Delocalizzazione produttiva : i prodotti a cui è applicabile, modalità

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Delocalizzazione produttiva : i prodotti a cui è applicabile, modalità
Delocalizzazione produttiva : i prodotti a cui è
applicabile, modalità operative
A quali prodotti è applicabile.
La delocalizzazione produttiva è applicabile ad ogni prodotto
finito che abbia un ciclo produttivo, non dipende da quanto
complesso possa essere, costituito da lavorazioni con macchine,
impianti o attrezzature e da manodopera più o meno specializzata.
Il ciclo deve essere strutturato in modo tale da poter essere
interrotto in una certa fase e ripristinato, completato in un'altra
azienda, in una realtà diversa. Un esempio per meglio comprendere
il processo produttivo delocalizzato:
- Di una porta ad apertura automatica vengono forniti (venduti
!) tutti i componenti sfusi ed alcuni semilavorati; - Alcuni di questi
componenti devono ancora subire una lavorazione (taglio, rifilatura,
etc.);
- L'assemblatore, mediante specifiche costruttive fornite dal
produttore, effettua le lavorazione e completa il montaggio di tutti
gli assiemi ed il cablaggio elettrico ed elettronico;
- Una volta completato il prodotto potrà essere imballato e
commercializzato "a misura di cliente" anche con il marchio
originale.
Le distinte basi e cicli produttivi
E' necessario avere, del prodotto da delocalizzare, la distinta
base ai vari livelli di tutti i componenti che lo costituiscono. Sarà in
questo modo possibile, dividendo tra i vari componenti quelli
commerciali di acquisto e quelli a disegno (cioè progettati e
realizzati espressamente dall'azienda), avere un chiaro quadro delle
strategie da perseguire. Ovvero :
- individuare a quale livello fermare il processo produttivo
quali
componenti
fornire
in
lavorazione
(delocalizzata) e quali cicli effettuare internamente
esterna
- quali garanzie assicurarsi
incontrollata del prodotto
per
evitare
una
clonazione
- quali garanzie prendere per evitare un trasferimento
imprevidente di know-how non tutelato all'esterno dell'azienda
I brevetti
Se il prodotto (o parte di esso) è coperto da
delocalizzazione produttiva è certamente molto più
sicura anche in campo internazionale. In ogni caso
prodotto è costituito da componenti a "disegno",
"tutelabile".
brevetti, la
cautelata e
con più un
più risulta
Analisi costi
E' necessario, partendo dalle distinte basi dei componenti,
effettuare una valorizzazione corretta del prodotto come ripartizione
dei costi (acquisti, materie prime, lavorazioni e trasformazioni, costi
generali, margini di contribuzione netti, etc.). Una volta individuato
il ciclo produttivo che si intende effettuare in azienda ed il ciclo
produttivo che si intende trasferire a società esterne, sarà possibile
determinare il prezzo di "vendita" del prodotto delocalizzato. In
questo modo si potrà creare un listino del prodotto delocalizzato,
valutando il risparmio ottenibile rispetto al prezzo di vendita
standard. La domanda che ci si sente porre di solito è: "..….quanto
risparmio adottando il ciclo produttivo e commerciale delocalizzato
invece di comprare il prodotto finito ?…." Dall'analisi dei costi si ha
la prima risposta.
Delocalizzazione produttiva : vantaggi e strategie
I risparmi derivati dalla delocalizzazione produttiva I risparmi
che potranno essere ottenuti con la delocalizzazione produttiva non
sono solo dovuti al non effettuare una determinata lavorazione (che
in ogni caso la società che completerà il prodotto dovrà in varia
misura affrontare, anche se con costi diversi), ma anche ad altri
fattori che di seguito elenchiamo :
a- trasporti : spedendo un prodotto semilavorato non
imballato (o parzialmente imballato) si riducono gli oneri di
trasporto (volumi, ingombri, disposizioni)
b- il costo della manodopera non è rapportato in uguale modo
in tutto il mondo. Risparmiare 4 ore di lavoro pari a 100.000 /
120.000 o più in Italia, equivalgono ad un mese ed oltre di lavoro in
Russia, in certe aree. Il risultato può essere una riduzione anche
considerevole del costo del prodotto finito su determinati mercati !
c- riduzione dei tempi di consegna (per arrivare fino alla
pronta consegna)
d- migliorare i servizi di assistenza e post-vendita sul prodotto
Il mercato nazionale
L'applicazione della delocalizzazione al mercato nazionale,
Italiano : cosa significa ?
1- innanzi tutto ricercare aziende in grado di poter "produrre"
e distribuire il prodotto delocalizzato
2- permettere di accedere a varie forme di finanziamento alle
aziende che effettuano le lavorazioni del prodotto delocalizzato;
questi finanziamenti possono essere anche in parte a fondo perduto
a seconda delle diverse ubicazioni geografiche
3- ridurre gli oneri del trasporto sul finito
4- ridurre i tempi di consegna
5- avere un costo di manodopera comparabile o, molto più
spesso, inferiore (ed in parte, in certe regioni, sovvenzionato)
6- migliorare l'immagine "tecnologica" dell'azienda e del
prodotto
7- avere un prodotto commercialmente molto più aggressivo
Il mercato internazionale
L'applicazione della delocalizzazione al mercato internazionale
: cosa significa ? Come in parte indicato ai punti precedenti :
1- innanzi tutto ricercare aziende in grado di poter "produrre"
e distribuire il prodotto delocalizzata
2- permettere di accedere a varie forme di finanziamento
internazionale alle aziende che effettuano le lavorazioni sul prodotto
delocalizzato
3- ridurre degli oneri doganali
4- ridurre gli oneri del trasporto sul finito ed i tempi di
consegna
5- migliorare l'immagine "tecnologica" dell'azienda e del
prodotto
6- avere un prodotto commercialmente molto più aggressivo
7- relativamente ai costi di manodopera, la delocalizzazione è
economicamente vantaggiosa dove i costi di manodopera sono
inferiori : per esempio in Portogallo, Spagna, Est Europa, Balcani,
Medio Oriente, Africa, Sud America.
La manodopera.
Altri criteri di valutazione Occorre tenere conto anche di altri
fattori riferiti al costo della manodopera. Non sempre è infatti
sufficiente valutare il costo orario . Esistono realtà artigianali ed
industriali nelle quali l'inserimento del prodotto delocalizzato
avviene in strutture produttive esistenti. Si potrà quindi valutate
"integrazioni produttive" o "compensazioni di tempi morti dovuti a
cicli produttivi già esistenti". E' il caso di piccole e medie realtà
artigiane o industriali sia Italiane che estere. In questo caso la
delocalizzazione produttiva acquista significato di risparmio
economico e razionalizzazione produttiva anche in realtà locali con
costi di manodopera confrontabili o superiori a quelli della casa
madre.
Delocalizzazione produttiva : aspetti commerciali ed
organizzativi
Strategie commerciali
Utilizzando questo nuova impostazione produttiva si aprono
nuove concrete possibilità per le aziende con prodotti finiti
"delocalizzabili" :
- Sarà possibile effettuare nuove proposte commerciali e
tecnologiche sul mercato nazionale ed estero
- Sarà possibile migliorare la competitività dei propri prodotti
- Sarà possibile aggredire nuove fasce di utenza. Internet è in
questo senso un ottimo alleato !
I listini del prodotto delocalizzato
I listini del prodotto delocalizzato sono uno strumento
fondamentale di presentazione. Occorre prevedere listini in lingua,
codificati, completi di immagini elettroniche associate. Deve essere
possibile fornire anche listini su supporto magnetico (CD o floppy) o
meglio in Internet.
La formazione del personale interno e della rete distributiva
E' di fondamentale importanza la formazione del personale
tecnico e commerciale interno dell'azienda sulla nuova tecnologia
produttiva, per garantire la riuscita del progetto "delocalizzazione".
Infatti non solo dovrà essere trasferita commercialmente questa
tecnologia a nuovi potenziali utenti. Una volta effettuati gli accordi
per la distribuzione "delocalizzata" del prodotto con nuovi (o vecchi
!) clienti si dovrà supportarli :
- fornendo corsi di formazione tecnica (anche in lingua)
- fornendo supporto post-vendita (assistenza, etc.)
fornendo
manualistica
tecnica
delocalizzazione (cioè alla produzione "remota")
necessaria
alla
- creando sistemi di controllo tecnico sulla qualità del prodotto
delocalizzato.
La normativa : certificazione
responsabilità, aspetti legali
di
qualità
CE,
oneri
e
Considerando che oggi tutti i prodotti devono essere
assoggettati alla marchiatura CE, anche il prodotto delocalizzato
dovrà parimenti essere soggetto a questo standard. Le aziende che
effettuano la delocalizzazione dovranno tenere presente questi
aspetti attraverso controlli, cautelandosi anche legalmente affinché
vengano rispettate clausole tecniche, commerciali, di assistenza
post vendita, etc. La formazione di idoneo personale con specifici
corsi è di fondamentale importanza.
Lo stato dell'arte
Oggi il mercato offre diversi esempi di "delocalizzazione di
prodotti finiti". E' difficile valutare esattamente i volumi di fatturato
effettuati con questa tecnologia. Sicuramente siamo già sull'ordine
di un centinaio di miliardi anno solo in alcune province del Nord Est,
interessando sia il mercato nazionale che estero.
La presentazione del prodotto
La
presentazione
del
prodotto
da
delocalizzare
è
fondamentale. E' altresì di fondamentale importanza che questa
presentazione sia presente in ogni caso in Internet. In Internet si
ottengono riduzioni di costi importantissimi rispetto ai sistemi
classici di marketing, si possono avere cataloghi sempre aggiornati,
in lingua, interattivi, consultabili in tempo reale 24 ore al giorno, ai
quali possono essere associati sia da parte dei produttori che da
parte di potenziali utilizzatori lettere, richieste di informazioni,
posta, disegni tecnici, etc. Attraverso Internet, alle aziende a cui si
fornisce il prodotto delocalizzato, si può fornire assistenza riservata
e supporto anche in tempo reale, con costi quasi nulli di
collegamento (telefono, fax, etc.).
La cooperazione tra imprese come alternativa al controllo
diretto delle risorse
La ristrutturazione interna secondo logiche che promuovono
l'assunzione di ruoli autonomi e specifici da parte dei sottosistemi in
cui si articola l'attività dell' impresa non mira semplicemente a
correggere le inefficienze e le diseconomie generate da assetti
verticistici e burocratizzati. Essa tende piuttosto a costituire una
piattaforma organizzativa per la sperimentazione, lo sviluppo ed il
consolidamento di relazioni cooperative con altre imprese.
Il ricorso a forme di collaborazione costituisce infatti una scelta
quasi obbligata nel momento in cui l'impresa si confronta con la
complessità non soltanto sul versante della domanda ma anche su
quello dell'offerta, nel momento cioè in cui affronta il problema del
reperimento delle risorse produttive: è a questo punto che i limiti di
una ipotesi di sviluppo incentrata su processi di accumulazione ed
apprendimento esclusivamente interni emergono in tutta la loro
evidenza. In (Teece D.J., 1989) si sottolinea a questo proposito che
"la varietà di risorse e di competenze cui si ha bisogno di accedere
tende ad essere abbastanza ampia anche nei casi in cui le
tecnologie sono poco complesse. Ad esempio, per produrre un
personal computer un' impresa deve avere conoscenze adeguate in
una gamma di tecnologie che riguardano i disk driver, i network, le
tastiere e l' erogazione di energia. Nessuna impresa è in grado da
sola di tenere il passo dell' innovazione in tutte queste aree".
Una maggiore ricchezza e specificità di contenuti della
domanda si traduce immediatamente, per chi si proponga di
soddisfarla, nella necessità di accedere a risorse altrettanto ricche e
specifiche, la cui appropriazione esclusiva secondo logiche di
integrazione verticale appare quantomeno problematica. In effetti,
l'evoluzione della tecnologia e del profilo stesso dell'innovazione
mette profondamente in crisi l'idea di uno sviluppo dell'impresa
fondato sull'espansione dimensionale.
L'innovazione tende a configurarsi come il luogo della
convergenza di "saperi" tecnologici differenti e complementari, in
grado di integrarsi proficuamente in funzione di particolari obiettivi
.Un prodotto o un processo sono cioè innovativi tanto in quanto
sottendono una pluralità di principi scientifici e tecnici, dei quali è
detentore un numero molto ampio di soggetti le cui competenze
presentano vaste zone di sovrapposizione ma anche rilevanti aree
di specificità. Il sapere tecnologico si caratterizza quindi come una
risorsa fortemente distribuita e sempre più intimamente connessa
all'evolvere delle conoscenze scientifiche: ne consegue una sua
crescente immaterialità cui si accompagna una minore possibilità di
appropriazione esclusiva.
La
compresenza
di
processi
di
delocalizzazione
e
dematerializzazione
della
risorse
tecnologiche
sottostanti
all'innovazione rende non più affrontabile la loro accumulazione
diretta: il ricorso a forme di cooperazione fra imprese autonome
rappresenta allora l'unica via praticabile per attingere ad un
patrimonio di conoscenze e know how complementari rispetto al
core business dell'azienda ed al tempo stesso indispensabili per il
suo sviluppo. Esso consente infatti di aggirare la maggior parte dei
vincoli associati alle strategie di crescita fondate sull'espansione
dimensionale, ed in particolare:
• facilita, come è stato già osservato, l'erosione delle
barriere
tecnologiche
e
l'accesso
a
tecnologie
complementari;
• riduce i costi di sviluppo dei nuovi prodotti/processi
ripartendoli tra una pluralità di soggetti ed eliminando gli
sprechi derivanti da inutili duplicazioni.
• permette allo stesso modo la diversificazione del rischio
connesso all'innovazione;
• libera economie di scope sulla spinta della flessibilità delle
tecniche di produzione. In virtù della crescente rilevanza
assunta dal software negli sviluppi dell' innovazione,
aumentano infatti le possibilità di adattamento di
tecnologie di processo ed impianti ad esigenze d'uso
diversificate;
• agevola la commercializzazione di prodotti e processi
innovativi.
L' effetto congiunto di queste tendenze suggerisce alcuni
spunti di analisi, che vale la pena di richiamare brevemente.
Se dunque un sistema industriale articolato in piccole unità
produttive tra loro strettamente correlate può rappresentare il
presupposto infrastrutturale (vorremmo dire l'hardware) di un
modello di sviluppo orientato verso la rete, è però il sistema di
valori condiviso che induce comportamenti e scelte coerenti con
questo orientamento.
