enrico bernard – bernari tra paura e natura
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enrico bernard – bernari tra paura e natura
BERNARI TRA PAURA E NATURA di Enrico Bernard Il romanzo "Tre operai" del 1932-34 di Carlo Bernari è considerato l'incunabolo del neorealismo. In effetti, il romanzo si presta fin dal titolo ad una lettura sociale, storica e politica; il grande affresco che Bernari dipinge è quello del periodo tra le due guerre mondiali fino alla nascita del fascismo, la cui origine sta secondo Bernari nel fallimento del riformismo socialista. Riformismo che avrebbe edulcorato gli ideali rivoluzionari della classe operaia rendendola sindacalmente esacerbata dal punto di vista economico, ma ideologicamente sempre più priva di una "visione del mondo". Segnalo in breve la forte attualità della critica che Bernari fa all'imborghesimento del movimento operaio per affrontare una tematica più nascosta: la paura (fisica ed esistenziale) propria dell'individuo più che della "classe". Attraverso l'analisi di questo tema scopriremo che la narrativa di Bernari, fin da "Tre operai", pur partendo dallo sfondo sociale e dal back ground storico, penetra nella coscienza dei personaggi e poi nel loro inconscio mettendone "kafkianamente" in luce le ombre e le paure o, "camusianamente", le angosce e le crisi esistenziali. In questo senso l'individuo, protagonista dei romanzi di Bernari, si stacca sempre dalla classe di appartenenza, come Teodoro che si oppone al suo destino di operaio o lo pseduorivoluzionario Elio Denito di "Tanto la rivoluzione non scoppierà" che si ribella- a modo suo - contro l'intellettualismo borghese trasformandosi in un aggressivo clown sociale. Dell'irruzione del mistero, della "realtà della realtà", del "giallo" o meglio del "thriller" vero e proprio nella narrativa di Bernari se ne è occupato Rocco Capozzi che individua in "Un foro nel parabrezza" del 1966 la svolta della narrativa bernariana verso il "giallo" o il socialthriller cui Bernari si dedicherà con le tarde opere come appunto "Tanto la rivoluzione non scoppiera" e poi col successivo e penultimo romanzo del 1981 "Il giorno degli assassinii". Romanzo - antesignano e battistrada di "Gomorra" di Saviano - che riprende e risolve anche in sede giudiziaria un famoso caso della cronaca nera napoletana. E a riprova di questa evoluzione cito anche una serie di racconti pubblicati sul Mattino di Napoli nell'estate del 1981 dal significativo titolo di "Gialli fulminanti". Una precisazione: il rapporto tra la realtà e la paura da essa generata - meglio sarebbe dire degenerata - viene sviluppato da Bernari su un piano teorico con l'elaborazione del concetto di "realtà della realtà, in particolare nel saggio "L'arte è paura, ovvero la realtà della realtà" raccolto in "Non gettate via la scala" (Mondadori 1975) ma scritto nell'immediato dopoguerra in occasione della stesura de "Le radiose giornate". Qui si legge: 1 "Mentre ciò che costituisce il vero problema di ogni discorso intorno all'arte è rintracciare quel filo di Arianna che può aiutarci ad attraversare il labirinto, fino alla paura, essenza della realtà, realtà della realtà". (Carlo Bernari, Non gettate via la scala, Milano 1975 pag 67). Naturalmente l'irruzione del "giallo" nella narrativa del dopoguerra non è dovuta solo a Bernari: basti ricordare "Quel pasticciaccio brutto di via Merulana" di Carlo Emilio Gadda del 1957. In effetti, tra gli Anni '50 e gli Anni '70 la letteratura risente degli influssi stilistici e narrativi del cinema. Gli scrittori recepiscono peraltro le esigenze commerciali degli editori (la Mondadori dà vita alla collana dei Gialli proprio verso la metà degli Anni '60). E comunque c'è anche da dire che gli scrittori più impegnati si trovano di fronte ad una realtà magmatica, sempre più complessa: il thriller e la conseguente ricerca di una verità "vera" (il pleonasmo è coniato proprio