Il manifesto udaista del `29 é l`atto di nascita del neorealismo?

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Il manifesto udaista del `29 é l`atto di nascita del neorealismo?
Enrico Bernard
Il manifesto udaista del '29 é l'atto di nascita del neorealismo?
Il 9 giugno 1929 sul Corriere d’America a New York viene riprodotto il
Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione Distruttivisti Attivisti)1 firmato da
tre giovanissimi intellettuali napoletani: Carlo Bernard (che adotterà lo
pseudonimo di Carlo Bernari nel 1939, dopo la pubblicazione del romanzo
"Tre operai" del 1932-1934), dal pittore Paolo Ricci2 e dal filosofo e artista
Guglielmo Peirce, tutti e tre ispiratori del movimento dei circumvisionisti
napoletani3
La critica - non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segnaleró
subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive e cinema, ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l'importanza di questo documento.
Non se ne è parlato fino alla fine degli anni '70, quando Rocco Capozzi4 ha
riproposto una piú attenta analisi del Manifesto in relazione alla genesi del
neorealismo. Ma ci sono voluti altri trent'anni prima che la questione
tornasse attuale: Francesca Bernardini nella prefazione all'edizione Oscar
Mondadori del 2005 di "Tre operai" riprende l'argomento del Manifesto
UDA:
"Nel '29 il Manifesto di fondazione dell'UDA [...] costituisce giá nel taglio
critico e polemico un punto d'arrivo e fornisce le basi su cui si preciseranno la poetica e
l'ideologia dello scrittore: nonostante l'affermazione dell'arte come <non arte> [...]
1 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti. Napoli,
Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al saggio di Rocco Capozzi, “Bernari tra fantasia e realtà”, Napoli,
SEI, 1984, pp. 151-157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del
“Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi
capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento:
1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria.
2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento.
3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia.
4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non
hanno laciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò
in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte.
5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909
etc. – e niente affatto perché i nostri problemi artistici siano più complessi.
6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone
quindi una nuova espressione.
7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrealisti possono servire oggi
come esperienza. In arte l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova.
8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte.
9. L’arte è novità, la novità è arte”
2 cfr. "Paolo Ricci", catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari, Napoli, Castel Nuovo 26 giugno - 28
settembre 2008, a cura di Mario Franco e Daniela Ricci, Electa Napoli, 2008.
3 Il gruppo circumvisionista <sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illusioni> nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i
firmatari del primo "Manifesto dei pittori circumvisionisti" (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in "Forche
Caudine", II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) é proprio Guglielmo Peirce. Per una analisi esaustiva del
movimento circumvisionista cfr. Matteo D'AMbrosio, "I circumvisionisti, un'avanguardia napoletana negli anni del fascismo",
Edizioni Cuen, Napoli, 1996.
4 E’ da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’Uda soprattutto in seguito come ha scritto Filiberto
Menna per il quale il manifesto “non ebbe il rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a
Monaco, a Berlino, ma anche a Roma o a Milano”. Cfr F. Menna, Un normanno a Napoli, in Paolo Ricci, Napoli, Electa,
1987, p.14
afferma che l'arte è <espressione del tempo> storico, assume una posizione e
responsabilitá politiche ben precise, propugna una concezione materialistica della vita e
dell'arte; è antiidealistico e anticrociano, rifiuta l'ideologia futurista, in particolore
l'attivismo e la <religione della macchina>, guarda con interesse alla psicanalisi, al
surrealismo, alla Neue Sachlichkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si
ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in senso socialista e per il
possibile sviluppo di un realismo critico in cui sono centrali i temi della cittá e
dell'industria."5
E' allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un
episodio di partenza del "neorealismo", non è possibile ignorare il Manifesto
UDA del 1928-29. Esso viene, certo, a rompere le uova nel paniere di una
critica ormai assuefatta allo schematismo accademico, che considera il
neorealismo cinematografico del dopoguerra come una innovazione,
peraltro con forti margini di autonomia, del protorealismo letterario dei
primi anni '30. Il quale, a sua volta, sarebbe una diretta conseguenza del
filone realistico-veristico derivato da Manzoni e Verga. Questa
impostazione, fuorviante, se non adirittura erronea, nasce da un gigantesco
equivoco provocato in prima battuta da un critico, Emiliano Zazo, che, nel
1934, recensendo "Tre operai" con lo pseudonimo di "Aristarco", conió il
termine "neo-verismo"6. Il fatto è che il "contenuto" sociale, in questo caso
la fabbrica e la condizione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco
attenti che, spesso e volentieri, hanno sottovalutato l'importanza, sotto il
piano formale, del romanzo d'esordio di Bernari. Importanza che va fatta
risalire alla fase preparatoria teorica della fine degli anni '20 e
all'impostazione e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è
quello di creare un'arte nuova, rivoluzionaria, in virtú dell'apporto sinergico
di tutte le arti.
Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del
neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni '50, che non basta
la descrizione di un ambiente sociale, non basta l'engagment politicoideologico, non basta il documentarismo, cioé la rappresentazione della realtá vera,
cosí com'è, a trasformare un'opera d'arte in opera neorealista. Lo dice
chiaramente Zavattini in un convegno nel lontano 1953:
"Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che risponde ai bisogni , alle
esigenze, alla storia degli italiani in questo momento [...] Ci sono dei film piú o meno
felici nell'ordine sociale. C'è un film di straordinaria intelligenza come Le vacanze del
signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista ci sono i pensieri [...] Le opere
neorealiste non possono essere che nel corso [...] che si deve percorrere per avvicinarsi alla
realtá [...] Voglio dire che c'è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si
5
6
Francesca Bernardini, Introduzione a "Tre operai", in "Tre operai", cit. p. xxx.
"Aristarco"(E. Zazo) , "Un neo-verista: Carlo Bernard", in "L'Italia Letteraria", X, 14, 8 aprile 1934.
limita al fatto cosí detto artistico, ma fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo
le attuali necessitá storiche [...]".7
Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in
un intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida) 8 del 1955,
deve difendere "La strada" dagli attacchi della critica marxista italiana:
"Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera9, come ho letto gli
articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali ti accordi, e spero vorrai accettare la mia
franchezza se ti diró che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembrano
persuasivi [...]"
E dopo aver difeso "La strada" dalle accuse di "monadismo"e di
"individualismo", Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno al
neorealismo:
"Secondo me il processo storico, che l'arte deve, certamente, scoprire, assecondare e
chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e
politiche, di quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da riferimenti piú precisi
a una realtá storico-politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti
contemporanei in una dialettica elementare, puó riuscire tanto piú realistico di un altro
dove ci si riferisca a una precisa realtá social-politica in cammino".10
Da questi interventi risulta evidente che l'incomprensione tra autori e
critici, da cui scaturí quella polemica degli anni '50-'60 intorno al
neorealismo (di cui - non riuscendo a giungere ad una definizione
soddisfacente - poi si preferí teorizzare la morte prematura, tanto per far
sparire col cadavere - del neorealismo- anche l'ipotesi di delitto perpetrato
dalla critica)11, riguarda appunto l'errore di partenza: quello di considerare il
genere neorealista sotto l'aspetto del "contenuto" e non della "forma" come
altresí suggerito a gran voce dagli artisti stessi. A cominciare dallo stesso
Bernari che in "Questioni sul neorealismo"12 scrive:
"Un contenuto artisticamente parlando puó risultare prevedibile, quanto invece
imprevedibile deve essere la forma in cui si manifesterá; poiché tutto alla fin fine è
7 Cesare Zavattini, "Il neorealismo secondo me" relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre
1953 (pubblicata in <Rivista del Cinema italiano>, a. III, n. 3, marzo 1954, poi in "Neorealismo ecc.". a cura di Mino
Argentieri, Milano Bompiani, 1979. Ia citazione è ripresa dall'antologia: AA.VV., "Neorealismo, poetiche e polemiche" a cura
di Claudio Milanini, Il Saggiatore Milano 1980, p. 177. 8 Federico Fellini, "Neorealismo", sta in <il Contemporaneo>, a. II, n. 15, 9 aprile 1955. La citazione è tratta da:
AA.VV., "Neorealismo, poetiche e polemiche" , cit., p. 196. 9 Massimo Mida, "Lettera aperta a Federico Fellini", sta in <Il Contemporaneo> a. II, n. 12, 19 marzo 1955.
