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BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI CONTRIBUTI IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* Alla memoria di Carlo Bernari e Paolo Ricci ROCCO CAPOZZI University of Toronto Toronto, Ontario L a dinamica dei rapporti tra realtà, fantasia (immaginazione) e scrittore (o artista) hanno sempre attirato l’attenzione di Carlo Bernari sin dal 1926, e cioè da quando decise di scrivere il suo primo romanzo. In “Ciminiere e rifiuti”, apparso in Bibbia napoletana nel 1961, il giovane ventenne Carlo Bernard (nome dell’autore prima che egli adottasse lo pseudonimo Bernari suggeritogli da Corrado Alvaro nel 1940), documenta un evento autobiografico che riguarda la genesi di Tre operai tra il 1926 e il 1931: Il dolore è arma troppo pericolosa perché, maneggiandola, non si corra il rischio di rimanerne noi stessi feriti. Presto cominciai a sentire anch’io le punture di quelle spine che angustiavano la vita dei miei amici; durante la sosta per la colazione, che noi consumavamo all’ombra delle ciminiere del Pascone, tra le capre brucanti l’erba che germoglia a fatica fra i gasometri e le gru, essi mi chiedevano spiegazioni: Tu leggi tanto, – mi dicevano. – E perché non ci spieghi come stanno le cose? Quand’è che finisce? – Un torrente di fumo scorreva su di noi per dissolversi contro il petto del Vesuvio, ancora fumante. Eccitati dalle mie letture, s’aspettavano da me una “storia della classe operaia a Napoli”; ma gli anni passarono, e di quelle promesse non mi restano oggi che pallidi appunti a matita su un esile quaderno scolastico, e un ricordo incancellabile […]. Dopo qualche anno mi misi all’opera, e il mio racconto si ambientò naturalmente fra i gasometri e le gru del Pascone, popolandosi di personaggi che avevano un nome e un cognome, una piaga da sanare, una paura da vincere. Fu così che invece della storia scrissi una storia, un romanzo, cioè, o se più piace una favola; giacché favolosi sono sempre tutti gli inizi e tutte le fini del mondo (59-60)1. Altrettanto rilevanti sono le parole dell’autore nel 1975 nella presentazione al 50 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* catalogo dell’artista napoletano Camillo Catelli (1886-1978) dove accenna come la realtà viene filtrata attraverso l’arte mentre l’arte influisce sulla realtà dell’artista o dello scrittore. In essenza Bernari sta parlando di un processo di simbiosi durante l’atto creativo in cui fantasia e realtà interagiscono l’una sull’altra – una nozione a cui egli è rimasto fedele in tutta la sua opera: Intanto però noi già “vedevamo” con occhi ciechi quella negatività, ne sentivamo le tensioni, ne avvertivamo magicamente la presenza annunciatrice nella corsa dei colori a farsi luce, nell’organizzarsi dell’architettura negli spazi premonitori di una realtà diversa da quella conosciuta, eppure tanto familiare, da riconoscerla come nostra nell’attimo stesso in cui vi ravvisiamo il diverso, l’altro, in una continua divaricazione che è congiunzione e immedesimazione. L’immagine della realtà si arricchisce così, si perfeziona o si deforma, secondo una visione che non ci è propria, quanto piuttosto acquisita attraverso altre visioni, altre sintesi che ci hanno preceduto sul medesimo percorso verso quella determinata realtà. Finiamo dunque per vedere l’Estaque con gli occhi di Cézanne, e il paesaggio reale tende a conformarsi a quella pittura assecondando i parametri che la nostra formalizzazione del vero tende a fornirci2. Il “noi” qui si riferisce certamente a Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, ma forse anche ad altri artisti antifascisti che frequentavano a Napoli la “Libreria del 900”3 di Ugo Arcuno e Mastellone, ad esempio i futuristi napoletani Luigi Crisconio e Francesco Cangiullo, e i pittori che aderivano al movimento del “Circumvisionismo” e cioè Peirce, Antonio D’Ambrosio, Carlo Cocchia, Mario Lepore e Luigi Pepe Diaz, i quali si opponevano alle banalità estetizzanti della macchina e della guerra – tutti amici di Ricci (1908-1986) e Bernari. Come stiamo per discutere nelle due citazioni riconosciamo degli elementi chiave delle strategie di Bernari nel rappresentare la realtà in rapporto alla società e alla cultura del tempo. Per Bernari lo scrittore è un filosofo culturale e la sua rappresentazione della realtà è un’oggettività culturalizzata. Questo è di fatto ciò che l’autore ribadisce nella risposta alla mia richiesta di elaborare il concetto di simbiosi tra realtà e artista4: “nella crisi di accrescimento della realtà va sottointeso un processo dialettico sostanziale, in cui tanto la realtà dà all’artista quanto questi restituisce alla realtà. Ecco perché postulo uno scrittore come filosofo culturale, e perché non mi stanco di insistere su un’oggettività culturalizzata”. Nella stessa lettera Bernari si accinge a chiarire il problema del realismo: Il problema del realismo non può risolversi applicando la più ovvia formula dialettica, ora col privilegiare la realtà (l’oggetto) ora col privilegiare l’artista (cioè il soggetto) a seconda che si propenda per un materialismo cieco o uno 51 ROCCO CAPOZZI spiritualismo non meno allucinante. A questo punto dovrebbe essere chiaro per tutti che quando si parla di realismo non si vuole pretendere di asservire l’arte al più piatto oggettivismo o naturalismo, ma s’intende agire all’interno di un fenomeno per coglierne tutti i momenti di crisi. Operando una scelta nella realtà l’artista compie un atto critico; ma tale scelta è già il risultato di un rapporto istituito, o meglio in fieri fra l’artista, nel nostro caso lo scrittore, e la realtà (Lettera inedita, 13 nov. 1974, corsivi dell’autore)5. Paolo Ricci, soprannominato con affetto da Guglielmo Ricci e dagli amici, “il Normanno” richiederebbe un discorso a parte. Qui mi limito a citare Filiberto Menna che riassume in nuce l’arte di Ricci affermando: “il tema dominante è sempre stato il rapporto tra arte e ideologia, dove per ideologia non deve intendersi un contenuto specificamente politico, ma piuttosto l’intenzionalità di porre la pittura a confronto con il reale e fare dell’arte uno strumento di conoscenza e di giudizio”6. Le parole di Menna oltre a definire la pittura di Ricci si addicono perfettamente alla narrativa di Bernari anche perché i due amici avevano le stesse idee sul ruolo dell’arte come conoscenza e come denuncia della realtà sociale, sull’onnipoliticità della vita e sulla teatralizzazione7 della vita nei vicoli napoletani. Inoltre, come introduzione al realismo e sperimentalismo di Bernari credo che sia utile ricordare che nel 1929 Carlo Bernard, Paolo Ricci e Gugliemo Peirce firmarono il “Manifesto dell’U.D.A.” che all’epoca voleva essere una dichiarazione antifascista, antifuturista e anticrociana e che privilegiava invece la macchina, la scienza e l’arte nuova. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento: 1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria. 2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento. 3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia. 4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno laciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte. 5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 etc. – e niente affatto perché i nostri problemi artistici siano più complessi. 