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Pagina inziale » Spettacoli » Articolo n. 3281 del 25 luglio 2005
La terra dei morti viventi
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L'uomo che nel 1968 sconvolse per sempre i canoni dell'horror, rileggendo in chiave inevitabilmente peculiare e
non più modificabile l'iconografia terrificante del non-morto, dello zombie, torna a dirigere le "sue" creature in un
opera matura, affascinante, moderna ed assolutamente contestualizzata nei tempi bui e cupi che la nostra epoca
sta vivendo.
Parliamo ovviamente del genio di George Romero e della sua ultima, attesissima fatica, La terra dei morti viventi.
Quarto episodio della saga dei morti-viventi, dopo l'immortale La notte dei morti viventi(del 1968, film spesso
imitato ma praticamente mai eguagliato nella capacità di fondere perfettamente thriller ed ironia, splatter e
sarcasmo caustico e di realizzare un clima allucinatamente grottesco), il cultissimo Zombie (del 1978, frutto della
collaborazione ispirata con Dario Argento, film visionario, truculento, disperato e serratissimo) e l'oscuro Il giorno degli zombie (del 1985, horror
in cui le venature politiche della poetica di Romero si fanno decisamente più esplicite e l'atmosfera apocalittica tocca il suo zenith assoluto),
questa pellicola rispecchia nel bene e nel male il tempo e la società che lo hanno nutrito e ripropone in chiave contemporanea gli stilemi e le
ossessioni principali del cineasta americano.
Romero infatti non rinuncia al suo discorso di profondo disagio esistenziale nei confronti della politica americana e mondiale, partorendo un' opera
attuale e soprattutto attualizzata che riprende un discorso iniziato quasi trent' anni fa, girata con stile moderno ma accesa da un' antico fervore
creativo.
Ancora una volta Romero mette in scena una metafora crudele e cinica dei guasti della società contemporanea, ed
è singolare che le stesse dolenti critiche emerse dall'illustre epigono del 1978, Zombie, siano le stesse di oggi, segno
che in quasi trent'anni nulla è cambiato se non in peggio: come allora anche oggi l'autore denuncia la deficienza delle
persone che paiono non voler rinunciare al difetto più incredibile del loro "vivere sociale", ossia l'individualismo, che
nella sua accezione più nefasta, quella egoista, diviene il vero marchio della condanna, il peccato pronto a trascinare
l'umanità verso il gorgo dell'abisso apocalittico.
Senza un briciolo di spirito solidale i sopravissuti mettono in scena l'ennesima replica grottesca delle gerarchie
sociali consuetudinarie: di fronte all'olocausto nessuna barriera sociale viene abbattuta, i ricchi continuano a detenere
il potere mentre i poveri sono costretti ad una vita di stenti, vessati non solo dagli zombie ma anche dai militari
prezzolati dal potere. Un manifesto alla stupidità e cupidigia umana, splendidamente incarnata dalla figura meschina
e senza scrupoli del boss, un fetentissimo Dennis Hopper.
Ancora una volta Romero sceglie bene dalla parte di chi stare: mentre gli esseri umani involvono fino ad implodere (il
Green, grattacielo extralusso dove si rifugiano i ricchi&potenti, luogo in cui tutti i bisogni vengono soddisfatti e si può
dare libero sfogo al desiderio del superfluo, piuttosto che fornire una soluzione al "problema" , diventa ancora una
volta simbolo della fragilità evolutiva dell'uomo che invece di lottare insieme per la sopravvivenza decide di dividersi e
spegnersi di fronte al simulacro del proprio benessere) l'evoluzione cognitiva è tutta degli zombie: i non-morti, guidati
da un meccanico di colore (refrain tipico della poetica romeriana per cui il leader è sempre un individuo di colore)
cominciano ad utilizzare armi da taglio, armi da fuoco, vincono la paura dell'acqua (cioè dell'ignoto) acquistando
sempre più forza per abbattere le residue resistenze umane e divenendo rappresentazione simbolica della massa del
proletariato che prende coscienza di classe e si ribella allo strapotere della ricca borghesia elitaria predominante.
Dal punto di vista squisitamente tecnico il film non delude le attese: il montaggio è decisamente più serrato rispetto al passato, (ma mai senza
perdersi nel casino totale di un Resident Evil Apocalypse, tanto per citare uno zombie-movie recente) i personaggi ancora più disillusi e sempre in
bilico fra il serio e il caricaturale mentre il sangue torna a scorrere a fiumi, un pò per lo spettacolo ed un pò per necessità di sceneggiatura, fino
all'apoteosi del gore resa perfettamente dal gesto iconoclasta di uno zombie che stacca un piercing a morsi dalla pancia di una ragazza,
struprandola di uno dei simulacri estetici contemporanei.
Un film di ampio respiro, dunque, che si dipana attraverso 30 anni di storia del cinema horror-zombesco assumendo i caratteri delle definitività.
Dopo quest'opera avrebbe ancora senso che altri si mettessero a parlare di nuovo di zombies? Noi crediamo di no.
Davide Ottini
Pavia, 25/07/2005 (3281)
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