10 Federico Fellini, cit. p. 200.
11 Vogliamo ricordare i versi di Pier Paolo Pasolini "In morte del neorealismo" del 1960: "Tutti l'avete amato, quello stile, ai
giorni/ della speranza: e non senza motivo./ Che motivo v'impedisce ora di rimpiangerlo?/ Ah, Ragione! perduta di nuovo negli oscuri /
meandri dell'irrazionalitá! Elusione, / riduzione, elezione stlistica: atti, / tutti, della resa davanti alla reazione! / Scusate... il mio cuore è
lá, dentro la bara, / con quello stile... Vorrei tacere, e basta." P. P. Pasolini, "La religione del mio tempo", Garzanti, Milano, 1961,
p. 140.
12 Carlo Bernari, "Questioni sul realismo" saggio del 1953, in "Non gettate via la scala", Mondadori, Milano, 1973, p. 109.
contenuto ; quel che non è , per definizione, contenuto, puó diventare tale appena rivelato
sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtá da cui proviene e modificarla."
Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro,
rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de "La strada" ne è un
classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come la diffidenze e
l'ostracismo contro Giuseppe De Santis13). Ma questa marcia indietro,
innestata senza tener conto dell'avvertenza di Pirandello che l'arte è forma e
non contenuto14, ha cozzato nuovamente contro i paletti della letteratura: si
è cosí cominciato a parlare, nell'immediato dopoguerra, di un "incunabolo"
neorealista a proposito della letteratura dei primi anni '30. In modo
particolare si è usato il romanzo "Tre operai" del 1934 di Carlo Bernari per
quella subdola mistificazone del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto
ció nonostante le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di
essere considerati "neorealisti", tantomeno "proto", - se per neorealismo si
doveva intendere il prevalere del "contenuto", l'impegno sociale, sulla
"forma" rivoluzionaria dell'opera d'arte. Certo, "Tre operai" fin dal titolo,
pareva rappresentare
la "prova-provata", malgrado le rimostranze
dell'autore, di una letteratura postverista che, rappresentando l'ambiente
della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi "contenutistiche" di
un neorealismo in nuce. Cosí la critica (e si sa che la critica cinematografica è
piuttosto superficiale nei confronti della letteratura, cosí come la critica
letteraria guarda al cinema con una certa altezzosa severitá) ha trovato bell'e
pronta la soluzione al problema del neorealismo: un travaso contenutistico
dalla letteratura postverista e protoneorealista alla forma tipicamente
neorealista del cinema.
Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente cosí. Se si
concepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un
"avvicinamento al reale" (Za), cioé come una forma e non come un
contenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava), allora
oltre all'individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto UDA), bisogna
poter anche evidenziare la catena di trasmissione con cui questa nuova
"forma" neorealista riuscí ad innestare il suo processo artistico.
Ora, è noto che i due "padri" fondatori del "neorealismo" in
letteratura e nel cinema (Carlo Bernari e Cesare Zavattini) hanno incrociate,
fin da giovanissimi come vedremo tra poco, le loro vite e i loro destini:
Zavattini fu il primo lettore nel lontano 1932 del manoscritto di "Tre operai"
che pubblicó, nel 1934, nella collana dei "I Giovani" di Rizzoli da lui diretta.
Basta dare un'occhiata al ricco carteggio Bernari-Zavattini degli anni 1932 1938, per rendersi conto che le influenze reciproche dei due artisti e scrittori
sono molteplici. Alché è difficile pensare che il film cult del neorealismo
cfr. Antonio Vitti, "Peppe De Santis secondo se stesso", Metauro, Pesaro 2006.
"Chi concepisce la tecnica come alcunché d'esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunché di esteriore la
forma. La tecnica è il movimento libero spontaneo e immediato della forma". Luigi Pirandello, "Arte e scienza" in "Saggi e interventi",
Mondadori, Meridiani, Milano 2006, p. 692.
13
14
"Ladri di biciclette", scritto da Za per De Sica nel 1948, non abbia risentito di
questi scambi tra due menti aperte, giovani e disponibili al confronto.
Tralascio una disamina di questo aspetto per esigenze di spazio, diró solo
che nell'editing del romanzo d'esordio di Bernari, Zavattini maturó alcune
osservazioni stilistiche e formali di cui poi fará uso nella stesura della
sceneggiatura del capolavoro neorealista. Va da sé che l'evoluzione del
neorealismo di Zavattini, in direzione di un surrealismo a sfondo politicosociale, prima favolistico poi sempre piú fantastico (mi riferisco a Miracolo a
Milano e a Il giudizio universale, scritti da Za per De Sica tra il 1950 e il 1960)
vanno proprio in direzione degli spunti teorici del Manifesto udaista del '29 soprattutto per quanto riguarda l'aspetto formale dello stravolgimento del
reale in senso, non solo surreale, ma addirittura metareale (l'arte intesa come
potenzialitá rivoluzionaria "soggettiva" nei confronti dell'oggetto
rappresentato). Ecco allora che, in quest'ottica, anche un autore come il
Fellini di 8e1/2, opera che sta da sempre stretta nello scarpone del
neorealismo tradizionale, contenutistico, si spiega invece perfettamente. Lo
stesso discorso vale per il cinema di Pier Paolo Pasolini, e non mi riferisco al
"surreale" capolavoro neorealista che é "Uccellacci e uccellini", ma anche alle
piú controverse e trasgressive opere, da cui affiora una sessualitá
apparentemente ossessiva che si é in parte spiegata con la biografia stessa
del poeta friulano15. In realtá, anche su questo punto, il "sesso", il
Manifesto UDA era giunto ad una definizione teorica estremamente e
audacemente moderna:
"Siccome non si puó uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è
soggettivismo".16
Quello che sorprende - tornando al rapporto tra Bernari e Zavattini,
nella corrispondenza degli anni '30, - è che tra i due si parla molto del ruolo
dell'immagine, di cinema e di fotografia, - meno di letteratura. Soprattutto
nella prima fase del carteggio, tra la fine del '31 e la fine del '32, la questione
al centro dei discorsi non è letteraria, perché Zavattini conosce Bernari non
tanto come "scrittore", bensí come un giovane intellettuale appassionato di
arte. Il fatto è che Za sente per la prima volta il nome di Bernard (che
cambierá in Bernari nel 1938 in seguito alle leggi razziali) collegato a due
giovani artisti dell'area napoletana: il pittore Paolo Ricci e il teorico dell'arte
Guglielmo Peirce. Tutti e tre si sono fatti notare da Zavattini, che alla fine
degli anni '20 è a sua volta un giovane intellettuale appassionato di arte e
15 In realtá erotismo e sessualitá sono elementi centrali della letteratura italiana dalle origini ad oggi. Non a caso una
delle opere cinematografiche piú trasgressive di Pasolini é tratta dal "Decameron". Nella vasta bibliografia al proposito,
cfr. "D'amore si vive. Racconti erotici da Boccaccio a D'Annunzio", a cura di Guido Davico Bonino, Rizzoli BUR, Milano
2009. E cfr. pure "Parole di Eros. Erotismo e pornografia nella letteratura italiana dal Duecento al Novecento", a cura di Riccardo
Reim, Castelvecchi, Bologna, 2010.
16 C. Bernari, P. Ricci, G, Peirce, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in R. Capozzi, Bernari tra Fantasia
e Realtá, Napoli, SEI, 1984, p. 155 assetato di novitá, oltretutto in procinto di trasferirsi a Milano come
collaboratore delle maggiori case editrici italiane, in seguito alla
pubblicazione del Manifesto UDA (ripeto la sigla per esteso: Unione
Distruttivisti Attivisti) nel 1928-1929.
Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capozzi,
Eugenio Ragni17 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato
l'importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fondamentale
del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del '900 alla letteratura
neorealista dei primissimi anni '30. Si tratta di un atto "formale" che
sancisce la nascita del "neorealismo" come processo di "avvicinamento" alla
realtá, non piú e non solo da un punto di vista letterario (verismo e
conseguente contenutismo), ma con la teorizzazione della sinergia di tutte le
arti sul piano della forma18.
