diario auschwitz1 _1_

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diario auschwitz1 _1_
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un
uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può
andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile… Il mio nome è 174 517, siamo stati battezzati, porteremo finchè
vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.” Primo Levi, Se questo è un uomo.
Lucca, lunedì 24 gennaio
Il gruppo di Lucca e dintorni parte in pullman alle ore 8 e trenta dal palazzetto dello sport, per le
scuole lucchesi il Liceo Machiavelli e il Liceo Vallisneri, sono presenti gli studenti e i docenti dell’ISI
di Barga, del Liceo artistico di Pietrasanta e due assessori della provincia di Lucca, Silvano
Simonetti e Maura Cavallaro, un gruppo di circa cinquanta persone.
Firenze stazione di santa Maria Novella - binario 16 - era il 9 novembre del 1943 quando un
convoglio partì da quel binario per Oswiecim/ Auschwitz: erano in 400 a bordo ed arrivarono al
lager dopo 4 giorni da incubo. Nessuno di loro fece più ritorno. Lo stesso viaggio tragico toccò in
sorte a oltre 8mila ebrei italiani, tra cui 700 toscani: una goccia nella tragedia della Shoah e dei
suoi 6 milioni di vittime. Ora noi saliremo su quel treno, personalmente sono partita nel caos
cercando il silenzio, so che non potrò trovare ad Auschwitz e a Birkenau la risposta a un pensiero
che mi ossessiona da anni: perché è accaduto? Come è potuto accadere? Perché il potere ha
avuto bisogno dell’orrore e lo ha organizzato come un progetto burocratico e di sistema? So
soltanto che cercherò di non far naufragare nello sgomento il cuore e la mente: se è avvenuto, può
avvenire di nuovo, cambiando i soggetti, mascherando odio e paure, usando altri metodi,
chiamando i lager con altre sigle. Che il terrore non ci trovi distratti.
Al binario 16 veniamo tutti registrati e iniziamo con i numeri, il vagone, lo scompartimento, il posto
cuccetta, l’albergo. Alle 12 e 50 il treno si muove è stracolmo di ragazzi, bandiere, colori e poi, sia
pure con lentezza, è l’Italia che scorre: Bologna, Ferrara, Udine, Treviso, Tarvisio, nel frattempo è
scesa la sera, aspettiamo la cena e cominciamo a condividere gli spazi, il cibo, le attese, le code, il
caos, il disordine, chi porta bagagli enormi e poi non sa come sistemarli, chi fa domande banali, chi
ride sguaiatamente, ma pian piano emerge lo straordinario senso di questo viaggio, essere
insieme per … rievocare, ricordare, celebrare, conoscere, testimoniare… forse ciascuno di noi lo
vive un po’ a modo suo, nella consapevolezza che esserci ha comunque un forte valore.
Gli insegnanti sono stati selezionati da un corso di aggiornamento frequentato in agosto, gli
studenti in diversi modi, ma certo è che le domande sono state di gran lunga superiori alle
possibilità di partecipare.
Prima di sera ci rechiamo al vagone dove le sorelle Andra e Tatiana Bucci accolgono gli studenti e
nel rispondere alle loro domande si raccontano bambine, andiamo con il libro “Meglio non sapere”
tra le mani, loro pazientemente li firmeranno tutti, è scritto da Titti Marrone e raccoglie la loro
storia. Poi sapremo che quest’anno per la prima volta le sorelle Tatiana e Andra Bucci entreranno
al museo di Auschwitz, erano tornate ai campi, ma mai erano entrate nel museo e forse anche la
nostra presenza è stata utile a dare loro la forza. Il pomeriggio del giorno dopo, in un cinema di
Cracovia, ci racconteranno a due voci la loro storia, le loro emozioni le loro paure e riflessioni
mediate oggi dagli occhi adulti, ne vengono fuori due ritratti straordinari, sono pulite nel narrare,
non vogliono commuovere, né esagerare, non temono di ricordare che il lager ti toglie l’anima,
l’umanità, ti fa diventare una bestia, come sarebbe ciascuno di noi se fosse spogliato di quella
identità che ci costruiamo con tanta fatica e che ci aiuta a navigare nella realtà della vita, mentre
raccontano ci sentiamo nudi, spogliati, soli, la mente non ce la fa ad accettare una tale mostruosità
e di nuovo ci rincorre la domanda inquietante, perché? Perchè è accaduto? E se è accaduto può
accadere ancora.