D'altra parte la fiducia reciproca, la trasparenza informativa, il
senso di appartenenza ad una organizzazione che travalica i confini
della singola impresa non nascono spontaneamente, ma sono il
frutto di un processo consapevole di ricerca e valorizzazione di
mutue dipendenze ed aree di sovrapposizione di interessi. E'
importante quindi la presenza di una componente progettuale che
può presentarsi, per fare soltanto due esempi, come il tentativo di
tradurre in metodologie di lavoro organizzate aggregazioni
operative nate da situazioni contingenti, oppure scaturire dalla
razionalizzazione di logiche di decentramento produttivo le quali,
una volta messe in atto, abbiano rivelato prospettive assai più
ampie degli obiettivi che le avevano ispirate.
Reti di imprese: tipologie organizzative
Nella "costellazione di imprese" analizzata in (Lorenzoni G.,
1990) tale funzione progettuale e di coordinamento è esercitata da
un' "impresa guida" che, in virtù del suo particolare profilo tecnicoeconomico, si propone come il naturale punto di riferimento per le
imprese terze con cui intrattiene rapporti operativi ricorrenti.
Tipicamente si tratta di una impresa terminale, dotata quindi
di una visibilità diretta sul mercato finale, che si avvale largamente
di apporti esterni sia per quanto riguarda l' approvvigionamento di
componenti e sottosistemi che per l' esecuzione di particolari cicli di
lavorazione: i suoi tratti distintivi sono individuabili nelle fasi di
progettazione, assemblaggio e commercializzazione del prodotto
finale.
Essa si caratterizza, da un punto di vista funzionale, per la
capacità di armonizzare all'interno di un disegno coerente una
pluralità di contributi provenienti da imprese terze impegnate in
attività più specifiche. E' proprio questo processo di integrazione,
portato avanti attraverso la ricerca e la valorizzazione dei legami
con unità operative esterne qualificate, la vera fonte del vantaggio
competitivo.
Non è un caso che dallo studio di Lorenzoni emerga
chiaramente come le imprese guida siano accomunate da un
fatturato per addetto molto elevato, investimenti limitati rispetto al
volume d'affari, marcata presenza dei costi variabili rispetto ai costi
fissi: l'attività di integrazione è quella che genera il maggior valore
aggiunto.
L' opportunità di crescita per le imprese terze, ed in definitiva
per la costellazione nel suo complesso, è rappresentata dalla
redistribuzione di tale valore aggiunto sotto forma di feedback dal
mercato, supporto alle attività di miglioramento del potenziale
produttivo, partecipazione ai processi di generazione della
conoscenza, maggiore consapevolezza del proprio posizionamento
nella catena del valore e quindi possibilità di acquisire a propria
volta di un ruolo propositivo e di coordinamento periferico. E'
questo il punto chiave rispetto al quale la struttura delle
costellazione, schematicamente rappresentata in figura., sembra
mostrare alcuni limiti riguardo al conseguimento di obiettivi di
efficienza sistemica.
Il sostanziale accentramento della funzione coordinatrice, che
pure garantisce unitarietà di scopi, conferisce evidentemente un
grande potere di controllo a chi ne è detentore. L' azione di
sostegno alla crescita qualitativa delle imprese minori resta
comunque subordinata agli obiettivi dell' impresa guida, e
rappresenta essa stessa una leva competitiva la cui direzione di
utilizzo non è univoca. Condizioni di mercato particolari potrebbero
indurre, magari sulla spinta di un' esigenza immediata di
redditività, a gestire i processi di redistribuzione del valore secondo
modalità non eque, o comunque a pilotare questi processi lungo
direzioni non coerenti con una ottimale allocazione delle risorse a
livello di sistema.
Fig. Relazioni fra le imprese delle costellazione
Fonte: Lorenzoni G., 1990
La prevalenza dei legami baricentrici rispetto a quelli periferici
comporta il rischio della riproposizione di gerarchie di fatto all'
interno delle struttura organizzativa, nè vale a scongiurare questo
pericolo la partecipazione contemporanea delle imprese terze a più
costellazioni, dal momento che in tutte si ripropone comunque, sia
pure a diversi livelli di latenza e di intensità, il medesimo problema
di squilibrio.
Coordinamento diffuso: l'impresa virtuale
Il nodo da sciogliere è rappresentato dalla sovrapposizione tra
tipologia funzionale dell'impresa ed articolazione dei rapporti
gerarchici: è questo il vincolo che rischia di imprigionare all'interno
di un rapporto di forza, gestito con maggiore o minore
lungimiranza, le potenzialità di sviluppo implicite nei legami di
interdipendenza.
L'impasse creata dalla predeterminazione dei ruoli appare
superabile soltanto in un contesto nel quale la ripartizione delle
responsabilità e delle competenze venga dinamicamente ridefinita
in funzione dei processi critici intorno ai quali si strutturano le
attività di business.
L'elaborazione di una strategia competitiva efficace comporta
in questo caso lo sviluppo di aggregazioni fra imprese autonome,
che agiscono in modo integrato ed organico per configurarsi ogni
volta al meglio come catena del valore più adatta al perseguimento
delle specifiche opportunità di business offerte dal mercato (Ceni P.,
Merli G., Saccani C., 1993): una sorta di imprese "virtuali", nate in
risposta a precisi segnali della domanda, focalizzate su obiettivi
specifici e chiaramente definiti, destinate a sciogliersi, o comunque
a rinnovarsi, una volta che tali obiettivi siano stati conseguiti.
La rete quindi come "sistema aperto" in cui operano imprese
capaci di connessioni dinamiche e dotate di un alto livello di
autoregolazione in vista del perseguimento di obiettivi comuni,
piuttosto che come struttura polarizzata, in cui il decentramento di
funzioni e fasi produttive è in ogni caso subordinato ad una logica di
"quasi integrazione".
Rispetto al modello della costellazione, nel quale l'aspetto
formale del coordinamento è molto accentuato, prevale l'idea di un
meccanismo di autoregolazione in cui la cooperazione è il risultato
dell'azione concomitante di soggetti diversi alle prese con problemi
comuni nelle loro linee di fondo (flessibilità logistica e gestionale,
innovazione, qualità) e distinti, ma convergenti, nei loro contenuti
specifici.
Anche questo approccio sottolinea in ogni caso l' esistenza di
un legame molto stretto fra strutture reticolari, orientamenti
imprenditoriali
innovativi,
posizionamento
competitivo.
La
decodifica di questa complessa trama non rientra certamente negli
obiettivi del presente lavoro: sarà quindi sufficiente richiamare l'
attenzione su pochi elementi qualificanti che costituiscono i cardini
della nostra riflessione.
Un contesto industriale costituito da unità operative autonome
(i nodi della rete) di ridotte dimensioni, fortemente specializzate e
distribuite sul territorio, sembra rappresentare un buon
presupposto infrastrutturale per l' evoluzione verso un sistemi
produttivi capaci di prestazioni in linea con i nuovi orientamenti di
fondo della domanda, e precisamente:
• forte interazione con il cliente;
• parallelizzazione dei processi lungo l' intera catena di
business;
• elevata flessibilità quali/quantitativa;
• innovazione continua;
• ridotto time to market;
La condivisione di orientamenti imprenditoriali comuni
favorisce una collaborazione tra imprese fondata su un sistema di
relazioni dinamico e adattativo che sostituisce o integra il ricorso ai
consueti modelli di negoziazione formale. La fiducia, la trasparenza
informativa, il decentramento variabile per competenza della
funzione decisionale rappresentano i valori fondanti di questo
sistema;
La convergenza di presupposti infrastrutturali e culturali
costituisce il terreno di sviluppo di strategie incentrate sulla ricerca
e valorizzazione di quelle stesse dipendenze reciproche che una
visione imprenditoriale autarchica tenderebbe ad interpretare come
occasioni di conflitto piuttosto che di crescita. Il focus di queste
strategie è sulla efficienza complessiva del processo di generazione
del valore: la ricerca della competitività comporta quindi la
partecipazione a distinte catene di business e la loro continua
ridefinizione in base ad una corretta interpretazione dei segnali
provenienti dal mercato.
E' chiaro che una prospettiva come quella delineata non
significa certamente la scomparsa di situazioni di fatto, in cui le
imprese maggiori possano esercitare forme di condizionamento
sulle aziende coinvolte nel loro ciclo produttivo: ma è l'approccio,
fondato su una visione progettuale comune maturata "sul campo" e
non imposta, a rendere tendenzialmente meno conflittuale il
rapporto.
L' orientamento prioritario alla massimizzazione del valore
aggiunto induce anche i soggetti contrattualmente più forti ad
accettere condizioni di subottimizzazione parziale dei loro processi
interni in funzione di un obiettivo di sostenibilità del confronto
competitivo sul lungo periodo, e a ridurre di conseguenza la
pressione gerarchica.
Ricorrendo ad una schematizzazione di comodo ma efficace,
potremmo
ravvisare
nelle
due
indicazioni
di
metodo
sommariamente confrontate una contrapposizione di tipo "topdown/bottom-up".
Il primo approccio incontra probabilmente minori difficoltà
nella fase di impostazione, durante la quale il ricorso alla leva
gerarchica consente di bypassare eventuali carenze nella
condivisione degli orientamenti strategici ottenendo comunque una
rapida convergenza sulle attività da svolgere, ma può scontrarsi
durante la fase operativa con una cultura imprenditoriale non
preparata a confrontarsi sul mercato aperto.
Viceversa, un processo di tipo "bottom-up" può presentarsi
critico durante la fase di interiorizzazione dei comportamenti
richiesti dai nuovi assetti organizzativi: una volta che questi siano
stati assimilati come prioritari, l'attitudine al confronto su parametri
di flessibilità, tempo, innovazione è però in grado di sprigionare
tutte le sue potenzialità competitive.
L’evoluzione dei modelli produttivi nell’industria: la
delocalizzazione dei processi di produzione
Attraverso un’analisi della letteratura esistente e lo studio di
due casi aziendali, si è approfondito lo studio del processo di
delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione oltre i tradizionali
confini fisici delle strutture aziendali centrali, sia nelle imprese
finalizzate alla produzione di beni materiali sia in quelle destinate
alla realizzazione di servizi.
La ricerca ha confermato che la delocalizzazione produttiva ha
assunto una importanza cruciale nelle imprese contemporanee; ciò
avviene in risposta a una crescente necessità competitiva delle
aziende, obbligate a reagire tempestivamente e in modo flessibile a
una domanda di mercato sempre più complessa, articolata ed
eterogenea.
Non va però sottaciuto come la delocalizzazione produttiva sia
anche a volte una strada obbligata per raggiungere l’eccellenza
nella produzione di beni o nella fornitura di servizi.
La tendenza cui si assiste, pertanto, è verso il superamento di
strutture organizzative di grandi dimensioni, statiche, rigidamente
concentrate in un unico ambiente organizzativo e territoriale e,
all’opposto, le aziende sperimentano modelli organizzativi di
dimensioni inferiori, che si decentrano in un insieme diffuso di
“nodi” operativi.
Essi superando i confini fisici dell’unità centrale si articolano
sul territorio, spesso anche a livello “globale”, ricercando
l’integrazione in fattori quali una mission corporativa, una forte
cultura e comunicazione aziendale, un elevato livello di omogeneità
e ciclicità delle fasi organizzative, in cui l’obiettivo centrale diviene il
miglioramento continuo dei livelli qualitativi dei cicli produttivi, delle
risorse impiegate, delle condizioni di lavoro nonché della qualità del
prodotto/servizio finale.
I fattori che sono alla base dell’attuale diffusione di modalità
produttive che prescindono dalla valenza territoriale dell’impresa e,
al contrario, si articolano integrandosi in una “rete” di unità
produttive, con processi unitari, interconnessi, ma al contempo
distanti geograficamente e spesso anche culturalmente.
Le organizzazioni divengono oggi strutture sempre più
eterogenee e flessibili il cui compito è governare sistemi di
produzione complessi che cambiano e si sovrappongono
continuamente e che quasi mai coincidono con i “confini giuridici o
organizzativi segnati dalla proprietà e dal comando gerarchico di chi
detiene il potere economico o burocratico”.
Questa innovazione, lungi dall’essere una mera modifica
produttiva, incide profondamente sul modo di essere delle società
moderne: operando attraverso l’impresa, infatti, il modo di produrre
impronta di sé il mondo in cui viviamo, il quale vive dei prodotti ed
è intriso dei bisogni che provengono dal mondo della produzione.
In tale prospettiva è dunque lecito chiedersi come il passaggio
dalla produzione di massa alla produzione snella abbia contribuito a
modificare il modo di vivere, lavorare e fare business delle
organizzazioni.
A tal fine il presente elaborato sarà articolato in cinque parti:
• La prima parte è dedicata all’analisi delle fasi storiche
fondamentali che hanno caratterizzato lo sviluppo
industriale, in una prospettiva di reciproca influenza tra le
modalità di esplicazione e di organizzazione industriale e
il contesto socioeconomico in cui esse sono inserite. In
particolare ci soffermeremo sulle seguenti fasi storiche:
fase preindustriale e industriale, fase taylorfordista, fase
postfordista e fase postindustriale o dell’industria diffusa.
• La seconda parte approfondirà gli effetti dell’evoluzione
industriale sui processi produttivi. A questo scopo
saranno presi in considerazione alcuni modelli teorici
interpretativi fondamentali, quali la metafora de “il
castello e la rete” di Federico Butera, la teoria di Michael
J. Piore e Charles F. Sabel sulla transizione dalla
produzione di massa alla produzione flessibile, il
cosiddetto modello giapponese o lean production e,
infine, i principi della Total Quality.
• La terza parte analizzerà le modalità organizzative
attuate dalle imprese per far fronte in modo efficace e
efficiente alle richieste della globalizzazione. In tale
prospettiva i principi di flessibilità, specializzazione,
decentramento, integrazione, divengono i principali
termini della riorganizzazione lavorativa e produttiva e
danno luogo a nuovi paradigmi che ridisegnano i flussi
produttivi e lo stesso shape delle aziende.
• La quarta parte è finalizzata alla ricostruzione di due
esperienze aziendali che hanno fondato l’intero processo
di produzione sul principio della diffusione territoriale
delle diverse unità produttive. In particolare si analizzerà
il caso della ST Microelectronics (italo-francese) e della
Advanced
Micro
Devices
(americana),
aziende
specializzate
nella
produzione
di
quei
circuiti
microelettronici che troviamo nei PC che tutti utilizziamo.
• La parte conclusiva è dedicata alle riflessioni sui vantaggi
che un’impresa può ricevere dall’adozione di un modello
di produzione decentrato e articolato in unità produttive
dislocate sul territorio (nazionale e non) rispetto ad un
tradizionale modello di concentrazione produttiva.