6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione. 7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte 52 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova. 8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte. 9. L’arte è novità, la novità è arte”8. ***** Le prime opere di Bernari nascono in un clima di profonda crisi socio-politica ed economica che va dagli anni venti agli anni quaranta e cioè durante l’intero ventennio nero della dittatura fascista. Di conseguenza pessimismo, sfiducia, inquietudine, angoscia, attesa, incubi e paura sono le tematiche principali che dominano in Tre operai (1934)9; Quasi un secolo (1940); Il pedaggio si paga all’altra sponda (1943); Tre casi sospetti (1946, racconti lunghi scritti tra il ’42 e il ’45); e, Prologo alle tenebre (1947). A questi titoli andrebbero aggiunti molti racconti scritti nello stesso periodo e pubblicati molto più tardi10. Questo è anche il caso di parecchi saggi in origine apparsi in quotidiani e riviste e poi raccolti in vari testi a partire da Bibbia napoletana (1961) e Non gettate via la scala (1973) – due testi fondamentali per chi voglia conoscere a fondo l’uomo, lo scrittore e il teorico Bernari. La ristampa di Bibbia napoletana nel 1996, con un’introduzione di Antonio Ghirelli, contiene nell’appendice un documento di grande importanza. Enrico Bernard ha raccolto in “Album napoletano” 65 foto del Bernari fotografo11 (uno dei “cento”o “mille” mestieri, come l’autore amava definire la varietà di lavori da lui svolti). Le foto sono un’ulteriore testimonianza di come Bernari col cuore, col cervello e con gli occhi, sin dagli anni trenta, ha indagato e illustrato “l’animus napoletano”12 in modo tale da non cadere nelle trappole dei miti popolari e turistici della sua città nativa. Le rappresentazioni di Napoli, ad esempio in Tre operai, Speranzella (1949), Vesuvio e pane (1952), e Era l’anno del sole quieto (1964) illustrano perfettamente la sua arte di porsi davanti ad una città estremamente contraddittoria e cercare di penetrare le apparenze, come l’autore sostiene ne “Il paese delle anime”: “Così l’osservazione di Napoli come una realtà con le sue irrealtà diventava già una sfida a trovare ciò che essa aveva di più nascosto e geloso, ma altrettanto autentico” (Scala, 206). Dopo la morte dell’autore nell’ottobre del 199213 sono apparse tre opere che rivelano anch’esse i forti interessi di Bernari per le avanguardie artistiche e letterarie dai giorni del futurismo fino agli anni quaranta. Romanzesco ma non troppo (1992). Il testo, da me curato, raccoglie 11 racconti scritti negli anni trenta e all’inizio degli anni quaranta (apparsi in riviste e quotidiani non facilmente reperibili) e la ristampa di un piccolo capolavoro espressionistico e metanarrativo, Il pedaggio si paga all’altra sponda, scritto intorno al 1936. Il pedaggio è una storia fantastica ambientata nella stessa periferia napoletana che troviamo descritta in “Ciminiere e rifiuti”. Bernari appare nel racconto in prima persona, e cioè come autore-narratore delle vicende di due giovani, 53 ROCCO CAPOZZI Meuccio e Giovannina, soprannominata Micella per la sua apparenza, che muoiono ancora bambini. Ma, grazie all’immaginazione del narratore per far piacere ai loro genitori e ai lettori (si veda come il narratore ricorre ad espedienti metanarrativi quali “Facciamo un esperimento”, “Vediamo che cosa potrebbe fare Giovannina”, oppure “Proviamo a dare un lavoro a Meuccio”) ecco nascere una storia ipotetica (un “mondo possibile” – i cosiddetti possible worlds – della fiction costruiti con parole e fantasia)14 in cui Micella e Meuccio crescono e si sposano. Purtroppo a causa di malattie, difficoltà economiche e soprusi i due giovani muoiono in estrema povertà, esattamente come detta il destino per i poveri operai della “casa del gas”, e anche perché come il narratore spiega ai genitori dei bambini: “Prima o poi, tutti debbono pagare un pedaggio di sofferenza in questa società”15. Mentre per i lettori c’è la chiosa: “Questa narrazione interessò i miei ascoltatori, come sempre un romanzo d’appendice, d’abbrutimento e di morte, interessa gli animi semplici. Essi ritrovarono forse, nella mia storia, elementi di verità, una verità triste, avvilente, ma non meno amara di quella che essi erano costretti a vivere ogni giorno” (Pedaggio, 214). E credo che sia facile desumere che gli ascoltatori e lettori qui sono indubbiamente gli stessi amici e operai di “Ciminiere e rifiuti”. Nel 1993 esce L’ombra del suicidio (Lo strano Conserti), una storia di corruzione, di politica e di suicidi, scritta tra il ’36 e il ’37 ma tutt’oggi così attuale da far pensare agli scandali di “mani pulite”. Il manoscritto, rimasto smarrito per molti anni, fu ritrovato nell’estate del 1988 mentre Bernari ed io cercavamo alcune lettere scritte a Vasco Pratolini durante il suo soggiorno a Napoli. Pochi mesi prima che Bernari subisse un ictus, nel gennaio del 1989, riuscii a convincere l’autore che il romanzo andava pubblicato senza revisioni. Il romanzo è apparso con il solo cambiamento del titolo in quanto nel 1937 il manoscritto era intitolato Lo strano Conserti. Con una documentatissima introduzione di Eugenio Ragni, nel 1994 viene pubblicato Gli stracci. Il romanzo è in realtà la prima stesura di Tre operai composta tra il 1929 e il 1932 e che nel 1931 portava il titolo Tempo passato. Anch’esso vede la luce senza ritocchi editoriali e quindi ci permette una verifica dei primi esperimenti del realismo di Bernari in una narrativa “neo-oggettiva”. Faccio uso del neologismo per richiamare la “Nuova Oggettività”, la Neue Sachlichkeit tedesca, perché in essa Bernari vedeva nuove possibilità di rappresentare la realtà prima che apparisse il termine neorealismo. Nella discussione che segue sugli elementi figurativi nelle prime opere di Bernari16 si vuole illustrare come l’autore si sia formato nell’ambito di una cultura europea che abbraccia tra l’altro il cinema e l’arte espressionista, la “Nuova Oggettività” tedesca, il surrealismo francese, De Chirico e la pittura metafisica italiana, e i quadri di Mario Sironi. Questi sono, a mio avviso, i riferimenti artistici principali che costituiscono le “anxieties of influences” (come direbbe Harold Bloom) presenti nelle opere che vanno da Tre operai – l’opera forse più rappresentativa tra i cosiddetti romanzi capostipiti, o incunaboli, del Neorealismo italiano – fino alla composizione di Tre casi 54 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* sospetti. Nelle prime opere si nota facilmente come l’autore ci tiene a creare immagini e sensazioni con le parole. Di fatto, sono innanzitutto gli elementi figurativi a dare una carica di sperimentalismo al realismo di Carlo Bernari, e sono le immagini a trasmettere sensazioni e emozioni, sia quelle sentite dai personaggi che quelle che l’autore vuole far scaturire nel lettore. In Tre operai va riconosciuto il coraggio di un giovane autore che scrive un’opera controcorrente sia in senso ideologico-politico che in termini stilistici e linguistici che qui non avremo occasione di illustrare. Bernari all’epoca adottava varie tecniche linguistiche e pittoriche non per fare un’operazione di avanguardia ma perché questi esperimenti, oltre ad essere strumenti per rompere col naturalismo, servivano a velare delle denuncie contro il regime fascista – denuncie che, purtroppo, non sfuggirono alla censura. Sin dalle prime pagine di Tre operai si nota come Bernari ami rappresentare la sfiducia dei suoi personaggi verso la realtà socio-politica dell’epoca dissolvendo la realtà, artisticamente parlando, in aspetti