La notte è lunga, io sono in uno scompartimento con cinque studenti, la loro presenza mi aiuta, la
notte è trascorsa tranquilla e abbiamo dormito, ora siamo concentrati sulle cose da fare, sul vestirci
in modo adeguato, aspettare il caffè caldo, abbiamo saputo che ci sono stati scompartimenti
rimasti al freddo per un guasto all’impianto elettrico, non ci conosciamo eppure già ci muoviamo
come un gruppo, sistemiamo i bagagli, ci prepariamo a scendere.
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Stazione di Oswiecim, martedì 25 gennaio
Il nostro pullman e la nostra guida sono il numero 2, noi scendiamo dal treno con difficoltà, è così
lungo che non basta il marciapiede, ci vuole del tempo affinché si sia scesi tutti. Alle dieci circa
arriviamo a Birkenau, siamo nel paese di Brzezinka a circa 3 chilometri dal campo madre di
Auschwitz, è la nostra prima tappa, percorriamo a piedi la rampa da dove giungevano i treni fino
all’ingresso al campo, volano bassi i corvi, sta cominciando a nevicare, il cielo è pesante, la neve
copre una distesa immensa di baracche ce ne furono più di trecento, oggi se ne vedono 22 in
legno, il cuore diventa pesante: il cortile delle donne, le baracche dei bambini, qui una mano
pietosa o ipocrita, chi sa? ha abbellito le pareti con disegni infantili che ricordano proprio quello che
è stato spazzato via, la scuola, gli amici, il gioco, la famiglia. I bambini dimenticano la lingua
d’origine, il proprio nome, il volto della propria madre, qui i bambini aspettano la morte nel forno
crematorio, infatti il campo è un sistema che non consente sprechi, tutto ciò che è inutile, che non
produce, che consuma va eliminato.
Una mia studentessa mi dirà poi, Ero venuta per ricordare, per non dimenticare il passato e mi
sono trovata nel presente, sento forte la contemporaneità di questo viaggio, sento la storia vicina,
temo che sempre ci sarà qualcuno che vorrà sopraffare gli altri, imporre il potere, lo chiamerà
sicurezza, patria, confini, stabilità, innalzerà paure e mostruosità per cercare il consenso, sta a noi
impedire che questo avvenga.
Condivido con gli studenti la loro angoscia, chi ha visto Birkenau non può non avere orrore per tutti
i muri, le recinzioni, le elettrificazioni alzate a difesa, tornano alla mente i nostri studi teorici sulle
istituzioni totali, i manicomi, i carceri, i centri di espulsione, ma ora siamo qui e chi ha mosso i
propri piedi su quei territori di morte, chi ha camminato su tante vite eliminate in nome del progetto
sistematico di far prevalere una razza considerata pura, sulle altre considerate contaminate, chi è
stato a Auschwitz-Birkenau, lo comprendo soltanto ora, non può non chiedersi io da che parte sto?
Io cosa avrei fatto se fosse toccato a me? Se fossi stato vittima o se fossi stato carnefice?
Le baracche in legno erano stalle da campo per 52 cavalli, con qualche piccola modifica ci
alloggiarono fino a mille detenuti, noi siamo un centinaio e ci si sente soffocare.
Così vagano i miei pensieri, ma poi mi ritrovo accanto una domanda, una riflessione, torno al
calore della vicinanza, in silenzio ci sussurriamo che noi faremo la nostra parte, non avremo paura
di lasciarci contaminare, attraversare, percorrere da questa esperienza, sappiamo ora che
torneremo a casa molto cambiati.
Piano piano si entra nell’atmosfera del campo, le enormi distanze, il freddo, si fa una gran fatica a
pensare in modo razionale e pure ce ne sarebbe bisogno, i perimetri delle baracche, il filo spinato,
i forni crematori bombardati affinché le prove fossero eliminate.
La guida è un po’ massimalista nei suoi resoconti, parla bene l’italiano, ma non così bene da poter
tradurre emozioni e scelte complesse, è impegnato a restituire dignità storica alla Polonia,
all’Armata Rossa e alla sua forza liberatrice, talvolta è quasi ingenuo nelle sue conclusioni, ma fa
anche piacere, l’ho già detto, grandi pensieri non si svolgono in queste condizioni e io non riesco
neanche a prendere appunti, non ce la faccio.
La mattina si conclude con una cerimonia commemorativa al monumento internazionale, gli
studenti lanciano al cielo un nome, ed è un lungo elenco di ebrei, rom, sinti e “diversi” rinchiusi nei
lager nazisti, intervengono esponenti delle diverse comunità religiose e conclude Enrico Rossi
presidente della Regione Toscana, ricorda agli studenti che tanto dolore non può essere
archiviato, che dobbiamo continuare a porre domande e non cercare risposte semplici, costruire
una nuova coscienza per il nuovo secolo, sensibile, rispettosa delle diversità.