1. Lo scenario storico
La società industriale nasce e si sviluppa nei cinquant’anni tra
il 1780 e il 1830, quando in Inghilterra e in Scozia si avviò un
profondo processo di trasformazione nei mezzi e nei modi di
lavorare e produrre chiamato appunto rivoluzione industriale. Si
trattò di un evento decisivo sotto ogni profilo: organizzativo,
economico, sociale, politico e culturale, che ha aperto l’epoca
contemporanea.
Da allora il nuovo simbolo dell’industria - fabbriche e officine ha soppiantato drasticamente il modello delle manifatture e degli
opifici prima esistenti. L’industria divenne, infatti, il simbolo di una
nuova società, quella industriale.
L’epoca preindustriale era ricca sì di botteghe artigiane,
corporazioni di arti e mestieri e perfino manifatture dove si lavorava
non soltanto con le mani ma anche con l’ausilio di macchinari e
apparecchiature
rudimentali,
ma
mancavano
ancora
le
precondizioni per la nascita della società industriale. L’insieme degli
edifici, macchinari, materiali, persone, procedure e norme che
compongono l’industria, si costituì come realtà specifica solamente
a partire da un determinato momento storico e da determinate
condizioni sociali : progresso tecnico, crescita demografica, sviluppo
energetico.
La novità essenziale dello sviluppo industriale risiede nel nuovo
tipo di rapporto sociale che l’industria stessa genera. Essa
rappresenta un trapasso definitivo nella storia del lavoro e dei
lavoratori. La scoperta della formidabile capacità produttiva
generata dall’industria attraverso la combinazione di capitale e
lavoro è alla base della rivalutazione del lavoro nella società
moderna. Soppiantando i rapporti sociali di lavoro preesistenti ha
consolidato un rapporto di lavoro salariato: la forma dominante del
nostro tempo. Inoltre, separando il produttore dal prodotto ha
travolto completamente il secolare funzionamento della bottega
artigiana, determinando una condizione in base alla quale diviene
conveniente investire capitali in macchinari costosi perché non
occorre più un mestiere ma basta la mera erogazione di sforzo
muscolare a farli funzionare.
Quella unione tra capitale e lavoro che K. Marx chiama il
“modo capitalistico di produrre” è, dunque, il cuore del capitalismo
industriale così come il “sistema di fabbrica” diviene il cuore
dell’industria moderna: la coppia capitale-lavoro dà della società
una rappresentazione ancorata all’economia come non si era mai
avuta .
Nelle sue Diciotto lezioni sulla società industriale R. Aron
assume come parametro per l’industrializzazione della società
l’affermarsi di imprese industriali le quali: si separano dalla
famiglia; concentrano gli operai sul luogo di lavoro; introducono
un’originale divisione del lavoro; praticano un rigoroso e razionale
calcolo economico al fine di consentire l’accumulazione di capitale.
Secondo la definizione di L. Gallino la società industriale
presenta requisiti più quantitativi: la maggiore parte delle forze
lavoro sono occupate nel settore industriale; la maggior quota del
reddito nazionale è prodotta dall’industria; i processi di
accumulazione operano prevalentemente attraverso le aziende
industriali.
P. Deane , infine, ritiene caratterizzanti questi mutamenti:
l’applicazione diffusa e sistematica della scienza moderna e della
conoscenza empirica al processo di produzione per il mercato; la
specializzazione dell’attività economica rivolta alla produzione per il
mercato, nazionale o internazionale, e non all’autoconsumo o al
mercato locale; il trasferimento della popolazione dalle zone rurali
alle
zone
urbane;
l’aumento
delle
dimensioni
e
la
spersonalizzazione dell’unità tipica di produzione, in modo che essa
viene a essere fondata sempre meno sulla famiglia o su gruppi di
famiglie e sempre più sulle società per azioni o sulle imprese
pubbliche.
E, inoltre, “lo spostamento del lavoro dalle attività connesse
con la produzione di beni primari, alla produzione di beni manufatti
e di servizi. Impiego intensivo e estensivo delle risorse di capitale in
sostituzione ed a completamento dell’elemento umano. Nascita di
nuove classi sociali ed occupazionali, create dalla proprietà oppure
dal rapporto con i mezzi di produzione diversi dalla terra, in
particolare con il capitale” .
Lo sviluppo industriale si fonda, pertanto, su un insieme di
condizioni essenziali che sono state in grado di dimostrare non solo
l’opportunità ma anche la superiorità dei nuovi modelli di produrre
e, di conseguenza, di sostenere lo sviluppo stesso.
Il nascente ceto degli industriali, infatti, aveva bisogno di
constatare che la dinamica del processo innescato con le prime
fabbriche era talmente sostenuta, da rendere conveniente cambiare
i metodi di produzione precedenti, sia manuali sia artigiani, e che
quelli nuovi mostravano una redditività talmente superiore da
giustificare il costo del cambiamento.
Un costo che rispetto al passato richiedeva investimenti più
rischiosi, immobilizzi considerevoli di capitali. Diventare industriale
era infatti “tutt’altra cosa che assumersi il rischio di far lavorare una
partita di tessuti commissionata da mercanti imprenditori a piccoli
produttori autonomi della cosiddetta cottage industry”.
Significava impiegare capitali molto consistenti e accettare
che, materializzandosi in edifici, macchinari, impianti, attrezzature,
scorte, quei capitali non potessero tornare liquidi o quanto meno
potessero venire smobilizzati al prezzo di perdite colossali .
Dall’altro canto, nella visione di J. A. Schumpeter ,
l’imprenditore è colui che riesce a reagire in modo creativo e
innovativo e non adattivo ai mutamenti intervenuti nella situazione
dell’economia o nell’assetto del settore e che con intraprendenza
accetta di assumersi il rischio delle proprie azioni economiche.
Tuttavia nella sua forma attuale, ossia nella forma di
organismo complesso composto sia da un’organizzazione tecnicoproduttiva sia da un’istituzione economico-sociale che riesce a
mobilitare risorse, capitali, lavoro, mezzi, materiali e informazioni
per impiegarle nel modo più conveniente a realizzare il suo fine,
l’impresa si è affermata solamente verso la fine dell’800 e nel ‘900
essa è diventata rapidamente dominante. Questo perché solo in
quel determinato momento si sono presentate le premesse storiche
per lo sviluppo di un nuovo modo di lavorare ma soprattutto di un
nuovo modo di organizzare e gestire il lavoro.
Il
progresso
raggiunto
dal
macchinismo
industriale,
l’ingrandimento dei complessi industriali attraverso l’espansione
produttiva e le fusioni tra imprese, che culminerà negli anni ’20 con
il cosiddetto fenomeno del gigantismo industriale , la
concentrazione di manodopera in grandi stabilimenti, la disponibilità
di forza lavoro di estrazione contadina fino a quel momento tagliata
fuori dalla produzione industriale, rappresentavano i punti di forza
per un’evoluzione nell’industria che doveva superare pratiche di
produzione rimaste agli standard tecnici e culturali di un’epoca
precedente. Infatti, non solo non esistevano metodi rigorosi e
uniformi per impostare il lavoro ma erano carenti anche i metodi
amministrativi per calcolare i costi delle singole fasi produttive. Il
sistema con cui, fino ad allora, si otteneva la produzione in fabbrica
era conosciuto come drive system (sistema della spinta o dello
spintone). Esso consisteva in un sistema di controllo stretto, abuso,
irriverenza e minacce, volto a ispirare nell’operaio reverenza e
paura del management, al fine di prenderne il sopravvento.
È dunque a partire dai primi anni del ‘900 che si apre una
nuova fase dell’evoluzione industriale, detta taylorfordista, in cui si
superano definitivamente i tradizionali metodi di gestione e di
organizzazione produttiva. Furono, infatti, F. W. Taylor, presidente
dell’influente American Society of Mechanical Engineers, prima e H.
Ford, industriale e imprenditore, poi a procedere con rigore e solido
fondamento di esperienza alla costruzione di un metodo innovativo
per affrontare i problemi organizzativi delle grandi imprese
industriali.
L’importanza della loro opera risiede, infatti, nell’aver
costituito la prima proposta sistematica e generalizzabile
sull’organizzazione del lavoro, in grado di investire tutti i lavoratori
– dall’operaio al manager - in un unico disegno “organico,
funzionale e sistematizzante” . Lo scopo era il raggiungimento di
una fase “matura” dell’industria, fondata sulla produzione di massa
e in serie che consentisse l’attivazione di un mercato su larga scala,
in cui consumatori e produttori divenissero in qualche modo l’uno la
condizione per lo sviluppo e la crescita dell’altro .
Taylor individuava lucidamente il punto debole dell'industria
americana del primo ‘900: non le macchine, tecnicamente idonee al
lavoro in serie, ma il lavoro e la sua organizzazione.
I capitalisti dell’epoca, infatti, conoscevano ben poco i limiti
produttivi del proprio stabilimento. La produzione era, di fatto,
affidata a pochi operai specializzati, i quali, contrattata la tariffa di
cottimo, spesso assumevano direttamente i propri aiutanti e
stavano ben attenti a che nessuno superasse la produzione stabilita
all’interno del gruppo .
Cosa, questa, che avrebbe invariabilmente portato al “taglio
del cottimo”. Secondo la sua visione, dunque, le cause del
malfunzionamento delle officine di quel tempo erano : il timore che
un aumento nella produzione di ogni operaio e macchina
determinasse una riduzione del numero di occupati; l’imperfezione
dei sistemi di organizzazione impiegati che inducono l’operaio a
tenere bassa la produttività; l’inefficienza dei metodi empirici
adottati che rendono vano gran parte dello sforzo produttivo della
manodopera.
Il sistema propugnato da Taylor affrontava invece la
produzione da una angolazione diversa, manageriale. La sapienza
della mansione lavorativa andava sottratta ai lavoratori, tutte le
conoscenze circa il lavoro andavano accentrate nella direzione
d'officina. Era qui che si doveva stabilire la velocità ottimale delle
macchine e degli uomini, la procedura migliore per compiere un
lavoro, il flusso informativo e tutti gli altri particolari della
produzione, anche i più minuti. La direzione diveniva pertanto il
fulcro della fabbrica, intorno cui ruotava tutto, il cuore scientifico
che avrebbe garantito ai capitalisti la massima produzione. Ma tali
conoscenze andavano sottratte a chi ne sapeva di più, ossia gli
operai. Al fine di ottenere la loro collaborazione Taylor studiò un
sistema di cottimo (definito “differenziale”) ben diverso da quelli in
vigore all’epoca. Basato su compensi e penalizzazioni “a gradini”,
legati al raggiungimento di determinati obiettivi, il cottimo
differenziale avrebbe permesso ai migliori (gli uomini di
prim’ordine, come li definiva Taylor) di migliorare i loro guadagni.
Per contro, avrebbe portato all’espulsione di coloro che non si
piegavano alla razionalizzazione.
L’organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management)
si fondava così su quattro principi essenziali: lo studio scientifico dei
migliori metodi di lavoro in rapporto alle caratteristiche dei
lavoratori e delle macchine; la selezione e l’addestramento
scientifico della manodopera; l’instaurazione di rapporti di stima e
di cordiale collaborazione tra direzione e manodopera; la
distribuzione uniforme del lavoro e delle responsabilità tra
amministrazione e manodopera. Inoltre, alla base dello Scientific
Management vi era un principio metodologico fondamentale,
definito one best way, secondo il quale esiste sempre e comunque
un metodo unico e migliore per risolvere problemi o compiere azioni
di qualunque genere.
In questo modo, dunque, si poteva costruire un metodo
completamente diverso rispetto al passato e più razionale per
affrontare i problemi della produzione. Esso infatti fondandosi su
un’analisi approfondita di tutte le operazioni produttive, portava a
stabilire regole e norme che tendevano ad avere un valore
autonomo e determinava una nuova rilevanza rispetto al passato
dei concetti di specializzazione, suddivisione dei compiti,
standardizzazione. Secondo questa visione, a dettare il ritmo della
produzione non doveva più essere la macchina ma il metodo. Si
dovevano disciplinare i tempi dell’esecuzione, standardizzandone le
modalità. Tutto ciò era possibile soprattutto considerando che
all’epoca il macchinismo industriale aveva raggiunto importanti
traguardi : perfezionamento dei metodi di misurazione; produzione
sistematica di pezzi intercambiabili, progressiva specializzazione
delle macchine utensili.
Tuttavia, sul piano pratico, nessun industriale del tempo fu
disposto, applicando completamente la metodologia tayloristica a
sconvolgere i rapporti di lavoro interni e a cambiare mentalità verso
la produzione e verso i lavoratori. Essi si limitarono per lo più ad
introdurre qualche sistema di cottimo con curve incentivanti più
spinte per invogliare i lavoratori , di cui la teoria di Taylor era
piena. Questo perché l’idea di potere addestrare e allettare migliaia
di operai, uno per uno, ad imparare un modo di lavorare estraneo e
meccanico, sul quale si sarebbe basato il compenso, era assai
arduo. Non tanto perché richiedeva di far passare il taylorismo con
un operaio alla volta, quanto perché presupponeva la perdita
radicale dell’autonomia nel lavoro, per marginale che fosse.
Pertanto se Taylor non riuscì a risolvere il problema di adattare
all’industria moderna grandi masse non qualificate, Ford invece
partendo dal limite del taylorismo riuscì a far compiere quel salto
rivoluzionario alla produzione di serie e al controllo del lavoro.
Convinto che fosse finita l’era di considerare l’auto un bene di
lusso, prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di
lanciare sul mercato, nel 1908, una vettura robusta e sicura, con un
prezzo “così basso che ogni lavoratore ben salariato si sarebbe
trovato nella possibilità di averne una”. Naturalmente il Model T fu
un successo senza precedenti: in tre anni ne furono vendute oltre
36.000. Ciò portò con sé la necessità di riorganizzare la fabbrica. Il
vecchio sistema, secondo cui la scocca della vettura era ferma e gli
operai vi giravano intorno, montando i pezzi, creava nell’officina
una confusione indescrivibile, con gruppi di operai che correvano di
qua e di là alla ricerca del materiale giusto, dell’arnese adatto. Era,
pertanto, giunto il momento di portare il lavoro agli operai e non
viceversa.
Il punto di svolta lo diedero due principi basilari della
concezione fordista: il primo, la possibilità di realizzare un apparato
di convogliamento detto catena di montaggio; il secondo, il
processo di standardizzazione del prodotto, ossia il principio di
fabbricazione di un unico modello, solido, affidabile e a buon
mercato. La differenza rispetto al taylorismo consisteva quindi nel
superamento dell’illusione di poter insegnare all’operaio l’unico
modo migliore di lavorare e nell’affermazione della possibilità di
disporre le cose in modo tale che egli possa soltanto lavorare al
meglio. Il perno, invece, “era l’accelerazione tecnologica realizzata
con la drastica semplificazione e standardizzazione del lavoro”.