simbolici, onirici, surrealistici e espressionistici. Dal 1972, vale a dire, a cominciare dalla mia intervista apparsa in parte in Italianistica nel 197517 ho sostenuto che una conoscenza degli interessi artistici di Bernari è essenziale per poter valutare la funzione simbolica dei colori e dei giochi di luce e di ombre che abbondano nelle sue opere dal 1929 fino al primo dopoguerra. Purtroppo, anche nelle pagine dei pochi critici che hanno ricostruito la formazione culturale di Bernari sono scarsi i riferimenti alla maturazione artistica e letteraria del giovane scrittore che seppe cogliere “il polline” culturale che viaggiava nell’aria di quell’epoca18. L’autore era conscio di queste lacune nei suoi critici e nella “Nota ’65” decide di segnalare ad esempio che Guido Piovene, nella recensione di Tre operai menzionava come dalle pagine di questo romanzo traspaiano la luce e i colori di Mario Sironi. Immagino che Piovene si sia soffermato su tantissime descrizioni di paesaggi urbani e periferici che abbondano nei primi capitoli di Tre operai, come ad esempio: Davanti a lui si estende il Vasto, segnato da miseri alberi di cartapesta. Si ode il rumore di un tram che si avvicina stridendo, la luce dall’interno della vettura si proietta a quadretti sul selciato (p. 20). Il caseggiato che si vide dal lucernario s’alza obliquo contro il cielo grigio con le sue finestre strette e nere e con la grondaia che fa un lungo scolo di ruggine (p. 30). Le persiane accostate lasciano scorgere una strisciolina azzurra di mare, un pezzo di molo e le nuove costruzioni di ferro del porto: i cilindri dei silos bianchi e le casette quadrate della dogana (p. 80). 55 ROCCO CAPOZZI Il romanzo è certamente saturo di questi quadri circumvisionisti, metafisici o sironiani (paesaggi urbani e di periferia), comunque va chiarito che sebbene Piovene riconosca i meriti di questa prima opera del giovane narratore egli rivela anche dei pregiudizi quando sostiene almeno due volte che l’autore non è “colto”19 e che forse ha imparato troppo in fretta da Verga, dalla poesia crepuscolare e dalle traduzioni di alcuni romanzi europei. In ogni caso leggiamo alcune parole di Piovene anche perché sembra che pochi le abbiano consultate avendo accettato ciò che Bernari dice nella “Nota ’65” dove riassume in una frase due paragrafi (“Nota”, p. 242) del critico. Il primo riguarda gli elementi pittorici: La luce in cui queste figure si muovono, è quella più consueta nei cosiddetti romanzi del novecento, specialmente stranieri. Li vedi, o meglio li intravedi imprecisi, in un’aria sporca, senza colori vivaci, con riflessi ora terrosi, ora d’un azzurro plumbeo come la lamiera: un’aria, direi, da quadro di Sironi. Vedi i volti rigidi, tagliati da ombre troppo forti, con trapassi di luce bruschi che li rendono inespressivi (p. 362). Il secondo si riferisce all’interpretazione della presenza degli oggetti e dell’ambiente, ed è interessante anche perché non potendo usare il termine “neorealismo”, perché allora il neologismo non era ancora applicato alla letteratura, Piovene esprime una nozione in cui vengono abbinati naturalismo e crepuscolarismo: E si capiscono, infine, in quest’arte, le interminabili enumerazioni degli oggetti che attorniano le vicende umane, e che col semplice loro apparire devono esprimere un senso di stanchezza umana: perché quest’arte, parli di cose o d’uomini, è tutta un sunt lacrimae rerum (p. 365). Nella “Nota ’65” Bernari offre diversi suggerimenti a coloro che vogliano indagare i richiami intertestuali riconoscibili nel suo primo romanzo in cui troviamo, come osservò giustamente Remo Cantoni, un “realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose” (“Nota”, p. 242). Comunque né nella “Nota ’65” né nei nostri dialoghi a Roma e a Gaeta e nella nostra corrispondenza, per circa venti anni, Bernari non ha menzionato che Goffredo Bellonci nel discutere Tre operai20 assieme a Tre casi sospetti parlò di un “realismo spettrale” riferendosi agli effetti della luce e dei colori. Bellonci oltre ad essere stato il primo lettore di “Tempo passato”, viene citato da uno dei fedeli critici e amici del Nostro, Walter Mauro. In Tre operai si nota chiaramente l’intenzione di drammatizzare ambiente e personaggi tramite la luce (sia solare che lunare), le ombre, i colori, le nubi, la pioggia, il vento e l’inquinamento per far risaltare in primo piano le senzazioni inquietanti, quali il pessimismo, l’attesa e la paura, che affliggono la società. Con i suoi tagli pittorici Bernari vuole mettere in risalto delle immagini che vanno al di là 56 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* dell’immediato realismo della rappresentazione dell’ambiente. E questo potrebbe essere il fattore principale che rende la sua narrativa troppo concettuale e sperimentale e meno realista per i critici che si aspettavano realismo e impegno dagli autori della cosiddetta era neorealista. Ad agire sul giovane scrittore, assieme all’ambiente socio-politico, fu indubbiamente l’intera cultura del tempo che, come rievoca l’autore “si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film” (“Nota”, p. 243). Bernari anziché rifiutare l’elenco delle possibili letture di scrittori italiani e stranieri che avrebbero influenzato la composizione di Tre operai, vi aggiunge altri nomi di illustri autori, registi e artisti che in quell’epoca fornivano il cosiddetto “polline culturale” alle coscienze più avvertite21. Inoltre egli afferma che la composizione del primo romanzo inizia subito dopo il suo breve soggiorno parigino e suggerisce che questo è un riferimento importante per accertare “se e quante delle esperienze vissute in Francia si trasferiscono in Tre operai e/o se addirittura non ne favoriscono la nascita” (“Nota”, p. 247). Detto ciò non significa che la breve esperienza in Francia costituisca l’inizio degli interessi artistici di Bernari. Da bravo autodidatta, l’autore coltivava già da tempo il suo temperamento artistico, e quindi i contatti con scrittori e artisti surrealisti, come pure i tantissimi film russi e tedeschi visti a Parigi non fanno che consolidare i suoi interessi per delle tecniche pittoriche e cinematografiche che egli aveva imparato ad apprezzare a Napoli accanto all’inseparabile amico fraterno artista, teatrante, sceneggiatore e critico d’arte Paolo Ricci22 e al cugino, architetto e artista, Guglielmo Peirce, ambedue ritratti in vari racconti e romanzi di Bernari23. I tre, ricordiamo, avevano vissuto da vicino le esperienze del “Circumvisionismo” e del futurismo napoletano e anche se solo indirettamente, erano venuti in contatto con le prime nozioni freudiane che risalivano alle lezioni di Freud all’introduzione della psicoanalisi dal 1915 al 1917. Dopo tutto, le nozioni su simboli manifesti e simboli latenti, associazioni libere, come pure su condensazione, composizione24 e deformazione, e sull’intera dinamica del simbolismo onirico circolavano con tante altre idee nel “polline culturale” dell’epoca ed erano state assorbite sia dalla pittura che dalla narrativa europea. Ad esempio si pensi ai lavori di Italo Svevo, Max Ernst e André Bréton, tanto per fare alcuni nomi. Comunque, oltre ad artisti post-impressionisti e espressionisti come Oskar Kokoschka, Egon Schiele, Edvard Munch e Emil Nolde, conosciuti da Bernari, Ricci e Peirce, andrebbe indagato quanto della cultura della Repubblica di Weimar (1918-1933) è filtrato nelle opere del primo Bernari. Tra gli artisti più conosciuti della cultura