Sono ultrà e sono contro

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Sono ultrà e sono contro
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LA PALLA NON È ROTONDA
SONO ULTRÀ
E SONO CONTRO
di Valerio
MARCHI
Il ritratto del tifoso estremo tra rifiuto del ‘sistema calcio’ e
tentazioni della politica. Gli ultrà sono contro il Palazzo e il
poliziotto messo a proteggerlo. Il caso estremo della ex Jugoslavia:
la trasformazione dei gruppi ultrà in milizie combattenti.
N
1.
ELL’AGOSTO DEL 1991 LA JUGOSLAVIA
sta già precipitando verso la guerra. L’esclusione sancita dall’Uefa di tutti gli stadi
della federazione dalle competizioni di coppa ed il rinvio sine die del campionato 1
sembrano rappresentare il rassegnarsi al peggio che avvolge ormai l’intero paese e
si allarga all’Europa. La momentanea assenza del calcio diviene il segno di una
mutazione di stato: il rito, simbolico e catartico, lascia posto alla più alta e distruttiva tra le forme di conflitto.
È opinione di molti che il calcio non si sia limitato a segnare il punto di non ritorno nella tragedia della Jugoslavia, ma che già da anni ne avesse preconizzato, in
forme evidenti, la fine cruenta.
La storia di questa sanguinosa dissoluzione può essere descritta, secondo l’etnologo Ivan Čolović, «anche attraverso le caratteristiche della violenza calcistica ed
il suo graduale trasferimento, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta,
sul terreno degli scontri interetnici e della politica di megalomania nazionale, da
dove è passata sui campi di battaglia» 2.
Di certo, in capo a pochi anni la presenza documentata, almeno in campo serbo, di ex ultrà che combattono inquadrati in una propria milizia, guidati dallo stesso capo che li aveva diretti in curva, sembra confermare le ricorrenti denunce sulle
strette collusioni tra le frange ultrà xenofobe e ultranazionaliste di tutta Europa e
l’internazionale nera. A partire dal «caso Jugoslavia» la cultura ultrà viene indicata
come un potenziale quanto vasto serbatoio di manovalanza sciovinista, nazionalista e violenta, pronta a riversare la propria crudeltà in forme che vanno ben oltre
quelle da stadio.
1. Il campionato inizierà in forte ritardo e senza le squadre croate e slovene.
2. I. ČOLOVIĆ , Campo di calcio campo di battaglia. Il calcio, dal racconto alla guerra. L’esperienza
iugoslava, Messina 1999, Mesogea, p. 23.
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Ma è veramente così? L’apporto degli ultrà alla guerra civile jugoslava, pur amplificato oltre le reali proporzioni, rappresenterebbe realmente la controprova della pericolosità letale del cocktail teppistico-politico che si sarebbe andato formando a partire dagli anni Ottanta negli stadi italiani e di altri grandi paesi europei
quali Francia, Germania, Olanda, Belgio, Spagna e Inghilterra?
2. Le vicende bellico-hooliganistiche della ex Jugoslavia tornano ad agitare le
acque attorno agli ultrà italiani il 30 gennaio del 2000, quasi dieci anni dopo quella
funerea interruzione del gioco. Allo stadio Olimpico, durante un incontro di campionato con il Bari, il gruppo laziale Irriducibili espone nella propria curva un lungo striscione con la frase: «Onore alla tigre Arkan».
Željko Ražnatović Arkan è quel criminale di guerra serbo con alle spalle una
carriera da fondatore e quindi capo dei Delije, il potentissimo gruppo ultrà della
Stella Rossa con base a Belgrado e sezioni distaccate in tutta la Serbia che, a partire dal 1989, accentua fortemente il carattere bellicosamente etnico degli ultrà belgradini.