da Bernari) conquistano l'opera dei narratori. Nasce, sarà utile ricordare, nei primi anni '70 il fenomeno dei magistratori scrittori, tra cui cito come esempio Dante Troisi. Il fatto che uno scrittore come Bernari, considerato almeno fino alla metà degli Anni '60 un narratore impegnato sul piano storico e sociale, sperimenti con "Un foro nel parabrezza" una presa di coscienza della nuova realtà storica caratterizzata dall'l'intrigo, l'impiccio, la trama oscura, l'imbroglio o il pasticcio (per dirla con Gadda), è certamente importante. Importante perché si manifesta per la prima volta l'esigenza, da parte degli scrittori italiani "impegnati", di affrontare con altri strumenti di indagine la realtà sempre più complessa e contraddittoria dell'individuo moderno. Nel caso di Bernari, il foro di una pallottola nel parabrezza di una misteriora automobile rappresenta il "mirino", o meglio l'obiettivo con cui il protagonista, peraltro un giornalista di cronaca, comincia a "re-interpretare" la realtà. L'espediente cinematografico del romanzo "giallo" di Bernari ha peraltro consentito a Sauro Scavolini di realizzare un bel film per la TV con Vittorio Mezzogiorno, Pamela Villoresi e Mimsy Farmer. Come accenavo, il tema della ricerca della "verità vera" o della "realtà della realtà" attraverso il thriller (sociale, politico e giudiziario) è stato esaurientemente trattato da Rocco Capozzi (in particolare nel volume "Bernari tra mito realtà"): Capozzi ha analizzato l'ultima fase della narrativa di Bernari tra il 1966 e il 1985, in particolare i romanzi della trilogia "gialla", mettendo in risalto come il genere thriller costituisse per Bernari un nuovo strumento di rappresentazione e trasformazione artistica e letteraria della realtà. L'analisi di Capozzi - che nel corso di una ventennale amicizia con Bernari ne è diventato anche il "biografo" - da un lato segue dal vivo, oserei dire "in diretta", l'evoluzione dello scrittore napoletano verso il social-thriller, dall'altro mostra come già nel capolavoro giovanile dei "Tre operai" fossero ben presenti quelle tracce di espressionismo e 2 surrealismo della grande letteratura europea che Bernari assimilò tramite il cinema di Bunuel, Murnau ed altri registi degli Anni '20 e '30. I saggi di Capozzi su Bernari aprono allora la strada ad una nuova interpretazione di "Tre operai", romanzo che una volta ascritto alla nascita del neorealismo, è sempre rimasto nella critica ufficiale soffocato e come imbalsamato dal contenuto sociale, storico e politico. Un contenuto essenziale, ma non univoco. Per la prima volta Capozzi parla di invece di "surrealismo" ed esistenzialismo: affrontando ad esempio il tema dei colori nella prima narrativa di Bernari, Capozzi individua una linea anticipatoria delle tedenze più "noir" e metafisiche della narrativa del tempo. Pur senza aver letto ancora Kafka (siamo nella second ametà degli Anni '20) Bernari, secondo Capozzi, è all'avanguardia della grande narrativa europea. Questa tesi è stata peraltro avvalorata anche dalla germanista Camilla Miglio, studiosa di Kafka, la quale in un interveno al convegno tenutosi a Roma in occasione del decennale della morte di Bernari ha trattato il tema del rapporto Kafka-Bernari. Non posso dilungarmi in questa sede sui diversi aspetti narrativi che estrapolano l'opera di Bernari dal semplice bozzetto neorealistico o sociale per farne uno scrittore in sintonia con Kafka, Sartre, Camus, uno scrittore insomma che affronta il disagio e la paura dell'individuo in lotta con la società. Mi basta ricordare che la trilogia dei racconti "Tre casi sospetti" del 1958 e il romanzo visionario "Prologo all tenebre" del 1948 siano già nei titoli stessi evidenti segnali di una narrativa che tende a sprofondarsi nei meandri dell'inconscio e del "pauroso". Naturalmente il nuovo "bosco" in cui si agitano gli spettri dei pensieri o i lupi della mente non è più quello