Mediante semplici apparecchiature di convogliamento, “tantissimi
micro-movimenti individuali diventavano un solo tempo generale,
indipendente dal ritmo ottimo dei singoli, e prioritario rispetto a
tutte le fasi”. Questo era appunto il principio-base di quella che oggi
è conosciuta come catena di montaggio: gli obiettivi di produzione
spingevano tutte le lavorazioni verso quel traguardo.
Tuttavia nel disegnare l’organizzazione esclusivamente come
processo razionale e tecnico, la concezione meccanicistica tendeva
a sottovalutare gli aspetti umani dell’organizzazione e a trascurare
il fatto che i compiti con cui si confrontano le organizzazioni spesso
sono molto più complessi, incerti e difficili
dei compiti che possono essere espletati dalla macchine. Un
approccio all’organizzazione industriale di tipo meccanico e
razionale, può essere utile solamente quando si è in presenza di
condizioni favorevoli come: un compito molto chiaro; un ambiente
stabile; una produzione di serie; “componenti umane” della
macchina docili e rispettose dei compiti loro assegnati; la precisione
come elemento fondamentale del processo. Ma quando manca una
combinazione tale di condizioni un modello meccanicistico stenta a
decollare. In particolare, organizzazioni strutturare in modo
meccanicistico presentano notevoli difficoltà ad adattarsi ai
mutamenti ambientali: “dal momento che sono progettate per
realizzare obiettivi predeterminati, tali organizzazioni non sono
orientate all’innovazione”. Inoltre, questo approccio tende a limitare
piuttosto che a favorire lo sviluppo della capacità umane,
modellando gli individui in modo da renderli adatti ai requisiti propri
dell’organizzazione meccanicistica piuttosto che a costruire
l'organizzazione attorno alle potenzialità e capacità degli stessi.
Il grande limite del taylorfordismo fu, di conseguenza,
l’“estraneazione” del lavoro e dal lavoro. Per l'operaio parcellizzato,
a cui la fabbrica nega la possibilità di svolgere un lavoro, anche
ripetitivo, secondo il suo individuale ciclo vitale, la sicurezza
economica e la poca fatica divengono valori. Quando il lavoro
diviene troppo penoso rispetto al compenso che se ne ricava, il
lavoratore (se le condizioni del mercato del lavoro lo permettono)
se ne va, alla ricerca di un altro impiego più vantaggioso.
L’astrazione del lavoro diviene così l’ostacolo stesso, intrinseco,
all’aumento indiscriminato della produzione. Inoltre, anche l’idea
taylorfordista di potere spostare tutte le conoscenze dagli operai ai
manager era soltanto una pia illusione: il ciclo produttivo può
adeguarsi e migliorare (in qualità, ma anche in quantità) soltanto
se escono dall’ombra “le conoscenze informali e i saperi concreti dei
lavoratori”. Conoscenze che la catena di montaggio può
comprimere, ma non eliminare completamente, e che vengono
sfruttate, sotterraneamente, dall’operaio quale “ultima spiaggia”
per alleviare la fatica o per guadagnare pochi istanti di libertà dalla
propria mansione.
Per questi motivi, a partire dagli anni ’40, si svilupparono
nuovi studi e teorie sull’organizzazione produttiva, attente al
superamento dei limiti e delle difficoltà insite nel modello
meccanicistico taylorfordista, che culmineranno nei primi anni ’70
con l’inizio di una nuova fase dello sviluppo industriale, quella della
flessibilità o altrimenti detta post-industriale o dell’industria diffusa.
La fase postfordista è caratterizzata dalla presenza di due
approcci teorici fondamentali, dettati dall’esigenza di rivalutare il
ruolo della componente umana all’interno della struttura produttiva
con importanti ripercussioni anche sui contenuti del lavoro e sui
modelli produttivi: quello della “Scuola della Relazioni Umane”,
sviluppatosi tra gli anni ’40 e ’50, e quello della “Scuola
Motivazionalista”, tra gli anni ’60 e ’70.
Il principale esponente della prima Scuola è certamente E.
Mayo, il quale attraverso una serie di ricerche empiriche condotte
presso lo stabilimento di Hawthorne della Western Electric di
Chicago, ha messo in evidenza l’importanza del “fattore umano” sul
luogo di lavoro, inteso come l’insieme dei fattori psicologici latenti
che condizionano il comportamento manifesto dei soggetti. Secondo
lo studioso, l’azienda deve comprendere che prestando maggiore
attenzione alle esigenze psicologiche dei soggetti e in particolare
all’armonia e all’ambiente microsociale in cui si lavora, è possibile
aumentare anche il rendimento lavorativo. Mayo, pertanto, non
contesta l’assunto tayloristico sulla necessità di adottare un metodo
scientifico e nemmeno che il comportamento razionale dell’uomo
sia definito dalla sua adesione alle esigenze produttive dell’impresa.
Semplicemente obietta allo Scientific Management di non
riconoscere che quella adesione è connessa a un retroterra
psicologico, regolato da pulsioni non conformi a criteri di
razionalità. Mayo insiste quindi sulla necessità di soddisfare il
fattore umano mediante la creazione di un ambiente lavorativo
socialmente gradevole e armonico. In particolare, egli sostiene che i
bisogni sociali sul posto di lavoro possono essere soddisfatti nei
gruppi di lavoro, mettendo in pratica tutta una serie di attività non
pianificate che appartengono alla sfera dell’informale.
La Scuola Motivazionalista (tra i principali rappresentanti: A.
Maslow, C. Argyris, F. Herzberg, R. Likert), dall’altro canto, procede
in modo del tutto contrario rispetto alla teoria organizzativa
classica, secondo cui le esigenze delle organizzazioni vanno
considerate come la variabile indipendente a cui occorre
subordinare il comportamento umano. Essa diversamente si fonda
sul principio che al primo posto vanno messi i bisogni dell’uomo, in
particolare quello di autorealizzazione, e le organizzazioni devono
essere giudicate in base al grado con cui riescono ad adattarsi a
questa esigenza. Questo perché i fini dell’organizzazione possono
essere tanto più proficuamente perseguiti quanto più sono
soddisfatte le esigenze di crescita personale degli individui. Queste
esigenze, infatti, non conducono a una fuga dal lavoro e dalle
responsabilità ma, al contrario, si realizzano nel lavoro che dovrà
essere il più possibile vario, stimolante, ricco di significati. Pertanto
alcune condizioni dell’ambiente lavorativo - compiti “arricchiti”, stili
di leadership, organizzazione del lavoro, relazioni sociali divengono fattori determinati per la soddisfazione e la motivazione
individuale e suscettibili, allo stesso tempo, di incoraggiare gli
individui sia ad adeguarsi al disegno organizzativo sia a sviluppare
la propria creatività.
Le esigenze di valorizzazione della risorsa umana all’interno
del sistema industriale, alla base degli studi condotti nei trent’anni
successivi all’opera di Taylor e Ford, combinati con l’insieme dei
cambiamenti intervenuti a livello economico e sociale sul finire degli
anni 60, hanno, dunque, segnato definitivamente il tracollo dei
sistemi
taylofordisti
e
l’inizio
di
una
nuova
tappa
dell’industrializzazione, quella dell’industria flessibile. Essa, infatti,
porta con sé nuove variabili organizzative e gestionali, strutture e
modelli produttivi innovativi, attraverso i quali si ridisegna
completamente l’intero scenario industriale. Scopo del capitolo
successivo è pertanto di analizzare l’insieme di queste mutazioni
intervenute nel processo di industrializzazione, con particolare
attenzione ai cambiamenti prodotti nelle modalità e nella
localizzazione dei processi produttivi.
2. Le innovazioni nelle modalità produttive: dall’industria di
massa all’industria flessibile
Premessa
“Centralità e visibilità dell’industria stanno oggi diminuendo. La
nuova architettura industriale progetta edifici che non sembrano più
fabbriche, mentre gli stabilimenti di ieri stanno diventando pezzi di
archeologia, o addirittura, musei, come a New Lanark in Scozia ed a
Lowell nel Massachusetts, dove antiche sedi della grande industria
tessile testimoniano un passato quasi remoto”. Quali sono le cause
di questo profondo cambiamento nello scenario industriale?
La produzione di massa, basata su prodotti costruiti in larga
serie e standardizzati, così come era stata immaginata da A. Smith
sul finire del ‘700 e realizzata concretamente da Ford nel primo
ventennio del ‘900, offriva alle imprese enormi incrementi di
produttività, che aumentavano di pari passo con la crescita delle
industrie stesse. “Il progresso lungo questa traiettoria tecnologica
portava profitti e stipendi più alti, prezzi inferiori per i consumatori
e una vasta gamma di nuovi prodotti”. La produzione in serie
imponeva grandi investimenti per attrezzature specializzate e
manodopera minimamente qualificata. Queste risorse, infatti, erano
adeguate per una produzione standardizzata spesso di un solo
modello.
La produzione in serie aveva però un limite: era vantaggiosa
soltanto in quei mercati abbastanza grandi da riuscire ad assorbire
un’enorme produzione di un singolo prodotto e così stabili da tenere
continuamente impiegate le risorse dedicate alla produzione. Di
conseguenza, se per i primi vent’anni dopo la seconda guerra
mondiale queste strutture economiche erano riuscite a produrre
prosperità e stabilità economica, sostenute da un’economia
caratterizzata da un’inflazione moderata, da un basso livello di
disoccupazione,
da
un’ampia
distribuzione
dei
risultati
dell’espansione economica, a partire dalla fine degli anni ’60 il
modello fordista entra in una crisi che i consolidati modelli di
impresa non erano più in grado di gestire. Erano necessari, dunque,
nuovi modelli di gestione e organizzazione produttiva.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la tecnologia è solo
uno dei fattori che ha contribuito alla destrutturazione dei
tradizionali sistemi organizzativi e professionali. Entrano invece in
gioco, nella ricerca di configurazioni aziendali e produttive più
adeguate a gestire la crisi, altri fattori quali: l’economia della
flessibilità, la terziarizzazione, il cambiamento della struttura
sociale.
L’emergere di una domanda di mercato più ampia e articolata
(nuovi prodotti e soprattutto prestazioni di servizio, quantità
variabili, tempestività) ha, infatti, spostato l’attenzione delle
imprese dalla “scala” alla “flessibilità”. L’impresa ha tentato di
superare la rigidità delle grandi dimensioni e delle economie di
scala per trovare soluzioni organizzative più snelle internamente e
al contempo aperte verso l’esterno. La gestione delle aziende non è
più centrata sulla produzione bensì sul mercato, sulla variabilità
della domanda e sulla conseguente varietà del prodotto. Si è
assistito pertanto “a un declino delle strutture gerarchiche e
all’affermarsi di strutture reticolari e policentriche” più adeguate a
operare su mercati complessi e segmentati. Tutto ciò ha aumentato
anche le funzioni di servizio rispetto alle funzioni di produzione:
l’asse delle imprese si è spostata dalla realizzazione di beni
materiali all’erogazione di servizi. Conseguentemente a questo
processo è emersa l’esigenza di valorizzare funzioni produttive
immateriali (ricerca e sviluppo, marketing, logistica, qualità, etc.) e
di
sviluppare le funzioni finalizzate all’integrazione dell’intero
sistema aziendale (pianificazione, innovazione, coordinamento e
controllo, etc.).
Lo sviluppo tecnologico ha facilitato un simile processo di
innovazione e ristrutturazione aziendale. Le moderne tecnologie,
infatti, sono intervenute direttamente sulla struttura operativa e
funzionale dell’azienda. Sul piano produttivo, esse hanno reso
possibile l’automazione di numerosi processi lavorativi, sia
industriali sia d’ufficio, favorendo la riduzione di una serie di ruoli
esecutivi e ripetitivi a vantaggio di attività a elevato contenuto
informativo. Sul piano strategico, l’innovazione tecnologica ha
permesso di gestire in modo più flessibile il processo produttivo,
intervenendo sulla possibilità di decentrare funzioni, attività e
processi, e permettendo, allo stesso tempo, l’integrazione tra il
sistema aziendale interno, le strutture delocalizzate, i suoi referenti
e l’ambiente esterno.
Di qui nascono, pertanto, nuovi modi di produrre , nuove
forme di organizzazione del lavoro che iniziano a ridisegnare dalle
fondamenta la logica organizzativa e a “realizzare quel
superamento del taylorismo fino a questo momento solo formale e
in gran parte illusorio”. A tutto ciò deve aggiungersi il complesso
movimento della qualità, il quale pur venendo spesso associato ed
identificato con il modello giapponese ha, in realtà, una valenza
autonoma e significativamente incidente sui processi produttivi.
In linea con quanto detto, nel corso di questo capitolo
analizzeremo le profonde trasformazioni che sin dagli anni ’70
stanno sconvolgendo il tradizionale assetto dei modi di produzione,
soffermandoci in particolare su tre fenomeni di profonda rilevanza:
la nascita e lo sviluppo dell’impresa-rete, l’emergere del modello
industriale giapponese e il diffondersi dei principi della qualità
totale.
2.1 “Il castello e la rete”
Nel 1984 F. Butera sostenne che in gran parte delle
organizzazioni produttive dell’industria e dei servizi era in corso un
passaggio da un “modello meccanico o del castello” di
organizzazione a un nuovo modello organizzativo “organico o della
rete”, che si fondava su nuovi principi e nuove variabili
organizzative e produttive.
“Il modello meccanico è quello in cui funzioni, compiti,
strutture organizzative, mansioni, procedure, processi sono
massimamente specificati e razionalmente interconnessi attraverso
un piano preordinato, allo scopo di assicurare la massima efficienza
globale e la massima prevedibilità e governabilità delle singole
parti”. Il modello organico, invece, funzionando come un organismo
ad alto livello di complessità, è quello in cui le singole parti che lo
compongono “sono sistemi aperti che svolgono sì funzioni
specializzate ma funzionano in base ad ambiti di autonomia e non
per delega, sono collegate in una rete di scambi informativi ed
economici e interagiscono fra loro sulla base di regole del gioco
influenzate anche da loro stesse: esse si modificano sia per processi
di adattamento all’ambiente esterno sia per input interni”.