Nonostante la declamata ed eterna adesione degli Irriducibili agli ideali del fascismo, ribadita campionato dopo campionato con un nutrito ricorso al saluto romano, con l’esposizione nei propri settori di svastiche e di croci celtiche e con i
numerosi cori di stampo nostalgico, lo striscione è dedicato ad uno dei più spietati
e sanguinari avversari di quei miliziani croati, di quei neoustascia che nel precedente decennio i neofascisti di tutta Europa, Irriducibili compresi, hanno apertamente e concretamente appoggiato.
Ma, d’altra parte, con una logica più specificamente ultrà, c’è da onorare uno
dei propri idoli, una delle bandiere della squadra biancoceleste: il giocatore Sinisa
Mihajlović, ex faro della Stella Rossa di Belgrado e fervente nazionalista panserbo,
il quale – spiegano i portavoce del gruppo – è stato infangato da stampa e televisione per aver rivendicato la propria antica amicizia con quel suo vecchio tifoso.
Lo striscione intendeva semplicemente sostenerlo e rincuorarlo.
La vicenda Arkan rinnova l’allarme sulle commistioni tra ultrà e politica. Grazie all’andamento ciclico di un’informazione che ripropone ogni volta come inediti
anche i fenomeni più datati, la vicenda può essere presentata come l’ennesimo segnale della presa di potere, nelle curve di tutta Italia, di una generazione hooligan
sempre più attratta dall’estremismo politico, ormai prevalentemente orientata verso la destra più razzista e radicale.
Sull’onda dello scandalo vengono anche adottate nuove misure repressive, indirizzate principalmente ad impedire la presenza negli stadi di scritte e di simboli
che incoraggino il razzismo, e che portano nel seguente turno di campionato al sequestro di un unico striscione, perugino, con su scritto «Armata rossa».
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3. Cinque anni dopo, l’identikit dell’ultrà che viene proposto al pubblico rimane lo stesso: una figura più ambigua di quanto già fosse alla nascita, non soltanto
un giovane che per tifare «oltre» combina danni a non finire, ma un soggetto dalla
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personalità anomica, un po’ squadrista e un po’ criminale, che nei settori giovanili
delle tifoserie vede e trova un serbatoio di coltura per i propri traffici e le proprie
vaghe ma pur sempre cupe ideologie.
Il ritratto dell’ultrà, e con esso i suoi legami con la politica, tende di solito a rimanere racchiuso in questa tesi asfittica, vagamente complottistica, in cui un fenomeno sociale che nel giro di trent’anni, contando soltanto l’Italia, ha coinvolto e
coinvolge tuttora centinaia di migliaia di persone, viene ridotto alle malevole attività di un manipolo di malintenzionati. Gli si nega ogni valenza sociale, per quanto contraddittoria o addirittura distruttiva, elaborando teoremi in cui gli ultrà vengono manovrati come burattini senza fili da oscuri gerarchi.
In realtà, il rapporto tra il conflitto politico-ideologico e la cultura ultrà è ben
più complesso e articolato di quanto possa trasparire dai toni ansiogeni dei mass
media, e si dipana attraverso forme e verso obiettivi che poco sembrano legarsi
con la politica propriamente detta, o almeno per come viene generalmente intesa.
La cultura ultrà, al contrario della Terrace Culture inglese, si sviluppa infatti
non soltanto come prosecuzione modernizzata e su vasta scala dell’antico gioco
della sassaiola, ma anche sull’onda dei movimenti di protesta operaia e studentesca, creandosi un’identità soprattutto attorno al ruolo di unica componente priva
d’interessi materiali, e quindi anche potenzialmente critica, in un sistema gerarchico ed autoritario quale quello del calcio.
Al contrario dei club ufficiali, nati come cinghia di trasmissione dei voleri
delle società, gli ultrà si pongono in forma indipendente, e appunto critica, non
soltanto rispetto al giudizio sul gioco e sui risultati della squadra, ma anche rispetto alle scelte di conduzione delle società e, soprattutto, rispetto alle trasformazioni in senso commerciale e spettacolaristico progressivamente imposte dal
sistema calcio 3.