naturale fatto di alberi e cespugli: si tratta altresì di un "bosco" sociale in cui l'individuo perde di vista il sentiero della ragione e si trova in balia degli eventi storici. Il neorealismo di Bernari è dunque fin dai "Tre operai" una forma di work in progress inconscio (inconscio perché Bernari nel '28 non ha ancora letto Kafka) de "Il castello". Mentre Kafka descrive simbolicamente - rifacendosi a sua volta anche stilisticamente ai racconti di Schiller oppure al "Kohlhaas" di Kleist - la solitudine dell'individuo nei confronti del Castello-Potere Assoluto, Bernari cerca in qualche modo di svelare i retroscena sociali, il back ground storico, insomma il cosiddetto "contesto" in cui l'angoscia e la paura di vivere sono in incubazione. Lo stesso passaggio nella narrativa di Bernari dal neorealismo dei "Tre operai" del 1932-34 al noir dei "Tre casi sospetti" del 1946 (il primo racconto della trilogia viene pubblicato nel 1941 col titolo di "I loro passi, le loro voci" poi "Cupris" dal nome del protagonista) denota, fin da quell'elemento simbolico del numero "tre" del titolo, una contiguità ed osmosi che l'autore vuole dunque evidenziare e sottolineare. Ciò fa naturalmente pensare al fatto che a Bernari sia già chiaro durante la stesura stessa dei "Tre operai" l'intento di non fare sociologia, ma di star entrando se non proprio nella dimensione narrativa gotica del "pauroso", certo in una forma di scrittura più surrealista che neorealista. Rimando su questo argomento ad una mia più ampia trattazione sulla 3 riscrittura de "Gli stracci" del 1927-1929 in "Tre operai" del 1930-32, che segnò il passaggio da uno stile realista ad un netto espressionismo. Prima dicevo che l'argomento del surrealismo e dell'esistenzialismo ante literam del giovane Bernari è stato approfondito da Rocco Capozzi che è stato peraltro suffragato da un costante e fruttuoso rapporto con l'autore stesso. Posso aggiungere però ancora qualcosa perché ho avuto la fortuna - dividendo con Bernari, mio padre, gli armadi del nostro comune archivio - di effettuare due importanti ritrovamenti. Si tratta in primo luogo del romanzo del 1936 ma pubblicato postumo nel 1994 "L'ombra del suicidio" ovvero "Lo strano Conserti". Per la verità, l'esistenza di una fotocopia di un manoscritto datato appunto 1936 era nota a Bernari, ma non a me. Quando lessi per caso il romanzo, proposi subito a mio padre di sottoporlo alla Mondadori. Bernari nicchiò sostenendo che in fin dei conti si trattava di un lavoro giovanile, da lui già liquidato con una epigrafe sotto il titolo originale "L'amministratore delegato, romanzo sbagliato". Riuscii a fatica a convincere lo scrittore nell'estate del 1986 a far ribattere il testo per una proposta editoriale che si concretizzò purtroppo solo dopo la morte di Bernari avvenuta nel 1992. Le mie insistenze contribuirono comunque ad ampliare il discorso già avviato da Capozzi sul surrealismo ed espressionismo nella narrativa del primo Carlo Bernari - ovvero Bernard come lo scrittore si firmava col vero vero nome di famiglia fino al 1940. In particolare, il rapporto tra la narrativa bernariana del periodo 1930-1940 e Kafka è stato sviluppato - proprio sull'analisi de "Lo strano Conserti- L'ombra del suicidio" da Norberto Cacciaglia che così scrive: "Il clima surreale in cui si muove Conserti, alla ricerca di un introvabile Grande Amministratore, si può facilmente collegare alla cupa atmosfera del "Castello" di Kafka (a quel tempo ancora non tradotto in Italia) ed ai rapporti che il giovane scrittore ebbe a Parigi con Brèton ed i circoli culturali d'avanguardia". (N. Cacciaglia: Considerazioni su L'ombra del suicidio (Lo strano Conserti di C. B. in Letteratura e industria, Atti del XV Congresso A.I.S.L.L.I. Torino 15-19 maggio 1999, Firenze Olschki, 1997, pp. 749761). Posso così dire di aver avuto lo scarso merito ma il giusto intuito per la valorizzazione di