Il Leader: questo sconosciuto

Transcript

Il Leader: questo sconosciuto
IL LEADER: questo sconosciuto
-
Pontedera 25 ottobre 2014
1. Considero la leadership in azienda non un fine, ma uno STRUMENTO per stimolare, motivare e
coordinare le persone su un obiettivo comune.
E l’ho sempre vista - prima da dirigente della Montecatini e poi da imprenditore - come una pratica di
“problem solving” organizzativo, che punta a raggiungere gli obiettivi attraverso l’influenza sull’azione dei
collaboratori.
Ma la leadership – anche in azienda – sta assumendo caratteristiche diverse, soprattutto in termini di
legittimazione.
• Il ruolo gerarchico e le forti competenze tecnico-gestionali arretrano di fronte alla capacità di
coinvolgere, influenzare e motivare le persone.
• E nella cassetta degli attrezzi del leader è sempre più importante la comunicazione.
Direi, anzi, che queste caratteristiche – che considero più “emozionali”, soggettive e carismatiche – stanno
prendendo il sopravvento sulle altre.
2. Napoleone sosteneva che il leader è – fondamentalmente - un commerciante di speranze.
Da ingegnere minerario, prima che da imprenditore, considero questo approccio effimero, utilitaristico e di
corto respiro.
Sono un aziendalista nostalgico? Non lo escludo.
Ma guardandomi intorno, vedo che il confine fra il vero leader, il leader “presunto” e l’uomo della
provvidenza (spesso usa-e-getta) si sta assottigliando; anche in ambito imprenditoriale, bancario e
finanziario.
3. Sui giornali inglesi dello scorso febbraio, ha avuto molto risalto la conferenza che il finanziere Davide
Serra ha tenuto alla London School of Economics dedicata alle prospettive dell’Italia.
Secondo Serra “gli italiani sarebbero troppo ossessionati dai leader”.
Cito testualmente: “più interessati da chi fa l’allenatore e meno dai risultati della squadra”.
Trovo interessante questa affermazione e proverò a svilupparla, soprattutto dal punto di vista
imprenditoriale. Faccio l’imprenditore, non il politico; non mi avventuro in terreni di gioco poco conosciuti.
E ho rispetto per i ruoli.
E’ un insegnamento di mio padre, che dal ‘46 al ‘71 è stato sindaco di Ravello a capo di una lista civica di
larghe intese (come si direbbe oggi).
Le mie idee sulla leadership vengono da lì: da lui ho imparato che non c’è autorità senza responsabilità; né
credibilità senza sacrificio; né legittimazione senza servizio.
Vale in politica. Vale in azienda. Vale nel Rotary.
Lo dico pensando alle richieste - sempre più pressanti con l’ultima crisi – di uomini della provvidenza. Di
personalità invocate non solo a livello politico, ma anche a livello imprenditoriale, finanziario e bancario; e
capaci di guidarci verso la salvezza.
4. Basta guardarsi intorno per accorgersi che preoccupazione, sfiducia e rabbia non sono più sentimenti
individuali, ma atteggiamenti collettivi, da cui emerge il bisogno di capi carismatici.
1
Tre anni fa, dopo l’impennata dello spread, Galli della Loggia analizzò la richiesta di governi tecnici non
come una manifestazione di anti-politica, ma come l’esigenza di una politica più concreta, garantita da una
persona, non da una maggioranza o da un partito.
In effetti, nel momento delle decisioni critiche, non sono i partiti, ma le persone a dare sicurezza e speranza.
5. Non so se abbia ragione Il Foglio dicendo che oggi – fra Firenze, Roma e Napoli - si consuma una “guerra
di mondi”: certamente la Leopolda, la manifestazione della Cgil e il convegno dei Giovani industriali a
Napoli sono tre facce diverse della leadership contemporanea.
Ma tralascio la stretta attualità, perché ogni stagione va letta con la necessaria prospettiva storica.