È, anche quella ultrà, una delle tante forme di antagonismo sviluppatesi nel
clima di protagonismo sociale dei tardi anni Sessanta, e che si manifestano in forme sia socio-culturali che direttamente politiche. È la generazione in cui, a scuola
come in fabbrica, fermenta una nuova visione del proprio ruolo, in una ricerca di
centralità ed autonomia che travalica i tradizionali campi del conflitto e che produrrà nel decennio successivo sia vasti e strutturati movimenti politici sia fenomeni
quali le campagne per l’ingresso gratuito ai concerti e agli stadi, le azioni di esproprio delle merci, le feste del proletariato giovanile; più in generale, e soprattutto a
partire dal 1977, che metterà in atto in forma organizzata e continuativa le teorie
sulla «riappropriazione dei bisogni».
3. Intendo per sistema calcio non soltanto uno sport divenuto show-business, ma «un sistema integrato di interessi e relazioni incentrati su una passione che, pur se a vari livelli e con diverse peculiarità,
coinvolge milioni e milioni di utenti. Concorrono a formarlo tutti coloro che ne beneficiano economicamente, socialmente e politicamente: presidenti, dirigenti, staff tecnici e giocatori delle squadre; dirigenti e funzionari della Federazione, della Lega e del Coni; arbitri e guardalinee; testate giornalistiche
ed emittenti radiofoniche e televisive, agenzie di pubblicità e industrie sponsor, forze politiche e istituzionali», V. MARCHI, Il derby del bambino morto. Violenza ed ordine pubblico nel calcio, Roma 2005,
DeriveApprodi, p. 113
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Quest’anima antagonista e conflittuale rappresenta il nucleo più profondo della
cultura ultrà. Rappresenta l’unico ma sostanziale elemento che, rispetto ai tradizionali alti livelli di esaltazione e turbolenza delle tifoserie, la rende nuova e originale.
È dunque una generazione fortemente dominata dalla sfera della politica
quella che, tra il 1968 ed il 1980, si struttura anche in gruppi di tifo calcistico. Con
la stessa logica che porta agli sfondamenti nei concerti rock – che fa perno sulla
riappropriazione di un genere musicale culturalmente proprio ma che il sistema
capitalista ha ridotto a merce – anche l’ultrà non intende accettare il ruolo che gli è
stato riservato, quello di anonima cellula di consumo, né di veder sancita la trasformazione in merce di un bene comunitario qual è per lui il calcio. Una richiesta di
partecipazione e di piena cittadinanza per tutti i tifosi rispetto alle sorti del soccer,
la sua, che è già in sé fortemente politica.
4. Nonostante la natura stessa della propria cultura li porti a scontrarsi, o a formare intricate ragnatele di amicizie e inimicizie che rendono arduo ogni tentativo
di collaborazione e coordinamento, nel tipo di critica portata al sistema calcio gli
ultrà trovano la consapevolezza necessaria per conformarsi in movimento, manifestando per obiettivi decisamente politici che si possono sintetizzare in un duplice
rifiuto: al «calcio moderno» ed alla «repressione».
Attorno e limitatamente a questi due temi, o meglio a questi due fronti di lotta,
gli ultrà assumono caratteristiche che sono proprie delle ben più politicizzate controculture, coordinandosi tra tifoserie, diffondendo comunicati stampa e creando
comitati di lotta, organizzando convegni e sfilando in manifestazioni di piazza, indicendo scioperi del tifo e utilizzando le proprie trasmissioni radiofoniche e soprattutto Internet, a cui ormai ogni gruppo, anche il più inesistente, affida l’immagine che ha di sé.
Su questi due temi, la direzione verso cui marcia il «sistema calcio» e le strategie di ordine pubblico adottate negli stadi, gli ultrà possono contare su un consistente serbatoio di consenso soprattutto all’interno degli stadi 4, che ne legittima ulteriormente il ruolo di unica «opposizione» al governo del sistema che gli dona uno
status di controparte politica che appare impensabile poter «normalizzare» a colpi
di lacrimogeno e manganello.