quell'inedito dimenticato da Bernari che probabilmente lo riteneva superato dalla sua successiva narrativa. Ma è grazie alla mia testardagine che quel romanzo giovanile così fresco e carico di contenuti letterari di grande respiro europeo sia oggi leggibile. Le sorprese però non finiscono qui. Il caso ha voluto che durante lo smantellamento di un armadio a muro della casa di vacanze a Gaeta, incastrato tra il legno e il muro scalcinato, sia spuntato fuori una sorpresa: un dattiloscritto intitolato "32 pensieri sulla natura". Si tratta di uno scritto filosofico in 30 cartelle suddiviso però stranamente in 34 (non 32 come vorrebbe il titolo della raccolta) epigrafi. Il dattiloscritto risale certamente agli Anni '60: riconosco infatti i caratteri della macchina da 4 scrivere sulla quale per altro io stesso (appartengo alla classe 1955) dall'età di 6 o 7 anni ho giocato fingendo di suonare la tastiera di un impossibile pianoforte. Conoscendo la pignoleria di mio padre, la sua ossessiva precisione e la memoria di ferro mi sono alquanto insospettito su questo troppo facile errore sul numero dei "pensieri". Così mi sono messo alla ricerca in una rigonfia cartella in cui mio padre teneva i conteggi delle varie ristrutturazioni della casa gaetana, cartella peraltro mai aperta perché semisepolta e coperta da un asse di legno di quello stesso vecchio armadio, alla ricerca - dicevo - di qualche elemento in più che mi chiarisse l'enigma dello strano errore di mio padre. Posso dire che non mi sono sorpreso quando ho trovato 6 foglietti ammuffiti strappati da una vecchia rubrica, scritti fronte-retro e recanti il titolo sottolineato: "32 pensieri sulla Paura" La firma in fondo è Carlo Bernari e non Bernard il che farebbe datare il manoscritto - comunque molto più "antico" del dattiloscritto, - ai primi Anni '40, cioè quando lo scrittore cominciò ad usare lo pseudonimo suggeritogli da Corrado Alvaro. Ma le cose non stanno precisamente così. Il manoscritto è infatti redatto con due differenti inchiostri, uno scuro quasi nero sicuramente il più anziano, ed un altro più chiaro sul blu, certamente di qualche anno più recente. Dico "certamente" perché quello più chiaro è l'inchiostro con cui sono state scritte le correzioni e le cancellature sull'originale, nonché l'inchiostro col quale viene apposto a mo' di inserto il titolo sottolineato in un ristretto spazio tra il margine del foglietto e il primo pensiero. Ed è anche l'inchiostro con cui si passa dal pensiero 22 al pensiero 23 fino al pensiero 32 con la firma "Carlo Bernari". E' evidente che il manoscritto è stato realizzato in almeno due fasi: la prima dal Pensiero 1 al 22, la seconda dal pensiero 23 al pensiero 32 e relative correzioni sul testo precedente e l'indicazione del titolo "32 pensieri sulla paura". Va da sè che la "firma" non data la prima fase del manoscritto, bensì la seconda di qualche anno più recente. Così si può concludere che i primi 22 pensieri risalgono agli anni di formazione del giovane Carlo Bernard tra il 1927 e il 1929. La mia sensazione è avvolarata, oltre che dallo stato del manoscritto, anche da alcuni riferimenti testuali precisi, spunti che lo scrittore utilizzerà finanche nella prima stesura dei "Tre operai", cioé "Gli stracci" del 1929. Cito dal Pensiero 18: "Ad un certo punto mi dico: "Destino infame. Tutto da rifare. tornassi a rinascere" Ebbene questa espressione "destino infame. Tornassi a rinascere" è un leit motiv del maceramento intellettuale e psicologico del giovane Teodoro protagonista de "Gli stracci" e "Tre operai". Il dattiloscritto- che come dicevo è databile alla prima metà degli Anni '60 ricopia abbastanza fedelmente il testo del manoscritto fino al pensiero 27. Da qui però partono divergenze significative. 