunità etno-linguistiche del Piemonte sono portatrici di valori che arricchi-scono il patrimonio culturale piemontese; questi valori vanno difesi strenuamente, ma con intelligenza. Sarebbe cosa abominevole, per esempio, se col pretesto di salvare le parlate provenzali alpine delle alte valli del Piemonte sud-occidentale si insegnasse la lingua occi-tana di Tolosa. La difesa di questi valori, inoltre, non deve diventare, per pochi facinorosi, occasione per rivendicazioni territoriali, né, tanto meAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 no, alimentare un infondato fanatismo nazionalista animatore di odio interetnico. 5. Quali sono i confini ideali della Patria Cita. Il Piemonte, nel tempo, ha avuto confini che gli eventi storici hanno modificato in conti-nuazione e non è dato per scontato che siano “ideali”. Non sta certo a me definire quali potrebbero essere. È il popolo piemontese stesso, semmai, che li potrà stabilire, occorrendo. 6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. Da un secolo e mezzo circa assistiamo ad un’azione distruttrice dell’identità del nostro po-polo condotta dal colonialismo di Stato, animatore di una cultura centralista. Credo perciò risulti urgente, ora, la necessità di diffondere fra le vecchie e soprattutto fra le nuove generazioni la conoscenza del nostro patrimonio culturale, della nostra lingua e della nostra storia. Questo per rafforzare nella Gente piemontese il sent- mento di appartenenza a un popolo che, in Piemonte, è portatore di un’identità specifica e unica. Un popolo che, come ha dimostrato in passato, ha tutte le capacità di autoamministrarsi e che in regime di autonomia potrebbe sviluppare al massimo la sua potenzialità. ❐ Note biografiche Nato a Torino il 07.07.1933, coniugato, pensionato. Ha due figlie laureate. Lingua familiare: piemontese.Presidente del ”Grup d’Assion Piemontèisa Val Pélis” con sede in Torre Pellice, fondato nel 1985. Redattore del foglio bimestrale Val Pélis portavoce del Gruppo da dodici anni. Consigliere del Comune di Torre Pellice e della Comunità Montana Val Pellice dal 1990 al 1999. Reggente per il primo anno della fondazione della “Consulta për la Lenga Piemontèisa”. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 47 si vedranno più avanti. Nell’attesa, io mi colloco in una posizione di pessimismo moderato dalla speranza ma nutrito dall’esperienza. 3. ETTORE MICOL 1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. Non so se sia giusto parlare di piemontesità. Preferisco riferirmi a popoli ai quali la storia del paese che ci racchiude nei suoi confini, Piemonte sabaudo compreso, ha spesso negato la possibilità di testimoniare della loro presenza e di quanto la loro cultura ha prodotto. Oggi questi popoli rischiano di potersi esprimere al solo livello di folclore o residuato archeologico non per colpa della globalizzazione ma per l’insipienza e la violenza di oltre un secolo di azione politica dello stato italiano. La globalizzazione non è un pericolo di cui servirci per giustificare la nostra debolezza ma un fatto che dobbiamo gestire con intelligenza. 2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. I progetti di devoluzione sono una cosa di per sè‚ positiva ma rimangono in una logica di continuità. In fondo, anche la legge Bassanini non è cattiva... Un conto, tuttavia, è lavorare per un autentico federalismo, altro il ritagliarsi spazi di efficienza, autonomia e potere. I risultati di quanto si sta facendo 48 - Quaderni Padani Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuovi scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa. I rapporti, se ispirati ad una logica di federalismo senza aggettivi, dovrebbero essere insieme facili e precisi: i Popoli si riconoscono e si contano, poi stipulano patti di collaborazione con chi è geograficamente vicino o ragionevolmente affine e così, progressivamente, salgono a comprendere chi è separato da profonde differenze fino a giungere a basi continentali e, forse un giorno, mondiali. In questo quadro termini come regione, stato e così via diventano passaggi, non traguardi. Come e quando tradurre tutto questo in realtà è cosa che spetta ai politici. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. Il Piemonte è terra di minoranze… certamente nobili ma troppo spesso silenziose. L’ansia di essere accettati e, in qualche caso, l’illusione di poter contribuire a cambiare il paese nel suo insieme hanno indotto gli uomini più in vista di queste minoranze a seguire percorsi di inserimento più che di testimonianza. Il timore di gridare un naturale diritto di forte autonomia si è storicamente tradotto in riconoscimenti formali, a volte anche onorifici, di una presenza che, nei fatti, si è ridotta a dosi omeopatiche e non è stata di alcun disturbo per il potere. Detto in altri termini: quando un presidente della Repubblica o della Camera dei Deputati viene a Torre Pellice che, come noto, è il cenAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 tro del mondo valdese, è accolto con grandi onori, si rallegra con noi, ci dice quanto siamo bravi. Poi torna a Roma... Ma sul significato dell’essere minoranza vorrei provare a riflettere un attimo e, sia pure scusandomene, userò un esempio personale. Io sono, per nascita e cultura, un Valdese delle Valli. In questo faccio parte del mondo protestante e, al suo interno, mi richiamo al calvinismo. Il mio paese e la lingua della mia infanzia sono di area occitana. Ancora, sono un uomo della montagna con quanto questo comporta. Non posso negare di aver letto Dante e Manzoni e di averne derivato, anche se non me ne rallegro troppo, la ventura di crescere un po’ italiano. Qui mi fermo con una domanda: sono valdese, occitano, padano, italiano? La mia visione del mondo e, in definitiva, il mio modo di essere e rapportarmi con gli altri a quale di questi popoli si riferisce? La risposta non può essere che una mediazione ed una scelta: sono valdese e montanaro perchè‚ ho scelto di esserlo. greca, indica il territorio dove posso conoscere chi incontro e riconoscermi in lui. 6. Quali sono i confini ideali della Patria Cita. La Patria Cita è il luogo dove si è nati, dove si è appreso a parlare e si è diventati grandi. Per me è la mia montagna, il suo piccolo cielo, la saggezza e l’impegno di chi mi ha preceduto nel viverci. Non ha confini politici ed amministrativi nel senso burocratico del termine. Al massimo, come nella polis Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. Le attività culturali hanno un ruolo assolutamente fondamentale per il proseguo di un cammino autonomista. Ma, se non si accompagnano ad un progetto politico, rischiano, per dirla con un teologo tedesco contemporaneo, di essere il salotto buono nell’appartamento di un condominio di periferia. Danno gratificazione, riposo e un po’ di memoria. Lasciate sole, non produrranno riscatto. ❐ Nota biografica Ettore Micol è nato nel 1943 a Massello, un piccolo comune di montagna del Pinerolese. Valdese non praticante, è interessato allo studio del fenomeno religioso. È stato insegnante di Lettere a Perrero, non lontano dal suo paese di na- scita. Da sempre in contatto con il mondo delle autonomie piemontesi, è iscritto alla Lega Nord da molti anni ed attualmente svolge il compito di Consigliere Comunale in Villar Perosa dove risiede. 5. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 49 MARIELLA PINTUS 1. Quale è il ruolo della Piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. È difficile parlare di piemontesità oggi, poiché, tranne per alcuni gruppi di persone riunite in Associazioni culturali o per intima convinzione, questo ruolo è stato dimenticato. Il mescolamento forzato con le popolazioni meridionali e la conseguente necessità di parlare in lingua franca per farsi comprendere, hanno condotto allo snaturamento del senso di appartenenza, creando degli sradicati sia fra i meridionali, sia fra i piemontesi stessi. In merito alla globalizzazione, ritengo che essa abbia già raggiunto la Regione, con un proliferare di Supermercati, Fast-food, Grandi Magazzini, Discoteche assordanti, Imprese, assolutamente anonimi, legati alle Multinazionali. Non si tratta di chiudere le porte alle innovazioni, ma è necessario recuperare una sana economia gestita da imprenditori padani attenti alle nostre produzioni. Storia, Letteratura e Tradizioni, riscoperte con passione, ci aiuteranno a recuperare le nostre identità sopite. 2. I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla, avranno un reale impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. Non c’è dubbio che una devoluzione regionale si ripercuoterà fortemente 50 - Quaderni Padani sulla politica: in questo modo i governatori potranno influire sui programmi scolastici, dalle Elementari alle Scuole superiori, introducendo materie specifiche atte al recupero delle Tradizioni, delle Lingue e della vera Storia del Piemonte. All’autonomia politica dovrà corrispondere una autonomia economica che permetterà radicali cambiamenti in tutte le Istituzioni: Sanità, Urbanistica, Viabilità, Polizia e per l’appunto la Scuola. 3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuove scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia, Europa. Il Piemonte avrebbe maggiore forza e rilevanza, grazie alla devoluzione, assumendo quindi una posizione paritaria e di massimo ascolto nei confronti della Padania e dell’Europa, per quanto riguarda l’Italia (ma questo è un mio parere), potrebbe finalmente decidere quale tipo di rapporti mantenere con una patria oppressiva. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. Le popolazioni minoritarie devono ancora trovare un loro ruolo politico, diverso da quello folcloristico che conosciamo attraverso le sagre, le musiche e i balli tradizionali dei vari gruppi asserviti al potere. È ingiusto accontentarsi di tali manifestazioni, quando i veri problemi della montagna, molte volte discussi e ampiamente sviscerati, non vengono mai risolti; l’abbandono del territorio, con grave rischio ambientale, è diventato un fenomeno sempre più evidente: alluvioni sempre più frequenti, incendi, frane, intere borgate in rovina perché disabitate ne sono la prova. Una rivalutazione delAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 l’agricoltura (vite, castagno, foraggi), dell’artigianato in tutte le sue forme, dell’allevamento e della produzione ad esso legata, dello sfruttamento delle risorse economiche da parte di coloro che abitano le vallate dovrebbero dare nuova vita ai comprensori montani; senza peraltro scordare l’importanza dei parchi naturali e di un turismo culturale alle ricerca di ricchezze storicoartistiche; e non è possibile scordare la buona cucina di un tempo basata sui prodotti locali. 5. Quali sono i confini ideali della “Patria Cita”. I confini dovrebbero essere dettati dagli stessi popoli che abitano il territorio: inutile costringere le persone a sentirsi ciò che non sono; è importante il senso di appartenenza che permette alle persone di conoscere meglio se stesse, di sentirsi più vicine a una tradizione e a una lingua comuni. 6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. L’attività delle Associazioni Culturali come quelle di una Scuola di tipo regionale, vicina agli studenti, è indi Nota biografica Maria Giovanna Pintus (nota come Mariella) è nata a Isola Dovarese (CR) e vive e lavora a Torino, sua città di adozione. Insegnante, docente all’Università della Terza Età, giardinista. Ha tenuto numerosi Corsi e Conferenze nei circoli culturali e nelle Circoscrizioni della Regione Piemonte, da molto tempo svolge ricerche sugli usi, sui costumi e sulle tradizioni popolari. È responsabile dell’Associazione Padania Bella per Torino e provincia; ha fondato, con Andrea Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 spensabile per preservare, tutelare, e valorizzare tutto quanto abbia importanza storica, artistica e comunque culturale. È chiaro che non ci potrà es sere un cammino autonomista se le persone non prenderanno coscienza di sé, rivalutando un passato, troppo presto dimenticato, per vivere meglio il futuro. Difendere la propria identità, con tutte le forze e con tutti i mezzi democratici, non è soltanto un dovere ma un diritto proprio dei popoli, ecco perché è necessario che le varie Associazioni Culturali collaborino fra loro, per il fine comune dell’autonomia, in tutti i campi possibili . ❐ Rognoni, Gilberto Oneto e Joseph Henriet l’Università delle Genti e delle Tradizioni per il recupero delle identità padane. È Presidente dell’Associazione Culturale “Compagnia di San Quintino” e socio de La Libera Compagnia Padana. Collabora a numerose testate con articoli di carattere storico e identitario, e con servizi di cultura locale. Si sta attualmente occupando della stesura di un libro sulle Insorgenze piemontesi. Quaderni Padani - 51 cettare e subire quello che già conoscono bene, e di pagare un nuovo conto che sarà sicuramente più salato del precedente. 2. GIOANIN ROSS 1. Quale è il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo e, in particolare, di fronte al pericolo di una crescente globalizzazione. Il ruolo della piemontesità nel mondo contemporaneo è quello di mantenere viva la propria diversità come valore per il popolo piemontese e per poterla trasmettere alle nuove generazioni. Le problematiche legate alla globalizzazione sono iniziate in Piemonte con le guerre espansionistiche di Casa Savoja, successivamente con l’immigrazione italiana degli anni 50 e 60 e oggi, con quella extracomunitaria. Per la Patria Cita si prospetta nuovamente la condizione di laboratorio socio-economico per i nuovi interessi della Stato Italiano e del “grande capitale”. Il Presidente della Fiat Giovanni Agnelli nel suo discorso fatto all’apertura dei festeggiamenti per i 100 anni dell’azienda ha ricordato ai presenti che la Fiat, in Italia, poteva nascere solo in Piemonte. Questo discorso vale in parte anche per: l’ex Enel, l’ex Sip, l’Azienda Gas, l’Industria Cinematografica, la Radio, la Televisione e per tutto quel patrimonio di risorse umane ed economiche nate e sviluppate in Piemonte e poi, per motivi politici, trasferite altrove. Ai piemontesi viene nuovamente richiesto lo sforzo di ac52 - Quaderni Padani I progetti di devoluzione regionale di cui tanto si parla avranno un reale impatto sull’autonomia politica e sull’identità culturale del Piemonte. Se i progetti di devoluzione verso il basso porteranno a una vera autonomia politica regionale il primo passo dovrà essere il riconoscimento del Parlamento Subalpino da parte dello Stato Italiano e questo, potrà dare nuovo impulso alla identità culturale del Piemonte. 3. Come vede la costruzione di nuovi rapporti organici fra i diversi soggetti dei possibili nuovi scenari istituzionali: Piemonte, Padania, Italia ed Europa. La costruzione di nuovi rapporti organici tra i futuri diversi soggetti istituzionali saranno condizionati dagli accordi che gli Stati attuali e il Governo d’Europa faranno. Per il Piemonte, se ci sarà la volontà politica, potrà presentarsi la possibilità di ritornare in quella che è sempre stata la sua naturale collocazione geografica-storica e politica: l’Europa. Riprendendo con accordi culturali, commerciali e politici l’interscambio con la Valle d’Aosta, la Savoja, il Nizzardo e la Provenza. 