Ad accentuare la componente politica della cultura ultrà interviene infatti lo stato di permanente contrapposizione ideologica con le forze dell’ordine. Se la polizia
valuta l’ultrà un pericolo sociale, una forma di sovversione e non di semplice teppismo, l’ultrà ha smesso da tempo di considerare il poliziotto, come nell’originale modello inglese, una sorta di arbitro che con energici «break!» evita che lo scontro si
protragga eccessivamente. Se per la polizia l’ultrà è una figura da controllare e reprimere in quanto eversiva, e non per quanto può realmente commettere, per l’ultrà il poliziotto fa parte di una terza tribù che indossa la casacca del sistema e che
picchia, arresta e diffida non per ristabilire l’ordine ma per difenderne gli interessi.
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4 . Sul tema del livello di consenso raccolto dagli ultrà all’interno degli stadi vedi ivi, pp. 176-178.
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Nella Terrace Culture inglese la contrapposizione con l’autorità costituita non
appare un tema fondante. Una visione prettamente sottoculturale del proprio ruolo interdice gli hooligan da ogni messa in discussione, che non sia simbolica, dei
rapporti di forza nella società. Manca appunto quella istintiva politicizzazione,
presente invece nel patrimonio culturale dell’ultrà italiano, che inchioda la polizia
al ruolo di braccio armato del sistema.
Il fronte comune delle tifoserie sul tema della lotta alla repressione, soprattutto
contro l’uso massificato e intimidatorio del Daspo (Divieto di accesso ad eventi
sportivi) e sulle modalità brutali degli interventi coattivi negli stadi, dimostra come
a partire da questi temi prettamente politici si stia riuscendo a sospendere, per determinate iniziative, quel senso di rivalità che è alla base stessa della cultura, in nome di un comune e ben più attrezzato nemico: il sistema calcio e le sue propaggini
istituzionali.
5. Si deve anche considerare come, in Italia, la turbolenza impolitica non abbia mai goduto dei favori dei mass media né di particolari attenzioni da autorità
che non fossero quelle di volta in volta localmente interessate. Non si sono mai registrate ondate di ansia sociale sui peraltro numerosissimi atti di ostilità di tipo
campanilistico, né sulle altrettanto frequenti risse del sabato sera in piazza o in discoteche, pub e locali di vario tipo; né l’avvento anche in Italia dei cosiddetti «stili
spettacolari» 5 ha suscitato in sé un allarme che andasse oltre il contingente e/o effimero interesse della stampa, spesso ancora una volta limitato a quella locale.
Perché, ad esempio, ci si accorgesse anche in Italia dell’esistenza di uno stile
skinhead, presente sin dalla prima metà degli anni Ottanta, si è dovuto attendere
l’ondata di notorietà che nella prima metà del seguente decennio avrebbe amplificato la fasulla ma politicizzata figura del naziskin. L’ovvia conseguenza fu che
qualsiasi skinhead iniziò da quel momento ad essere considerato automaticamente
nazista e che molti giovani che si autodefinivano nazisti o fascisti adottarono l’estetica skinhead, iniziando a autodefinirsi come tali.
Questa apparente incapacità tutta italiana di concepire forme di turbolenza di
massa che non manifestino, o nascondano, scopi o finalità politiche, conduce ad
una valutazione del nuovo e sconosciuto attraverso un ruvido ma rassicurante ritorno al vecchio e conosciuto, in cui la politica è sempre pronta a far capolino.
Questo è valso anche per gli ultrà, che tendono peraltro sempre a riprodurre
nel sistema calcio le forme conflittuali praticate all’esterno. Per i ragazzi d’oltremanica il modello è dunque la struttura informale della banda, di strada o di quartiere, mentre in Italia, dove la violenza giovanile si è storicamente manifestata soprattutto in forme politiche, si prende spunto dalla struttura formalizzata ed efficiente
del gruppo politico.