Ricomponiamo il gruppo, torniamo al pullman e andiamo verso Cracovia, verso il pranzo, verso
l’albergo, la sera un bellissimo concerto alla Filarmonica Krakowa, un gruppo polacco, voce,
violino, fisarmonica, contrabbasso, comprendo che la musica, l’arte, sono importanti in Polonia,
comunicano con noi e noi ci riappacifichiamo un po’ con il mondo.
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Auschwitz I, mercoledì 26 gennaio
Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, sono sotto quella scritta e mi appare piccola, quante volte
l’ho vista ripresa nei film, nei documentari e ora mi sento come quando da adulti si torna in un
luogo conosciuto da bambini e tutto ci appare piccolo, mentre nella nostra memoria ne avevamo
un ricordo immenso, a starci sotto ci si ammutolisce, è quasi vezzosa con quell’ondulazione e
paradossale nel significato, cinica per chi ha vissuto il lavoro massacrante dei campi.
Il campo di Auschwitz è un villaggio militare, le costruzioni sono basse, tutte uguali e in muratura a
mattoncini. Dal 1942 il campo di concentramento diventa il più grande centro di sterminio degli
ebrei europei.
Cominciamo a visitare i blocchi, il blocco 4, il cortile tra il blocco 10 e il blocco 11 è lì il muro della
morte, le SS vi fucilarono migliaia di prigionieri, eseguivano le fustigazioni e la pena del paletto
(appendere i detenuti per le mani legate dietro alla schiena) nei sotterranei si trovava la prigione,
oggi è museo, comprendo che Auschwitz ci riguarda tutti, leggo una scritta di Elie Weisel “quelle
fiamme che bruciarono per sempre la mia fede”, da quell’inferno usciva il fumo, in quel fumo milioni
di persone. Al blocco 11 hanno realizzato la prigione nella prigione, l’obiettivo è mettere alla prova
la resistenza umana, per venti giorni senza cibo né acqua, le sperimentazioni mediche, le punture
al fenolo che bloccano il cuore, le celle del soffocamento, processi che durano due minuti e si
concludono con la condanna a morte. Tra queste mura si prova per la prima volta il Zyclon B,
visitiamo le celle, sono piccole, basse, nella cella 18 muore il sacerdote polacco Kolbe, si fa fatica
a respirare, qui il dottor Joseph Mengele attuava le ricerche genetiche, gli esperimenti sui gemelli,
sui bambini con handicap, qui venivano effettuati innesti di pelle, provati nuovi farmaci,
sperimentata la sterilizzazione.
Il blocco 6, i documenti, le foto, i tatuaggi, i triangoli, le divise a strisce, le foto fatte dopo la
liberazione, corpi che pesano 25 kg, le foto di un lavoro continuo, inutile e continuo. In un blocco
dormivano 1200 detenuti, sono registrate 123 fughe, a coloro che erano catturati di nuovo veniva
appeso al collo un cartello con scritto hurrà di nuovo sono qui e poi impiccati la sera durante
l’appello.
Le pareti sono piene di volti, 232 mila bambini sotto i 14 anni, 650 sono i sopravvissuti, 40 mila
detenuti italiani, 8639 ebrei, morti 37 mila, i numeri iniziano a farmi male.
Visitiamo il padiglione italiano, è come entrare in una sorta di pancia della balena, un tunnel sulle
cui pareti sono rappresentati momenti della storia italiana, il volto di Antonio Gramsci, di Giacomo
Matteotti, di Primo Levi, e poi scene della vita nel campo, le deportazioni, le torture, la morte, la
resistenza, i partigiani, la libertà, la voglia di vivere in un mondo libero dal nazismo, dall’orrore,
dalle leggi razziali.
I forni crematori, sono situati fuori dal recinto del campo, davanti la baracca della gestapo, lì ora si
vede una forca dove fu eseguita la condanna a morte del comandante Rudolph Hoss, gli studenti
osservano in silenzio, entriamo nella stanza dove ci si spogliava, procediamo nella camera a gas e
poi restiamo inebetiti davanti ai due forni (sono ricostruiti e in origine erano tre): eliminavano 350
corpi nel giro di 24 ore.