4. Fra le regioni, il Piemonte è quella maggiormente interessata dalla presenza di minoranze etno-linguistiche. Qual è il giusto ruolo di queste comunità all’interno della Piccola Patria piemontese. In Piemonte vi è una sola presenza definibile etno-linguistica ed è quella Walser, una popolazione di ceppo germanico che si esprime con una lingua germanica. Esistono infine nel Piemonte occidentale delle vallate che hanno a sud, una presenza linguistica provenzale e più a nord franco-proAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 venzale. Il piemontese appartiene al gruppo delle lingue Celto-Romanze come il Provenzale e il Franco-Provenzale. Le montagne non hanno mai diviso gli abitanti dei due versanti ma hanno da sempre avuto la funzione di cerniera sotto tutti i punti di vista, compresa quella etno-linguistica. Le Alpi sud-occidentali, non sono da meno e rappresentano l’elemento di unione tra il Piemonte, la Provenza e la Savoja. 5. Quali sono i confini ideali della Patria Cita. Definire e tracciare in modo burocratico i confini geografici è secondo me un atto di violenza e di colonialismo. Sono invece propenso a lasciare alle persone che abitano una determinata area, ad indicarla come propria. Per quanto riguarda il Piemonte ritengo che gli attuali confini Regionali, siano riconosciuti e accettati dalla maggioranza dei suoi abitanti. rafforzamento del processo identitario e del cammino autonomista. In questo momento con l’assenza totale di un soggetto politico autonomista credibile, le associazioni culturali sono le uniche in grado di sostenere e promuovere i valori delle identità locali. Questo senza cadere nell’errore di pensare che il vuoto politico possa essere riempito dalle associazioni, il cui compito è dare un grosso contri buto alla formazione e alla crescita di una coscienza identitaria, lavorando in modo trasversale nella società piemontese. Ed è veramente preoccupante che oggi, nell’ambiente piemontesista, alcune nuove associazioni approfittando della situazione di confusione, si stanno muovendo per conquistare una egemonia economico-politica sulla questione culturale, con il risultato di mettere in difficoltà e di eliminare di fatto le altre organizzazioni presenti sul territorio. ❐ Nota biografica Gioanin Ross è nato il 30/07/55 a Biella e è registrato all’anagrafe con il soprannome di Gianni Rosso. Di madrelingua piemontese, in età giovanile ha militato nella sinistra extraparlamentare. Ha conosciuto Enea dij Ribat (Enea Ribatto), Jaco Calleri (Giacomo Calleri), Tavo Burat (Gustavo Buratti) e Berto Grem (Roberto Gremmo).Dopo una breve parentesi nella Lega Nord, è dal 1992 impegnato su un discorso etno-culturale. 6. Quale ritiene essere il vero ruolo delle attività culturali all’interno di un Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 53 SILVANO STRANEO affermarsi incontrastato del liberismo in una qualche sua forma insieme con le ricadute economiche e culturali del fenomeno internet sviluppatosi sotto la supervisione degli USA hanno generato una spinta alla globalizzazione che può portare con sé in un futuro più o meno prossimo un governo unico mondiale di stampo americano e una progressiva omologazione delle culture dei popoli funzionale alle esigenze della finanza e del controllo politico. In un simile contesto, la nazione piemontese non ha un ruolo diverso da quello di ogni altra nazione che non intenda abdicare alla sua originalità e L’ scomparire in quanto tale. A differenza di quello lombardo, la reazione del popolo piemontese ai mille modi in cui è stato spogliato di ciò che ha prodotto ed allo schiacciamento della sua cultura, lingua e modo d’essere, è stata alquanto flebile. Fino alla nascita della Lega Nord, si è vista in Piemonte solo una quantità di piccole associazioni culturali, in genere ristrette all’ambito letterario e sempre gelosamente chiuse le une alle altre, che non hanno saputo comprendere la natura squisitamente politica delle battaglie per la salvaguardia delle identità. La devoluzione può essere allora un 54 - Quaderni Padani primo, modesto passo verso lo sganciamento da Roma. Il suo successo, se, ma solo se accompagnato da validi contenuti che sappiano sfruttare appieno i nuovi spazi che si vengono ad aprire, può dimostrare ai piemontesi, ossequiosi per secolare impronta sabauda nei confronti dell’autorità costituita, i vantaggi della gestione in loco delle loro risorse. In una parola, la credibilità del progetto autonomista, con una conseguente spinta verso quel recupero di identità per il quale lavoriamo. In tutto questo, giudico assolutamente fondamentale l’azione culturale. La sinistra ha saputo costruire, soprattutto nella città di Torino, una propria rete presente in tutte le istituzioni culturali cittadine, dall’università alle (residue) case editrici, ai corpi insegnanti, alla miriade di circoli “democratici” la quale, nata con nobili intellettuali quali Antonio Gramsci e Piero Gobetti, si è trasformata oggi negli assai meno nobili personaggi che scrivono sul giornale della Fiat o circolano a Palazzo civico e nelle scuole di ogni ordine e grado ma condiziona ancora il consenso della città ed esercita un’attiva propaganda di parte presso i giovani. Conquisterà quella Torino che non protesta per un’ICI alle stelle, che non si ribella agli ininterrotti trasferimenti delle sue attività, che bisbiglia appena la propria disapprovazione per le continue ondate migratorie che l’hanno denaturata, chi saprà dimostrare con razionalità e senza urlare la validità e la nobiltà del proprio progetto politico, la propria opposizione ad un mondo innaturale ed alla trasformazione dell’uomo libero nell’uomo ad una sola dimensione. In questo ambito un argomento di importanza centrale è quello della lotta al mondialismo, cui un crescente numero di giovani mostra di essere sensibile. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Va purtroppo detto che questo lavoro, a distanza di molti anni, non solo non è ancora seriamente incominciato ma addirittura non se ne è ancora bene compresa la necessità. In generale, nulla verrà regalato al Piemonte o a chicchessia e solo la forza congiunta di tutte le nazioni padane con il loro peso economico e sociale sarà in grado di competere con la reazione centralista. Nazioni padane unite dai valori di fondo che condividono, primo fra tutti l’etica del lavoro, per il raggiungimento di questo importante obiettivo ma nel contempo rispettose delle minori differenze che le caratterizzano e attente ad evitare ogni forma di accentramento all’interno della loro comunità. Il processo di apertura dei mercati e dei collegamenti telematici internazionali non è reversibile. Per alcuni economisti, come ad esempio il premio Nobel Von Hayek, sarà anzi proprio questo processo a fornire la più forte spinta verso le autonomie, venendo a cadere, per la facilità degli scambi, la ragion d’essere delle burocrazie degli attuali stati centralisti. Si può allora ragionevolmente pensare ad un Piemonte con la sua identità ed autonomia, nazione prima padana Nota biografica Silvano Straneo è nato a Torino il 12 agosto 1947. Laureato in scienze matematiche presso l’Università di Torino, è ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha svolto attività didatAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 e poi europea in un’Europa costituita da bacini realmente omogenei dal punto di vista economico e culturale (si pensi alla Scozia, alla Baviera, alla Catalogna, al Brabante … e naturalmente alla Padania stessa), dotati ciascuno di parlamento e governo propri e coordinati ma non fusi a forza gli uni con