In altri termini, gli ultrà italiani elaborano le proprie strutture prendendo a modello quelle politiche: ogni gruppo, oltre che di un nome, dispone di almeno una
5. Sulla definizione di «stile spettacolare» vedi D. HEBDIGE, Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale, Genova 1983, Costa & Nolan, pp. 14-15
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sede in cui tenere le riunioni, di un comitato direttivo, di responsabili per le varie
branche di attività; dispone di tesseramento e di una propria tesoreria, è in grado
di programmare ed organizzare il lavoro collettivo e, addirittura, di formalizzare
delle cariche dotandole dell’autorità necessaria per colloquiare, quando è possibile
o ammissibile, con mass media ed autorità sportive e civili.
Anche nel campo dei simboli, la commistione tra la dimensione sottoculturale
– e quindi la ferocia, l’umorismo, la volgarità – e quella controculturale, con tutta la
vasta e ancor più feroce mitopoietica politica novecentesca, crea un’estetica coniugata attorno ai temi dell’eccesso, in cui il simbolo si estremizza e deforma al punto
da perdere o banalizzare gran parte dei propri significati originali.
Di matrice stradaiola o politica che siano, che trattino di droghe, alcol, sesso,
violenza, religione o campanile, il nome del gruppo, il tema dello striscione, il coro, lo slogan ritmato fino all’eccesso rappresenteranno sempre e soprattutto uno
sberleffo verso la cultura dominante. Tutto quel che non andrebbe detto, scritto,
cantato o compiuto viene rivendicato a gran voce e nelle forme più congeniali,
che in molte curve assumono forme evidentemente politiche.
6. L’ingresso nelle curve del conflitto politico crea nella cultura ultrà un problema di fondo, ovvero il sovrapporsi alla tradizionale rete di amicizie e inimicizie
di una nuova mappa, in cui si tiene conto anche della fede ideologica, un aspetto
che crea implicitamente una rottura nell’ambito della propria comunità. La raggiunta unità attorno alla maglia, sancita con la divisione per settori delle tifoserie,
viene infranta a partire da un tema che, secondo i canoni delle sottoculture, dovrebbe rimanere ai margini delle relazioni personali e di gruppo.
La situazione diviene ancora più complessa se nella stessa curva convivono
gruppi che si differenziano tra loro rispetto alla politica, e che a loro volta intrecciano rapporti di amicizia con gruppi della stessa tendenza di altre tifoserie. Le
tradizionali relazioni di curva, di amicizia o inimicizia che siano, tendono ad essere sostituite da una ben più caotica e contraddittoria mappa delle amicizie dei
singoli gruppi, ancor più soggetta della precedente al vaglia dell’ideologia.
Inoltre in quelle curve dove prevale tra gli ultrà un’unica componente ideologica, si possono registrare fenomeni di intolleranza o addirittura di violenza
verso tifosi della propria stessa squadra, ma di differente indirizzo politico. Un
meccanismo che, evidentemente, crea ancor più divisione nella tifoseria e sottrae agli ultrà molti potenziali adepti. In definitiva, nonostante il permanere di
obiettivi di fondo comuni e condivisi, la comparsa di interessi e pulsioni politiche nella cultura ultrà ne incrina l’unità, indebolendola e non – come si può sentir dire – rendendola più aggressiva e pericolosa.
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7. Ma se gli ultrà hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare da questo processo di contaminazione, lo stesso non si può dire per quelle forze politiche che,
in più occasioni ed in più paesi, hanno dimostrato un mal calcolato interesse verso
i turbolenti ragazzi delle curve, ricavandone per l’appunto magre soddisfazioni.
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Il primo tentativo organizzato di penetrazione negli ambienti del teppismo
calcistico viene effettuato nei primi anni Ottanta da un partitino neofascista inglese, il National Front. Le tematiche razziste e populiste di questa formazione, mirate
a far leva sul dilagante disagio dei ceti popolari e periferici, sembrano poter attecchire nell’ambiente spesso xenofobo delle curve, in quella che all’epoca viene ancora definita come una «riserva per maschi bianchi».
Il bollettino dell’organizzazione giovanile del partito, Bulldog, inizia a dedicare un vasto spazio alle imprese hooligan più razziste, presentandosi peraltro in una
forma editoriale accattivante, con toni e lazzi più da stampa popolare che da foglio
politico.