tedesca di quest’era cito Bertold Brecht per il Teatro, Fritz Lang e Friederich Murnau per il cinema, e Alfred Döblin e Thomas Mann per la letteratura – tutti nomi che Bernari ha menzionato spesso nei suoi saggi. E naturalmente si dovrebbe esaminare quanto della “Nuova Oggettività”25, innanzitutto quella di artisti come Otto Dix e Georg Grosz che denunciavano le 57 ROCCO CAPOZZI angosce e inquietudini della società operaia, sia stata assimilata da Bernari, Ricci e Peirce prima del loro soggiorno a Parigi. E per quanto riguarda gli operai non credo di aver mai visto menzionato il capolavoro di Guido Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato (1902) in rapporto alla scena finale di Tre operai dove Bernari, nel sogno di Teodoro, tra surrealismo e allegoria, suggerisce che la classe operaia non può morire. Infatti come l’autore spiega nella “Nota ’65”: “la classe operaia per quanto inchiodata non si dà mai per vinta”(“Nota”, p. 256). Sia da giovane che da adulto, oltre alla pittura, Bernari amava molto il cinema perché amava l’arte di far parlare le metafore mute e i simboli delle immagini. A proposito di cinema, si può notare un bellissimo esempio di come l’autore applichi delle tecniche filmiche all’inizio di L’ombra del suicidio (Lo strano Conserti): La maniglia gemé con suono molesto, i cardini emisero uno stridio e la porta si aprì lentamente come mai era avvenuto, sino a battere contro il muro; e comparve il Consigliere Delegato; era lui, non potevano esserci dubbi. Con moto simultaneo tutti piegarono il capo in segno di saluto, benché nessuno conoscesse il visitatore; ma era il Consigliere Delegato, certamente, colui che entrava, con tanto frastuono, seguito da dieci persone tutte calve, con occhiali e cravatta a farfalla, che si fermava con aria di padrone al centro dell’ufficio e non salutava gli impiegati. [...] Solo Conserti, mentre i compagni pronunciavano un timido buonasera, si mise a passeggiare con aria che dissipasse i sospetti nell’ambiente dominato da greve silenzio, sul quale, come in uno schermo bianco le ombre, si proiettarono con improvvisa chiarezza le voci e i rumori della stanza (p. 7). La scena è molto simile alla descrizione dell’arrivo del protagonista all’inizio del racconto “Il Pugliese,” scritto nel 1942: Un colpo di vento, spalancando la porta, lo aveva sospinto nello studiolo che faceva da anticamera all’officina: per un poco s’era visto il cielo nero precipitarsi verso l’uscio aperto; poi tra mulinelli di polvere e calendari che volavano sulle pareti, era comparso il Pugliese, lentamente, con un passo che sembrava smentire l’estremo bisogno che rivelavano i vestiti non suoi, ma chiaramente appartenuti ad altra persona, ed ora finiti sulle sue spalle come un attaccapanni (p. 3). A questi ingressi drammatici possiamo avvicinare numerosi esempi da Tre operai quali: Ecco infatti Marco e Teodoro fare ingresso nella stazione, portando una valigia per uno. Salgono in uno scompartimento di terza classe, dove ci sono soldati e marinai che cantano (p. 87). Eccoli soli, incamminati a piedi lungo via Caracciolo, sotto un cielo che si 58 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* smaltava di un blu metallico (p. 181). E aggiungerei che l’uso del presente abbinato alla tecnica cinematografica di avvicinarsi ai personaggi e seguirli mentre si muovono qui ci fanno pensare alla “teoria del pedinamento” diffusa nel cinema neorealista dall’amico di Bernari, il famoso regista e scrittore Cesare Zavattini che nel 1934 fece pubblicare Tre operai dalla Rizzoli. Quando Bernari specifica nella “Nota ’65” che nel riscrivere Tre operai “i riferimenti ambientali subirono alterazioni: vennero configurandosi, diversamente dalla prima stesura, con prospettive, esasperate, atmosfere allusive, in una sfocata dilatazione di effetti visivi, a mezza strada tra espressionismo e metafisica” (“Nota”, pp. 240-41), egli in effetti dichiara come il surrealismo, De Chirico, Sironi, l’arte e il cinema hanno tutti stimolato e influenzato il suo progetto di svelare e allo stesso tempo denunciare le angosce e le paure che l’ambiente fascista incuteva sempre più oppressivamente sugli individui. In breve, per Bernari le arti figurative sono tanto importanti quanto le opere letterarie di autori come Kafka e Lautréamont nel raffigurare ansie e paure26 e cioè nel tradurre simbolicamente, incertezze e inquietudini in un realismo espressionistico e spettrale realizzato tramite giochi di luce, di colori, di ombre e di forti contrasti di bianco e nero. Da Tre operai a Prologo alle tenebre gli elementi pittorici aiutano l’autore a drammatizzare, con maggiore forza espressiva, le pagine in cui ambiente e personaggi sembrano afflitti da un’abulia immobilizzante e allo stesso tempo lo aiutano ad intensificare la tensione che nasce dallo scontro tra individuo e realtà socio-storica. Per cui credo che sia logico pensare anche alla pittura metafisica di De Chirico. Mi riferisco specificamente alle “Piazze d’Italia” e ai monumenti desolati dove le lunghe ombre e gli acuti contrasti di luce seguono delle linee geometriche (triangolari o cubiche)27, mentre gli oggetti e le rare persone, spesso raffigurate dalle ombre, suggeriscono spaesamento e mistero. Comunque, in ultima analisi bisogna tener presente che il ricorrere al metafisico o al surreale in Bernari serve sempre ad arricchire la narrativa di implicazioni psicologiche e socio-politiche. Prima di illustrare come l’autore ha raffigurato paura e inquietudine nelle sue prime opere credo che sia utile richiamare alla memoria alcuni aspetti dell’Espressionismo. Tra le acute osservazioni di Thomas Harrison nel saggio 1910. The Emancipation of Dissonance, troviamo una definizione dell’espressionismo letterario che si può applicare facilmente alla tecnica bernariana nel raffigurare l’ambiente dell’epoca, abbinando il simbolismo al naturalismo: Expressionism finds its path between symbolism and the other aesthetic that it inherits: naturalism, or the “crude” and “overly realistic” depiction of positive, historical life. Just as expressionism naturalizes the domain of the 59 ROCCO CAPOZZI symbol by tying it to everything it wishes to transcend, it also makes the natural symbolic”28. Per le tecniche filmiche dell’espressionismo citiamo una nota di Luigi Chiarini: Le linee oblique, spezzate, come i violenti contrasti di bianco e nero dipinti, tendevano a creare un’atmosfera di angoscia. Non le cose ma la proiezione dell’io sulle cose [...] Un’importanza particolare hanno i valori luministici [...] si è ottenuta, così, una deformazione antinaturalistica che risponde allo spirito29. Nonostante la citazione si riferisca a film ben noti quali Il gabinetto del Dr. Caligari (1920), Nosferatu (1921), o Metropolis (1923) vedremo che anche questa fa pensare ai primi romanzi e racconti di Bernari. Altre conferme delle forti similarità tra le tecniche figurative di Bernari e le teorie dell’espressionismo le troviamo nei saggi raccolti in Caos e geometria a cura di Paolo Chiarini. Mi riferisco a nozioni che accentuano la forma, la luce e i colori per dissolvere “la rigidità naturalistica, ponendola in movimento”30: L’espressionismo può definirsi come espressione dello spirituale tramite la forma. Gli ingredienti materiali della forma sono, per le arti figurative, la linea, la superficie e la luce (il colore)31. Nella natura noi non percepiamo ovunque la luce [...]. La luce sembra scorrere, lacera le cose. Cogliamo distintamente brandelli di luce, strisce di luce, fasci di luce [...]