"A monte del Manifesto c'è la vicinanza al gruppo dei circumvisionisti, che,
superando il futurismo, ma conservando simpatie per il cubismo, giá si erano rivolti
all'espressionismo, all'astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo [...]"19
Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda
un nuovo modo di concepire l'arte nel rapporto tra forma e contenuto, tra
arti visive e letteratura, - quest'ultima viene trascinata nel Manifesto ad un
confronto serrato sul piano dell'eikon, dell'immagine, - ha reso possibile
l'equivoco letterario-contenutistico a proposito del neorealismo che citavo
poc'anzi.
Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico (Mario
Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un piacere a
ingabbiarlo in una definizione, quella di autore "neorealista", che in realtá
era, per lo scrittore, una riduzione "contenutistica" di un'opera letteraria
"formalmente" aperta alle altre arti. Non che Bernari rifiutasse il
neorealismo tout-cour, ci mancherebbe!, piuttosto lo scrittore si ribellava ad
un'operazione critica che all'epoca mirava a svalutare la libertá formale
dell'arte per prediligerne l'aspetto sociale e politico, il contenuto. Del resto lo
scrittore fornisce di sé questa definizione autobiografica anche se in forma
pseudo(auto)critica:
"La ricerca del B., anche quando parte dalla cronaca e sembra sul punto di
esplodere in denunzia, corre a nascondersi nelle pieghe del mistero. Lo stesso romanzo
dell'esordio "Tre operai" che fu all'apparire definito neorealista e accreditato fra i libri
che aprirono la strada al neorealismo italiano, perfino a quello cinematografico (infatti fu
Eugenio Ragni, "Invito alla lettura di Bernari", Mursia, Milano 1978.
Nella cultura italiana permane una sorta di setticismo nei confronti del "formalismo", probabilmente per un retaggio
critico la cui origine risale al giudizio sul marinismo. In realtá il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha
influenzato autori e movimenti rivoluzionari del '900, ai formalisti russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a
Pirandello, che hanno considerato la "forma" (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario dell'arte.
19 Francesca Bernardini, cit. p. XXX.
17
18
Zavattini a propiziarne la stampa, in pieno regime fascista), a rileggerlo oggi ci rivela il
suo sottofondo di mistero, quel tanto di traslucido che non sfuggì all'attenzione di Guido
Piovene".20
Di qui, negli scrittori e registi neorealisti, nasce il dissidio con la critica
allineata, prima dei fatti di Ungheria, col Partito Comunista (vedi Fellini e il
caso De Santis cui ho precedentemente accennato). Nel saggio sul realismo
del 1957, poi ripreso nel 1973, Bernari lancia un'accusa grave contro la
"critica" sia cattolica che marxista:
"[...] fin quando peró la cultura italiana non si riconoscerá in un comune fronte laico, ma
continuerá a manipolare le veritá complici, (con la complicitá della Chiesa innanzi tutto, e
delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per proprio conto o tornaconto,
un'unitá confessionale) non vedo vie d'uscita entusiasmanti; non vedo cioé come questa
cultura possa sottrarsi all'azione corrosiva della controriforma che insidia, anzi è il
presupposto permanente di ogni mistificazione conservatrice. Altro che realismo e neorealismo!".21
Comunque, a proposito della "genesi" del neorealismo nell'ambito
dell'avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria
(contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell'intervista originaria del
195722 in cui definisce il realismo socialista come:
" [...] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioé nel senso di un
rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleitá populistiche
(degenerazione che ha tradito le premesse da cui partí lo stesso neorealismo, che fu un
movimento avanguardista, espressione di crisi di una societá oppressa dal fascismo, e il cui
atto di nascita puó collocarsi tra il '30 e il '40, allorché il neorealismo significó resistenza
al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una
restaurazione neoclassica) [...]"
La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui
bollato come "una corruzione del realismo in senso neorealistico", risale al 1957,
all'indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe dovuto smuovere
nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del "vero" fondamento del
neorealismo! Si optó invece per la soluzione piú schematica e semplice
possibile, quella cui accennavo all'inizio della mia analisi, cioé il neorealismo
fu preso per la sua coda "contenutistica", e non per la sua "testa" pensante,
rivoluzionaria e formalistica. Naturalmente "Tre operai" ha un preciso
20 C. Bernari, voce "Carlo Bernari" in "Autodizionario degli scrittori italiani", a cura di Felice Piemontese, Leonardo
Editore, Milano, 1989 pp. 54-55.
21 C. Bernari, "Questioni sul neorealismo", cit. p. 111-112.
22 C. Bernari, Risposte a "Questioni sul neorealismo" in "Tempo presente", a. II, n. 7, luglio 1957 (poi, con numerose varianti,
in "Non gettate via la scala", Milano Mondadori, 1973). L'intervista è stata riproposta in "Neorealismo poetiche e
polemiche", a cura di Claudio Milani, pp. 220-224, Milano, Il Saggiatore, 1980.
contenuto storico e politico, addirittura economico, ma tutto ció è
preceduto dalla "forma" nuova che assume il romanzo, che non è piú dopo il Manifesto UDA - quella del romanzo borghese:
"Tre operai ha pertanto la funzione [...] di contribuire alla rinascita del
romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma nuova, contrapponendosi alla
tradizione del romanzo borghese, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la
soggettivitá dell'autore, l'<umanitá> dei personaggi e la letterarietá la realtá e la
situazione storica venivano sublimati in una dimensione lirica e astratta.
L'umanizzazione di cui Bernari e Zavattini discorrono delle loro lettere consiste nel
radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno economico e politico,
dell'analisi delle trasformazioni che la tecnica dell'industria hanno comportato nella
struttura e nei rapporti sociali".23
Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il
romanzo di Bernari viene subito accusato di essere "scarno", "ridotto
all'osso". Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia della critica
a "Tre operai", ma colgo qui solo un aspetto della questione: la novitá
dell'opera di Bernari è che non si tratta piú di letteratura, ma di qualcosa
d'altro che va in direzione delle arti visive e del cinema, assumendo la
caratteristica di una vera e propria sceneggiatura, di un trattamento o di una
novellizzazione di opera cinematografica24. Insomma di un'altra "forma"
rispetto al romanzo borghese, una forma determinata dal rapporto con le
arti visive, - e va da sé che non stiamo parlando di un astratto formalismo
fine a se stesso, esagerazione o "male infantile" delle avanguardie, che
Bernari in ripetuti interventi fa ricadere nell'estetica borghese.
Di questa nuova "prospettiva", che va in direzione delle arti visive e
delle esperienze artistiche del '900, parla Remo Cantoni a proposito di "Tre
operai", definendolo "visionario" al di lá della matrice letteraria:
"un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli ambienti che descrive; [...]
ma realismo continuamente filtrato attraverso una soggettivitá che riduce gli oggetti a
sensazioni luminose"25
Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di
"Tre operai" fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidó come un romanzo
"operaio" politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini merita
l'inciso: "Tre operai che non fanno popolo26". Lecito domandarsi: qual è dunque
Francesca Bernardini, cit. p. XXXVIII
Sui rapporti di "Tre operai" con le arti visive, cinema e teatro, vedi: Enrico Bernard, "Esiste un teatro neorealista?", in
"Ripensare il neorealismo" a cura di Antonio Vitti, Metauro, Pesaro, 2008, pp. 17-28.
Vedi anche: Enrico Bernard, "Bernari e il cinema" in "Esperienze Letterarie", Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali,
Pisa , XXXI, 2006, n. 4, pp. 5. 25 Remo Cantoni, Prefazione a Carlo Bernari, "Tre operai" Mondadori, Milano, 1951 pp. 9-10.
26 E.V [Elio Vittorini], "Tre operai che non fanno popolo", in <Il Bargello>, VI, 22 luglio 1934; poi in Id., "Letteratura arte
societá. Articoli e interventi 1926-1937", a cura di R. Rodondi, Einaudi, Torino 1997.