Del resto, la cronaca di questi anni è piena di esempi utili al nostro ragionamento: da Mario Monti a Silvio
Berlusconi; da Romano Prodi, a Giulio Tremonti, a Mario Segni, fino a Di Pietro.
Ma potrei parlare di Sergio Marchionne alla Fiat, di Enrico Bondi alla Parmalat. Di Matteo Arpe o di
Tronchetti Provera. O dei ‘capitani coraggiosi’ Gnutti, Consorte e Fiorani.
Personalità molto diverse. Ma a noi non interessa il valore degli uni o il demerito degli altri. Interessano le
forti aspettative che sono stati in grado di suscitare. Aspettative che – alla più piccola smentita – si sono
trasformate in grandi delusioni.
6. Possiamo parlare di veri leader? In molti casi direi di no.
E non parlo degli aspetti positivi o negativi legati alle singole carriere.
La leadership non ha una connotazione necessariamente positiva o un fondamento necessariamente etico.
Hitler e Stalin erano leader; lo era Bin Laden; e lo è il giovane dittatore coreano Kim-Jo Un.
Ma personalmente non riesco a concepire il vero leader come un uomo solo al comando; un self made man
politico che decide tutto da solo.
Trovo, invece, azzeccata la definizione che - nella sua eccentricità - dava del leader l’enciclopedia Hoepli più
di cento anni fa, proponendone addirittura una derivazione “ippica”: <leader è il cavallo che si pone in testa
nella gara e fa l’andatura per gli altri>.
Questo fatto del “gareggiare insieme”, del condividere la fatica, le insidie e le regole della corsa mi convince,
perché si avvicina molto alla mia idea di leadership aziendale.
Il leader è una personalità carismatica, certamente ambiziosa, attorniata da uno stuolo di collaboratori. Ma
non devono essere né cortigiani, né "clientes"; bensì una squadra dirigente con un progetto di lungo periodo
e una visione propria del bene comune, con cui potersi misurare.
Penso agli staff dei grandi presidenti USA; ma penso anche a Enrico Fermi e ai suoi ragazzi di via
Panisperna; penso alla redazione del Mondo di Pannunzio; penso ai Ciampi boys.
Il Pci lo chiamò “centralismo democratico”; e tutti i segretari di quel partito, dal primo all'ultimo, si
confrontarono e agirono in quel quadro.
Togliatti era il capo riconosciuto, Berlinguer altrettanto; ma il confronto con pareri difformi era costante,
penso ad Ingrao, Macaluso o Napolitano.
Ancora più profondo il dibattito interno nella Dc - da De Gasperi a Scelba; da Fanfani a Moro; da Andreotti
a De Mita. Ma anche lì, la battaglia fra le correnti non impedì la nascita di numerosi leader e il
perseguimento di un progetto politico d’insieme, pure incasellato dentro formule ostrogote, come il
‘compromesso storico’ o le ‘convergenze parallele’.
Lo stesso ragionamento vale per i socialisti di Nenni; i liberali di Malagodi; i repubblicani di La Malfa, che
impersonava gli ideali di Giustizia e Libertà, del Partito d'Azione. E vale per Almirante.
I leader – insomma – “riassumevano” il quadro.
2
Erano loro a esporsi; ma la posizione era quella di un gruppo dirigente.
Questo fu il Paese capace di affrontare la ricostruzione, di gettare le basi per il boom economico e di gestire
la stagione del terrorismo.
7. Questo modello è ancora proponibile? Siamo di fronte al tramonto irreversibile del leader?
Forse è sparita la domanda di leader leggendari: Togliatti era “il migliore”; Degasperi addirittura un santo.
Per non parlare di Kennedy o del Che Guevara, icone pop, oltre che leader carismatici.
8. Ritengo, però, che il cambiamento, sia anche dovuto al ruolo dei media.
Finite le ideologie – e nella incapacità della politica tradizionale di interloquire coi cittadini - le persone sono
sempre più portate a scegliere personalità carismatiche che comunicano con precisi codici emozionali.