gli altri; un’Europa che abbia la capacità di non abdicare alla sua millenaria e poliedrica cultura per un modello di plastica americana che non le è proprio.. ❐ tica presso le Università di Torino e di Siegen (Germania). È autore di libri e di articoli di ricerca di carattere scientifico. Dal gennaio 2000 è Presidente Nazionale della Lega Nord Piemont. Quaderni Padani - 55 L’autonomismo piemontese oggi di Gilberto Oneto Considerazioni La vicenda dell’autonomismo piemontese, così ricca di fatti ma anche di intrighi e di misfatti, induce a una serie di considerazioni. La prima riguarda la evidente e abnorme rissosità dei piemontesisti. Il mondo autonomista in generale (dall’Irlanda alla Sicilia) è sempre stato in verità percorso da divisioni e dissidi che ne hanno indebolito la portata: si può dire in questo senso che la vera forza di tutti i centralismi sia sempre stata la propensione al divisionismo degli autonomisti. Molti di loro sembrano interpretare l’ansia di autonomia e di indipendenza (e il loro anche positivo spirito ribelle) come una sorta di schizofrenico distacco da tutto e da tutti, compresi i propri compagni di lotta. Il Piemonte in questo senso non solo non fa eccezione ma si pone sicuramente in una posizione di primato in quanto a propensioni masochiste alla autodistruzione. Percorrere la storia del MARP, dell’UOPA, della Lega e dei movimenti che hanno caratterizzato l’autonomismo subalpino è leggere una dolorosa (fin quasi ridicola) storia di tradimenti, divisioni, autocastrazioni. Se ne deduce con una certa amara sorpresa che non sono tanto (come spesso è avvenuto altrove, e come potrebbe anche essere comprensibile) le sconfitte elettorali ma anche quasi di più le vittorie (o le prospettive di vittoria) e le crescite di consenso a scatenare le divisioni e i frazionismi. Ci si è spesso trovati di fronte ad avvenimenti e a prese di posizione che non è possibile spiegare neppure come conseguenza degli individualismi più sfrenati e di rancori personali, ma solo nell’ambito delle deviazioni psichiatriche. La seconda considerazione ha a che fare con le motivazioni che sono alla base dell’autonomismo. Spesso il piemontesismo si è basato sui criticabili presupposti di un micronazionalismo subalpino dai connotati inquietanti per centralismo e imperialismo in scala locale. In qualche modo esso è condizionato dalla vicenda storica sabauda che in troppi confondono con i destini del Piemonte: succede così che alcuni si scatenino in una sorta di nostalgia del buon vecchio (si fa per dire) Ducato esteso da Losanna al Ticino (vengono risparmiate la Sardegna e la Liguria ma non senza un po’ di rancore per chi è ritenuto colpevole di non aver saputo cogliere le gioie delle caserme sabaude…). La Savoia e la Valle d’Aosta rientrano in questo strano disegno assieme alla Lomellina e all’Oltrepò, sbrigativamente ribattezzati Piccolo Piemonte. E’ solo in questa ottica di patriottismo sabaudo (nel senso della dinastia e delle sue antiche pulsioni allo sgomitamento territoriale) che si riescono, ad esempio, a capire certo feroce antioccitanesimo (per i micronazionalisti gli Occitani in Piemonte non esistono..) o fenomeni come l’imperialismo linguistiGigantesco “striscione razzista” apparso allo stadio di Torino nel gennaio del co torinese 1989 esercitato a danno di lombardofoni e ligurofoni ma anche di tutte le altre varianti del Piemontese. Strettamente connessa con questa visione di grande “stato di vali56 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 “Striscione patriottico” esibito al Consiglio Comunale di Bussolino nel settembre del 1988 co” alpino c’è una strana tendenza all’isolamento rispetto agli altri popoli padani. A fronte di una conclamata differenza nei confronti dei loro vicini orientali, i piemontardi più duri vantano una comunanza (peraltro senza prova di reciprocità) nei confronti dei vicini settentrionali e occidentali. Il progetto di una entità comprendente il Piemonte, l’Arpitania (fino a Lione), il Vallese, il Delfinato e la Provenza ricompare spesso nei disegni di taluni piemontesisti senza suscitare nessun entusiasmo fra i popoli coinvolti loro malgrado in questa cosa che non ha nessuna giustificazione storica, economica, geografica né etnolinguistica. In qualche modo il pervicace rifiuto di riconoscere l’esistenza dell’Occitania nasce anche da queste aspirazioni di imperialismo alpino, di un raffazzonato PaßStaat fra Rodano e Ticino. A fronte di queste affermazioni di parentela transalpina, è invece sempre esistito un processo di vocazione storica che ha spinto i Savoia e quindi il Piemonte (di nuovo una imbarazzante identificazione..) verso la valle del Po in una continua affermazione e ricerca di padanità. Non si può infatti far finta di non vedere che la vera aspirazione subalpina è stata per 700 anni quella di diventare Padania. Una iattura storica l’ha fatta diventare Italia e forse per una rimozione freudiana (o per reconditi complessi di colpa) certi piemontesisti oggi rifiutano la loro storia e si inventano una strana francesità giustificata solo dal precedente, peraltro poco felice, di una annessione napoleonica. Il pasticcio italiano non può essere addebitato al popolo piemontese (anche se certa retorica patriottarda Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 italiana tende ad attribuire al Piemonte un merito che dagli autonomisti non è certo visto come tale) che ne è stato anzi la prima vittima. Non c’è perciò nessuna ragione per doversi cercare dei rifugi e degli alibi transalpini. Un’altra inquietante costante di certo autonomismo subalpino è collegata con la strana mistura di cultura e di ignoranza che lo caratterizza. L’autonomismo piemontese è la somma di tante associazioni culturali, di produzione letteraria enorme, di un numero senza uguali in altre regioni di riviste e giornali anche in Piemontese e - per contro - di una piattezza culturale infinita da parte di gran parte degli esponenti politici delle forze autonomiste, quasi fossero vittime di un complesso di superiorità etnica che non ha bisogno di cultura per esprimersi: una sorta di “Piemont fa grado” applicato alla politica. Questo ha finito per generare uno iato fra le forze culturali e quelle politiche isterilendo le une in attività accademiche (affette peraltro dalla solita rissosità) e le altre nell’incapacità di rappresentare veramente le istanze piemontesi. Le motivazioni delle aspirazioni ondeggiano così fra i due estremi rappresentati dall’imperialismo piemontardo e dal più becero qualunquismo che esclude ogni motivazione identitaria. Ci sono stati esponenti di grande preparazione culturale che non hanno saputo tradurla in attività politiche e politici che non hanno saputo dare dignità culturale alle loro azioni. Ci sono uomini di cultura pronti a scatenare risse infernali per una dieresi e uomini di partito che non si sono accorti della grande ricchezza e vaQuaderni Padani - 57 riegazione identitaria del Piemonte, che è un bene da mettere a frutto e non un insopportabile fardello folclorico. Negli ultimi tempi il fenomeno si è aggravato per il completo distacco fra i due mondi: chi si occupa di cultura disdegna la politica e troppi politici non sanno neppure più cosa voglia dire essere piemontesisti. In questo senso è preoccupante che molti degli esponenti più in vista dell’ultima generazione del mondo federalista siano del tutto estranei alla tradizione autonomista o, addirittura, che non siano neppure più piemontesi. L’ultima considerazione riguarda il ricorrente riaffiorare di una un po’ freudiana antipadanità. Non si vuole capire che il Piemonte non esiste senza la Padania (e che