La visita è finita, abbiamo venti minuti liberi, io decido di tornare al blocco 4 da sola, perché il
gruppo numeroso e la fretta della guida non mi ha consentito di vedere il primo piano. Infatti ora il
blocco è vuoto e salgo su, vedo il plastico di Auschwitz che avevo visto sul sito del museo, è
impressionante, una perfetta funzionante fabbrica della morte. Vedo nello sgomento i quindici metri
di vetrina di capelli di donna, 1950 kg di capelli usati per produrre cordami, e i denti d’oro fusi in
barre, le ceneri umane usate come fertilizzanti, e poi le valigie dove meticolosamente gli internati
avevano posto il nome, l’indirizzo, i tedeschi si sa tengono molto all’ordine. Più avanti mucchi di
occhiali, di scarpe, fanno male al cuore le bacinelle, le pentole, i vestiti dei bambini, le spazzole,
nella quotidianità degli oggetti intravedi la cultura, la speranza, la vita di milioni di persone.
Sono stati ritrovati dopo la liberazione mucchi di barattoli di Ziklon B vuoti e pieni.
Devo correre via, il tempo è scaduto e la guida polacca non ammette ritardi.
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Il pomeriggio rientriamo a Cracovia, siamo attesi nella sala del cinema Kijov per l’incontro con i
testimoni e i rappresentanti delle associazioni. Questo pomeriggio è stato talmente intenso e forte
che non lo descriverò molto, la sala è stracolma di studenti italiani, sono circa seicento, più
accompagnatori e giornalisti, politici, storici. Viene proiettato un filmato sulla liberazione del campo,
la sala è silenziosissima, commossa e rispettosa di fronte a tanto dolore. Interviene una ragazza
presidente del parlamento degli studenti, ma l’attesa è tutta per Andra e Tatiana Bucci, arrestate a
Fiume nel 1944, hanno sei e quattro anni, subito arriva la domanda, Perché non ci hanno uccise
subito? Forse perché fummo scambiate per gemelle, servivamo a Mengele, ma il loro racconto
finisce con la voce rotta a parlare di Sergio, della morte di Sergio, il cuginetto di sei anni rastrellato
insieme a loro e poi selezionato con un cinico stratagemma per essere sottoposto ad atroci
esperimenti medici, vittima innocente due volte, impiccato assieme ad altri bambini in un campo
vicino ad Amburgo, ad un gancio da macellaio. Ha la voce rotta Tatiana, mentre lo racconta
davanti alla partecipata platea, sente ancora il peso della responsabilità personale di una bambina
di sei anni. Ricordare è doloroso, ma anche liberatorio, si ferma e poi riprende “lo voglio dire”.
Prende la parola Marcello Martini, ha il volto generoso dell’uomo buono, forte è l’accento toscano,
Io sono un triangolo rosso, dice con orgoglio e inizia il racconto. Ha quattordici anni quando lo
arrestano, suo padre Mario è un responsabile del CNL, la famiglia è sfollata a Montemurlo. È il
primo pomeriggio del 9 giugno del 1944 quando piombano in casa le SS italiane e tedesche, il
padre riesce a fuggire, ma lui viene arrestato con sua madre e sua sorella e finisce alle Murate, il
carcere di Firenze, poi al campo di Fossoli e infine Mauthausen è il 24 giugno del 1944. Non mi
rendevo conto di dove fossi, racconta, l’abisso del male dove ero caduto ancora non aveva iniziato
rivelarsi, avevo smesso di essere un ragazzo, ero entrato nel campo di sterminio riservato agli
irriducibili, lavoro, fame, botte, patimenti, la morte era sempre in agguato, il camino fumava in
continuazione e noi respiravamo l’odore di carne bruciata.
Il campo di Mauthausen sarà liberato il 5 maggio del 1945, furono registrati nel campo 8300
italiani, il 5 maggio ne erano rimasti in vita meno di duecento.
Sembra tornare ragazzo durante il racconto, la voce si fa più limpida, lo sguardo fiero, l’orgoglio di
chi può raccontare una storia fatta di scelte e di coerenza e invita i giovani a non abbassare la
testa, a non avere paura, a difendere la libertà, l’uguaglianza e ancora torna a raccontare la fame
subita, il tormento della fame, sognare di mangiare, non so se potete capire, conclude scuotendo il
capo e sorridendo.