23
24
la differenza tra il neorealismo contenutistico27 di Vittorini e il neorealismo
formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella prefazione de "Il garofano rosso",
si lascia sfuggire una frase che è tutta un programma politico-contenutistico:
"scrivo perché credo in <una> [virgolettato mio, ndr] verità da dire."28 Ebbene,
Bernari non crede, non ha mai creduto e mai crederá nella "veritá",
tantomeno in "una" veritá. Il suo marxismo è dialettico, la sua missione di
intellettuale e scrittore non è la veritá, ma la crisi della veritá, la critica del
vero, la ricerca come atto formale di indagine della realtá, contro ogni
"massimo sistema", che si chiami fascismo o partito comunista.
Va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944 che
Bernari stracció in seguito ad un incontro a Napoli con Togliatti,
organizzato dall'amico Paolo Ricci, in cui Bernari si vide „tagliato“ dal
Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui preparata29.
Togliatti fece infatti „saltare“ numerosi autori perché non allineati o in
„odore“ di troskismo. Il viaggio a Napoli per incontrare il capo del PCI fu
organizzato anche per discutere l’edizione dei „Quaderni dal carcere“ di
Antonio Gramsci. Anche in questo caso il dissidio tra Bernari e Togliatti fu
totale, poiché Bernari comprese che il dirigente comunista voleva in qualche
modo adattare il pensiero gramsciano alle linee del partito. E', d'altronde,
interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista
prende le distanze dal „realismo socialista“ e dall’Unione Sovietica quando,
siamo nel 1929, il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo del
Manifesto, infatti si legge:
„I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esasperazione
dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come
reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo
come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni
di propaganda sociale. I Sovieti sono perció i piú vicini all’annullamento completo
dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione
volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si puó uscire dal cerchio di ferro
del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo
come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo“ 30.
27 Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della rivoluzione e del Partito Comunista,
ha progressivamente modificato la sua opinione sul rapporto arte-ideologia. Il suo intervento "L'arte è engagement
naturale" relazione tenuta nell'agosto del 1948 in occasione delle "Rencontres internationales di Ginevra", sta in E. Vittorini,
"Diario pubblico", Bompiani, Milano, 1957 (sta anche in "Neorealismo poetiche e polemiche", cit. pp. 77-83), parebbe
assumere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929. Infatti quella dell'engagement
sarebbe dunque una predisposizione dell'artista nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni.
28 Elio Vittorini, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948
29 Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, „Togliatti censore: correggete Gramsci“, sul Corriere della Sera del 2 febbraio
1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcune pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul
Corriere della Sera il 5 dicembre 1996. 30 C. Bernari, P. Ricci, G, Peirce, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, sta in R. Capozzi, Bernari tra Fantasia
e Realtá, Napoli, SEI, 1984, p. 155.
Questa citazione ci consente di tornare alle vicende legate al
Manifesto UDA del 1929. Il sodalizio tra il pittore e storico dell'arte Paolo
Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni '20 e coinvolge, come
accennavo, anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo Peirce, a sua
volta filosofo e pittore. I tre amici daranno vita, proprio negli anni in cui il
regime fascista è al massimo della propaganda ideologica, ad un movimento
marxista, quindi anticrociano e, soprattutto, antifuturista. Tra il 1927 e il
1929 i tre giovani intellettuali, non ancora ventenni, pensavano di dedicarsi
a diverse ricerche e tentativi, tra cui una "Storia del movimento operaio a
Napoli",31 opera che mai vide la luce, ma che fornì a Bernari, impegnatosi
più degli altri due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti, oltre a
quelli notoriamente autobiografici, per le prime stesure di "Tre operai"
("Tempo passato" del 1928-29 e poi "Gli stracci" del 1929-1931). Tramite Ricci,
Bernari si avvicina agli artisti circumvionisti napoletani e, grazie
all'attivissimo Peirce, al gruppo romano della "seconda ondata", legato al
futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo Marchigiano di
Roma, - presenti Marinetti e Balla e Luigi Pepe Diaz, antifascista e
comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi , - Gustavo Barela, leader del
gruppo, legge due poesie di Bernari, "Ghigliottina" e "Idillio7", andate
perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ricci fondano un movimento
d'avanguardia e, tornati a Napoli circa a metà del '29, lanciano il "Manifesto di
Fondazione dell'UDA (Unione distruttivisti attivisti)", che, stampato in
cinquecento copie, “imbucato e distribuito di notte”32 viene recensito da
Ungaretti.
“Il manifesto nacque tra la fine del ’27 e i primi del ’28; proprio in opposizione
all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innanzitutto come testimonianza critica
antifascista, in opposizione all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo essere
ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E bisognava abbatterlo; e come, se non
prevaricando! […] Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo
futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa;
ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture
ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina. […] Ed ecco come da una
simile riflessione doveva nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè Unione
distruttivisti - attivisti, per un’attività dello spirito non in senso gentiliano, ma in
dialettica con la natura, in dialettica con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e
scientifici da cui l’uomo d’oggi è condizionato.”33
31 "Paolo (Ricci, ndr) scriveva una storia dell'architettura, fondata su equazioni economico-sociali; Guglielmo (Peirce, ndr) un'estetica tra
Aristotele e Marx; io, da mattina a sera occupato nella bottega di tintoria, una storia della classe operaia giá arresa alle cronache delle mie
giornate". C. Bernari, "Nota '65", in "Tre operai", Mondadori, Milano, 2005, pp. 159-170.
32 L. VERGINE, L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ’30 oppure I distruttivisti-attivisti,
testo di una
trasmissione radiofonica del terzo canale della Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p.1, ASNA,
Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 7/421
33R. CAPOZZI, Intervista a Carlo Bernari, «Italianistica», IV (1975), n.1, p.143-144.
Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità
dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in testa,
perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura borghese,
annunciando la fine delle arti belle e mostrando intolleranza per ogni tipo di
autorità sia in campo politico che artistico.
I distruttivisti-attivisti affermavano il primato della scienza e della
tecnologia, “uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di classe e in grado di
restituire un’immagine positiva del reale”,34 in tal senso essi consideravano la
macchina non l’oggetto mitico dei futuristi, ma uno strumento da osservare
senza enfasi:
“Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produttivi e di eliminare lo
sfruttamento presente nel mondo industriale. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista,
l’attenzione, sulla linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi e al loro
rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse che investiva tutti i campi dell’attività
culturale: dai problemi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura,
dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna.”35
Il movimento non passò inosservato: Croce, nonostante la sua
celebre ostilità verso ogni novità, confidó a Francesco Flora, che glielo fece
recapitare, che il manifesto era “una cosa molto seria”36, aggiungendo la
famosa frase: “Sti guaglioni non so’ fessi!”.37
Una lettura non meno superficiale del testo udaista fu quella di
Giuseppe Ungaretti che sulla rivista Il Tevere38 scrisse:
“Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno seguito le idee intorno
all’arte di questi ultimi tempi. […]. E’, riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici
si trattava di liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo avuto questo:
una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sempre più breve di queste successive retoriche,
la persuasione sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da mandare al
diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è messa a perseguire fini che sono l’opposto
di questi dell’arte e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto dell’antiarte.
Ma ora viene il bello. I Distruttivisti-Attivisti parlando di arte che sarebbe mutevole
simpatia verso un oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa, vogliono
dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva detto anche Marinetti. Ma essi non
considerano la macchina come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della nostra
civiltà da sfruttare”.
Il Manifesto dei tre giovani „distruttivisti-attivisti“ - Bernari, Peirce e
34 C. BERNARI, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASNA), Archivio Paolo Ricci, Parte
Generale, 1/36.
35D. BERNARD, Carlo Bernari a Parigi, in Studi novecenteschi , Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio-dic.2009, pp.313-346.
36 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/80.