«Era un giornale», scrive Bill Buford, «che serviva a reclutare nuovi membri,
una rivista di basso livello in cui il National Front cercava di rivolgersi ai tifosi nella loro lingua. Il modello a cui si ispirava era il Sun, il quotidiano più letto da quei
giovani» 6.
A questo primo livello di contatto e di coinvolgimento, legato alle tematiche
sottoculturali e affidato ai rozzi messaggi di Bulldog, il National Front intendeva far
poi seguire il tentativo di mutare il tifoso in militante, sia attraverso il coinvolgimento in manifestazioni di partito e in altre attività politiche, sia incoraggiando la
lettura di fogli sempre di partito ma intellettualmente più sofisticati quali Nationalist Today ed Heritage and Destiny.
Il tentativo del National Front di un reclutamento di massa negli stadi fallisce
nel giro di pochi anni. Nonostante la presa che i temi della destra radicale hanno
in quel periodo sulle fasce giovanili bianche più disagiate e periferiche, e nonostante la xenofobia che serpeggia rumorosamente tra le tifoserie, sempre pronta a
tramutarsi in atti o atteggiamenti razzisti, il tentativo di trasmutare l’indocile hooligan in un disciplinato militante politico, pronto a distribuire volantini e a dedicare
qualche ora al giorno all’approfondimento teorico, non produce alcun risultato degno di nota 7.
«Ian Anderson, il vicepresidente del National Front, aveva ragione ad affermare che uno stadio di calcio era il luogo di reclutamento per eccellenza», scrive sempre Buford, «e sapeva anche che un tale luogo offriva un tipo particolare di seguace, già esperto, se non addirittura allenato, a far parte di una folla, talvolta violenta,
anche senza direttive politiche. E sapeva anche che la folla è l’arma più potente
per un partito rivoluzionario. Sulla carta sembrava tutto semplice e consequenziale: moltissime attività del National Front (le feste, i cortei, la propaganda) avevano
lo scopo di creare una folla e politicizzarla. Ma non tutto è poi così facile e, in fin
dei conti, i dirigenti del Fronte non riuscivano a eseguire perfettamente il loro
compito: erano lì per guidare, ma pochi seguivano» 8.
6. B. BUFORD, I furiosi della domenica. Viaggio al centro della violenza ultrà, Milano 1991, Longanesi, p. 130.
7. Sul fallimento dei tentativi di proselitismo dell’estrema destra nella tifoseria londinese del West
Ham vedi E. DUNNING, P. MURPHY, J.WILLIAMS, «Il teppismo calcistico in Gran Bretagna: 1880-1989», in A.
ROVERSI (a cura di), Calcio e violenza in Europa, Bologna 1990, il Mulino, p. 51.
8. B. BUFORD, op. cit., p. 145
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Da quei primi anni Ottanta, una miriade di partiti, partitini e gruppuscoli rigorosamente d’estrema destra ha tentato in tutta Europa lo stesso percorso del National Front, ottenendone gli stessi e scarsi risultati. In Germania, proprio mentre si
sta sgretolando il Muro di Berlino, si annota come i tentativi dell’estrema destra di
reclutare nuovi adepti tra le bande dei teppisti di stadio non abbiano successo 9, e
lo stesso avviene in Olanda 10 e in Belgio 11.
Anche nelle fasi in cui più forte è soffiato il vento della xenofobia, come nei
primi anni Novanta, la destra radicale non ha potuto, o forse saputo, trarre alcun
reale vantaggio politico dalle sue attività di proselitismo negli stadi. Allora come oggi, le poche occasioni in cui formazioni tanto citate in tema di ultrà, apparentemente padrone di migliaia di ragazzotti esagitati, hanno azzardato a darsi degli appuntamenti di piazza, già soltanto con la consolante esiguità del proprio numero hanno
dimostrato come il più del volte il «fascismo da stadio» sia e resti soltanto tale.