. Fra alte file di case ci abbaglia un tumulto di chiari e di scuri32. A cominciare da Tre operai, il continuo sperimentare con atmosfere allusive a metà strada tra espressionismo e metafisica è dovuto al fatto che il giovane Bernard non intendeva descrivere naturalisticamente uno spaccato di società, ma preferiva invece raffigurare l’ambiente napoletano – intendiamoci, non quello cartolinesco con il pino, la baia azzurra e il Vesuvio fumante nel retro scena, ma invece quello della “terza Napoli industriale” che “si estendeva dal Vasto al Pascone, da San Giovanni a Teduccio a Torre Annunziata”33 (“Nota”, p. 273) – , in una serie di quadri intesi a rispecchiare tanto lo squallore quanto le inquietudini e frustrazioni dei suoi personaggi. Dunque, gli ambienti urbani e industriali raffigurati nei quadri come quelli di Sironi, anche se con intenzionalità socio-politiche diverse34, sono degli ottimi echi intertestuali che ci aiutano a visualizzare ed apprezzare più ampiamente le descrizioni di Bernari dei gasometri, delle fabbriche e dei paesaggi, quasi tutti cupi o grigi, se non proprio neri. In altre parole nella pittura Bernari aveva trovato quello che T. S. Eliot chiamava gli “oggettivi correlativi” per far scaturire dalle sue descrizioni reazioni mentali e sensoriali. Inoltre, per drammatizzare il clima oppressivo e il 60 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* senso di squallore sentito dai personaggi, agli effetti cromatici in Tre operai si aggiungono elementi di sinestesia dove l’olfatto vien fuso con la percezione visiva e auditiva dell’ambiente industriale: L’ipoclorito e il bisolfito dànno nausea. Eppure i due odori si avvertono solo a mezzogiorno [...]. Il caseggiato che si vede dal lucernario s’alza obliquo contro il cielo grigio con le sue finestre strette e nere e con la grondaia che fa un lungo scolo di ruggine (p. 10). Dalle tre ciminiere dell’officina del gas il fumo va ad infilarsi nei balconi del palazzo contiguo dalle tendine nere, dalle tappezzerie sporche. Il gas spande per l’aria un odore nauseante, insieme ad un assordante rumore di macchine e di cinghie di trasmissione. Sul fondo livido del Vesuvio si stacca la torre scura della fabbrica di piombo con le sue feritoie di raffreddamento strette e nere (p. 44). Nel saggio “L’arte è paura: ovvero la realtà della realtà”35 Bernari parla della paura come sentimento estetico e di come egli l’abbia spesso sfidata, esorcizzata, lavorandosela dentro con la ragione e cioè, narrativamente parlando, oggettivandola nelle sue opere (nozione commentata dall’autore sia nella “Nota ’65” che nella mia “Intervista” del 1972 (cfr. p.149): Se il fascismo era uno dei travestimenti della paura, pensavo che lo scrittore dovesse imporsi il compito di sfidare l’una per l’altro: bisognava lasciarsi invadere dalla paura, lavorarsela dentro con la ragione, assottigliandola sempre più, sino ad annullarla nel coraggio che se la ripropone come limite da superare. (“Nota”, p. 244). La paura è un’emozione forte che condiziona molti dei personaggi bernariani del “ventennio nero”36, e anche quando non viene menzionata, l’autore riesce a renderla presente come angoscia, timore, ansia, fobia, terrore, e panico grazie agli elementi pittorici. In Tre casi sospetti Bernari manifesta la paura nei suoi aspetti più paralizzanti. Il Pugliese e Cupris, nei racconti omonomi, testimoniamo perfettamente come la paura provoca insicurezza e alterazioni sia psicologiche che fisiche. I due protagonisti sono infatti delle vittime che scelgono illusoriamente il silenzio, la solitudine e la fuga per evadere il sospetto e la paura di cadere nelle mani dei loro oppressori. Se con la luce solare Bernari si è a volte divertito a creare svariati giochi luministici che rievocano la pittura futurista e circumvisionista, è certamente con le ombre e il biancore lunare ch’egli realizza numerosi effetti spettrali intesi ad intensificare la drammaticità psicologica dei personaggi e dell’ambiente come ad 61 ROCCO CAPOZZI esempio in Tre operai: “L’ombra del compagno scivola di traverso sul muro bianco di una fabbrica di conserve” (p. 46). Oppure nei numerosi esempi in Quasi un secolo, come: Di Posillipo si scorgeva la punta nera, bucata da mille luci, sospesa nell’aria come una nube. Le stelle lumacavano fredde nel cielo. Lampare scorrevano lungo gli scogli neri, rivelandone il fondo in una chiarità spettrale (p. 81). Il pugnale, conficcato attraverso la tenda, lo reggeva per la nuca in una fissità spettrale (p. 82). Un velo di luna gelata ricopriva gli alberi spogli e accendeva gli stagni (p. 329). La valorizzazione simbolica dell’ombra e del colore nero è un procedimento che per ovvie ragioni politiche troviamo con maggiore rilievo in opere antifasciste come Il Pedaggio si paga all’altra sponda, Tre casi sospetti, Prologo alle tenebre e Quasi un secolo e cioè dove le impressioni espressionistiche, metafisiche o surrealistiche sono chiaramente funzionali e quindi parte delle strategie narrative del Nostro. Basta vedere due esempi in cui i tormenti del sentirsi perseguitati fanno scaturire incubi sia notturni che diurni nei personaggi. Il primo riguarda Micella: Ella vide montare, spezzata sui gradini, l’ombra di lui con la testa appoggiata come una sfera sulla parete di fronte, vide l’ombra di lui aprirsi a guisa di ragno e con mille braccia scivolare per le scale e sparire (Pedaggio, p. 22). Il secondo si riferisce a Cupris: Ma le ombre già si allungavano sul selciato, e l’ombra di colui che lo seguiva si fuse alla sua e giunsero insieme alla torre. Qui le due ombre ebbero di colpo le teste mozzate dal buio del portoncino (Tre casi, p. 240). In Tre casi sospetti Bernari si è indubbiamente abbandonato più che altrove ad evocare impressioni d’ordine surrealistico e kafkiano per creare un “realismo spettrale”. Il disegno kafkiano, ma estremamente politicizzato (Capozzi, “Intervista”, p. 149), qui soccorre l’autore nel sottolineare l’incombente incubo che deriva dalle condizioni oppressive del regime fascista. Di conseguenza l’autore ricorre più liberamente ai colori, agli effetti di luce e alle sensazioni di mistero che trasformano lo spazio in una serie di valenze simboliche. Si vedano ad esempio scene quali: I borghigiani vestiti di nero, coi cappelli neri come ali di grossi uccelli, spiavano tra i rami senza parlare (“Il Pugliese” p. 94). 62 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* Gli ombrelloni e i tendoni, sorretti da mille mani, si fondevano talvolta fino a formare un cielo nero e umido sotto cui passavano, di tanto in tanto, come fuggevoli lampi, dei pipistrelli attratti dalla stessa luce dei lumi e delle torce (“Minutolo” p. 119). Gli effetti cromatici in Tre casi vengono ripetuti con una notevole frequenza in modo tale che i leitmotiv stabiliscano un ritmo stilistico e allo stesso tempo rafforzino le sensazioni di mistero, ansie e paure che tormentano i protagonisti. Per esempio, nel primo racconto, “Il Pugliese”, incontriamo due immagini ripetute a breve distanza: La luna correva sull’acqua che recava di lontano un odore di terra bagnata (p. 67, poi pp. 68 e 69). Passò il silenzio con la sua ala greve e nera (p. 90; cfr. anche pp. 91 e 92). È interessante notare che in Prologo e in Tre casi sospetti i colori giallo, rosso e verde spariscono quasi completamente per dare ampio spazio al bianco e al nero. Sia le ombre che il colore nero qui si rivelano come felici metafore dello stato d’animo degli individui e allo stesso tempo del colore che meglio descrive la realtà socio-politica. Si vedano quattro esempi da Prologo alle tenebre: silenzi bianchi, rotti da nere parole. (p.109) Anche l’ombra è scomparsa dalle strade, anche l’eco. Un silenzio ora tutto bianco ora tutto nero si alterna in quel deserto di detriti, di ferri contorti. (p. 211) Trascorsero dei mesi neri e lunghi, i più lunghi e neri da molti inverni in qua [...]