la Padania non esiste senza il Piemonte e le altre Piccole patrie) e si cerca come scusa per le proprie sconfitte o per la dilagante impotenza politica la negativa influenza di un centralismo padano, o di una contorta congiura “lombarda” o “milanese” ai danni del Piemonte. E’ una storia che torna fuori a ritmi ciclici: l’aveva inventata Gremmo ai tempi del suo scontro personale con i capi della Lega, l’aveva rispolverata Rabellino pro domo sua, l’ha ripescata Comino (che pure di Padania ha lucrosamente vissuto), e ricompare in continuazione nelle elucubrazioni di alcune associazioni pseudo-culturali, alcune delle quali arrivano addirittura a teorizzare l’estraneità culturale e linguistica del Piemonte dalla Padania. Si sentono strampalatezze del tipo: il Piemonte è sempre stato libero e la Padania è sempre stata schiava di qualcuno (dimenticandosi il trattamento riservato ai Valdesi o la storia millenaria di Venezia), si racconta che il Ticino (neanche più la Sesia) sia il confine fra le lingue celtoromanze e quelle italiche, e via folleggiando. Si reinterpreta la storia in versione cabarettistica per cercare in ogni modo di provare l’estraneità del Piemonte dalla vicenda padana. Si dimenticano venti secoli di storia comune, di comunanza culturale, linguistica, economica e anche geografica. Si dimentica la labilità dei confini fra Piemonte e Lombardia Occidentale, una interconnessione facilmente leggibile su ogni atlante storico. Si dimentica che all’Assietta, luogo simbolico della piemontesità, una cospicua fetta dei combattenti era composta, oltre che da volontari valdesi, da soldati imperiali alcuni dei quali reclutati in Padania. È uno iato da intellettuali frustrati che il popolo non capisce. Il popolo piemontese è perfettamente conscio della sua padanità, soprattutto quello più 58 - Quaderni Padani avanzato nella presa di coscienza autonomista. Lo provano i risultati elettorali: nel 1996 parlando di Padania si è raccolto il massimo dei voti anche in Piemonte. La storia dell’autonomismo piemontese non è edificante ma neanche la sua attuale situazione – a giudicare dagli ultimi avvenimenti e anche da alcuni cenni che saltano fuori dalle interviste - è allegra. Non resta che fare una amara constatazione: se non si riesce a fare tesoro degli errori e si persevera in taluni atteggiamenti suicidi con subalpina testardaggine il Piemonte resterà una regione italiana. Possibili soluzioni Nulla è naturalmente perduto e i presupposti per una forte ripresa dell’avanzata autonomista ci sono tutti. Occorre però con umiltà e con decisione reimpostare l’intera azione culturale e politica. Bisogna per prima cosa capire la forza delle differenze. Si è creato un caso sul riconoscimento giuridico della lingua di Occitani e Arpitani. Invece di attaccare questi nostri fratelli (di cui dovremmo se mai essere felicemente “invidiosi” per il successo conseguito) dobbiamo renderci finalmente conto che in ordine sparso non si va da nessuna parte: ci dobbiamo battere non per lingue regionali che sono perdenti politicamente (e deboli scientificamente) ma per il riconoscimento del Padano e di tutte le sue varianti locali. Contro le serie e documentate tesi espresse da Sergio Salvi (ma anche da Clemente Merlo, Angelo Monteverdi, Heinrich Lausberg, Walther von Wartburg e Geoffrey Hull) il piemontesismo più becero ha invece scatenato un putiferio degno di latitudini più mediterranee. Eppure la vera forza del Piemonte (e della Padania di cui rappresenta il paradigma più variegato) è proprio quella di essere la regione con la maggiore concentrazione di differenze: ci sono minoranze etnolinguistiche padane (lombardi e liguri), celto-romanze transalpine (Brigaschi, Occitani e Arpitani) e tedesche (Walser), minoranze religiose territorializzate (Valdesi) e sparse, e antiche particolarità storiche (il Monferrato, il Canavese, l’Ossola, la Valsesia, eccetera). Sono tutti elementi da riconoscere e valorizzare e non da combattere come si è troppo spesso fatto in nome di un becero micronazionalismo. Si tratta oltre a tutto di un atteggiamento che si scontra con la realtà: alcune delle comunità citate si battono da tempo per la propria autonomia e la stragrande maggioranza dei comuni Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 La battaglia dell’Assietta occitani anche di pianura (la cui differenza è sempre stata negata da certi patrioti piemontardi) ha chiesto il bilinguismo previsto dalla legge 482. Un diverso atteggiamento, più aperto, intelligente e padanista, da parte degli autonomisti piemontesi avrebbe forse consentito di ottenere in quelle valli una condizione di trilinguismo in grado di superare le rigidità della legge. Il centralismo italiano ha mostrato forme di accondiscendenza culturale e linguistica solo nei confronti delle minoranze “innocue” (politicamente) o “sponsorizzate” da stati esteri: la presenza di un robusto blocco padano potrebbe avere quella forza politica che non è in grado di esprimere singolarmente nessuna entità regionale. In più la lingua padana possiede una oggettiva carica scientifica che le conferisce una dignità che è più difficilmente attribuibile ad alcune delle sue singole varianti. Il riconoscimento delle forti differenze locali all’interno degli attuali limiti regionali dovrebbe portare alla richiesta della creazione di province o di entità amministrative autonome costruite sulle singole identità: province per OcciAnno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 tani, Arpitani e Valdesi, per il Monferrato, il Canavese, l’Ossola e la Valsesia, e la possibilità per le aree di cultura lombarda e ligure di ricongiungersi con le loro comunità naturali. Invece – ad esempio - di inventarsi pericolose stravaganze come il “Piemontese di Novara” converrebbe (e sarebbe prova di maggiore autonomismo) permettere ai Novaresi di scegliere in libertà il proprio futuro assetto amministrativo. Nella politica linguistica sarebbe assai più saggio e producente operare per la formazione e diffusione di una comune grafia padana nella quale esprimere liberamente tutte le varianti locali: quelle classificabili come piemontesi andrebbero difese e valorizzate da istituzioni culturali regionali. E’ del tutto negativo (e politicamente suicida) insistere nella difesa di una grafia obsoleta che afferma solo la torinesità e l’elitarietà dell’attuale impostazione linguistica che – oltre a tutto – viene sistematicamente frustrata e sconfessata da migliaia di spontanee iniziative locali che usano altre grafie. L’ottusità dell’attuale impostazione allontana la quasi totalità della popolazione dalla fruizione (lettura e Quaderni Padani - 59 scrittura) del Piemontese in tutte le sue varianti, e denota una protervia centralista e passatista che male si concilia con le istanze autonomiste. L’atteggiamento è aggravato dall’acredine con cui i difensori della lingua iniziatica si scatenano contro chi esprima un parere diverso, trasformandosi da compassati signori in sguaiati e poco subalpini descamisados. Sarebbe assai più produttivo (e morale) indirizzare l’attenzione verso la piemontesità vera, fatta di tratti comuni forti e verificati ma anche di mille differenze, come fanno cento associazioni locali e non accusarle di ignoranza e di tradimento culturale. Esiste forse anche un dentità padana si sono sviluppate anche dopo. Se certe capziosità culturali, romanticismi anarcoidi o deviazioni marxiste possono forse essere giustificabili negli autonomisti più anziani, non hanno più senso fra i giovani ed è infatti fra gli esponenti delle ultime generazioni (liberi da ogni condizionamento di italianità ma anche di “sabaudità”) che