In questo secondo modello di organizzazione rientra, pertanto,
il cosiddetto modello dell’impresa-rete, il quale si riferisce a una
molteplicità di soluzioni economiche e organizzative. Una prima
classe di tipologie riguarda aziende in cui è intenso il processo di
“decentramento di attività da un’impresa centrale verso imprese
subfornitrici: il decentramento produttivo di attività manifatturiere e
il decentramento delle attività dei servizi”. In molti paesi e in
particolare negli Stati Uniti questo processo di decentramento
avviene fra imprese industriali e imprese subfornitrici collocate
all’estero, alle quali viene demandata la produzione di parti del
prodotto o anche di prodotti finiti. Una seconda classe di situazioni
è composta da quelle realtà chiamate filiere o costellazioni di
imprese, in cui si costituiscono sistemi di imprese collegate fra loro
in un ciclo di produzione, dove non esistono collegamenti societari o
organizzativi ma potenti sistemi di cooperazione operativa (in Italia
è il caso dei mobili in Brianza o delle calzature a Napoli). Di
impresa-rete si parla anche a proposito di grandi imprese che si
fanno piccole, ossia imprese che hanno un’unica struttura
proprietaria e organizzativa ma che si articolano al loro interno in
strutture (divisioni, business units, profit centers, gruppi di
progetto, ruoli paraprofessionali centrati su risultati, etc.) che
divengono “quasi imprese”, nel senso che attraversano con estrema
flessibilità i confini tra mercato e gerarchia.
Pur nella diversità della loro manifestazione in tutte queste
realtà emergono alcuni elementi comuni: in tutti i casi si tratta di
imprese ibride, in parte costituite da strutture organizzative in parte
da mercati; in esse non vi è coincidenza fra confini giuridicoorganizzativi del soggetto impresa e i confini dell’azione gestionale
e tecnica dello stesso soggetto; il vero contenitore e regolatore dei
processi economici ed organizzativi è costituito dalla relazione fra
imprese e non dalla struttura delle singole imprese; il loro scopo
centrale è il perseguimento della flessibilità, dell’innovazione e della
tempestività di risposta a un mercato altamente dinamico e
turbolento.
In ogni caso dunque quando si parla di impresa-rete si fa
riferimento a un sistema di “nodi”, ossia a un insieme di parti
costitutive di una rete organizzativa. Si tratta, infatti, di entità
piccole o grandi orientate ai risultati, relativamente autoregolate e
capaci di cooperare con gli altri nodi in un processo di retroazione
indispensabile per interpretare gli eventi esterni. I nodi possono
essere interni o esterni ai confini giuridico-amministrativi di
un’impresa, nel senso che possono essere sia unità giuridicamente
autonome sia unità interne all’impresa stessa. Ogni nodo è dunque
una parte costitutiva e attiva dell’impresa. Per esemplificare, i nodi
di una rete possono essere: una holding, un board of directors,
un’impresa
autonoma,
un
ente
pubblico,
un
consorzio,
un’associazione di categoria, una business units, una direzione
funzionale, un ufficio, un reparto, un negozio, un gruppo di lavoro,
un ruolo organizzativo, una persona, etc. Quel che è importante
sottolineare è che tutti i nodi sono strutturalmente parte di uno
stesso processo produttivo inscindibile.
Nell’ambito di questo fenomeno rientra, infine, il concetto di
esternalizzazione, ossia il processo di “sostituzione crescente di
relazioni di complementarità strategica e operativa esterne con
altre imprese (nelle reti) ai circuiti interni della singola impresa”. In
questo contesto la capacità produttiva di un’impresa non identifica
più il campo in cui può operare, dal momento che essa attraverso il
collegamento a rete con altre imprese può operare con efficacia
acquistando i loro servizi produttivi o collaborando con alcune di
esse alla messa a punto di un’innovazione di interesse congiunto. In
questo modo tutte le variabili strategiche e organizzative
dell’impresa possono divenire più mobili e flessibili rispetto ai
progetti innovativi da intraprendere e l’impresa stessa, allo stesso
tempo, può decomporsi e ricomporsi con estrema flessibilità e
rapidità incrementando profondamente le sue capacità di sviluppo e
innovazione.
2.2 Il modello giapponese
Il dibattito teorico di sociologi ed economisti d’impresa ha
ormai da anni riconosciuto che il modello giapponese rappresenta la
più completa espressione del processo produttivo postfordista,
inteso come produzione flessibile e di qualità, a cui si perviene non
tanto
grazie
all’innovazione
tecnologica
quanto
grazie
all’innovazione organizzativa.
Prima di procedere all’analisi delle caratteristiche del modello
giapponese e delle sue potenzialità innovative è opportuno dedicare
qualche riga alle circostanze storiche in cui il modello stesso ebbe
origine. Sul finire degli anni ’40 la Toyota, piccola e ancora
sconosciuta casa automobilistica giapponese, fu colpita da gravi
problemi di sopravvivenza: una quota di mercato minima, scarsità
di capitali, macchinari superati, spazi fisici ristretti. “Secondo i
criteri fordisti della produzione di massa fabbricare macchine in
quelle condizioni non poteva che essere fallimentare”. Il direttore
dello stabilimento, T. Ohno, decise, pertanto, di abbassare il punto
di profitto dall’economia di scala a un’economia della flessibilità
fondata su produzioni di breve serie. Ciò era possibile solamente
cambiando frequentemente gli allestimenti dei macchinari in modo
da riuscire a produrre lotti brevi inseguendo anche le più piccole
opportunità di mercato. Il frequente cambio di produzione eliminava
il bisogno di accumulare grandi riserve di materiale ma, allo stesso
tempo, richiedeva un sistema di trasporti talmente perfetto da
garantire consegne limitate di materiale giusto in tempo per essere
lavorato. Questo sistema presupponeva due vantaggi decisivi
rispetto al sistema di produzione di massa: da un lato la produzione
limitata e diversificata permetteva di rispondere tempestivamente
alle variazioni di mercato e alle richieste personalizzate dei clienti;
dall’altro permetteva un controllo della qualità del prodotto di gran
lunga superiore a quello della produzione di serie.
In questo modo tra gli anni ’50 e ’70 la Toyota ottenne
successi così evidenti da riuscire a diventare una delle case
automobilistiche più importanti e innovative del modo. E negli anni
’80 un gruppo di ricerca del MIT concettualizzò il modello di
produzione giapponese come “produzione snella”.
Alla base del sistema di produzione snella vi è il principio
centrale del just in time, ossia “un sistema produttivo che
garantisce la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni
prodotti e la domanda che proviene dal mercato”. Ma per
funzionare in modo ottimale il JIT richiede quattro requisiti
fondamentali: l’eliminazione delle risorse ridondanti (spreco); il
coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni relative alla
produzione; la partecipazione dei fornitori; la ricerca della Total
Quality.
Nel fordismo le imprese si preoccupano di avere scorte in
abbondanza in modo da far continuare il ciclo produttivo anche in
momenti di perturbazione o di anomalia. Ciò presuppone che
quanto più alta è la probabilità di crisi tanto più elevati devono
essere i livelli delle risorse di riserva. In questo contesto i costi delle
ridondanze sono giustificati con la garanzia di una produzione
regolare e costante, in conformità con le cadenze temporali
prestabilite. Il modello giapponese invece opta per un “officina
minima” come dice Ohno. L’eliminazione delle risorse ridondanti
non solo contribuisce all’economicità del processo produttivo ma
sostiene un principio fondamentale della “filosofia dell’essenzialità”
secondo cui qualsiasi elemento superfluo rappresenta uno spreco
(scarti, prodotti scadenti, tempi morti di attesa, trasporti e
manutenzioni inutili, persone addette a compiti burocratici o di
controllo). La necessità di eliminare drasticamente gli sprechi
impone un continuo processo di riduzione delle attività lavorative
che non creano valore aggiunto, dei tempi morti e delle scorte, al
fine di attivare un processo di miglioramento continuo. Un altro
passo verso la ricerca dell’essenzialità è rappresentato dalla
tecnologia frugale, ossia impianti il più possibile semplici e
conoscibili dal personale che li utilizza, che di conseguenza meglio
di nessun altro è in grado di proporre miglioramenti e suggerimenti
per l’ottimizzazione del processo produttivo.
Inoltre, mentre nel fordismo vige una rigida divisione del
lavoro, con confini precisi tra le diverse mansioni, secondo cui viene
scoraggiata ogni forma di apprendimento di competenze e
responsabilità formalmente non previste, nel modello giapponese,
invece, i compiti hanno confini poco definiti e il personale è
incoraggiato a partecipare alle decisioni che riguardano la
produzione. In questo modo ogni operaio ha il diritto/dovere di
interrompere il flusso produttivo se nota delle anomalie o dei difetti
(processo di autonomazione). Il coinvolgimento delle maestranze si
manifesta anche nella polivalenza delle capacità professionali che
consente l’interscambio di posizioni all’interno dei gruppi di lavoro;
nella flessibilità delle squadre che adattano la loro consistenza
numerica e la strutturazione interna alle variazioni dei compiti e del
flusso produttivo; nell’impegno al miglioramento continuo, con
suggerimenti, discussioni di gruppo, sperimentazioni di nuove
soluzioni. E inoltre, con una drastica riduzione delle “distanze fra chi
pensa e chi esegue” e con il principio del life-time employement
(impiego a vita), che garantisce la continuità della sapienza del
ciclo e dell’apprendimento delle innovazioni.
Le imprese fordiste si fondano su produzioni altamente
verticalizzate, ossia costruiscono e assemblano la maggior parte del
prodotto all’interno dei propri stabilimenti. Per il resto dei
componenti si rivolgono a fornitori esterni scelti in base a una
concorrenza sui costi. Le imprese nel modello giapponese, al
contrario, scelgono i fornitori selezionandoli accuratamente in base
alle capacità di collaborare in programmi di lungo termine
(progettazione, miglioramento, innovazione). La fiducia e la
reciproca trasparenza sono fattori fondamentali di questi rapporti di
lavoro. Il processo produttivo, in tal modo, può allargarsi a diverse
unità produttive, anche esterne alla fabbrica o all’ufficio
Infine, nel modello giapponese il principio di qualità del
prodotto assume una rilevanza centrale tanto che tutto il “processo
produttivo è organizzato in modo da progredire costantemente
verso l’obiettivo ideale dello zero-difetti”. La ricerca della qualità
totale deve essere presente lungo tutto il ciclo lavorativo: ideazione
del prodotto, scelta del materiale, costruzione, consegna. Ma
qualità totale non significa esclusivamente realizzare un prodotto
privo di difetti per il consumatore finale, significa anche attenzione
per il processo produttivo, ossia cercare di lavorare al meglio, senza
sprechi e costi economici aggiuntivi. Secondo l’esperienza di Ohno
l’obiettivo zero difetti è tanto più facile da perseguire quanto più
corto è il lotto messo in produzione. In questo modo la qualità si
connette direttamente alla flessibilità produttiva.
2.3 La Total Quality
Il concetto di qualità totale ha un valore pluridimensionale: per
questo motivo si è ritenuto opportuno non assimilarlo
completamente all’analisi sul modello giapponese, come sovente
succede, né identificarlo esclusivamente con la semplice
certificazione in molti campi ora imposta da regolamentazioni
internazionali (si rimanda all’allegato 1 per un breve excursus nella
normativa ISO 9000).
Fino a metà degli anni ’80, nelle riviste di cultura manageriale
non era stato pubblicato mai uno scritto su questa tematica, mentre
dal 1987 ad oggi oltre il 50% di queste riviste si fa uso dei concetti
di qualità e qualità totale, anche se risalgono al 1962 i primi circoli
di qualità tipici del modello giapponese.
Tutto ciò ci permette, dunque, di comprendere il carattere
innovativo e attuale che registra il tema della Qualità Totale, ma
allo stesso tempo, come esso riveli un’esigenza di profonda
ridefinizione di strategie, organizzazione, struttura, logiche di
azione e immagine della realtà d’impresa.
Michele La Rosa sostiene che il concetto di qualità totale deve
essere considerato nella sua globalità, ossia come principio
trasversale rispetto ad altri fattori organizzativi e aziendali in grado
di orientare l’impresa verso l’obiettivo unico dell’“eccellenza”. In
esso pertanto devono essere ricompresi il principio della qualità
delle prestazioni dell’azienda (costi, consegne, servizi, sicurezza,
profitti), della qualità del prodotto/servizio, della qualità di
posizione rispetto all’ambiente, della qualità dell’organizzazione,
della qualità dell’immagine sul mercato e nel modo esterno, e,
infine, della qualità del lavoro. Ne discende di conseguenza un
rilevante fattore di discontinuità rispetto al passato.
Nel principio della qualità totale infatti ogni variabile del
sistema organizzativo deve essere considerata nella sua specificità
e indipendenza rispetto alle altre variabili. Questo perché altrimenti
si avrebbe nient’altro che un’estensione della concezione fordista
dell’azienda, secondo la quale ogni elemento costitutivo è
subordinato e dipendente ad alcune variabili centrali: profitto,
tecnologia, etc. Il cambio di prospettiva risiede invece nella capacità
di assumere inizialmente ogni obiettivo nella sua specificità per poi
pervenire a una loro ri-combinazione in un obiettivo complessivo in
grado di contestualizzare contemporaneamente tutti gli obiettivi
individuati.
Per conseguire l’insieme di questi obiettivi, è indispensabile
che il principio della qualità trovi applicazione in tutte le fasi
dell'attività produttiva aziendale. L'attività di ogni azienda è infatti
caratterizzata da una pluralità di processi e di funzioni che
interagiscono tra loro:
· studio e ricerca;
· progettazione e sviluppo del prodotto;
· pianificazione e sviluppo dei processi;
· acquisti;
· produzione o fornitura dei servizi;
· verifica;
· imballaggio ed immagazzinamento;
· vendita e distribuzione;
· installazione e messa in esercizio;
· assistenza tecnica e manutenzione;
· attività post-vendita;
· messa fuori uso o riciclaggio alla fine della vita utile.
Di conseguenza un processo di qualità, per essere efficace, per
poter cioè garantire la qualità del prodotto sotto ogni aspetto, deve
trovare applicazione in ciascuno di questi momenti, per
evidenziarne le caratteristiche, il rendimento e le possibilità di
sviluppo. Si può affermare pertanto che l’intero Sistema di Qualità
di un’impresa si distingue in due ampi sottosistemi: il sistema
qualità all'interno dell'impresa e il sistema qualità fra impresa e
clienti.