. (p. 220) Vedevo la sua ombra scivolare sull’asfalto sbiancato dalla luce intensa dell’estate [... ]. Le ombre correvano sul selciato, come in una lanterna magica, oppresse dalla paura [… ]. La mia ombra si mescolava, anch’essa labile, alle altre [...]. (p. 264) In breve, ribadiamo che la dinamica del conflitto tra luce e ombra, e bianco e nero, è uno degli elementi espressionistici pittorici e filmici che Bernari sfrutta nelle sue opere da Tre operai in poi durante il ventennio fascista. E quindi, se si insiste tanto sugli effetti visivi di queste prime opere è perché in questi elementi si riconoscono le fonti della poetica bernariana nel risolvere i dati realistici in 63 ROCCO CAPOZZI “libera fantasia” (espressione che piaceva molto a Bernari)37. Naturalmente il momento storico, la cultura e la censura allora vigente ebbero un notevole ruolo nella scelta delle tecniche adottate dall’autore. E quindi la fusione di realismo, simbolismo e allegoria surrealistica va vista innanzitutto come mezzo per analizzare la realtà sociale e onnipolitica nei suoi aspetti più ambigui e poliedrici. Inoltre va ribadito che queste due componenti della narrativa bernariana, quella realistica (storico-saggistica) e quella inventiva (fantasticosimbolico-allegorica) sono complementari e intrinseche al realismo nell’intera opera dello scrittore. L’uso di elementi fantastici all’epoca avrebbero fatto pensare giustamente a delle possibili influenze del “realismo magico” di Massimo Bontempelli. E se consideriamo che il giornalista e aspirante scrittore Bernard conosceva molto bene le opere metafisiche di Bontempelli quando lo intervistò a Napoli nel 192938, è ancora più facile assumere che tra il realismo magico e il realismo spettrale ci siano dei nessi. L’autore invece ritiene che sono innanzitutto le opere di Kafka e Les Chants de Madodor di Lautréamont a suggerirgli un’operazione di “transfunzionamento” della paura e del mistero nel suo lavoro. Bernari usa specificamente il termine “transfunzionare” per richiamare Thomas Mann39 il quale aveva “transfunzionato” dei miti biblici nella sua narrativa, come ad esempio in Giuseppe e i suoi fratelli. Ciononostante, con qualche eccezione, né Bontempelli, né Kafka, né Lautréamont, né il surrealismo francese, tantomeno il circumvisionismo napoletano e la pittura metafisica italiana furono presi in considerazione come strategie intertestuali nelle opere del primo Bernari che con coerenza e costanza voleva rappresentare la realtà con “oggettività culturalizzata”. Anzi, direi che a cominciare, come già ricordato, dalle recensioni di Piovene e Bellonci si notano dei pregiudizi in quanto le tecniche pittoriche, gli esperimenti linguistici, e gli esempi di meta-narratività, vengono spesso ingiustamente considerati come manifestazioni di eccessivo sperimentalismo ed eclettismo. Carlo Bernari rimane uno dei maggiori esponenti nella narrativa italiana del dopoguerra non solo per il suo forte impegno socio-storico ma anche per le sue strategie narrative nel fondere storia, cultura, realismo e sperimentalismo linguistico-rappresentativo come strumenti di conoscenza. In tutta la sua opera l’autore ha costantemente fuso la ricerca esistenziale dei suoi personaggi con l’indagine sociologica e storica dell’ambiente per svelare verità e contraddizioni (pubbliche e private) nell’inconciliabile scontro tra individuo e società, tra operai e borghesi, e tra intellettuali e potere. Quando nel 1974 chiesi all’autore se concordasse con la mia definizione di Bernari realista critico ecco come mi rispose: Tutte le definizioni mi trovano concorde: realismo critico, realismo dialettico, eccetera; purché si aggiunga alla formuletta (in sé inconsistente, giacché non definisce che il solo aspetto esteriore del realismo) che critico va inteso nel senso di crisi; e dialettico va interpretato all’interno, vale a dire 64 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* nella molteplicità di un rapporto, che si risolve con un accrescimento della stessa realtà per gli apporti dell’arte. Si vuol concludere con ciò che in natura non esistono solo gli alberi o i rovi di biancospino, come li elenca la botanica, ma fra i primi c’è anche l’albero di Corot (o del Giorgione se si preferisce un richiamo più classico, cioè meno sospetto di romanticismo); come, fra i secondi, c’è il rovo di biancospino di Proust, entrati a far parte dell’oggettività, ai quali l’artista non può esimersi dal riferirsi dovendo operare successivamente la sua scelta critica nella realtà circostante, fatta di alberi o di rovi di biancospino40. Alla fine di agosto del 1988, in un piccolo ristorante buio nei pressi di Ponte Milvio, ebbi l’ultimo colloquio con Carlo e gli chiesi se voleva essere conosciuto come un autore impegnato; la sua risposta ci riporta all’inizio del nostro discorso e ai rapporti tra Paolo Ricci e Bernari: Se per impegno s’intende l’engagement sartriano, cioè quell’obbedienza alle regole politiche di questo o quel partito, mestiere che fu battezzato da pifferi, certamente mi trovi congedato. Se invece per impegno vuol intendersi rettamente quel processo che trova lo scrittore come coscienza e come conoscenza conflittuale del mondo reale, allora mi reputo più che impegnato, asservito a quest’opera alla quale mi sono votato da molti decenni41. E quindi, realismo spettrale, realismo critico, realismo linguistico, o qualsiasi altro tipo di realismo che possiamo identificare nelle opere di Bernari, va ribadito che alla base della sua narrativa c’è sempre la realtà socio-storica abbinata all’arte e alla cultura del tempo. La sua finzione è sempre ricchissima di richiami alla realtà e alle verità nascoste della società che viene descritta e indagata in ogni opera. In breve, è sempre la realtà a mettere in moto la fantasia dell’autore. Ma una volta che la realtà, come quella della sua città nativa, entra nell’immaginazione di Carlo Bernari, e cioè una volta che si dissolve in “libera fantasia”, ecco come questa diventa una menzogna narrativa ben costruita, o meglio, un’ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto la cosiddetta realtà che ci circonda. __________ NOTE *In appendice accludo alcune lettere indedite della nostra corrispondenza. Buona parte delle lettere verranno depositate nell’“Archivio Bernari” all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. 65 ROCCO CAPOZZI 1 Bibbia napoletana, Firenze: Vallecchi, 1961. Edizione illustrata a colori, con una tiratura di circa mille copie; nel 1977 appare l’edizione economica, senza le illustrazioni, col titolo Napoli silenzio e grida e con una dedica a Paolo Ricci. Nel 1999 la Newton Compton ristampa BN riproducendo l’edizione originale con le immagini in bianco e nero e con delle foto del Bernari fotografo in appendice. Le citazioni di “Ciminiere e rifiuti” e le altre da Bibbia napoletana vengono dall’edizione della Newton Compton e riferite con l’abbreviazione BN. 2 Catologo, Camillo Catelli, pp. 19-20. 