Il politologo francese Yves Mény ha parlato del rischio di un FUTURO POPULISTA. Un futuro fatto di
‘ventriloqui’ – inteso come leader che parlano con lo stomaco, ma che parlano anche allo stomaco – e
seguono un vocabolario che è un misto di qualunquismo, bisogni e paure.
Il fenomeno ha avuto una crescita esponenziale coi social network.
Ma già nel 1961, con il suo saggio ‘Fenomenologia di Mike Bongiorno’, Umberto Eco (all’epoca
funzionario della Rai) tracciava un interessante identikit della figura del leader ideale, almeno per l’utente
televisivo. Che non chiede il “superman, ma l’everyman, l’uomo assolutamente medio”.
“Del resto – scriveva Eco – l’idolo televisivo non è la diva inavvicinabile di Hollywood, ma sono i caratteri
medi dell’annunciatrice: bellezza modesta, sex appeal limitato e una certa casalinga inespressività.
Così come il personaggio più amato è Mike Bongiorno, che non è particolarmente bello, né colto, né
brillante, ma che si vende – apparentemente - per quello che è, in modo che lo spettatore veda salire al
rango di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti. E che rappresenta un ideale che nessuno deve
sforzarsi di raggiungere perché si trova già al suo livello”.
9. Più di recente, Giuliano Da Empoli, consigliere politico di Renzi, ha approfondito il ruolo di Internet e dei
social media nelle carriere dei leader attuali. Con il consenso che passa da canali inaspettati; e dove gli
schemi e i linguaggi vengono ribaltati continuamente.
Emblematico è il caso di Obama, che venne lanciato come leader dalla rivista rock Rolling Stone nel 2004. E
che, per questo, acquisì da subito la popolarità di una rockstar, più che di un politico.
10 Cosa dire al termine di questa carrellata?
C’è chi sostiene che alla base del cambiamento della tipologia del leader, ci sono le nuove domande della
società contemporanea, a cui non si può rispondere con una statistica sul PIL o con una dissertazione
accademica.
Da Empoli – ad esempio – ritiene che l'unico modo per riscuotere consenso sia raccontare storie che facciano
risuonare le corde più profonde delle persone. Esattamente come fanno i sacerdoti, la domenica in chiesa. E
come fanno “gli spacciatori di profumi e di automobili, ogni minuto, in televisione”.
Certamente – anche in azienda - una componente della leadership, è fatta di personalità, abilità, convinzioni,
atteggiamenti, valori che vale almeno quanto la funzione ricoperta; e che trascende dalle aspettative del
gruppo. Ma considero – con Orazio Maria Petracca, storico collaboratore di Confindustria – che il vero
leader <<trova la sua legittimazione solo nei risultati concreti e nella corrispondenza delle sue azioni alle
aspettative del gruppo>>.
11. Per questo, voglio dedicare l’ultima parte di questo intervento al mio rapporto con la leadership, maturato
in ambito industriale, ma anche nelle associazioni imprenditoriali (sono vicepresidente di Federchimica) e in
ambito sportivo (sono vice presidente del Gavorrano calcio).
3
Professionalmente nasco come dirigente della Montecatini.
E nel 1987 ho rilevato, insieme ad altri due soci, la mia impresa dall’ENI.
E’ stata una delle prime esperienze italiane di management buyout.
L’azienda era stata comperata. Ma il ruolo, le stellette – la leadership, appunto - andavano conquistati sul
campo. Soprattutto in un ambiente – come quello delle ex partecipazioni statali – dove la leadership
aziendale era poco praticata. E il morso della concorrenza e del mercato era poco conosciuto.
12. Esiste una ricetta per affrontare situazioni come queste?
Certo, sono molto importanti le competenze, che sono la base della professionalità.
Ma accanto a queste c’è il carattere, il piglio, il modo in cui si affrontano i problemi; e c’è lo spirito di
servizio, che al Rotary conosciamo bene. Sono tutti elementi della leadership che danno la vera credibilità.
Per noi tre neo-imprenditori si trattava, anzitutto, di farsi apprezzare dagli ex colleghi – ora nostri dipendenti.