si sta sviluppando con forza la coscienza di un autonomismo piemontese intimamente collegato con l’indipendentismo padano e con il rispetto di tutte le identità locali, anche le più piccole. La coscienza delle differenze è la vera forza di ogni autonomismo. L’Europa esisterà solo se riconoscerà i diritti e le identità specifiche dei suoi mille popoli. Lo stesso vale per la Padania e per il Piemonte: rifiutare l’identità ossolana (per fare alcuni esempi) significa rinunciare a ogni speranza di autonomia, negare dignità alla lingua biellese significa solo preparare la vittoria dell’inglese da computer o dell’arabo. In termini politici tutto questo deve significare una grande apertura verso le realtà organiche locali e il riconoscimento di tutte le differenze storiche. Ciò può essere concretamente realizzato attivando il solo meccanismo istituzionale in grado di assicurare le libertà e le differenze di tutti: la Padania, intesa come contenitore Il Drapò piemontese (Croce attraversante bianca in campo e garanzia di tutte le identità. rosso bordato di azzurro, con lambello azzurro) Il Piemonte è padano per storia, lingua, cultura, geografia, per problema generazionale: i primi autonomisti si struttura sociale ed economica, e per la libera sono, ad esempio, formati sulla riscoperta del scelta delle sue componenti autonomiste che Piemontese senza avere ancora a disposizione hanno dato la massima fiducia alla Lega quando tutti gli studi linguistici che sono stati comple- questa ha espresso con più chiarezza il suo ditati a partire dagli anni ’60. Erano perciò del segno indipendentista padano e che hanno intutto consci della diversità del Piemontese ri- vece marginalizzato i movimenti micronazionaspetto all’Italiano ma non avevano ancora meta- listici. bolizzato a fondo la sua appartenenza a una Certo, la Patria Cita è dotata di un forte senkoiné padana. Hanno potuto anche conoscere timento di identità ed è ben radicata nell’immagli studi sulle minoranze e sulle culture mino- ginario collettivo e proprio per questo deve enritarie solo più tardi. Erano figli della scuola e trare in Padania con la piena consapevolezza del della cultura italiana, nella sua più becera edi- suo valore, della sua differenza e del valore agzione fascista, costruita su menzogne e omis- giunto dei suoi legami esterni. Di questo suo sioni nazionaliste sulla storia. Il migliore revi- speciale ruolo sono sempre stati pienamente sionismo sul Risorgimento e sulla vera storia consapevoli i migliori autonomisti piemontesi. padana e piemontese ha dato i suoi frutti solo L’argomento era stato affrontato con competendopo gli anni ’70 e le prese di coscienza sull’i- za e passione nel lontano e non sospetto 1983, 60 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 sulla gloriosa rivista Etnie, da Censin Pich in un intervento sintomaticamente titolato “Il Piemonte e la Padania”. Vi si esaminavano la specialità alpina del Piemonte e i suoi legami “trasmontani”, ma si riconosceva la forza della sua padanità. L’intervento si concludeva con una osservazione che è un po’ il vero riassunto di tutte le contraddizioni dell’autonomismo piemontese: “In definitiva, per capire l’atteggiamento del Piemonte verso la Padania, è necessario riflettere sugli altri suoi legami e sul suo desiderio di rimediare, o quanto meno farsi perdonare, fatti e misfatti storici di cui fu, più per volontà di grandi che di popolo, protagonista e corresponsabile”. È un complesso di colpa ingiustificato: se colpa c’è mai stata, il Piemonte l’ha pagata abbondantemente soffrendo più di ogni altra parte di Padania l’oppressione italiana nelle sue manifestazioni peggiori. Negli anni del primo risveglio autonomista il Piemonte è stato anima e motore dell’orgoglio identitario ritrovato (come dimostra anche il primato elettorale di quel periodo) ma poi si è in qualche modo accartocciato su sé stesso, sulle divisioni e sulle frustrazioni dei suoi autonomisti. Oggi può ritornare al posto che gli spetta nel cammino verso tutte le libertà se riprende con coerenza la lotta per affermare la sua identità allo stesso tempo piemontesista e padanista. Nessuno rimprovera più ai Piemontesi di aver fatto l’Italia ma bisogna evitare la colpa anche più grave di finire fra quelli che non hanno fatto la Padania. Tutte queste riflessioni sulla necessità di mag- Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 giore coerenza identitaria, di forte coesione nella comune battaglia padana di libertà e di abbandono di ogni suicida atteggiamento frazionistico sono corroborate dalla constatazione che l’unità strutturale (sia di tutte le energie piemontesiste che di queste con le omologhe manifestazioni delle altre patrie padane) giova agli autonomisti e al successo delle loro aspirazioni. Non solo anche l’autonomismo piemontese – come si è già visto – ha mostrato il suo massimo vigore nei momenti di maggiore impegno padanista, ma nessuna organizzazione è riuscita a crescere e neppure a sopravvivere al di fuori dal grande filone unitario oggi rappresentato dalla Lega. Tutti quelli che se ne sono staccati, anche quelli che lo hanno fatto per ragioni dotate di qualche giustificazione (al di là cioè dei soliti personalismi o interessi), anche quelli che avevano alle spalle una lunga e solida militanza autonomista, sono spariti, o hanno rinunciato alla battaglia politica rifugiandosi in (pur lodevolissime e necessarie) attività solo culturali, o sono stati assorbiti da movimenti e partiti che non hanno nulla di autonomista o che sono addirittura espressioni del peggior centralismo italiano. Se si vuole dare una valenza e un valore politico alle istanze identitarie localiste e piemontesiste non c’è oggi altro spazio al di fuori del filone leghista, non c’è altra strada (e non ce ne potranno mai essere) che non sia quella della costruzione di una casa comune per tutte le comunità padane. Il sogno è una Padania libera e, al suo interno un Piemont liber. Anzi un Piemunt liber! Quaderni Padani - 61 Documentazione storica La marcia dei Savoia verso la Padania Le vere origini della dinastia sabauda sono piuttosto oscure e si collocano geograficamente fra il Lago di Ginevra e quello di Neuchâtel, nella Svizzera Romanda. Il primo nome che viene ricordato è quello di Umberto dalle Bianche Mani (o Biancamano), morto nel 1048, che ha acquisito il primo possesso cisalpino occupando la Valle d’Aosta. L’operazione è stata proseguita da suo figlio Oddone che conquista le contee di Torino e di Susa. L’espansione si arresta nel corso dei secoli XII e XIII per la resistenza dei comuni piemontesi (i Savoia sono alleati, anche troppo prudenti, del Barbarossa), per l’opposizione dei Marchesati di Saluzzo e del Monferrato, e per la divisione della dinastia: il ramo principale tiene Aosta e Susa e gli Acaia Torino. L’avanzata verso la Padania riprende solo con Amedeo VII, che acquista la Contea di Nizza nel 1388, e con Amedeo VIII che prende il Vercellese ed eredita i territori degli Acaia che si sono estinti. È stato il primo a portare il titolo di Duca, dal 1416: lo stato passa da Contea a Ducato di Savoia. Dopo un altro lungo periodo di sostanziale stasi nelle conquiste, con una frenetica alternanza di avanzate e 1300 Pace di Lodi – 1454 1 – Principi di Acaia 2 – Marchesato di Saluzzo 3 – Marchesato del Monferrato Le date indicano l’espansione cisalpina dei Savoia 1 – Principi di Acaia 2 – Marchesato di Saluzzo 3 – Marchesato del Monferrato 62 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Pace di Cherasco – 1631 Congresso di Vienna – 1814 3 – Marchesato del Monferrato Pace di Utrecht – 1713 Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 