37 P. RICCI, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 3/125.
38 G. UNGARETTI, L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929.
Ricci - rappresenta, insomma, la reazione negativa, probabilmente la prima
da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo: si tratta
sostanzialmente, al di lá della polemica tipica del tempo sulla funzione e
valore dell’arte, di una vera e propria „messa in guardia“ ideologica contro
il mito della „macchina“ che, disumanizzando il lavoro e incrementando la
dinamica del profitto, non può essere vista solo come uno strumento di
progresso, ma deve esserne avvertita la minacciosa potenzialità alienante. La
cultura italiana, solitamente provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito,
tranne qualche raro caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del
Manifesto dell’Uda. Senonché, il 9 giugno 1929, come accennavo all'inizio,
il Manifesto fu ristampato sul Corriere d’America a New York: la sorpresa sta
nel fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo la
pubblicazione a Napoli. E se poi si collega questa data del 1929 col
soggiorno parigino di Bernari del gennaio-aprile 1930 (Bernari raggiunge gli
amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che giá sono nella Ville Lumiére
da qualche tempo), dobbiamo rivedere - e di molto - la tesi sulla scarsa
diffusione delle idee del Manifesto UDA. Appena giunto a Parigi infatti
Bernari, ventunenne, entra in contatto con André Breton e Ribemont –
Dessaignes. Racconta Bernari:
“Avevo conosciuto Ribemont-Dessaignes e, insieme, Nino Frank, in una fredda e
grigia stanzetta che affacciava su un interno di St. Germain – des – Près; era tutta lì la
redazione della sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il cappotto
indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato. Sulla sponda opposta Breton metteva
la rivista del surrealismo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato con
l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di compilare un rapporto sulla
situazione dei gasisti in Italia. “Pensate!” mi diceva furibondo “Io! Uno scrittore! Che ne
so di quel che succede in Italia?” E io a rimproverarlo, che non avrebbe dovuto sottrarsi al
compito. Chè sarei stato ben felice se qualcuno al mio paese avesse potuto chiedermi
qualcosa di simile. Ero persuaso di dover invidiare quella libertà che consentiva a lui di
respingere una richiesta, essa stessa affermazione di libertà.”39
Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momento
in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista francese, si
stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua rivista da «Révolution
surréaliste» a «Le Surréalisme au service de la révolution». La lettura delle opere di
Breton lo suggestionano e gli fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli
e confluite nel Manifesto UDA:
[…] le opere [di Breton e Ribemont –Dessaignes n.d.r.] lette sul posto mi avevano
impressionato in quanto le vedevo in linea con un surrealismo storico le cui radici
affondavano nei Les Chants de Maldorol per un verso, nei racconti del Poe nell’altro
39
C. BERNARI, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp.225-226.
verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era il filone dada che in un certo senso o
forse in tutti i sensi era stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato
l’Uda 1928-1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda (forse tre) e mi toccava, lì
sul vivo, sentirne ancora l’attualità.”
40
Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono
Bernari (e le tesi dell’UDA) con grande interesse, rispondendo anche
epistolarmente ad una “Inchiesta sul surrealismo” che Bernari porta avanti con
tenacia: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribemont –Dessaignes è
del gennaio-febbraio 193041. A testimonianza del particolare clima di
amicizia e considerazione, nonché di collaborazione, instauratosi tra Breton
e Bernari, resta un frontespizio del “Manifeste du surréalisme” che Breton
stesso dedica cosí:
“A Carlo Bernard, per simpathique homage André Breton giavier 1930.”42
Considerando che, contemporeaneamente, a Parigi nei primi mesi
degli anni '30 si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce –
quest’ultimo a matita realizza una sorta di autoritratto43 del terzetto di amici,
confondendone e fondendone i lineamenti -, va da sé che i temi ancora
caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto UDA diventino una
sorta di biglietto da visita per il sodalizio. Comunque, le idee dei giovani
distruttivisti-attivisti (che nel 1929 hanno trovato anche eco a New York) si
diffondono negli ambienti intellettuali parigini44. E parlando dell’influenza
piú o meno diretta che l’udaismo esercitó, indipendentemente dalla sua
fortuna letteraria, va pur detto che in questo contesto, fra Parigi e New
40 C. BERNARI, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su “Tre operai” e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d.,
ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482.
41 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi presso l’Archivio del Novecento,
Roma, è stata pubblicata nel catalogo della commemorazione „Roma ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte“, Roma
2002.
42 Collezione privata Enrico Bernard, Roma.
43 Il ritratto a matito firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930. Collezione privata di Enrico Bernard,
Roma.
44 A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur», che apparve con frequenza
bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora, in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del
1931. Malgrado Breton la qualificasse “remarquable poubelle", fu senz’altro una delle più belle e ricche riviste
dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratura della rivista fu per i primi 4 numeri di 3.000 copie,
per i numeri 5-6-7 di 2.000, e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du Carrefour
con sede a Parigi in Boulevard Saint-Germain,169; direttore della rivista era Pierre G.Lévy, redattore capo George
Ribemont -Dessaignes e a partire dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un
napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come del resto Bernari e gli altri giovani
del tempo che volevano allargare i propri orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del
fascismo. Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione direttamente da «’900» a
«Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino
all’ultimo numero il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli, Gottfried Benn,
Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William C. Williams. Grazie a un comitato così composto la
rivista renderà facili i suoi contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra, con reportages,
lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur»
Bernari viene a contatto quasi subito recandosi in Boulevard Saint- Germain, nella redazione della rivista francese, e,
analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le influenze tematiche e stilistiche che esse
operarono nella formazione di Bernari. Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani,
intermediario culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante ediffusore, attraverso le sue influenze e
conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui cercherà di ottenere la pubblicazione.
York, nacque la sceneggiatura di “Tempi moderni” (1936) di Charlie Chaplin,
film la cui genesi ideologica e artistica risale al 1933-34. Naturalmente non
si puó stabilire una relazione diretta tra la critica della “macchina
industriale”, di cui Bernari-Ricci-Peirce nel 1929 evidenziano, contro
l’esaltazione del futurismo, la mostruositá estetica ed esistenziale, e la tragica
farsa dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio.
Certo è che, se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin, ad
accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del “progresso”
sono stati, last but not least, proprio i tre giovani distruttivisti-attivisti
napoletani!
Si puó, dunque, affermare che la genesi dell’opera letteraria di
Bernari – l’incunabolo neorealista45, come viene definita dalla critica letteraria
l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite del genere, “Tre
operai” – riceve l’humus ideale, non tanto dalla letteratura dell’epoca, quanto
piuttosto dalle arti figurative. Ció avviene perché Bernari trova sponda
intellettuale nei due amici pittori, e soprattutto negli ambienti del
circumvisionismo napoletano di cui Paolo Ricci, il piú anziano (anche se di
poco, ma sul filo dei vent'anni anche i mesi contano) e ideologicamente
determinato del gruppo, è diventato uno degli esponenti di spicco, mentre
Peirce ne rappresenta l’anima ispiratrice in sede teorica46. Il passaggio tra il
manifesto circumvisionista del 1928 al manifesto dell’UDA del 1929, meglio
l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da Marinetti,
all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’essere rivoluzionaria e
marxista di questi giovani, che prendono le distanze dall’estetica futurista del
regime fascista. E lanciano una non-estetica, una nuova ricerca di
espressione della realtá, che si fonda sulle angosce piú profonde
dell’individuo di fronte ai mostri del ‘900, capitalismo e fascismo, alleati
nell’idrolatia della “macchina” e del progresso. Progresso antiumanistico, se
privato del “sentimento”, per privilegiarne l’aspetto totalitaristicotecnologico, secondo la critica udaista che non ricade nell’errore romantico
del rifiuto tout-cour della modernitá, ma la “relativizza” al bisogno e
all’aspetto “emotivo” del rapporto Uomo-Natura.
Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia
circumvisionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del
45 Il termine „incunabolo neorealista“ viene riferito in particolare al romanzo „Tre operai“ di Bernari. La paternitá del
termine è piuttosto incerta e comunque dimostra la difficoltá della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera
poliedrica e ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di collegare il cinema
neorealista del 1943-1948 con la precedente esperienza letteraria degli Anni Trenta, dimenticando una semplice realtá,
che Bernari e Zavattini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anchese in diversi modi e
misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria
neorealista e il successivo cinema neorealista.
46 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe
Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi die giovani artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non
subalterno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente la tradizione delle avanguardie e
di collegarsi con le ricerche piú innovative in corso in Europa. La prima mostra die pittori circumvisionisti all’hotel
Quisisana di capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il „Manifesto dei pittori Circumvisionisti“ fu
pubblicato in „Forche Caudine“, n. 2, Benevento, 15 gen. 1929, p. 5, a firma Cocchia, Deambrosio, Peirce. Cfr. M.