E questo non è stato difficile.
Più complesso è stato quando si è trattato di avere un team da dirigere in una direzione diversa, rispetto a
quella portata avanti fino a quel momento dai vertici aziendali.
È allora che subentra quella qualità così difficile da definire, ma insieme così facile da riconoscere che è la
leadership.
13. In un’azienda, la logica del comando-controllo non è più applicabile:
• perché le strutture gerarchiche e burocratiche sono lente;
• e perché le persone non accettano che ci sia qualcuno che ha il monopolio del sapere e delle
decisioni, mentre a tutti gli altri spetta solo il compito di eseguire.
Non ho la presunzione di ritenermi un leader; ma in termini di leadership, la mia esperienza mi ha insegnato
molte cose. Che credo valgano per ogni tipo di leadership, anche quella politica.
a) Anzitutto a essere realista, a guardare in faccia la realtà per quello che è, non per quello che vorremmo
che fosse.
Quante volte mi è capitato di sentire che se le cose andavano male era colpa
•
della congiuntura economica;
•
dell’aggressività dei concorrenti;
•
o del fatto che “il mercato non ha capito il prodotto”.
La ricerca di alibi e di capri espiatori è uno sport diffuso, ma rischioso perché allontana dall’individuazione
dei motivi veri delle difficoltà.
Che - 99 volte su 100 - non stanno fuori, ma dentro l’azienda.
La congiuntura economica, l’aggressività della concorrenza, la sensibilità alle esigenze del mercato sono
sfide per tutti. E c’è sempre qualcuno che le sa affrontare meglio.
Non mi sono mai stancato dal mettere in guardia i miei collaboratori dal cercare alibi. Si deve riconoscere i
propri errori; e da questi imparare a fare meglio.
Quel che ho sempre detto è: “Siamo noi, con i nostri risultati, che ci siamo messi in questa situazione; e
siamo noi, con i nostri risultati, che ci tireremo fuori.”
b) Poi si deve credere in quello che si fa. E fare solo quello in cui si crede.
4
Quando si decide di partire, bisogna farlo sul serio, dandosi traguardi realistici e al tempo stesso ambiziosi. E
qui conta molto la conoscenza del business e dell’azienda.
Nelle difficoltà voglio che tutti abbiano chiara qual è la situazione e come pensiamo di uscirne. E cerco di
infondere la convinzione che è possibile farcela.
c) Quindi si deve essere sempre onesti con se stessi.
Fare tanto per fare; o fare cose in cui non si crede porta in vicoli ciechi e a profonde delusioni, per noi e per
l’azienda. Lasciare qualcosa di incompiuto costa. Ma proprio per questo, nel lungo termine la coerenza paga,
perché suscita credibilità e stima, beni preziosi per un imprenditore.
d) Si deve inoltre avere e trasmettere fiducia.
Credere in quello che si fa – anche quando sembra impossibile – è una componente essenziale di chi fa
impresa. Ma non basta! Bisogna anche credere negli altri, nelle capacità individuali e nella forza della
squadra. E darle fiducia.
Questo mi è servito molto anche in Federchimica. Il ruolo dell'associazionismo oggi è indispensabile per
trasmettere una nuova cultura d'impresa: altrimenti è rendita di posizione e piagnisteo. Ma per questo ho
sempre avuto bisogno di avere accanto una squadra che credesse nelle stesse cose e la sapesse trasmettere.
Non esiste il taumaturgo. Guidare un’azienda non è lavoro da solisti. Senza squadra non si combina niente.
Un leader che non sa fare squadra non è un leader.
Eppure ancora oggi è frequente il caso di manager che hanno un’immensa fiducia in se’ stessi; e poca o
nessuna nei propri collaboratori.
Le conseguenze? Sono quasi inevitabili:
•
a livello personale, è l’accentramento delle decisioni con conseguente sovraccarico di lavoro e
perdita del senso delle priorità;
•
a livello aziendale, il contraltare dell’accentramento sono la deresponsabilizzazione e la
demotivazione delle persone e con esse la moltiplicazione degli atteggiamenti di passività, lo
“yesmenismo” e, alla lunga, il menefreghismo.