1859 Quaderni Padani - 63 di arretramenti, la marcia riprende con Vittorio Amedeo II che assume il titolo di Re di Sardegna e riconquista tutti i territori contesi nel basso Piemonte nel 1697. Carlo Emanuele III arriva nel 1748 al Ticino. Vittorio Emanuele I, con il Congresso di Vienna, si appropria nel 1815 della Liguria. Dal 1859 Vittorio Emanuele II conquista la Lombardia e poi tutto il resto. Alla lunga avanzata verso la Padania corrisponde un graduale abbandono degli originari possessi transalpini a vantaggio della Confederazione Helvetica (Vallese 1476, Friburgo ALTRE TAVOLE STORICHE ☞ Popoli originari Sono indicati gli stanziamenti approssimativi dei principali popoli originari, prima dell’invasione romana. Alcune delle tribù sono da considerare celtiche a tutti gli effetti (Insubri, Vertamocori), tutte le altre appartengono a popolazioni di ceppo ligure e garalditano che sono state in seguito culturalmente celtizzate in maniera sostanziale (Leponzi, Taurini) o un po’ meno marcata (Salassi, Bagienni). ☞ Fasi dell’occupazione romana Sono indicati i limiti approssimativi dell’occupazione romana per quanto riguarda i centri e le vie di comunicazioni più importanti. E’ anche riportata a tratteggio l’estensione delle ribellioni dei cosiddetti Bagaudi che hanno caratterizzato la vita delle aree alpine (soprattutto di quelle abitate da Leponzi e da Salassi) per gran parte della durata dell’occupazione romana e almeno per il II e III secolo d.C. 1481, Vaud 1536) e del Regno di Francia (Bresse 1659, Barcellonette 1715, Nizza e Savoia 1859, Tenda e passi alpini 1947). Il Piemonte, come entità a sé stante, compare nel 1418, all’estinzione del ramo degli Acaia che avevano il titolo di Principi del Piemonte: da quel momento il Principato diventa appannaggio dell’erede al trono. Le sei cartine storiche illustrano la situazione della graduale padanizzazione dei territori sabaudi in tre momenti significati64 - Quaderni Padani Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 vi: il XIV secolo, il 1454 (Pace di Lodi), il 1631 (Pace di Cherasco), il 1713 (Pace di Utrecht), il 1814 (Congresso di Vienna) e il 1859, alla conclusione della cosiddetta Seconda guerra di indipendenza. Sulle tavole sono riportati anche i territori dei Principi di Acaia (1), del Marchesato di Saluzzo (2) e del Marchesato del Monferrato (3). Tutta la storia regionale è la prova della vocazione padana del Piemonte e di come siano pretestuose le velleità di certi autonomisti che sottolineano (e auspicano) una unione fra il Piemonte e le terre di oltr’Al- Prima Lega Lombarda ☞ Sono indicati con tratteggio più fine i territori appartenenti a comunità che hanno aderito a una o più edizioni della Prima Lega Lombarda. Con tratteggio più rado sono segnati i territori di entità fiancheggiatrici della Lega ma che non hanno mai formalizzato la loro adesione. La linea continua segna i confini del Regno d’Italia nell’Impero. Massima estensione del Ducato di Milano ☞ I limiti dell’estensione occidentale del Ducato (1396) coincidono in larga parte con quelli del Piemonte linguistico e ripropongono lo stretto legame padano della regione, allora contenuto dalla contrapposta espansione sabauda. A tratteggio più rado è segnata l’espansione del 1464. pe (la Savoia, il Vallese, il Nizzardo e la Provenza): c’è sicuramente un forte legame con il versante alpino nord-occidentale ma si tratta di una comunanza culturale e non identitaria che si inserisce nell’ambito delle strette parentele padane con tutti i popoli confinanti. Tutta la storia del Piemonte è una affermazione e una ricerca di padanità e non ci può essere futuro per le sue aspirazioni autonomiste al di fuori di questa eterna vocazione. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 65 Note sulla condizione linguistica del Piemonte L e varianti del Piemontese appartengono a quello che Sergio Salvi ha chiamato il “Padano continuo”, il cuore della lingua padana. Queste interessano in maniera esclusiva la parte centrale dell’attuale territorio regionale ma sono diffuse anche in tutte le valli occidentali, soprattutto nelle parti più basse. Nelle attuali province di Novara e del VCO (storicamente collegate al Ducato di Milano) si parlano varianti del Lombardo occidentale (anch’esso parte del Padano continuo): il confine viene convenzionalmente posto sulla Sesia anche sa la transizione fra i due gruppi di parlate è assai più morbida e complessa. In talune parti delle province di Cuneo (Alto, Cabrauna, Garessio e Ormea) e di Alessandria (Albera Ligure, Arquata Scrivia, Belforte Monferrato, Borghetto di Borbera, Bosio, Briga Alta, Cabella Ligure, Cantalupo Ligure, Carrega Ligure, Cartosio, Casaleggio Borio, Castelletto d’Orba, Cremolino, Fraconalto, Francavilla Bisio, Gavi, Grondona, Lerma, Molare, Mongiardino Ligure, Montaldeo, Mornese, Novi Ligure, Ovada, Parodi Ligure, Pasturana, Rocca Grimalda, Roccaforte Ligure, Rocchetta Ligure, San Cristoforo, Serravalle Scrivia, Silvano d’Orba, Tagliolo Monferrato, Tascarolo, Vignole Borbera e Voltaggio) che coincidono in buona misura con l’estensione territoriale storica della Repubblica di Genova si parla il Ligure, altra variante della lingua padana. Ad est di Alessandria si trova un’area linguisticamente molto complessa nella quale si sovrappongono influssi piemontesi, lombardi ed emiliani. I comuni interessati sono grosso modo Alluvioni Cambiò, Alzano Scrivia, Avolasca, Berzano di Tortona, Brignano Frascata, Carezzano, Carbonara Scrivia, Casalnoceto, Casasco, Cassano Spinola, Castellania, Castellar Guidobono, Castelnuovo Scrivia, Cerreto Grue, Costa Vescovato, Dernice, Fabbrica Curone Garbagna, Gavazzana, Gremiasco, Guazzora, Isola San’Antonio, Momperone, Monleale, Montacuto, Montegioco, Montemarzino, Paderna, Pontecurone, 66 - Quaderni Padani Pozzol Groppo, Pozzolo Formigaro, Sale, San Sebastiano Curone, Sant’Agata Fossili, Sardigliano, Sarezzano, Spineto Scrivia, Stazzano, Tortona, Viguzzolo, Villalvernia, Villaromagnano, Volpedo, Volpeglino. La lingua padana e tutte le sue varianti locali appartengono al grande ceppo delle parlate celto-romanze, cui appartengono anche l’Occitano e l’Arpitano (o Franco-Provenzale). L’Occitano è presente in forma prevalente e in coesistenza con parlate piemontesi nei comuni di Acceglio, Aisone, Argentera, Bagnolo Piemonte, Barge, Bernezzo, Bellino, Borgo San Dalmazzo, Boves, Briga Alta, Brondello, Brossasco, Canosio, Caraglio, Cartignano, Casteldelfino, Castellàr, Castelmagno, Celle di Macra, Cervasca, Chiusa di Pesio, Crissolo, Demonte, Dronero, Elva, Entràcque, Envie, Frabosa Soprana, Frabosa Sottana, Fràssino, Gaiola, Gambasca, Isasca, Limone Piemonte, Macra Albaretto, Marmora, Martiniana Po, Melle, Moiola, Montemale, Monterosso Grana, Oncino, Ostana, Paesana, Pagno, Peveragno, Piasco, Pietraporzio, Pontechinale, Pradléves, Prazzo, Rossana, Revello, Rifreddo, Rittana, Roàschia, Robilante, Roccabruna, Roccaforte Mondovì, Roccasparvera, Roccavione, Sambuco, Sampéyre, San Damiano, Sanfrònt, Stroppo, Valdieri, Valgrana, Valmala, Valloriate, Venasca, Vernante, Villar San Costanzo, Vignolo e Vinàdio in Provincia di Cuneo; e nei i comuni di Angrogna, Bardonecchia, Bibiana, Bobbio Pellice, Bricherasio, Campiglione e Fenile, Cantalupa, Cesana, Chiomonte, Clavière, Exilles, Fenestrelle, Frossasco, Inverso Pinasca, Luserna San Giovanni, Lusernetta, Massello, Oulx, Perosa, Perrero, Pinarca, Pomaretto, Porte, Pragelato, Prali, Pramollo, Prarostino, Rorà, Roure, Roletto, Salbertrand, Salza di Pinerolo, San Germano Chisone, San Pietro Val Lemina, San Secondo di Pinerolo, Sauze di Cesana, Sauze d’Oulx, Sestriere, Torre Pellice, Usseaux, Villar Pellice e Villar Perosa in Provincia di Torino. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Strettamente imparentato con l’Occitano è il Brigasco che in Piemonte interessa porzioni del territorio del comune di Briga Alta, in Provincia di Cuneo. L’Arpitano o Franco-Provenzale è presente in forma prevalente e in coesistenza con parlate piemontesi nei comuni di Ala di Stura, Balme, Borgone Susa, Bruzolo, Bussoleno, Cantoira, Céres, Ceresole Reale, Chialamberto, Chianocco, Condove, Giaglione, Gravere, Groscaval- lo, Ingria, Lémie, Locana, Màttie, Meana di Susa, Mezzemile, Mompantero, Moncenisio, Noasca, Novalesa, Ribordone, Ronco Canavese, San Didero, San Giorio di Susa, Susa, Usseglio, Valprato Soana, Venalzio, Villar Focchiardo e Viù, in provincia di Torino. Le varianti locali delle lingue walser interessano i territori dei Comuni di Alagna Valsesia, Rima San Giuseppe, Fobello e Rimella (Provincia di Vercelli), e Macugnaga, Ornavasso e Formazza (Provincia di Aree di influenza linguistica Verbania). Esse sono Lingue padane – 1 Area piemontese del Padano continuo, 2 Area lombarda occi- parlate alemanne che dentale del Padano continuo, 3 Area ligure appartengono al granAltre lingue celto-romanze – 4 Arpitano, 5 Occitano, 6 Brigasco de gruppo linguistico 7 Lingue germaniche tedesco. Le lingue occitane, franco-provenzali e walser hanno ottenuto un recente riconoscimento giuridico. Larga parte dei Comuni indicati come interessati da tali lingue hanno già espressamente manifestato la loro volontà (come previsto dalla Legge 482) di usufruire delle forme di tutela linguistica offerte. In particolare, già 95 comuni sui 118 indicati hanno optato per l’Occitano. Il fattore linguistico ha sempre rappresentato un punto di forza ma anche di debolezza del mondo autonomistico piemontese. Troppi piemontesisti non hanno saputo cogliere il vero grande valore della ricchezza rappresentata dalla varietà linguistica presente all’interno degli attuali confini regionali. I migliori di essi (Tavo Turat, Barba Toni Bodrero e altri) si sono dedicati con attenzione e rispetto alla valorizzazione di tutte Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 67 le presenze etnolinguistiche; i peggiori continuano ad affermare un poco autonomistico microimperialismo piemontese negando valore ed esistenza alle diversità linguistiche. Proprio solo con la mancanza di vera coscienza autonomistica (ed espressione di fatto di una volontà centralista e profondamente antidemocratica) si può infatti spiegare l’insistenza a negare dignità linguistica e identitaria agli Occitani e agli Arpitani delle valli piemontesi. Il vizio autoritario e centralista è poi aggravato dalla pretesa di affermare l’unicità di una lingua piemontese dotata di sintassi e ortografia rigidamente codificate. Il tutto nasce dalla interpretazione equivoca e capziosa del lodevole sforzo di ambienti culturali che hanno cercato di affermare il giusto valore letterario e storico del Torinese (gabbato per Piemontese), di cui hanno normato la grafia nel 1933. Su questa base troppi piemontesisti hanno cercato di limitare o di cancellare il valore di tutte le varianti locali e di imporre una grafia che, al di fuori di un ristretto gruppo di puristi, non viene rispettata né compresa, come dimostra la rigogliosa produzione letteraria e poetica provinciale costruita su grafie locali assai più intelleggibili. L’attaccamento a un Piemontese centralista è spesso giustificato dalla paura di una visione padanista dell’autonomismo e dalla ricorrente ma ingiustificata paura di una egemonia esterna, a volte individuata nel venetismo e più spesso in un lombardismo, peraltro inesistente sul piano politico e soprattutto su quello linguistico. Si affida con ciò la difesa della cultura piemontese non già alla propria innegabile forza ma a trincee e confini privi di ogni giustifica- 68 - Quaderni Padani zione storica e identitaria, si invoca addirittura una poco scientifica (e poco storica) non-parentela con le lingue padane in favore di maggiori comunanze con lingue transalpine: un Francese lontano e all’occorrenza assai più invasivo del Padano e anche dell’Italiano, e un Occitano di cui peraltro si sostiene periodicamente l’inesistenza. A motivare gli strenui difensori del centralismo linguistico (e non solo linguistico) piemontese ci sono poi anche i notevoli finanziamenti che cominciano a girare nell’ambiente e che spiegano certi feroci patriottismi ma anche talune furibonde risse giudiziarie che coinvolgono i sciovinisti piemontardi più infervorati. La difesa delle lingue locali è atto prioritario di ogni movimento autonomista ma va fatta sulla base del riconoscimento delle reali condizioni culturali e identitarie. Il Piemontese centralista non ha avuto nessun riconoscimento (a parte quello del tutto formale del Bureau Européen pour les Langues moins répandues) perché non ha forza politica: le lingue padane (o, per dirla con Salvi, la “lingua Padana e i suoi dialetti”) disporrebbero invece di assai più convincente forza scientifica e forza politica per trovare valorizzazione. Per questo l’azione deve essere unitaria a scala padana e locale a difesa di tutte le varianti. Si devono implementare tutte le lingue padane anche con una grafia unitaria, le si deve valorizzare per “famiglie” (e quella piemontese è una delle più importanti) e ne devono difendere e valorizzare tutte le varianti locali. In questa battaglia si vedrà chi è autonomista e chi è centralista (magari sovvenzionato). Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Contrassegni di confusione R iproduciamo una ventina di contrassegni elettorali impiegati da formazioni, gruppi e movimenti autonomisti piemontesi. Si tratta di una collezione largamente incompleta dei simboli utilizzati in qualche elezione negli ultimi quindici anni. Fa eccezione solo il simbolo del MARP che è molto più vecchio ma che viene riproposto solo per evidenziare la sua funzione di origine anche grafica cui si sono ispirati molti dei segni più moderni. Sono infatti largamente presenti il termine “Piemonte” e il drapò rigirato in tutte le salse. Le eccezioni sono costituite dal Leone della Liga utilizzato anche in Piemonte per le elezioni europee del 1984, dal simbolo dell’Union Autonomiste (dependance valdostana del piemontesismo) e dall’inquietante teschio della formazione contro la droga e l’immigrazione comparsa all’inizio degli anni ’90 per iniziativa di Gremmo. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000 Quaderni Padani - 69 Stravaganze grafiche post-modern sono diventate i simboli dei movimenti nati dalla scissione del 1999: animali e schemi si distaccano nettamente dalla tradizione 70 - Quaderni Padani iconografica e denotano con chiarezza anche eccessiva la loro dipendenza dalla computer graphics, oltre che inquietanti citazioni mondialiste. La lettura dei simboli utilizzati consente di tracciare un percorso che parte dalla grafica molto provinciale e artigianale degli inizi (ma fortemente legata a simbolismi antichi e radicati), passa per rielaborazioni del tema e per approssimazioni simboliche anche piuttosto brutte (montagne stilizzate, alpini, fiori e stambecchi), tocca vertici di incisività con i segni leghisti (in seguito arricchiti dalla profonda arcaicità simbolica del Sole delle Alpi), e finisce con la paccottiglia da depliandt pubblicitario degli insetti disneyani e degli aquilotti obesi e coronati di simboli massonici, quasi sicuramente frutto di dabbenaggine culturale. I simboli vengono riportati in ordine cronologico approssimativo di comparsa. Anno VI, N. 32 - Novembre-Dicembre 2000