3 Per un discorso più approfondito si veda l’ottimo studio di Matteo D’Ambrosio: I Circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo (1996). 4 In “Questioni sul realismo”, in Non gettate via la scala, pp.107-12, Bernari aveva ancora una volta discusso questo processo di simbiosi. 5 Si vedano le lettere in appendice. Le lettere di dicembre 1989 sono le ultime due lettere scritte da Bernari prima dell’ictus. 6 Dal “Catalogo della mostra antologica di Paolo Ricci”, Todi (11 aprile-5 maggio 1974). Si veda pure il contributo di Menna, “Un normanno a Napoli”, in Paolo Ricci. Opere dal 1926 al 1974, pp.13-17. 7 Rimando a un mio articolo “Miti e teatralità nelle opere di Bernari” dedicato alla memoria dell’autore. Per quanto riguarda il teatro ricordiamo che Ricci e Bernari erano grandi amici di Viviani e Edoardo De Filippo e che l’idea di Napoli milionaria nasce di fatto in Villa Giulia dove risiedevano Ricci e De Filippo. 8 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti. Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al mio saggio monografico Bernari tra fantasia e realtà (1984); qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Una delle sorprese nel completare la ricerca per questa relazione è arrivata dall’internet. Sul sito di Daniele Lombardi si legge: “Il 9 giugno 1929 sul Corriere d’America a New York apparve il Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. ( Unione Distruttivisti Attivisti) di Napoli, firmato da Carlo Bernard, Guglielmo Peirce e Paolo Ricci; nel quinto capitolo di questo scritto si tratta della macchina come strumento ultilitariastico e antiemotivo”. Credo che sia la prima volta che qualcuno accenni al fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo la pubblicazione a Napoli. 9 Tre operai (1966), p. 44. Le citazioni al romanzo e alla “Nota ’65” provengono da questa edizione e appaiono nel testo con le abbreviazioni T.O. e Nota. 10 Ad esempio: “Erba nera” e “Una porta che non s’apre”, due composizioni surrealistiche composte intorno al 1941, appaiono nel 1951 in Siamo tutti bambini e poi in Alberone eroe e altri racconti non esemplari (1971). 11 Un’altra testimonianza del Bernari fotografo si trova nella ristampa de Il Gigante Cina, a cura di Enrico Bernard. Le foto fanno parte di un saggio scritto dopo il viaggio in Cina nel 1950. Interessante che quando Bernari arriva in Cina nota subito delle somiglianze tra i cinesi e i napoletani: “Solo in Cina ho trovato 66 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* qualcosa che somigli a Napoli: un teatro delle contraddizioni, affollato di spettatori che recitano le loro contraddizioni” (BN, p. 195). 12 Rimando innanzitutto all’articolo dell’autore “Il paese delle anime” che è anche il titolo della parte IV dedicata a Napoli in Non gettate via la scala, Milano: Mondadori 1973 (le citazioni vengono da questa edizione e nel testo l’opera viene abbreviata con “Scala”). Nella raccolta troviamo utilissimi saggi sulla nozione del realismo in Bernari e come pure i saggi sulle genesi sia di Tre operai che di Era l’anno del sole quieto, Le radiose giornate e Un foro nel parabrezza. 13 Carlo Bernari viene colpito da un ictus a gennaio del 1989. Dopo circa tre lunghi anni di sofferenza – una paralisi che gli toglie sia la parola che la facoltà di scrivere – l’autore muore il 22 ottobre del 1992. 14 Sui possible worlds si veda innanzitutto Thomas Pavel, Fictional Worlds, Cambridge: Harvard University Press, 1986. 15 Questa nozione del destino crudele degli operai era già presente nelle prime pagine di Tre operai nel dialogo tra Teodoro e suo padre, come pure nel titolo del terzo capitolo: “Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai” (p. 22). 16 Per un’analisi più dettagliata rimando alle mie pagine in Carlo Bernari. Tra fantasia e realtà (1984), pp. 37-46; e “Metafisica e Neue Sachlikcheit in Bernari”, in Nord e Sud (2000-2001). 17 Delle circa sei ore di registrazione nel dicembre 1972, il meglio è apparso nella rivista Italianistica nel 1975. La nostra corrispondenza era iniziata dopo il nostro incontro nella primavera del 1969 e a cominciare dall’autunno del 1972 iniziarono degli scambi epistolari che si rafforzarono sempre di più man mano che iniziarono le mie pubblicazioni sulle sue opere. 18 “Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno nei libri e nei film. Credevamo di essere fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella cultura ci ispirava”; “le idee viaggiano nell’aria come il polline e una coscienza avvertita sa sempre da dove spira il vento giusto”; “Nota ’65” in Tre Operai (Mondadori 1966, p. 251). La “Nota” scritta per la ristampa di Tre operai nel 1965 accompagnerà ogni ristampa. 19 L’intervista di Guido Piovene apparse sulla rivista Pan, II (1934), pp. 762765. 20 La recensione a Tre operai appare in Il giornale d’Italia, 29 marzo 1934. La recensione di Bellonci viene segnalata da Bernari nella “Nota ’65”, assieme a quella di Piovene, di Vittorini e di altri scrittori e critici. Nella recensione Bellonci aggiunge che il nuovo titolo e le revisioni che accompagnano la pubblicazione del 1934 sono validissime. Comunque egli asserisce di aver letto la stesura precedente che portava il titolo “Tempo passato” circa un anno prima. A nostro avviso se Bellonci ha letto “Tempo presente” e non la stesura de “Gli 67 ROCCO CAPOZZI stracci” (si veda E. Ragni nell’introduzione a Gli stracci) è possibile che l’abbia letto molto prima e quindi intorno al 1931-32. Quanto al realismo spettrale, Walter Mauro ne parla in “La Napoli di Bernari” e poi nella voce “Bernari” per I Contemporanei della Marzorati. 21 “Così, agli exempla che mi venivano attribuiti da fuori mano (Céline, Döblin, Dos Passos, Werfel) dovrei ora aggiungere Gorki, Dreiser, Charles-Louis Philippe, e poi Malraux, e soprattutto Guilloux; senza contare i più classici Dostoijevski e Lautréamont, per quel tanto di tenebroso che filtra nelle pagine di Tre operai” (“Nota”, p. 270). 22 Già dagli anni venti a casa di A. D’Ambrosio, nella “Libreria del 900” di Arcuno, e a casa di Paolo Ricci a Villa Giulia, tantissimi artisti e intellettuali si radunavano per discussioni, dibattiti e scambio di informazioni. Casa Ricci era frequentata non solo da molti artisti napoletani ma anche da autori quali De Filippo, Viviani, Guttuso, Pratolini, Gatto e Alvaro, tanto per fare i primi nomi. 23 Le attività dei tre amici vengono narrate in racconti come “Bettina ritrovata”, in Per cause imprecisate (1965) e in romanzi semi-autobiografici quali Amore amaro, Prologo alle tenebre e ne Le radiose giornate. Le stesse attività vengono richiamate con una certa distanza critica, e con nostalgia, nell’ultimo romanzo di Bernari: Il grande letto. Per le esperienze vissute con Ricci durante la guerra, si vedano molte pagine in Vesuvio e pane. 24 Nella “Lezione 11”, dove associa sogno e immaginazione creativa, Freud afferma: “La fantasia ‘creatrice’ non è in grado di inventare assolutamente nulla, ma solo di mettere insieme elementi estranei tra loro” (p. 156). L’osservazione ci sembra utile per le opere del surrealismo, della metafisica e del realismo magico dove le associazioni tra oggetti, persone e ambiente non sono facilmente interpretabili. 25 La prima mostra degli artisti della “Nuova oggettività” ebbe luogo a Mannheim nel 1925, lo stesso anno che Franz Roh pubblica Dopo L’espressionismo. Realismo Magico. Nella sezione III del Manifesto UDA si nota che i tre conoscevano sia le opere della “Nuova Oggettività” sia il saggio di Roh: “cfr. punto 5: “In Germania il movimento iniziato da Franz Ro(c)h (sic) col suo Magesher Realismus è stato il primo tentativo, ancora romantico, di realismo, che come sviluppo naturale, ha avuto il neo oggettivismo attuale” (UDA p.154). 