Queste sono malattie gravi per qualsiasi organizzazione.
Che invece, quando riceve fiducia e viene responsabilizzata dà molto di più di quanto non ci si aspetti in
termini di idee, di contributi e di energie.
e) Ultimo punto: si devono avere valori e si devono trasmettere
E qui la leadership aziendale si avvicina molto a quella militare.
Valori come onestà, trasparenza, rispetto delle regole, puntualità, precisione, sono tutti aspetti fondamentali
per avere quella autorevolezza che è il presupposto della leadership.
All’entrata del nostro stabilimento di Scarlino c’è la bandiera dell’Italia.
E nell’ingresso - da qualche settimana - c’è un grande ritratto di Giovanni Paolo II in ricordo di una visita
che fece al nostro impianto nel 1989.
Non è un “santino”; è l’adesione a un sistema di valori e di obblighi. A partire dalla dignità del lavoro, come
realizzazione della nostra vocazione di uomini nella dimensione economica.
Fra l’altro, Papa Wojtyla condivideva con noi l’esperienza del lavoro in un’azienda chimica.
Sono convinto che la sua grande sensibilità umana e sociale – che è un tratto rilevante della leadership che ha
esercitato a livello internazionale - fosse anche il frutto della sua esperienza di operaio della Solvay.
14. Si può disobbedire ai leader?
5
Io l’ho appena fatto! Uno storico leader di Confindustria - Guido Carli – mi tirerebbe le orecchie, dicendo
che non esiste un argomento al mondo che non possa essere riassunto in una pagina dattiloscritta. Dunque,
provo a riassumere.
In questi anni ho potuto constatare che le aziende, di qualsiasi genere, vanno bene o male quasi sempre per
le stesse ragioni:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
se si è capaci di dare l’esempio; prima di tutto di coerenza e di rigore;
se si ha fiducia nelle persone;
se si sa fare squadra o meno;
se si accetta di sbagliare e di imparare dagli errori o - per paura dell’errore - ci si sottrae alla
responsabilità di decidere;
se si ascolta chi ha le competenze invece di pensare di fare tutto da sé;
se si ha il senso delle priorità o ci si perde nei dettagli;
se si decide velocemente o si ha paura dei rischi;
se si è fisicamente presenti e ci si rende conto dei problemi, o si preferisce stare comodamente
riparati nella torre d’avorio;
se ci si impegna a incontrare tutti i collaboratori e a motivarli al massimo, invece che comunicare
per note di servizio;
se si mettono metodo e determinazione nel perseguire i risultati o ci si illude che i risultati
vengano da soli;
se si è realisti, ma sostenuti da obiettivi ambiziosi; o tanto ambiziosi da essere irrealisti;
se si crede davvero in quel che si fa; o, invece, si è disposti ai compromessi perché quel che ci
interessa è altro – il potere, lo status, l’immagine personale.
Tutte queste cose sono il fondamento della leadership aziendale. Ma non solo aziendale.
La mia generazione è vissuta con il mito del grande capitalismo familiare.
Di Agnelli, Pirelli, Lucchini. Altri tempi. La leadership che conta in azienda è quella di chi intende i ruoli
come responsabilità, non come trampolini di potere personale.
Personalmente mi considero l’ultimo dei minatori; e ne sono orgoglioso, perché è lì, nella miniera di
Niccioleta, che - da giovane ingegnere – ho imparato il valore del lavoro, della fatica e del rischio.
Anche per questo, credo, ho avuto la ventura di gestire alcune patate bollenti con le quali - grazie a Dio - non
mi sono scottato troppo. Sia in azienda, sia in Federchimica, sia nello sport.
E considero questo periodo di grandi difficoltà, una straordinaria esperienza, che mette alla prova la nostra
capacità di leadership, non solo sugli altri, ma anche su noi stessi.
Perché ne usciremo certamente diversi. La grande sfida è uscirne migliori!
6