L’appariscente presenza in molte curve di vessilli e simboli legati al nazifascismo, o a forze di matrice razzista, non è infatti riconducibile a possibili strategie di
penetrazione poste in atto da formazioni politiche, quanto al sommarsi di numerosi atti individuali oppure, in forme e con effetti più rilevanti, alle attività di gruppi
politicamente schierati.
Politico o impolitico che sia, il conflitto di stadio trova infatti soltanto nel gruppo ultrà il proprio attore principale, l’unico in grado di svolgere – secondo i propri
canoni e nel proprio ristretto ambito a gradinata – un’attività di proselitismo 12.
In questo suo ruolo centrale, se il gruppo manifesta un’identità che è anche
politica, il nuovo adepto tenderà in ogni caso ad adeguarsi anche in ciò al gruppo.
Per fortuna, va anche aggiunto, nella maggior parte dei casi questa dinamica resta
sostanzialmente interna alla curva. Una volta recuperato l’esterno, il reale, l’ultrà –
salvo le dovute e già di per sé politicizzate eccezioni – ridimensiona fortemente il
truculento armamentario ideologico che allo stadio, contro l’avversario/nemico, gli
appare invece più che consono.
8. Se l’adesione politica che si sviluppa nell’ambito ultrà, anche la più radicale
e fanatica, difficilmente supera i tradizionali confini della propria cultura, trasformandosi raramente in reale militanza, resta pur sempre da comprendere quale differente meccanismo si sia messo in moto, a partire dalla fine degli anni Ottanta, tra
i gruppi ultrà jugoslavi.
In Jugoslavia la cultura ultrà inizia a formarsi in netto ritardo rispetto ai paesi
dell’Europa occidentale. I primi gruppi, legati alle due squadre di Belgrado, la Stel-
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9. K. WEISS, «Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca», in A. ROVERSI, ivi, p. 62.
10. H. VAN DER BRUG, «Il teppismo calcistico in Olanda», in A. ROVERSI, ivi, p. 122
11. L. WALGRAVE, K. VAN LIMBERGEN, «Il teppismo calcistico in Belgio; cause e rimedi», in ivi, p. 159
12. Per quanto riguarda il modello italiano, l’assenza di un gruppo ultrà strutturato non ha consentito,
nonostante alcuni falliti tentativi «da destra», di costruire attorno alla Nazionale quel clima di aggressività sciovinista che caratterizza parte delle tifoserie di numerosi paesi europei, ad iniziare dall’Inghilterra e dalla Germania.
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la Rossa ed il Partizan, compaiono soltanto nel 1982, mentre il resto del paese continua a rimanere fedele alle tradizionali turbolenze del pubblico.
Belgrado, vetrina nazionale ed internazionale del regime, diviene teatro di
scontri tra le poche centinaia di giovani che all’epoca si definiscono ultrà. La reazione delle autorità è durissima, sproporzionata rispetto alla portata di quelle prime turbolenze, ma sembra soltanto agire da moltiplicatore rispetto ai giovani coinvolti e alla gravità degli incidenti.
Per tutti gli anni Ottanta, la scena ultrà jugoslava appare particolarmente movimentata ma sostanzialmente in linea con le sue consuete caratteristiche culturali,
gli scontri aumentano d’intensità indipendentemente dal dato che l’avversario sia
serbo, croato, genericamente europeo o altro. Tra le partite più accese si annoverano sicuramente quelle tra squadre serbe e squadre croate, ma il derby di Belgrado continua a rimanere a lungo la partita più a rischio.
Le curve però sono cartine di tornasole sull’esterno, sul mondo reale, e a partire dal 1989 appare evidente che a modificarsi profondamente è il contesto generale, non quello specificamente ultrà. La campagna di etnicizzazione dello scontro
nasce non nelle curve, ma ad esse sembra rivolgersi.