Nel primo sistema il concetto della qualità si riferisce agli
aspetti organizzativi, produttivi e commerciali. In questa area
rientrano pertanto i seguenti obiettivi di qualità: 1) la qualità
connessa alla definizione delle esigenze relative al prodotto (si
tratta della qualità del prodotto finito, che deve rispondere alle
esigenze del mercato e alle aspettative dei clienti); 2) la qualità
connessa alla progettazione del prodotto: consiste nella capacità di
tenere sotto controllo i processi per la progettazione di un prodotto
conforme alle normative specifiche, all'uso cui è destinato e alle
esigenze concrete dei clienti, nella identificazione e acquisizione di
procedimenti, apparecchiature, risorse e capacità necessarie per
conseguire la qualità richiesta; 3) la qualità connessa alla
conformità del prodotto al progetto, ossia la rispondenza del
prodotto finale ai requisiti di progetto e il mantenimento costante di
quei requisiti, al fine di garantire al cliente sia il raggiungimento del
risultato qualitativo che ci si era prefissati sia il suo mantenimento
nel corso della realizzazione concreta del progetto; 4) la qualità
connessa al supporto al prodotto (si tratta della qualità legata alla
fornitura di supporto del prodotto dopo che questo è stato venduto,
cioè la qualità dell'assistenza, che deve essere garantita ai clienti o
direttamente o fornendo loro le opportune conoscenze tecniche).
Nel secondo sottosistema rientrano gli aspetti più
specificatamente connessi ai rapporti contrattuali con i clienti, come
la capacità del fornitore di produrre con continuità, di far fronte alle
richieste con tempestività e di riuscire a mantenere un determinato
livello qualitativo. E’ chiaro, ad esempio, che a quelle imprese
fornitrici il cui fatturato è rappresentato in grande maggioranza da
un cliente particolare, conviene assicurare a quel cliente
l'osservanza delle norme di qualità e il funzionamento di un efficace
sistema qualità. Esso pertanto rappresenta anche il perno centrale
dei rapporti fra imprese e clienti, ponendosi come requisito
fondamentale per soddisfare contemporaneamente: l’interesse delle
imprese a mantenere competitività sul mercato senza sprechi o
costi eccessivi; le aspettative dei clienti ad un prodotto di qualità,
sempre più rispondente alle loro esigenze.
Da un lato infatti i clienti chiedono:
· qualità del prodotto;
· costi di mercato;
· idoneità all'uso;
· riduzione dei costi di manutenzione e di riparazione;
· sicurezza ed igiene del lavoro;
· protezione dell'ambiente.
Dall'altro lato, le imprese, per soddisfare queste richieste
devono garantire:
· il raggiungimento ed il mantenimento di un livello di qualità
ottimale;
·
la rispondenza del prodotto ad esigenze, scopi o impieghi
ben definiti;
· la soddisfazione delle aspettative del cliente;
· la conformità alle norme specificamente applicabili;
· il rispetto dell'ambiente;
· bassi costi di vendita e di manutenzione dei prodotti.
Risulta chiaro, pertanto, che la capacità per le imprese di
soddisfare la domanda dei clienti non può che volgere a loro
vantaggio sotto tutti gli aspetti: maggiore competitività, incremento
di redditività e di quota di mercato, minore rischio di prodotti
carenti o insoddisfacenti che possano compromettere la loro
immagine sul mercato, minore rischio di sprechi dovuti a ripetizioni
di processi, perdite di produzione, reclami o responsabilità legali. Il
soddisfacimento di questi interessi contrapposti può essere dunque
assicurato dalla costituzione di un Sistema Qualità all'interno delle
imprese, cioè di un complesso di organizzazione, responsabilità,
procedure, personale, risorse e mezzi per il perseguimento degli
obiettivi di qualità.
3. La risposta delle imprese alla globalizzazione
Il
passaggio
dalla
società
industriale
alla
società
postindustriale porta con sé anche una nuova immagine del
mercato, la quale è a sua volta sia causa che conseguenza di questi
stessi mutamenti.
Sebbene il termine globalizzazione abbracci un fenomeno di
ampia portata che coinvolge l’intera società in tutte le sue
dimensioni (storica, sociale, culturale, politica, economica), in
questa sede faremo riferimento esclusivamente al concetto
connesso al sistema economico o delle imprese. Quando in tale
ambito si parla di globalizzazione il riferimento immediato è
evidentemente il mercato delle merci e dei servizi, o meglio: alla
pluralità delle forme istituzionali che definiscono tali mercati nel
mondo.
Vittorio Olgiati sostiene che uno dei principali criteri analitici
per definire i mercati in un contesto di globalizzazione è
rappresentato dal codice binario “aperto/chiuso”, riferito ai mercati
stessi in relazione alle attuali potenzialità dell’innovazione
tecnologica. In questi termini la novità e l'importanza del principio
consiste nella possibilità tecnica dei mercati di superare
contemporaneamente una pluralità di “chiusure” o “confini” sinora
pressoché invalicabili. Dall’altro canto, altri studiosi sostengono che
siano cinque megatrends a determinare il superamento di una
logica locale dei mercati e la diffusione di una prospettiva “globale”.
Essi riguardano:
·
La globalizzazione della concorrenza. “Nel mondo ci sono
circa 800 milioni di persone che consumano pressoché nello stesso
modo: sono gli abitanti di Europa, Giappone e America più i
benestanti di altri paesi. Conoscono gli stessi marchi, vivono gli
stessi eventi in TV o attraverso la stampa e vogliono essere serviti
con la stessa qualità e tempestività. Ogni azienda ha iniziato la
propria esistenza servendo un mercato domestico e deve fare un
salto dimensionale di 4-15 volte per continuare a esistere”. La
globalizzazione della concorrenza è iniziata nei settori produttivi che
richiedevano altissime specializzazioni, elevati capitali per R&S o
per investimenti produttivi, in cui produttori finali globalizzati
richiedevano fornitori o componentisti ugualmente globalizzati, ma
oggi si estende anche ai settori delle commodities, ai settori in cui il
know how gestionale rappresenta un particolare vantaggio
competitivo e a quasi tutti i prodotti di marca. “Le notevoli
necessità di capitali per la R&S, l’opportunità di penetrare quei
mercati in cui si può sperare in tassi di crescita superiori a quelli dei
paesi sviluppati e le occasioni di acquisizione a seguito di
privatizzazioni o ristrutturazioni sono altri elementi che spingono
sulla strada della globalizzazione”.
·
Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione. L’unità di spazio, tempo e azione, sembra essere
possibile oggi con lo sviluppo imponente delle telecomunicazioni e
dell’informatica. In tempo reale e a migliaia di chilometri di
distanza, è possibile progettare, effettuare transazioni complesse,
dare gli ordini di rifornimento dei magazzini, effettuare attività di
costumer service, tenere la contabilità, ecc. Il tutto a bassi costi e
con eccellente qualità. L'impresa può quindi essere riprogettata da
capo - come ad esempio nel Business Process Reeinginering (BPR) decidendo dove fare certe attività, da chi farle fare e con quale mix
di costi variabili/fissi. “Nel momento in cui i dipendenti si abituano a
dialogare con altri via computer, senza il bisogno di un contatto
faccia a faccia, non c'è più bisogno che, dall'altra parte, ci sia
davvero una persona fisica che parla la stessa lingua: basta un
sistema efficiente che genera le proprie decisioni e reazioni”.
·
La diminuzione dei tassi di crescita per quasi tutte le
industrie nei paesi sviluppati. Da molti anni i ¾ dell'industria e dei
servizi sono strutturalmente stagnanti, almeno se definiamo come
stagnazione una crescita nel mercato di origine inferiore al tasso di
aumento della produttività (che comunque ha tassi di
miglioramento “strutturale” del 4-5 % all'anno). La non crescita è
pertanto la norma, mentre la crescita è l'eccezione. D'altra parte ciò
è logico: nei paesi sviluppati, nei quali la popolazione non cresce,
non è più possibile mangiare di più, prendere più medicine,
comprare più automobili nuove, ecc. Ci sono, naturalmente, alcune
aree di crescita - particolari prodotti, aree geografiche
sottosviluppate, servizi innovativi - ma la maggior parte dei
business in cui operano le aziende è inevitabilmente stagnante. La
consapevolezza di ciò richiede dunque un approccio totalmente
nuovo da parte di manager, azionisti e dipendenti.
·
La delocalizzazione produttiva. Le possibilità offerte dalla
teleinformatica di governare in tempo reale situazioni distanti
migliaia di chilometri e il costante aumento della qualità dei prodotti
fabbricati nei paesi che un tempo si distinguevano solo per il basso
costo della manodopera, permettono oggi di decidere liberamente
dove collocare ogni singola lavorazione del processo produttivo.
·
La deregolamentazione. Quando le tecnologie ridefiniscono
i vecchi confini (come nel caso delle telecomunicazioni) le aziende
diventano sempre più multinazionali, i consumatori diventano
sempre più omogenei, ogni singolo stato non può più resistere alla
pressione di uniformare la propria legislazione a quella degli altri e
non può più negare a un settore la deregolamentazione che ha
concesso a un altro. “Deregolatori e antitrust, che oggi tutte le
aziende considerano dei nemici, sono invece dei preziosi alleati che
permettono di percepire in anticipo un trend generalizzato”.
Il teatro dell’azione economica diviene dunque il “mercato
mondiale” e il risultato dell’azione diventa la progettazione, la
costruzione e la vendita di prodotti/servizi in una logica globale.
Non si tratta più di vendere singoli prodotti ma interi sistemi: “oltre
ai prodotti, reti di vendita, agevolazioni finanziarie e assicurative,
tecnologia, organizzazione”. L’ottica è pertanto profondamente
mutata: da una concezione del prodotto fortemente legata al luogo
di origine, alla sua realizzazione nello stesso luogo in cui veniva
progettato, alla successiva esportazione nei mercati esteri, si passa
a una visione globale che implica un approccio diverso alle politiche
del prodotto, di produzione, di distribuzione. I nuovi obiettivi
richiedono una cultura di impresa che riesca a permeare ogni
ambito dell'organizzazione per sviluppare una nuova abitudine a
pensare in termini di internazionalizzazione: lo schema di pensiero
deve diventare globale.
Il prodotto, affermano C. Paracone e F. Uberto, è forse ciò che
più di ogni altro fattore rispecchia la cultura d’origine: ci sono
attributi quali lo stile, le forme, la presentazione che si ricollegano
direttamente al gusto estetico, alle abitudini di chi lo progetta e più
in generale alla cultura del mercato di origine. Oggi tuttavia le
aziende più dinamiche e flessibili si trovano nella necessità di
sviluppare prodotti di classe mondiale e servizi che abbiano uno
standard di livello mondiale nel rapporto costo/qualità. Le
implicazioni sulla cultura d’impresa sono pertanto notevoli.
La definizione di standard di classe mondiale per il design, i
servizi e la prestazione implica nuove strategie di impiego delle
sorgenti di conoscenza e nuove forme di lavoro di gruppo. In
particolare per “l’impiego strategico delle fonti di conoscenza si
stanno sviluppando modelli a sorgente tripla”: sviluppo del progetto
secondo i canoni prevalenti nell’originaria cultura d’impresa;
collaborazioni con partners di altri paesi, acquisizione del contributo
di fonti indipendenti internazionali che rispecchino le culture di aree
strategiche del mercato mondiale.
Stanno emergendo infatti nel mondo dell’impresa molte e
differenziate alleanze. Esse divengono necessarie per entrare su
mercati difficili, per migliorare la competitività e acquisire
tecnologie, per sviluppare nuove conoscenze e sapere manageriale.
Il successo di queste alleanze risiede nella compatibilità culturale
dei partners, nell’esistenza di condizioni per la reciproca
cooperazione, nell’efficacia del coordinamento e dei meccanismi di
integrazione. Infatti quanto più i confini aziendali si espandono,
abbracciando tessuti sociali diversi, tanto più aumentano le
difficoltà di integrare le organizzazioni. La comunicazione diventa
pertanto elevata e tutto il sistema organizzativo nel suo insieme
non può non esserne coinvolto.
“L'azienda che deve confrontarsi con un mercato di 800 milioni
di consumatori potenziali non ha che una possibilità: focalizzarsi e
fare al proprio interno solo l'essenziale”. Il primo passo è dunque
l'abolizione del concetto di “domestico”: un consumatore potenziale
è tale sia che risieda in Giappone sia che viva negli Stati Uniti e,
quindi, bisogna comprendere bene cosa tale consumatore medio si
attende dal prodotto e dall'azienda che lo produce. In parallelo deve
essere abolito il concetto di distanza, sia nello spazio che nel
tempo: “non si può più introdurre un nuovo prodotto prima vicino a
casa e poi, via via, negli altri mercati, perché il consumatore
pretende di essere servito istantaneamente ovunque con il nuovo
prodotto che vede in TV o viaggiando e i concorrenti non aspettano
altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi nel gioco
competitivo”.
Il secondo passo è il ripensare le relazioni con i fornitori e i
clienti. Per competere su base globale il know-how presente in
azienda non è spesso sufficiente e deve quindi essere integrato con
know-how che altri hanno: know-how tecnologico, conoscenze di
ciascun specifico mercato, accesso a risorse tecnologiche e
finanziarie particolari, ecc. Anche in questo caso l’azienda dovrà
sviluppare un atteggiamento positivo verso le partnership,
accettando la parziale perdita di sovranità e di autonomia che esse
comportano.
Il terzo passo è rivedere anche la logica in base alla quale
sono svolti, all'interno dell'azienda, i vari servizi: dalla contabilità
alla logistica, dall'informatica all'assistenza tecnica. A differenza del
passato, esistono oggi validi fornitori internazionali di servizi che
danno all'imprenditore la possibilità di acquistare (sempre in ottica
di partnership) quasi tutti i servizi complementari alla propria
progettazione e distribuzione del prodotto. Al limite l'impresa può
occuparsi solo del marchio, dell'ideazione del prodotto e della
finanza, essendo oggi possibile far costruire, distribuire e assistere
il prodotto da altri specialisti. I capitali e le risorse intellettuali
dell'azienda possono così essere concentrati solo nelle aree in cui
non c'è un'alternativa efficace e meno costosa all'esterno.
L'outsourcing non è quindi soltanto un metodo per ridurre i costi,
ma è anche una necessità strategica per l’azienda che si deve
concentrare nel core del core per competere in un mercato globale.
Il quarto passo è l'identificazione di un assetto competitivo
vincente. Non basta infatti fare meglio che in passato, soprattutto
in termini di costi: bisogna riprogettare interamente come si
produce e si vende e come si continuerà a innovare. La potenza
dell'informatica collegata alle telecomunicazioni consente di ridurre
praticamente a zero il costo variabile di ogni transazione. La
possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più convenienti,
mantenendo al contempo qualità e tempi di reazione adeguati,
consente di decentrare le singole fasi del processo produttivo,
dall'ideazione del prodotto all'assistenza al cliente, costruendo un
sistema competitivo vincente. Infine, il collegamento con centri di
eccellenza diversi ed esterni all'azienda, ovunque siano situati nel
mondo, consente la tempestiva identificazione di nuove possibilità
di produrre o servire clienti sempre più sofisticati ed esigenti. A
questo punto il vantaggio competitivo dell’azienda diviene la sua
capacità di sviluppare competenze proprietary, cioè non copiabili.