È stato davvero un pomeriggio straordinario, Fuori sta nevicando e la sera dopo cena, ce ne
andremo a piedi in centro a Cracovia, tre docenti e sei studenti, una passeggiata, una cioccolata
calda, una scusa per stare un po’ insieme, non ce la sentivamo di chiuderci in albergo, Cracovia è
una città bellissima, piena di parchi e dove camminare è veramente piacevole, ma domani la
visiteremo per bene, il quartiere ebraico, le sinagoghe, il centro, il mercato, la cattedrale, il castello,
è il regalo che ci viene concesso prima della partenza.
Cracovia, giovedì 27 gennaio
Giro per la città, pranzo e alle 16,30 nel piazzale della stazione di Plaszow dove ci ritroviamo per
un saluto, Ugo Caffaz, a nome della Regione Toscana, ricorda da un microfono che oggi cade
l’anniversario della liberazione di Auschwitz, ci invita ad abbracciare il nostro vicino per ricordare
la fine di un incubo, e così già con gli zaini in spalla, ci abbracciamo, ci sorridiamo, insieme
abbiamo vissuto giornate che ti cambiano il modo di vedere la vita, la morte, il vivere comune.
Da oggi, sussurra uno studente, la mia coscienza sarà più inquieta, sarà dalla parte dell’ultimo, di
colui che è in difficoltà, di colui che non ha i mezzi per difendersi e per far sentire la propria voce.
Saremo le staffette della testimonianza, proclamano gli studenti, è straordinario vedere tanti
giovani insieme per un obiettivo comune così alto, fatto di responsabilità, di conoscenza, di
impegno personale, sembrano riprendersi, in un’occasione come questa, quella presenza e
partecipazione che spesso la società degli adulti e delle istituzioni tende a negare loro.
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Infine è Romina una studentessa della quarta B che supera l’emozione per annunciare al
microfono la nascita di un gruppo su Facebook dedicato al Treno della Memoria, su cui invita gli
altri studenti a scambiare emozioni, foto, ricordi.
E poi un minuto di silenzio, vero, sentito, nel ricordo di chi non è riuscito a tornare, dei tredici
milioni di morti.
Torniamo in treno, ma per noi non è finita, nei nostri impegni ci sono due interviste, una al Prof.
Giovanni Gozzini, docente di storia contemporanea all'Università di Siena e l’altra è con Luca
Bravi, autore di una storia dei rom e dei sinti e che ricostruisce un altro tassello importante della
nostra storia. Ma del resoconto di quelle che sono state ore di laboratorio di storia, di sociologia, di
antropologia e di scambio di idee e pensieri, lascio il compito agli studenti che hanno utilizzato
strumenti molto più tecnologici del mio quadernetto e che stanno preparando un’assemblea di
istituto.
Io volevo soltanto lasciare una testimonianza, raccontare quello che è necessariamente il mio
racconto, ho messo al primo posto gli studenti, il senso di questo viaggio lo devo a loro, ho rubato
tra i loro codici comunicativi, li ho ascoltati e mi sono sentita ascoltata.
A Padova il treno arriva poco dopo mezzogiorno, un treno di quindici carrozze e seicento ragazzi,
saluta le sorelle Bucci con un’ovazione, tutti affacciati al finestrino per salutare le sopravvissute al
lager di Birkenau e al dottor Mengele.
Gli studenti sono riusciti a coinvolgere anche le persone di passaggio in un lungo applauso a
Tatiana e Andra che con gli occhi lucidi, camminano e stringono le tante tantissime mani che si
sporgono dai finestrini.
A questo punto ci si guarda e siamo stanchi davvero, i ragazzi si scambiano il numero di cellulare,
la mail, poi si ritroveranno su fb, l’assessore Simonetti ha un’idea straordinaria, far scendere a
Prato il nostro gruppo, lì troveremo il pullman, è fatta prima delle cinque siamo a Lucca, guardo
fuori dal finestrino, la macchina c’è, anche per me si avvicina casa, ancora un saluto, ora siamo più
contenuti, gli studenti sembrano già pensare a domani, a scuola, uno dice ho il compito di
matematica, è un ritorno alla realtà, certo anche per me domani c’è scuola.
Racconterò che in Polonia ho visto un cammello nella neve, che sono passata per una visionaria,
ma poi c’era davvero e allora restano altre domande, perché tutti sostenevano che non fosse
possibile? E perché ho impiegato due giorni per farli ricredere? E perchè si sono ricreduti solo
quando lo hanno visto con i loro occhi?!
Grazie alla Regione Toscana, alla Provincia di Lucca, ai docenti, agli studenti e a tutti coloro che
con la loro presenza e il loro impegno hanno reso possibile questo viaggio/esperienza.
enza colatutto (docente ISI Machiavelli)
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