D’Ambrosio, „I Circumvisionisti“, Napoli, Edizioni Cuen, 1996, pp. 338-341.
futurismo ed in particolare della pittura di Sironi47, e con la immediatamente
successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 1929-1930, si delinea il
percorso della formazione intorno ai vent'anni di Carlo Bernari. Una
formazione in primo luogo antiaccademica, ed in seconda battuta pittoricovisiva, puttosto che letteraria. E come poteva essere altrimenti, se i
compagni di viaggio (Ricci-Peirce) del giovane Bernari erano artisti, pittori,
anziché letterati? Riprendendo una risposta a Carlo Bo48, Bernari richiama
alcune tappe della genesi di “Tre operai”, romanzo che la critica ha definito,
ricordiamo ancora una volta, “l’incunabolo neorealista”:
“Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi solo parentele letterarie,
e non anche politiche, sociologiche, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture
piú frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isolamento, una scuola l’avevo
anch’io dietro le spalle: una scuola antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi,
dal piú elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista, alle medie e superiori che
battezzammo Circumvisionismo e Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che
fu per noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui manifesto,
firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre che da me, apparve nel 1929).”49
Si puó dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo
affondano in un terreno ben piú vasto del semplice back ground letterario:
cosí l’idea di un travaso di linfa immediato (e un po’ scontato) dalla
letteratura verista o dal realismo, coglie solo in minima misura il bersaglio.
Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste radici, a tutta
una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche, sociologiche,
filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini “libreschi”: perché
le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da cui nacque “Tre operai”, fu una
culla in cui le arti visive, e qui stiamo analizzando in particolare la funzione
che ebbe l’arte figurativa, la pittura, assolsero un ruolo determinante. Al
punto che possiamo affermare che la formazione giovanile del “capostipite”
della letteratura neorealista, Carlo Bernari, venne pressoché ipotecata da
una ricerca artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo
primario, ma venne a costitursi in seconda battuta, cioé dopo le prime
esperienze del 1928-29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo,
come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le mosse
47 Il primo accostamento della pittura di Sironi a „Tre operai“ è di Guido Piovene su „Pan“, aprile 1934. Bernari
commenta nella „Nota 65“:„[…] allora mi suonó come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le tavole
con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello
anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal
cinema realista europeo o americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver súbito. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche
rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini,
la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del
tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi
fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava.“ C. Bernari, „Nota 65“, postfazione a „Tre Operai“,
Milano, Mondadori, 1965, pp. 244-255
48
49
C. Bo, „Inchiesta sul neorealismo“, Torino, Edizioni Eri, 1951.
C. Bernari, „Nota 65“ postfazione a „Tre operai“, op. Cit. P. 252-253.
all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle arti visive e,
in questo caso, figurative.
Non è, quindi, tanto o solo di Verga che bisogna parlare come
referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la fine del
primo ventennio del ‘900, bensí dell’opera pittorica, questa sí fondamentale,
di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion e paesaggi industriali
cupi e privi di speranza, apre le porte a nuove visioni della condizione
umana. E il punto di congiunzione tra il neorealismo “letterario” del
Bernari di “Tre operai” e questo retroterra pittorico-visivo sironiano, è
rappresentato dagli artisti circumvisionisti della mostra caprese del 1928,
primo su tutti Crisconio, quale ideale erede di Sironi. Tant’è vero che
proprio nei primi quadri ,- mi riferisco in particolare all’olio su tavola
“Centrale termica dell’Ilva” del 1926, - di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio
fu fin da giovanissimo amico ed estimatore, e nei dipinti del 1934 “Cantata
operaia” di un altro artista circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si puó
toccare con mano la vera anima del neorealismo - che si manifesta
letterariamente con la pubblicazione della stesura definitiva di “Tre operai”
del 1934.
Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928, del
battesimo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udaismo, non è
assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze rappresentano
momenti essenziali, e interconnessi, della formazione di Carlo Bernari
scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, critico d’arte e giornalista.
Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avventura
milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste di semplice
correttore di bozze, poi come art director ed infine come Direttore
Editoriale, è - come dicevo - bene a conoscenza dell’attivitá teorica-artistica
del terzetto di giovani napoletani. Attivitá che Za, ripeto, ben conosceva,
visto che il Manifesto UDA del 1929 viene recensito da Ungaretti, trova
spazio sulla stampa di oltreoceano e suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi,
- e di Breton in particolare che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari
con una lunga lettera. Del resto, Zavattini è attentissimo alle novitá:
dall’epistolario con Bernari-Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza
che Za conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo
d’occhio Bernari ,in particolare, che proprio intorno al 1929 pubblica alcune
pagine del suo capolavoro neorealista su alcune riviste letterarie del tempo.
Vedremo infatti come l'interesse di Za si focalizzi sempre più proprio su
Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard-Peirce, Paolo Ricci non
viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà via via sparendo. In una
lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard50(che da subito è il referente
privilegiato anche nell’intestazione delle lettere), Za taglia corto circa alcune
„querelle“ letterarie, per stabilire un contatto artistico diretto e il piu ampio
50 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata „Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano“. Inedita
(Archivio Carlo Bernari, Centro di Ricerca „La Sapienza“ Archivio del ‚900 Roma ).
possibile col giovane amico:
„[...]La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose si divergeva
teoricamente. Poco male perché sia tu che io in teoria siamo impegnati, come quelli che
hanno fatto la polemica pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa che
non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci vuole altro: e la nostra amicizia si
sta facendo su un terreno umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico. Caso
mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e non avevo mai letto Croce. Poi mi è
sembrato di non esserlo, assolutamente. E oggi non mi ricordo piú perché mi sembró di
non esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose fondamentali e in quelle siamo
d’accordo.“
In questa lettera Za comunica a Bernari, piú o meno direttamente,
un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico-artistici del
gruppo udaista del ’29.
Non si può stabilire con esattezza la data e l'occasione del primo
incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da Milano
a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune e i motivi di
incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi definitivamente a
Milano verso la metà del 1930, forte del successo di "Parliamo tanto di me"
pubblicato Bompiani nel ’31 e ormai certo di una sicura sponda e sostegno
professionale nel mondo editoriale (Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno
i suoi principali sponsor), Zavattini non dimentica gli amici più giovani
Ricci, Peirce e soprattutto Bernari.
Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini ai
primi del 1931 per ottenere una sostegno dall'amico che ormai, nel mondo
editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. E’ interessante
notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto i disegni di Peirce.
In risposta ad una lettera di Bernari (che fa parte di un gruppo di lettere
distrutte nel 1937 dallo stesso Zavattini, per paura di compromettersi,
quando Pierce fu arrestato dai fascisti), Za risponde con una lettera
manoscritta51:
"Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall'influenza. Per quei disegni non
c'è proprio modo di piazzarli. Il solo che poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no - io
mi ero offerto di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo solo il Secolo
XX52 poteva aiutarvi - ma anche là hanno paura di andare troppo in là - Come vedete,
sono inerme e non riesco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con una
novella.
Ahimé, Milano è così 51 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a „Bernard-Peirce / Via 4 Fontane / Roma“, data del timbro
postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). Si tratta della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario
Bernari-Za.
52 Il Secolo XX, settimanale edito da Rizzoli, „Grande rassegna d’arte, di lettere, di politica, di scienze. Documenti rari
ed eslusivi“. Zavattini vi collabora a partire dal 1929.
Vi abbraccio, scrivetemi e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e
quello per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come sino ad ora - Vostro
affezionatissimo Zavattini".
Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da
Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937, si
intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e Peirce, che
pero’ non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini continua a farsi
in quattro per aiutare gli amici, come nella missiva da Milano del 6 agosto
193253:
„Carissimo Bernard... ti assicuro che mi ricordero’ di Peirce per l’Almanacco.
Quei suoi tre disegni sono ancora inutilizzati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia,
caro Bernard, vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua...“
Zavattini incontra grandi difficoltá a „piazzare“ i disegni di Peirce
(curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il perché è
presto
detto:
questi
disegnini
sono
avulsi
dal
contesto
editoriale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale
peró manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione „provate ancora
con una novella“ suggerendo agli amici una soluzione editoriale precisa per una
„terza pagina“ illustrata.