5 Pensiero 27 nel manoscritto: "La paura di Camus (l'assurdo) ha bisogno di uno scopo per manifestarsi: la Peste, l'Omicidio, il Mare. Infatti" (la parola "infatti" è cancellata). Pensiero 27 nel dattiloscritto: "Il momento della paura di uno scrittore moderno come Camus ha bisogno di uno scopo per manifestarsi: la Peste, l'Omicidio, il Mare, Lo Straniero". Cosa cambia è chiaro: oltre all'aggiunta del romanzo di Camus "Lo straniero" letto successivamente, vi è anche una diversa definizione letteraria : Bernari passa dal semplice e efficace "La paura di Camus" ad un più giornalistico "Il momento della paura di uno scrittore moderno come Camus". Proseguo l'analisi da questo punto perché il Pensiero 28 del dattiloscritto non è nel manoscritto ma è stato inserito in seguito: il Pensiero 28 del manoscritto corrisponde infatti al 29 del dattiloscritto. Quindi il pensiero 28 (che recita così: "La vera paura non ha scopo e non ha bisogno di ristori. E' fine a se stessa") è di redazione successiva alla prima stesura manoscritta, databile intorno ai primi Anni '60. Altra sostanziale differenza sta nel fatto che il Pensiero 32 conclusivo del manoscritto ("Sono il mio scheletro, che fugge da me ad ogni Paura, e a me ritorna ogni volta più morto") cambia in: "Per il resto che altra visione io offro al mondo se non quella di uno scheletro che fugge da me e a me ritorna ad ogni Paura più morto?" Qeusto brano (32 nel manoscritto) diventa poi il Pensiero finale 34 del dattiloscritto, preceduto da un altro pensiero aggiunto nella fase di copiatura a macchina da scrivere. Il Pensiero 33 del dattiloscritto recita infatti: "Ho voluto uno scopo: la Paura. Perchè in essa sono tutti gli altri scopi". Un altro mistero - accennavo pocanzi - è racchiuso dal titolo del dattiloscritto. "32 pensieri sulla natura". Il mistero è duplice, anzitutto perché i Pensieri perfettamente enumerati sono diventati nella riscrittura a macchina 34, E poi perché il titolo originario, "32 pensieri sulla Paura", è assai diverso e notevolmente più moderno - come modernissimo è tutto lo scritto. La Natura è un concetto filosofico che Bernari giovane approfondisce nei suoi studi marxisti e del materialismo di Feuerbach nella seconda metà degli Anni '20. Invece il termine "Paura" - quello originario del primo titolo - rappresenta la condizione psicologica e spirituale dell'uomo d'oggi. Stranamente Bernari ricopia fedelmente le 6 prime due parole del titolo (32 Pensieri - che in realtà sono 34 nella stesura più recente), invece modifica il precedente termine "Paura" in "Natura". Il semplice motivo è che per Bernari i due termini sono paralleli, come nota Silvia Acocella: "La riflessione di Bernari sulla partecipazione degli intellettuali al movimento dialettico del reale appare connotata da una matrice filosofica di origine feuerbachiana: la metafora di un mare pauroso e mutevole che affiora nella sua risposta alla "Inchiesta sul neorealismo" di Carlo Bo (Torino 1951, p. 56), allude infatti a uno scambio incessante tra il soggetto e il mondo, in cui anche le opere dello spirito - quei prodotti della fantasia che Feuerbach considerava prodotti della natura - sono destinate ad ingrossare le acque dell'esistenza e a modificarne il flusso." La confusione tra i termini "Paura" e "Natura" è allora solo apparente: Bernari - scrive la Acocella - accosta alla volontà dell'artista di far parte del mondo reale.. la paura costante del naufragio". Il neorealismo di Bernari è così determinato ancor prima che dal "nondo sociale" dallo scontro "romantico" dell'individuo col mondo reale, mondo in cui natura e paura sono elementi fisiologici ancorché filosofici e psicologici. In questo senso i personaggi di Bernari come Teodoro, Cupris, Elio Denito, Lo Scrivente raggiungono la stessa grandezza e complessità dei Werther, Renzo Tramaglino, l'agrimensore K. della grande narrativa mondiale. Senza contare la straordinaria attualità di un social-thriller come "Il giorno degli assassini" di cui Saviano si è ben ricordato nella stesura di Gomorra. ENRICO BERNARD 7