Essa, infatti, liberata dai problemi che possono essere delegati ad
altri, può concentrarsi su quelle tecnologie essenziali che,
combinate in modi innovativi, permettono stabilmente di far meglio
dei concorrenti.
In ultimo occorre citare la sempre maggiore attenzione che
bisogna prestare al mercato dei capitali: “quando tutti i competitors
si sono concentrati sul core business, hanno terziarizzato e
reingegnerizzato le proprie operations, hanno adottato tecniche di
quick response, total quality, employee empowermente e lean
production, la capacità di alcuni di acquisire capitali con l'attesa di
tassi di remunerazione diretta (dividendi) inferiore a quello degli
altri concorrenti (in quanto compensato da un'attesa di un maggior
capital gain) diventa l'elemento distintivo sul quale basare una
strategia di sviluppo”.
In questa prospettiva, dunque, la presenza di leaders dotati di
una visione globale diventa la chiave di volta per il successo nel
gioco della competizione. I due fondamentali ingredienti della
competitività in una dimensione globale sono, pertanto, la
produttività e la qualità, dove il concetto di produttività assume un
significato allargato rispetto al passato. Essa, infatti, non indica più
esclusivamente il dato numerico della produzione effettuata per
unità di tempo e valore, bensì si espanse alla considerazione
dell’impiego ottimale e simultaneo del mix di tutti i fattori della
produzione: capitali, lavoro, materiali, conoscenza, tecnologia,
risorse umane.
4. I case study
In questo capitolo procederemo all’analisi di due realtà
aziendali, la ST Microelectronics e la Advanced Micro Devices,
appartenenti al settore della microelettronica, per le quali la scelta
di adottare un modello organizzativo e produttivo altamente
avanzato e flessibile ha determinato il successo a livello
internazionale. Esse, infatti, hanno dato vita a due soluzioni
organizzative e produttive estremamente innovative e avanzate,
fondando la loro strategia su tre principi cardine:
· la costituzione di un network operativo mondiale, composto
da unità organizzative dislocate in diverse parti del pianeta;
·
il miglioramento continuo dei livelli qualitativi del prodotto
finale e dei cicli produttivi al fine di garantire costantemente un
prodotto leader sul mercato;
·
una rilevante e significativa attenzione alle problematiche
ambientali, attraverso continue attività di tutela e monitoraggio
degli ecosistemi dei contesti territoriali in cui sono insediate.
4.1 La “ST Microelectronics”
La ST Microelectronics è un’azienda che svolge un’intensa
attività manifatturiera e commerciale nel campo dei componenti e
delle applicazioni per l’elettronica e la microelettronica, nonché in
settori connessi e affini. Essa infatti progetta, sviluppa, realizza e
commercializza un’ampia gamma di circuiti semiconduttori integrati
("ICs") e congegni discreti impiegati in una grande varietà di settori
(telecomunicazione,
telefonia,
informatica,
multimediale,
automazione e controllo dei sistemi industriali, apparecchiature e
macchinari ospedalieri, attrezzature spaziali, etc.).
Sulla base dei più recenti dati disponibili, la ST risulta la prima
azienda al mondo fornitrice di circuiti integrati analogici. I prodotti
aziendali sono realizzati e progettati utilizzando un’ampia gamma di
processi di fabbricazione e avanzati metodi di progettazione. Infatti,
per la complessità e la varietà dei processi e delle tecniche di
ideazione, la Compagnia possiede un ampio range di risorse
intellettuali che le hanno permesso di sviluppare convenzioni
“incrociate” con molti dei principali fabbricatori mondiali di
semiconduttori. In questo modo la ST ha sviluppato una rete
mondiale di alleanze strategiche, che includono relazioni con clienti
chiave per lo sviluppo del prodotto, con clienti e altri fabbricanti di
semiconduttori per lo sviluppo tecnologico e relazioni con le
principali case di progettazione software.
Allo stato attuale la ST offre oltre 3000 tipi di prodotti a più di
1500 clienti, tra cui si evidenziano Alcatel, Bosch, Creative
Technology, Ford, Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Nokia, Northern
Telecom, Philips, Seagate Technology, Siemens, Sony, Thomson
Multimedia e Western Digital. Circa il 51% del fatturato della
Società deriva da prodotti differenti, ossia da una combinazione di
sofisticati semiconduttori e di prodotti su commissione, realizzati
per soddisfare specifici clienti o specifiche applicazioni.
La ST Microelectronics è nata nel giugno del 1987 dalla fusione
tra la Thomson Semiconducteurs francese a la SGS Microelettronica
italiana. Da allora la Società ha sviluppato significativamente la sua
gamma di prodotti e le sue tecnologie e, inoltre, ha fortificato la
capacità di produzione e distribuzione in Europa, Nord America e
nelle regioni dell’Asia orientale. Questa espansione è stata facilitata
dalla diffusione delle attuali convenzioni internazionali e dal
progetto di avviare la costruzione di altre 2 unità produttive: una in
Italia e una fuori dall’Europa, che si vanno ad aggiungere alle 4 già
esistenti a Crolles (Francia), Phoenix (Arizona), Catania (Italia) e
Rousset (Francia).
Il gruppo comprende 25 mila addetti, 9 unità di ricerca
avanzata e sviluppo, 31 centri di progettazione e applicazione, 17
fabbriche principali e 57 uffici commerciali in 23 paesi. Si tratta
pertanto di una rete ampia e complessa di unità organizzative
dislocate sul territorio mondiale, ma significativamente connesse tra
loro attraverso importanti azioni di integrazione verticale e
orizzontale - mission aziendale corporativa e unicità di
metodologie/azioni che caratterizzano i processi produttivi - le quali
riescono a garantire la continuità dei cicli di produzione e il
raggiungimento dell’obiettivo unico: realizzare un prodotto
qualitativamente elevato e all’avanguardia sul mercato nel pieno
rispetto delle condizioni ambientali dei paesi nel quale si insedia la
Società.
La Direzione Centrale della Compagnia si trova a Saint Genis
(Francia), vicino a Ginevra (Svizzera) dove si trovano anche le altre
Direzioni europee e i Centri di Servizio. Le Direzioni americane si
trovano invece a Carrollton (Dallas, Texas) e quelle asiatiche a
Singapore e a Tokyo.
Per garantire il continuo sviluppo tecnologico e offrire ai clienti
un prodotto all’avanguardia, la ST investe ogni anno significative
quote di fatturato in R&D. Per esempio, nel 1995 ha investito un
miliardo di dollari in spese di capitale, pari al 28.3% del fatturato, e
ha speso 440.3 milioni di dollari, pari al 12.4% del fatturato, per la
ricerca e lo sviluppo.
La ST, come detto, produce diversi tipi di semiconduttori - dai
singoli transistors ai microprocessori con milioni di componenti su
uno stesso silicon chip - che possono essere implementati in una
varietà di strumenti o ambienti, dagli avanzatissimi supercomputers
fino a strumenti quotidiani come il telefono, le automobili, il
tostapane o perfino le lampadine. A tal fine la Società ha elaborato
un piano aziendale di produzione organizzato in 5 gruppi produttivi
fondamentali (per approfondimento si veda l’allegato 2), i quali si
articolano in un insieme unitario di centri produttivi, distaccati
fisicamente ma strettamente connessi fra loro per il semplice fatto
di essere un “anello” costitutivo all’interno di un ciclo produttivo
unitario:
·
Dedicated Products Group: realizza semiconduttori per
applicazioni specifiche utilizzando avanzate e potenti tecnologie
bipolari. I prodotti di questo gruppo sono usati in tutte le più grandi
applicazioni finali, compresi i networks per la comunicazione
mobile, i sistemi asincroni di comunicazione e i sistemi di
compressione video-digitali;
·
Discrete and standard ICs Group: realizza power devices,
transistors, prodotti per frequenze radio ("RF"). Il gruppo ha una
base eterogenea di clienti e un ampio portfolio di prodotti;
·
Memory Products Group: produce un’ampia gamma di
prodotti di memoria, come gli EPROMs, le memorie flash, le SRAMs
e i circuiti per le smartcards;
·
Programmable Products Group: realizza microcomponenti,
cirduiti digitali e analogico/digitali. Esso produce anche componenti
grafici per PC e Ics per applicazioni multimediali;
·
New Ventures Group: individua e sviluppa nuove
opportunità di business, cercando di sfruttare pienamente il proprio
know-how tecnico e costituendo abili e globali gruppi di lavoro
orientati al marketing. Il gruppo si è costituito nel maggio del 1994
e le sue attività iniziali si sono focalizzate sulla realizzazione e
vendita del microprocessore x86, progettato dalla Cyrix
Corporation.
La ricerca, in particolare quella orientata alla qualità, ossia al
miglioramento continuo delle performance aziendali, costituisce un
fattore determinante dell’intera politica aziendale. Nello specifico la
ricerca della qualità si fonda sui seguenti principi: miglioramento
continuo del prodotto e dei cicli produttivi, orientamento alle
esigenze del cliente, sperimentazione diffusa, attenzione e sviluppo
delle risorse umane impiegate, profondo impegno manageriale.
Anche in questo caso, l’attività di R&S della ST è articolata in
una rete di unità strategiche dislocate sul territorio, che si occupano
di una fase specifica ma allo stesso tempo complementare alle altre
del processo operativo. La rete comprende Funzioni centrali, Unità
operative per gruppi omogenei di prodotto e Unità geografiche.
L’attività aziendale si fonda, infine, su una rilevante e
significativa politica ambientale a livello di corporate. Scopo è
l’applicazione dei principali criteri per migliorare le performance
ambientali e permettere alla ST di diventare una delle migliori
industrie nel rispetto dell’ambiente. Questa politica coinvolge in
modo trasversale tutte le attività della ST, in particolare: la
Progettazione, la Fabbricazione, gli Acquisti, la Logistica, la Vendita
e il Marketing e le più generiche attività amministrative (Legale,
Human Resources, Contabilità, etc). Inoltre, bisogna sottolineare
che anche tutti i fornitori coinvolti nel networks aziendale sono
sollecitati ad adottare un approccio di rispetto per l’ambiente.
In questo modo l’attenzione all’ambiente diviene un elemento
allo stesso tempo costitutivo e unificante della “condotta” aziendale.
Esso si concretizza nei seguenti principi (per un approfondimento
degli stessi si veda l’allegato 2):
·
Mission ambientale: eliminare o minimizzare l’impatto delle
azioni aziendali sull’ambiente, massimizzando l’utilizzo di materiali
riciclabili e adottando il più possibile fonti di energia rinnovabili;
·
Visione ambientale: seguire l’Environmental Decalogue (si
veda l’allegato 2) al fine di essere riconosciuto da tutti gli
stakeholders come il leader nella tutela dell’ambiente, applicando i
criteri della regolamentazione ad ogni grado e ovunque. Ciò al fine
di acquisire la certificazione del Eco Management and Audit Scheme
(EMAS) in tutte le comunità in cui si opera;
·
Politica ambientale: 1) conseguire un miglioramento
continuo delle performance ambientali cercando di ridurre l’impatto
aziendale sull’ambiente utilizzando le migliori tecnologie disponibili
(EMAS art. 3a); 2) avere un approccio “proattivo” nelle attività
ambientali, fondato sui principi del TQM (Total Quality
Management), derivanti dai 16 principi della Business Charter for
Sustainable Development elaborata dall’ICC (International Chamber
of Commerce); 3) essere un leader mondiale sulla base di:
doveri morali verso l’ambiente;
rilevanza economica (investire nella protezione ambientale
dando significativi vantaggi strategici alla compagnie con cui si
collabora. Questo perché gli sforzi finanziari, in larga parte, saranno
ripagati se si è in grado di progettare e implementare processi
incontaminati e funzionano con materiali ed energia poco costosa).
Gli investimenti ambientali, pertanto, devono rappresentare una
priorità;
risorse umane: assumere i migliori individui giovani e
motivare gli impiegati con la garanzia di un’elevata qualità della
vita.
La consapevolezza del rispetto ambientale risulta pertanto
essere il principio ispiratore per il raggiungimento di tutti questi
punti. Inoltre, i 16 principi della Business Charter for Sustainable
Development forniscono le linee guida per uno sviluppo continuo di
questa politica. La Council Regulation (EEC -1836/93) del 29 giugno
1993, che implica la partecipazione volontaria delle imprese del
settore industriale appartenenti alla Community Eco-Management e
all’Audit Scheme – EMAS, dà importanti indicazioni su cosa la ST ha
introdotto al suo interno per amministrare i diritti ambientali
(attività/metodologie di verifica ambientale). Le norme ISO 14000,
riguardanti la fase di emissione, forniscono a livello mondiale le
linee guida come per la EMAS. Il TQEM (Total Quality Environment
Management), infine, individua l’insieme di azioni pratiche per
lavorare e organizzare tutti gli aspetti di un business al fine di
ottenere i migliori risultati.
Tutta l’organizzazione produttiva appena vista, è bene
sottolinearlo di nuovo, è svolta nella logica dell’integrazione dei
processi produttivi tra stabilimenti diversi, in cui si sovrappongono
e contribuiscono al risultato finale leggi, culture e stili di
management differenti.
4.2 La “Advanced Micro Devices”
La produzione di circuiti integrati è un’attività complessa.
Allo stato attuale un microcircuito - per esempio, un processore
AMD-K6® - è composto da circa 8 milioni di transistors su un “chip”
di silicio più piccolo di un‘unghia. La costruzione di questi circuiti
richiede pertanto processi tecnologici altamente avanzati.
Nell’ambito di questo settore la Advanced Micro Devices (AMD)
detiene una posizione leader, grazie agli elevati investimenti che la
Società destina per la ricerca e lo sviluppo dei propri processi
industriali tecnologici. Basti pensare che negli ultimi anni, la AMD
ha investito circa 1.4 miliardi di dollari – più del 15 % del fatturato
– in R&D. Gli investimenti effettuati hanno, comunque, prodotto
straordinari ritorni. Infatti, i progressi raggiunti nei processi
tecnologici, in particolare in quelli fotolitografici, hanno permesso di
migliorare le performance produttive e allo stesso tempo di ridurre i
relativi costi.
La AMD è nata nel 1969 ed è un’azienda che progetta e
realizza
microprocessori,
memorie
flash,
circuiti
per
telecomunicazioni e per applicazioni networks. La Società è
articolata in una rete di unità organizzative e produttive dislocate
sull’intero territorio mondiale. La scelta di adottare una tale
soluzione organizzativa è dipesa dalla possibilità di realizzare un
processo produttivo estremamente flessibile ma al contempo
altamente specializzato e unitario. Infatti, ogni unità operativa è
dislocata in una determinata area geografica scelta in base alle
caratteristiche
e
competenze
specialistiche
(tecnologiche,
scientifiche,
intellettuali,
ambientali,
territoriali,
etc.)
che
contraddistinguono sia le risorse umane impiegate sia il contesto
territoriale stesso.