L’idea sembra funzionare tanto che da Milano giunge una conferma:
„Caro Bernard 54 [...] E’ uscita la novella, finalmente. Riceverete il modesto
compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è ridotta, povera novella, con l’aggiunta e
con i tali! Fatene un’altra. [...]“
I tentativi di Za di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi
risultati, ma non per questo demorde. Da Milano parte una lettera55 in data
26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di come
impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al ruolo
dell’immagine e dell’illustrazione del testo.
„Caro B.
Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti
scrivere le cinque righe di commento, potrebbe essere immaginato cosí:
53 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata „Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano“
indirizzata a „Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane, 4 / Roma“, data del timbro postale, pubblicata in Carlo
Bernari, „Tre operai“, a cura di Francesca Bernardini, edizione Oscar Mondaddori, Milano, 2005, p. X (Archivio Carlo
Bernari).
54 Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Archivio Carlo Bernari).
55 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata „Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La
Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano“, indirizzata a „Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 /
Roma“, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
(segue esempio grafico di impaginazione disegno, a sinistra, testo a destra,
Ndr.)
questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la mia proposta.
Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Mel o mandate subito?
L’almanacco sta per andare in macchina. Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri
due nomi ci siano. Lasciate passare questa bufera. E’ una vera bufera e spero fortemente
che potró fare qualche cosa per voi. Vi giuro che ora non basta la buona volontá. Vi
scriveró presto.
Un abbraccio vostro Za.“
Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che
Bernari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, autore di
testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e disegnino –
una passione quella del disegno che Bernari, come diró, coltiverá per tutta la
vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za insiste:
„Carissimi 56
grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubblicitario. Aspetto tre righe sul
genere di quelle di ottobre. Come mai?
Die vostri due pubblicheró quello coi soldi. Va bene?
Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho giá letta, ora la leggeranno gli altri. Ma
so giá il responso. Quasi... Sí, accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come
avete fatto. Chi non lo a che le novelle di Novella sono quel che sono? Quando si dice: le
vostre non sono adatte per l’amor di Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per
esempio, valeva un po’ piú piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istruzioni secondo il
modello che qui hanno in testa e da quello non si muovono. Se dipendesse da me,
mandatemene pure, io faró l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc. Ecc.
Diró a Bompiani se puó pagarvi quel disegno. Ma B. non mollerá, lo so, perché ciascuno
collabora gratuitamente, salvo le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far
guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamente. Io sono sempre a vostra
disposizione.
Vi abbraccio vostro
Za“.
La tesi secondo cui Bernari e Peirce si stiano rapportando a Za,
entrambi in qualitá di artisti a tutto tondo, cioé entrambi come autori di testi
e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di Za datata
Milano 27 dicembre 193257
„Carissimi,
56 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata „Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano“,
indirizzata a „Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma“, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
57 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata „Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano“,
indirizzata a „Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma“, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi. Avete visto l’almanacco?
E’ come è (o meglio come puó essere). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi
scriveró piú a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, guai finanziari.
Vi abbraccio Za“.
E ancora da Milano il 27 gennaio 193358 Za scrive:
„Cari amici,
aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una novella per Novella,
(vedeste che vi rubai un terzo di spunto in un mio raccontino? Ma cosí poco che potreste
non esservene accorti, sul Fuorisacco59). Aspetto dunque i disegnini e faró l’impossibile per
il seclo XX. Il solo che, lo capite da voi, possa ospitare il genere [...]“.
L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice
ragione editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento
necessitano di quello che suol chiamarsi „alleggerimento in pagina“ della
parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933 sta
dedicando ogni sforzo alla riscrittura di „Tre operai“, ad „alleggerire“ la parte
„letteraria“ del capolavoro del neorealismo. Nascono cosí le didascalie dei
capitoli del romanzo, che sono dei veri e propri schemi da storybord60
cinematografico, didascalie che non sono presenti nella precedente stesura
(„Gli stracci“).
Non è difficile immaginare la possibilitá di una versione illustrata del
romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie che
preannunciano il contenuto dei capitoli!
I – Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro.
II- Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora si accontenterebbe di
un qualunque lavoro.
III- Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si puó essere che
operai.
IV- Teodoro non ne puó piú: ha bisogno di Maria; ma anche un po’ di Anna.
V – Teodoro deve prendere una decisione.
VI – Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprezzare la povera
Anna.
VII-Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli pare un uomo
coraggioso e intelligente.
VIII- Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri die poveri.
IX - Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma forse il lavoro non è
fatto per lui.
58 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata „Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano“,
indirizzata a „Sig. Carlo Bernard / Via 4 Fontane 4 / Roma“, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
59 „Fuorisacco“ è una rubrica che Za teneva sul Secolo XX.
60 Nello storybord la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie delle varie scene.
X – Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita puó farne anche un rivoluzionario.
XI – Praticamente Teodoro impara che la mentalitá e le idee sono il frutto di
determinate condizioni d’ambiente.
X – Anna trova un uomo che le vuole bene e dun impiego.
XIII – Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i riformisti sono piú forti di
lui e gli fanno commettere una grande sciocchezza.
XIV – Pippetto muore a Napoli.
XV – Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimentari.
XVI - Marco trova un impiego: ed Anna muore.
XVII – Agosto-settembre 1921: occupazione delle fabbriche.
XVIII – Sbandamento.
Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo
cinquecentesco, in particolare Rabelais, nonché il fouilletton romanzesco
che Za è impegnato a seguire e ad ottemperare nelle sue proposte, come si
diceva, per evidenti ragioni editoriali. La polemica su Novella, anzi sulle
„novelle per Novella“ è il tallone d’Achille di Za che deve far capire agli
amici la situazione e, soprattutto, che non è in discussione il loro valore
letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che per scrivere
novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore.
Sta di fatto che, peró, questa insistenza da parte del piú anziano e
navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince Bernari a
rivedere molte cose della sua attivitá creativa. In primis ad utilizzare la
scrittura come se fosse un disegno, una illustrazione, come cogliendo
l'implicito suggerimento: disegna prima con la mente quello che stai per
scrivere. Ma è comunque vero che Bernari giungerá a questa forma nuova
di rappresentazione ed interpretazione dell’oggettivitá, il neorealismo,
attraverso il complesso delle arti visive che intersecano la sua intera
produzione letteraria. E la pittura in particolare, come si è detto,
rappresenta, sia da un punto di vista teorico che sotto l’aspetto pratico, quel
bacillo giovanile originario da cui scaturirá l’evoluzione rapida e drastica
della sua scrittura.
In conclusione: il Manifesto Uda rappresenta il tassello del passaggio
dalle arti visive, pittura e cinema61, degli anni '20 e '30, alla letteratura con
un corto circuito parola-immagine, logos-eikon, - da cui scaturisce la scintilla
di una nuova letteratura, appunto il <neorealismo> che deve essere allora
cosí ridefinito. Naturalmente, le questioni relative ai rapporti letteraturacinema
neorealista sono note e dibattute ampiamente dagli stessi
61 L'influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al romanzo di Luigi Pirandello "Si gira!"
del 1915 riscritto e ripubblicato dall'agrigentino del 1925 col titolo "I quaderni di Serafino Gubbio operatore". Ma val la pena
ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal cinema, per gli scrittori della generazione
successiva, Bernari, Moravia, Alvaro ed altri, si tratta del processo inverso, cioé di scrivere "come" per il cinema.
Trasformando altresí il "romanzo" tradizionale, anche da un punto di vista di tecnica narrativa, in un "trattamento"
vero e proprio dove la parola deve per forza trasformarsi in immagine in movimento.
protagonisti ed autori del tempo. La discussione che, alla fine degli anni '50,
assunse anche toni polemici circa la "morte" del neorealismo è conosciuta.
Resta peró - ripeto - ignorato l'antefatto che ha permesso la nascita di una
cultura neorealista, antefatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che
ha nel Manifesto UDA del 1928-1929 un momento teorico essenziale.