Testimonia sempre Čolović: «Nel folklore dei tifosi in Serbia il tema dell’identità etnica, fino ad allora sporadico e proibito, compare in qualità di contenuto predominante di pari passo con la comparsa nell’ambito della comunicazione politica
e della propaganda, in particolare nelle grandi manifestazioni populistiche di massa che diedero l’impronta alla vita politica della Serbia e del Montenegro nel corso
del 1988 e 1989» 13. A partire dai toni della stampa sportiva serba, che passano dalla
condanna senza appello della violenza degli ultrà belgradesi al loro aperto panegirico, accusando invece gli ultrà croati di «comportamenti aggressivi e fascistoidi»:
«Come bestie hanno sentito l’odore del sangue nell’aria, volevano che ne venisse
versato davvero e solo in questo modo i loro più bassi istinti sarebbero stati soddisfatti», mentre i nostri tifosi», continua la stampa serba, «non sono nazionalisti in sé,
ma lo diventano seguendo le orme altrui» 14.
Iniziano ad essere esaltate, a partire dalla fine degli anni Ottanta, tutte le caratteristiche etnico-culturali serbe. Un’ondata di paranoia nazionalista individua
soprusi ed invidie verso il calcio serbo un po’ in tutta Europa: la Uefa è definita filotedesca e antiserba; gli allenatori serbi, se esonerati da squadre dell’Europa occidentale, è perché «pagano il prezzo della loro appartenenza alla religione ortodossa» 15.
Soprattutto la Stella Rossa, e con essa i suoi tifosi, vengono innalzati da stampa
e circoli nazionalisti a simbolo serbo per eccellenza: «I sostenitori della Stella Rossa
esprimono un patriottismo senza precedenti. Si legano e si affidano a questa unica
immagine nazionale luminosa e riconosciuta dal mondo intero». E ancora: «Per i
serbi di Croazia la Stella Rossa è praticamente una parte dell’identità nazionale».
13. I. ČOLOVIĆ , op. cit., p. 43.
14. Ivi, p. 29.
15. Ivi, p. 34.
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L’articolo è illustrato con due fotografie di Delije con in mano una bandiera con la
sigla Ser ed una con il vecchio stemma serbo. La didascalia recita: «Si allarga l’arsenale degli attrezzi della tifoseria: al giorno d’oggi i segni e i simboli della squadra
divengono insufficienti» 16.
In questo scenario, a richiedere un «salto di qualità» non sono dunque oscuri
mestatori politico-malavitosi, ma le istituzioni e la stampa stessi. Entra così in scena
la figura di Arkan che, osannato da stampa e dirigenti sportivi come uomo della
provvidenza, unifica sotto l’unica bandiera dei Delije gli ultrà della Stella Rossa, li
riconcilia con i desiderata di società e governo e infine li trasforma, con l’esplodere della guerra, in una feroce milizia.
A partire dal 1991-92 numerosi editoriali elogiano questo percorso verso la
guerra. Uno tra questi, del marzo 1992, recita: «I Delije hanno abbandonato i loro
requisiti di tifosi in qualche punto della curva, e col fucile in mano sono andati in
guerra. Combattenti senza paura, un eroe dopo l’altro» 17.
Rispetto al ruolo degli ultrà, anche nella dissoluzione della Jugoslavia compaiono in definitiva i tópoi della strumentalizzazione da parte del potere del giovane e della sua istintiva turbolenza. Come da sempre avviene, se il giovane aggressivo diviene in tempo di pace addirittura un Folks Devil, quando esplode la guerra
i ragazzi che riforniranno di sangue e morte il Grande Mattatoio divengono eroi,
martiri, fulgidi esempi.
L’ultrà si è ormai trasformato in soldato, ma non per pulsioni proprie. Non è
stata la sua violenza a condurre alla tragedia il paese, ma anzi è stata la violenza
degli adulti a rendere risibili le sue precedenti imprese. Da buone cartine di tornasole, anche in Jugoslavia le curve calcistiche e i loro ultrà hanno proposto una fotografia involgarita ed esasperata di pulsioni sociali di cui possono anche essere
uno degli effetti, ma certamente non una delle cause.
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16. Ivi, p. 37.
17. Ivi, p. 50.