La AMD ha dunque centri operativi a Sunnyvale (California),
Austin
(Texas),
Bangkok
(Tailandia),
Penang
(Malesia),
(Singapore), Aizu-Wakamatsu (Giappone), Dresden (Germania),
Suzhou (Cina), per un totale di circa 13 mila addetti in tutto il
mondo.
La Direzione Centrale e il Centro di Sviluppo Submicron (SDC),
che si occupa della ricerca di una parte limitata della produzione, si
trovano a Sunnyvale, la città in cui venne fondata la AMD nel ’69 e
il centro operativo di Silicon Valley, mentre il Gruppo di Servizio per
la Produzione sta vicino a Santa Clara.
Ad Austin in Texas si trova il più grande centro produttivo (FAB
25) della AMD, che nato nel ’79 si compone di 4 stabilimenti. Qui
viene fabbricato il prodotto più sofisticato della AMD, ossia il wafer,
la base di tutti i microprocessori, nonché la serie K6™ di
microprocessori. A Dresden in Germania si trova la Fab 30
specializzata invece nel processo di silicon wafers. Alla base di
questo processo operativo vi è un piano estremamente efficiente di
generazione elettrica. A Bangkok (Tailandia) e a Penang (Malesia)
sono ubicati i centri specializzati nell’assemblaggio delle componenti
microcircuitali e nella conduzione di test avanzati. Qui pertanto
vengono svolte le più antiche e complesse operazioni di analisi e
assemblaggio. In entrambi i centri, infatti, sono stati implementati
importanti programmi chimici. A Singapore e a Suzhou (China),
infine, vengono condotti ulteriori test sul prodotto finale.
La cultura della AMD, importante elemento di integrazione
aziendale, si fonda sul rispetto per gli individui. I valori su cui si
basa obbligano l’Azienda, sia che si tratti di un privato cittadino sia
di un impiegato, a migliorare la qualità della vita e a proteggere
l’ambiente delle comunità nelle quali essa opera.
Il programma Environmental, Health and Safety della AMD
(per approfondire l’argomento si veda l’allegato 3) rappresenta,
dunque, la volontà di formalizzare operativamente i propri valori
fondanti. Il programma consiste in un insieme di principi generali in
grado di guidare tutte le azioni/attività aziendali a livello mondiale.
Esso è finalizzato alla sicurezza dei luoghi di lavoro, alla protezione
ambientale, alla prevenzione di danni per la proprietà, allo sviluppo
della motivazione degli impiegati e alla conformità alle norme e
regolamentazioni mondiali. In questa prospettiva management e
singoli lavoratori sono responsabili del raggiungimento degli
obiettivi del programma. Pertanto, in esso è prevista un’ampia
gamma di operazioni corporative che vanno dalla riduzione di
materiali pericolosi fino alla salute, sicurezza e benessere dei
lavoratori.
Alcuni punti essenziali del programma riguardano:
·
Water conservation. Si tratta di un programma di
purificazione dell’acqua utilizzata in ogni fase del processo
produttivo. Sebbene la AMD abbia ideato un processo di
purificazione dell’acqua, continua a ricercare metodi ancora migliori
per preservare le risorse idriche;
·
Global Climate Change. La AMD destina ampia parte dei
suoi programmi di ricerca e sviluppo per la riduzione delle emissioni
di potenti gas termici e per misure di preservazione energetica.
Entrambe le misure riguardano tutte le attività e prodotti.
·
Sematech - The Semiconductor Research Consortium. Si
tratta di un centro produttivo di semiconduttori, sito a Austin in
Texas, in cui la AMD concentra la realizzazione di gran parte dei
numerosi progetti concernenti appunto il programma EHS. A tal fine
nel 1997 la Sematech ha iniziato una collaborazione con l’Electric
Power Research Institute (EPRI) di Palo Alto (CA). Da questa
collaborazione è sorto il Center for Electronics Manufacturing
(CEM), un’organizzazione internazionale nata specificatamente per
ricercare e analizzare nuovi sbocchi energetici nella produzione di
semiconduttori. Sempre nel 1997 è stato creata anche una nuova
organizzazione internazionale, la International Sematech, che oltre
a includere le società già membri della Sematech originaria,
raggruppa anche nuove società dell’Asia e dell’Europa.
Infine, la AMD, oltre a questo valido e ampio programma ha
messo in atto, al fine di sostenere l’integrazione del sistema
organizzativo, un articolato e complesso sistema di trasferimento e
diffusione delle informazioni e delle conoscenze aziendali. Esso
consiste in un sistema informatico definito Computer Based Training
(CBT), in un sistema database integrato, nella diffusione di rapporti
elettronici sulla legislazione dei diversi paesi, nelle pubblicazioni online di informazioni sia interne sia esterne all’azienda.
Anche per l’AMD, quindi, la vera risorsa organizzativa consiste
nell’ampio processo di delocalizzazione produttiva, che permette a
stabilimenti in nazioni diverse e lontanissime di interscambiare i
prodotti giunti ad un determinato stadio della produzione, operando
senza soluzione di continuità in tutti i processi critici, da quelli
produttivi sino all’assicurazione di qualità.
Conclusioni: i vantaggi della delocalizzazione produttiva
Per concludere questo breve excursus dentro il sistema
industriale, attraverso il quale abbiamo condotto rapidi ma mirati
flash tra i cambiamenti più rilevanti intervenuti nel mondo della
produzione, è bene tirare le somme degli argomenti e delle
esperienze aziendali prese in considerazione, focalizzando in
particolare l’attenzione sui benefici e sulla motivazioni aziendali alla
base del processo di delocalizzazione produttiva, sia a livello
nazionale che internazionale. Ciò in quanto si tratta di una tendenza
che sta assumendo proporzioni di ampia portata, superando la
specificità dei settori produttivi o dei contesti territoriali.
La delocalizzazione produttiva si inserisce nell’ambito di un
processo innovativo generalmente condiviso dai maggiori Paesi
industriali, i quali, negli ultimi anni, hanno visto crescere gli
investimenti diretti esteri da parte delle imprese. Questo trend è
supportato dalla liberalizzazione e dalla globalizzazione dei mercati
ed è facilitato dal miglioramento delle infrastrutture mondiali di
trasporto e comunicazione nonché all’avvento di nuove tecnologie
in grado di ridurre i vincoli spazio-temporali e i costi di
coordinamento delle transazioni intra-impresa. A conferma di ciò
basti pensare al peso strategico che rivestono le alleanze e le
relazioni con partners stranieri o la grande parte di fatturato che le
due aziende analizzate nel capitolo precedente destinano ogni anno
allo sviluppo di unità aziendali dislocate in diverse aree del mondo.
Se da un lato, dunque, si tratta di un fenomeno quasi di “massa”
nel senso che tende a coinvolgere tutti i settori di attività
economica - dalla manifattura più tradizionale sino alla produzione
di servizi e ai segmenti dell’alta tecnologia - dall’altro è pur vero
che ogni processo di delocalizzazione avviato all’interno di
un’azienda rappresenta un fenomeno a sé stante, che non può
prescindere
dall’analisi
dei
caratteri
specifici
della
sua
organizzazione, dei suoi orientamenti strategici, delle peculiarità
settoriali, territoriali, di destinazione degli investimenti dell’azienda
interessata. Tuttavia, pur tenendo conto di questo, in questa sede
conclusiva è utile svolgere alcune considerazioni di carattere più
generale.
Come abbiamo visto sinora, la delocalizzazione produttiva, sia
entro i confini nazionali sia “extranazionali”, è strettamente
connessa a un processo di dimensionamento della struttura
aziendale e organizzativa, la quale a sua volta è conseguenza della
crisi delle grandi concentrazioni industriali e in particolare
dell’industria della produzione di massa e standardizzata taylorfordista. Basti pensare, ad esempio, che in Italia le piccole e le
medie imprese rappresentano quasi i tre quarti delle multinazionali
italiane con attività produttiva all'estero, anche se il loro contributo
scende - come è naturale - al 37% in termini di imprese estere
partecipate e al 13,5% in termini di addetti totali all'estero. In
particolare, le Medie Imprese Italiane sono, seppur di poco,
l'insieme numericamente più numeroso, con 244 case-madri e 396
imprese partecipate all'estero che occupano oltre 50.000 addetti.
A tale proposito Renato Brunetta sostiene che mentre sul
piano teorico questa tendenza rappresenta un ritorno alle ipotesi
smithiane sul riconoscimento della maggiore capacità operativa
realizzabile mantenendo l’unità produttiva entro dimensioni non
eccessivamente ampie, sul piano pratico, invece, segnala la
possibilità di risolvere positivamente le diseconomie proprie delle
grandi dimensioni, utilizzando la flessibilità di unità produttive più
direttamente sensibili alle modificazioni della domanda di mercato.
Di conseguenza il processo di delocalizzazione assume un valore
diverso, nel senso che il suo verificarsi non è più legato soltanto alla
necessità di mantenere quote di mercato, ma anche alla garanzia di
un adeguato margine di manovra nell’ambito delle alternative
tecnologiche esistenti.
Esso, infatti, se da un lato appare come un tentativo di
risposta alla rigidità del sistema produttivo, consentendo di
perseguire l’obiettivo di superamento delle diseconomie (derivanti
dalla concentrazione spaziale dei diversi fattori produttivi entro
strutture di ampie dimensioni) mediante una delocalizzazione delle
fasi della lavorazione in aree diverse da quella dove originariamente
veniva a situarsi l’unità produttiva, dall’altro si può definire come
l’attivazione di una molteplicità di unità produttive (stabilimenti,
unità locali, etc) “la cui scala venga determinata in base all’obiettivo
di pieno sfruttamento delle economie di scala endogene”. In questo
modo il sistema integrato derivante dall’esternalizzazione, oltre ad
implicare collegamenti di natura tecnologica ed efficientistica, può
consentire di mantenere scale operative adeguate a ciascuno stadio
del processo produttivo ed eliminare elementi di costo temporale
nella utilizzazione dei fattori produttivi.
Altri importanti fattori che influenzano la scelta di produrre con
una pluralità di unità produttive sono: i costi di trasporto per la
distribuzione dei prodotti o l’approvvigionamento delle materie
prime; l’integrazione verticale; la diversificazione orizzontale; il
congestionamento delle aree industrializzate d’origine; le
agevolazioni finanziarie; l’eterogenea distribuzione territoriale del
fattore lavoro; la specializzazione degli impianti e il controllo e
l’assicurazione della qualità dell’intero processo produttivo
(prodotto finale, cicli di lavorazione, qualità della vita, ambiente,
etc).
In questo processo la tendenza principale che si osserva è
verso il decentramento degli impianti produttivi, ossia la
segmentazione tra più siti dei cicli tecnici di lavorazione, come è
risultato chiaramente anche dalla ricostruzione delle due realtà
aziendali prese in considerazione in questo studio, mentre in misura
molto inferiore si assiste al decentramento di funzioni
amministrative, che, al contrario tendono a rimanere centralizzate.
La scelta della localizzazione delle unità produttive dipende,
quindi, dalla valutazione di diversi fattori ma in particolare conta
soprattutto il calcolo di convenienza dal punto di vista economico
rapportato alla situazione del mercato e alla fase del ciclo
attraversata dall’intero sistema. Di conseguenza, prevarranno di
volta in volta motivazioni connesse all’utilizzazione del fattore
lavoro (sia in termini di costo della manodopera sia in termini di
specializzazione della stessa), delle materie prime impiegate, alla
vicinanza a complessi industriali, in modo da beneficiare di rilevanti
esternalità connesse alla facilità di collegamenti e alle economie di
agglomerazione (in previsione anche di possibili future esigenze di
ampliamento della capacità produttiva).
Tuttavia la scelta della delocalizzazione produttiva, dominata
da un orientamento resource seeking, cioè determinata dal mutare
dei vantaggi comparati riguardo al costo dei fattori, spiega solo in
parte le valutazioni alla base della decisione aziendale di distribuire
fuori della sede principale dell’impresa le fasi del processo di
produzione. Ad orientare le scelte vi sono infatti anche orientamenti
market seeking, cioè finalizzati alla conquista duratura di nuove
quote di mercato e atti rivolti all’acquisizione di know-how
complementare e di integrazione delle proprie attività di produzione
e di R&S con quelle svolte, ad esempio, da imprese acquisite
all'estero. In questa tendenza rientrano ad esempio i casi aziendali
trattati nel quarto capitolo. Alla base della loro scelta di
esternalizzare parte dei processi produttivi, di dare vita ad un
circuito articolato, ma al tempo stesso altamente integrato e
unitario, di unità organizzative vi è la valutazione della maggiore
efficienza produttiva e del maggiore livello qualitativo raggiungibile
cercando di organizzare il processo di produzione in base alle
specifiche potenzialità tecniche, ambientali, intellettuali, etc. che
ciascun contesto territoriale e culturale può offrire. Una soluzione
quasi obbligata se si considera quanto sia importante la qualità del
prodotto e al contempo la flessibilità e la tempestività di risposta al
mercato per chi opera nel settore elettronico.
Non va sottaciuto, infine, che, specialmente nei servizi, la
delocalizzazione produttiva è spesso una necessità imposta dalla
particolarità settoriale, soprattutto dalla necessità di fornire prodotti
in maniera capillare, personalizzati per utenti di culture e stili di
consumo diversi, mantenendo costante nel tempo e tra le diverse
aree geografiche la qualità che costituisce una delle componenti
fondamentali dell’immagine di marca del produttore.
La strada del decentramento delle fasi produttive quindi
rappresenta una strategia efficiente quando: a) vi è un significativo
trade-off tra riduzione dei costi ed altri fattori critici, quali la
sicurezza degli approvvigionamenti, la qualità del prodotto, i tempi
di consegna e il servizio al cliente, b) si combinano motivazioni
market seeking nei confronti del paese target dell'iniziativa o
dell'area regionale in cui si colloca.
In definitiva, dunque, il fenomeno della delocalizzazione
produttiva porta alla costituzione di un network di nodi organizzativi
e produttivi, che può superare o meno i confini nazionali
dell’impresa interessata, ed è in grado di valorizzare le sue risorse
distintive endogene - intellettuali, tecnologiche, produttive e
commerciali - arricchendole con nuovi vantaggi competitivi,
migliorando il processo di produzione e il prodotto stesso,
incrementando la qualità ottenuta dal cliente finale e la tempestività
di risposta alla sue richieste.
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