E' in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi
neorealisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono alla
luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo e non
tanto, le armi e le tecniche della "vecchia" letteratura, quanto piuttosto la
forza espressiva delle immagini derivate dal rapporto logos-eikon dalle arti
visive. E non è certo un caso che Bernari e Zavattini, come Moravia ed
Alvaro, si dedicarono al cinema e al teatro, alla pittura e alla fotografia con la
stessa passione e forza che alla narrativa. Realizzando cosí quella sintesi
delle arti che Carlo Bernari rivendicó nel 1953 con un intervento dal titolo
emblematico: "Cinema, tra arte figurativa e letteratura".62
In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorealista
che cede il passo al scomposizione del reale e all'astrattismo (di cui Bernari
non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati artistici):
"[...] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell'intellettuale raffinato
[...] quando si parla di tentativi di recupero dei contatti con la realtá, rimasta troppo fuori
e troppo distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di decantazione dei
contenuti cominciato circa un secolo fa e non ancora esaurito. Ma quale è la strada che
riconduce le arti figurative nell'ambito di quel generale processo di rinnovamento della
nostra cultura che grazie alla letteratura e al cinema sembra muoversi in direzione di un
realismo critico? Mi limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la realtá
[...]; la serie degli "Orrori della oppressione nazista" di Renato Guttuso, la serie degli
"Orrori della guerra" di Corrado Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il '44 e
il '45; e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da Carlo Levi durante il suo
soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che la riuscita di un realismo pittorico sia
problema unicamente di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti si
afferma che mancherebbe anche la possibilitá non soltanto di affermarsi, ma anche di
estrinsecarsi. Qualcosa del genere sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva (Cinema
nuovo, n. 9, aprile '53) che: <a questa pittura (quella neorealistica) manca una macchina
da presa efficiente o perlomeno adeguata ai suoi propositi> [...] Ma il problema del
neorealismo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano quando manca una
convinzione della necessitá di ció che si vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorché
occorrono, allorché una veritá non deformata da intenzioni propagandistiche e commerciali
s'impone alla nostra coscienza, sono sempre pronti alla nostra coscienza. E' proprio in
questa direzione che bisogna accettare l'esempio del cinema".63
62
63
C. Bernari, "Cinema, tra arte figurativa e letteratura", in "Rivista del Cinema italiano", agosto 1953, pp. 7-29.
C. Bernari, ivi p. 27.
Si tratta allora di cogliere l'essenza del nuovo modo di de-scrivere la
realtá: una narrazione per immagini che diventa critica della realtá attraverso
lo strumento della parola. Nel saggio del 1953 su cinema arte e letteratura,
Bernari si richiama al filone neorealista della pittura, - che a suo giudizio
rischia di esaurirsi per l'esplosione delle tendeze astrattiste, - un filone che
da Sironi e Crisconio, attraverso Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a
Carlo Levi, Renato Guttuso, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi,
Ernesto Treccani, Emilio Greco e Domenico Purificato. 64 Presentando nel
1980 l'opera pittorica di Domenico Cantatore, ad esempio, Bernari insiste
sulla dialettica logos-eikon, immagine e parola:
"Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle parole dello
scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile. Spesso, fra l'una e l'altra attivitá,
pittorica o letteraria, si determina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due
espressioni ha prevalso [...] Vi sono comunque casi singolari in cui lo scrittore che si
dedica alla pittura, anche trasferendo in questa attivitá collaterale o suppletiva gran parte
del suo mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente autonomia [...] Ma
accade anche l'inverso, quando è il pittore ad invadere il campo vicino delle lettere. Il
pittore allora trasferisce nella scrittura, insieme ad una quantitá di sensazioni visive, gran
parte di quell'humus che dá vita al suo mondo pittorico; ma in modo aneddotico, oserei
dire: narrativo; ecco, come se il pittore attingesse ad un altro cielo di veritá".
Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa
capacitá, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtá
attingendo, per dirla con le parole di Bernari, "ad altri cieli di veritá". Va da sé
che allora il rapporto col cinema65, l'immagine in movimento che è una
sintesi di arte figurativa 66e narrativa, come se le immagini venissero messe
appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro, l'essenza del
neorealismo. Un modo di rappresentare il reale che va ben oltre il
documentarismo e mette in allerta l'astrattismo con quel monito con cui
Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo:
64 Bernari fu buon profeta fina dal 1950 della crisi dell'astrattismo, un tema ricorrente nei suoi inteventi critici e nei
cataloghi delle mostre con la sua prefazione. Basti pensare alla recensione apparsa sul "Corriere della Sera" della
autobiografia del critico Renato Barrili, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neoavanguardia
("Autoritratto a stampa", Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo il libro autobiografico di Barrili scrive Pierluigi
Panza: "Pure la Neoavanguardia, dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza, nonostante alcuni
tentativi di rilancio negli anni Novanta [...] c'´e chi come Eco diventa scrittore borghese postmodern e chi si rifugia negli studi storici, come
Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli [..]".
65 cfr., Domenico Purificato, "Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica", Quaderni dell'Associazione Giuseppe
De Santis, a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzolo, pubblicato in occasione dell'omonimo incontro tenutosi a
Fondi presso il Palazzo Caetani il 23 maggio 2010. Molti scriti teorici sul rapporto pittura cinema del pittore
Domenico Purificato sembrato in qualche modo ispirati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore
Bernari e il pittore Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni '60. Entrambi avevano lo studio
estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due
artisti.
66 Cesare Zavattini, cit. p. 184.
"Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, ndr.) non serva anche alle
altre forme di cinema, anche a quelli non neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come
i frati per sentirsi dire: avvicinati alla realtá."67
Questo "avvicinamento alla realtá", inteso da Za come una
predisposizione, sul piano della forma, dell'artista all'impegno, è il leitmotiv della discussione a cavallo degli anni '50. Abbiamo visto come
Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi della rivista "Il
Politecnico", rivendica all'artista un ruolo indipendente, se non disimpegnato,
nei confronti del contenuto - e dell'ideologia del partito. Questa "nuova"
posizione di Vittorini, che dagli stretti legami con Togliatti passa ad una
critica del cosiddetto realismo socialista, è peró giá all'ordine del giorno,
perché ricalca sostanzialmente le tesi del 1929 del Manifesto udaista di
Bernari & Co. Tesi che tornano di attualitá venti anni dopo con Vittorini
stesso, che pure originariamente le osteggió, Zavattini e con Fellini che,
nell'intervento del 1955 in difesa de "La strada", scrive:
"Se sono partito - per questa ricerca di come l'essenza del desiderio e della
possibilitá sociale nasca in un rapporto - da una situazione cosí apparentemente indatta, e
astratta, e immediata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il
capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo, per essere persuasivo,
dev'essere tentato e analizzato come bisogno del cuore, come impulso dell'attimo, come
linea in azione dentro il piú dimesso corso della nostra esistenza".68
Va da sé che il "bisogno del cuore", di cui parla Fellini, parte dal
concetto rivoluzionario post-romantico e anti-idealistico, feuerbachiano, di
sensibilitá: che nel manifesto udaista del 1929 viene concepito come una
forma di "simpatia" (e relativa empatia) tra il soggetto e l'oggetto della
rappresentazione.
E' da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si
dipartono dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sará definito
"neorealismo".
67 Non c'è bisogno di ricordare, se non a pie' di pagina, che Zavattini stesso fu pittore notevole di ispirazione
surrealista e che il suo cinema "neorealista" ed ideologicamente impegnato ha un'impronta surrealista inconfondibile.
Questo comporta che il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso, rappresenta un
approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtá. Ha quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare
il plurale "i neorealismi" al posto del singolare (cfr. A. Vitti, "Ripensare il neorealismo", Metauro, Pesaro, 2007). E' del
resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento su citato del 1953, quando sostiene: "Partiamo tutti insieme, per esempio
accordandoci sulle esigenze fondamentali del neorealismo, mettiamo <Vita di un paesucolo>. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma
dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che puó [...] la partenza è comune e non si pongono limiti al
neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtá; e deve trarre da essa e solo dall'esperienza di essa tutte le suggestioni
che solo l'approfondimento di quest'esperienza puó infinitamente dargli". C. Zavattini, cit. p. 184. 68 F. Fellini, cit. p. 199