26 Alla mia domanda se il “realismo magico” abbia avuto molto peso sulla sua prima narrativa, Bernari risponde: “Credo anch’io che il realismo magico c’entri ben poco, Kafka sí, invece, e per quanto possa sembrare assurdo, Lautréamont, che in questi anni tradussi assiduamente, proprio per tentare un innesto sociologico del Kafkismo, e per sottrarmi cosí ai condizionamenti fascisti della realtà, transfunzionando quest’ultima in chiave di selvaggio e di paura, una contaminazione dove etnologia e demonico si dessero la mano” (Lettera, 20 maggio 1972). 27 Per quanto Era l’anno del sole quieto (1964) entri nel quadro di quella letteratura che dal 1957, dopo la pubblicazione di Donnarumma all’assalto di 68 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* Ottiero Ottieri, viene battezzata, “letteratura e industria”, possiamo capire perché Bernari fosse d’accordo con chi scrive che questo romanzo rimane una delle sue più acute disanime delle “piaghe del meridione”, e che assieme a Tre operai, costituisce uno dei due pilastri di un ponte su cui scorrono la più parte delle sue tecniche, tematiche e strategie narrative. In Era l’anno del sole quieto si notano ancora alcune delle tecniche visive adottate dal Nostro negli anni trenta. All’inizio del romanzo troviamo la seguente descrizione di un paesaggio urbano napoletano (qui molto moderno) in cui le forme e i tagli geometrici sono ben evidenti: “Lievemente declinante verso le stazioni di due reti suburbane, si svolgeva ad ampie curve circuendo un panorama che soggioga chiunque lo abbracci con un solo sguardo; analizzato però di tratto in tratto, sino al mare, esso si rivela una tavola di geometria fitta di cubi, parallelepipedi, dodecaedri, assurdamente affastellati su un termitaio vociante, tumultuoso”(1964, p. 23; nostro corsivo). Ecco un’ulteriore conferma di ciò che Bernari afferma in Napoli silenzio e grida: “Non vi è mio libro nel quale questa presenza di Napoli non si sia trasformata in assenza” (p. 13). 28 1910. The Emancipation of Dissonance, p. 38. 29 Luigi Chiarini, “L’espressionismo e il linguaggio del film”, in Il bilancio dell’espressionismo, p. 120. 30 Paolo Chiarini, Caos e geometria, p. 14. 31 La definizione è di Osvald Herzog, in Caos e geometria, op. cit., p. 26. 32 Ludwig Meidner, ibid., p. 165. 33 Nella “Nota” Bernari specifica che in Tre operai critici e lettori rimasero sorpresi nel non trovare le due Napoli conosciute e cioè quella “crociana, da archivio storico, o una Napoli digiacomiana nei suoi riflessi lirici o drammatici (Russo o Viviani)”, p. 253. Alla Napoli turistica e storica Bernari sostituisce quella povera e industriale poco conosciuta ma strumentale alle sue denuncie socio-politiche dell’era fascista. È interessante notare che generalmente gli scrittori napoletani hanno parlato delle “due Napoli”. Ad esempio, “Le due Napoli” è il titolo di un saggio di Domenico Rea, scritto nel 1949 e poi incluso in appendice al romanzo Quello che vide Cummeo (Mondadori, 1955). Per Rea le due Napoli erano: da una parte quella centrale del Rettifilio e dei centri turistici e dall’altra quella dei vicoli stretti dove dominavano miseria, ladrocinio e ingiustizie. In questa seconda Napoli sia Rea che Bernari ambientano le loro narrative che riguardano i napoletani e la loro napoletanità e come pure aspetti di teatralità. Naturalmente un’opera importante per una discussione più approfondita sui rapporti tra scrittori e Napoli, si veda Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli (1953; ristampato nel 1994), anche se tra questi non appare Bernari. 34 Dei paesaggi sironiani Renato Barilli afferma: “[…] il lavoro che ferve in quella medesima civiltà urbana, fondata sulle fabbriche, produce dal suo seno fiotti di fumo, di caligine, che contribuiscono a contornare di un orlo luttuoso 69 ROCCO CAPOZZI case, opifici, veicoli, strade”. Ma il noto critico avvisa pure: “Bisogna, però fare molta attenzione, circa il modo migliore d’intendere queste periferie sironiane. Spesso, infatti, si cade nella trappola di interpretarle come referti volti a constatare squallore, degrado, ‘ male di vivere’: nulla di più contrario alle intenzioni dell’artista”. Si veda “Che città grigia, anzi nera”, p. 167. 35 L’articolo era apparso col titolo “L’arte è paura” nella rivista Ulisse nel 1950; poi in Nuovi Argomenti, 27, 1972, pp. 121-26 e ristampato in Non gettate via la scala (1973), pp. 66-73. Va notato pure che all’inizio degli anni ’40 Bernari aveva scritto, o meglio annotato “32 punti sulla natura”, e tra questi parla spesso della paura” – di fatto all’origine gli appunti portavano il titolo “32 punti sulla paura” (si veda il saggio di Enrico Bernard sull’inedito di Bernari apparso recentemente nella rivista Forum Italicum). Va ricordato pure che in “Ciminiere e futuro” Bernari già parlava di vari aspetti della paura: “[…] e fu al loro fianco che io provai per la prima volta quella ‘paura’, che doveva apparirmi poi con mille voci e nei suoi infiniti travestimenti”. (BN, p. 58) 36 Qui non discuto Prologo alle tenebre perché il romanzo viene scritto durante la caduta del fascismo e cioè quando Bernari poteva parlare esplicitamente di paura. Ad esempio Eugenio, l’io-narrante, descrivendo la sua Napoli spiega: “La città sembrava già conquistata dal nemico, e noi, sulle soglie dei nostri rifugi, ad osservare impotenti il saccheggio; ci sentivamo frugare nel cuore, la luce spietata dell’inquisitore penetrava nei nostri affetti, e li sconvolgeva nell’insinuarvi l’angoscia e la paura [...]”. I cinque personaggi centrali di Prologo vivono tutti di paure. Essi non solo hanno paura delle bombe e delle spie fasciste ma hanno anche paura di amare, di agire e di dire la verità, e quando si nascondono nei loro segreti hanno paura perfino delle proprie menzogne. 37 Per quanto riguarda la funzione della libera fantasia davanti alla realtà, quando nel 1972, durante l’intervista, chiesi a Bernari se era dunque d’accordo con Pirandello quando all’inizio di Sei personaggi in cerca d’autore fa dire al padre “la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione” (Maschere Nude, I, 79) egli sorrise, e poi rispose “certo, non ci avevo pensato, ma è proprio così”. Fu allora che decidemmo che forse la mia tesi avrebbe portato il titolo “Bernari tra fantasia e realtà”. 38 L’intervista apparse con il titolo “Bontempelli uno e due” in L’Italia letteraria, poi riveduta e ristampata in L’Europa letteraria nel 1960, pp. 101-07, e infine appare con alcune revisioni in Non invidiate la loro sorte, pp. 99-105. 39 Si veda in Non gettate via la scala “Mann e noi” (pp. 177-202). L’articolo è importante perché dimostra la sua conoscenza di Thomas Mann e perché, ancora una volta, Bernari discute della cultura europea e in particolare quella della “Repubblica di Weimar”. 40 Lettera inedita del 13 novembre 1974. 41 Alla fine di Agosto, in un ristorante nei pressi di Ponte Milvio, a pochi passi dalla residenza romana di Bernari in via Gosio, registrai l’ultima intervista apparsa in Forum Italicum (1994) . La risposta che qui cito fu rielaborata da Bernari e mi arrivò in una lettera due mesi dopo. Marcella, sua moglie, precisò 70 IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI CARLO BERNARI* che fu l’ultima lettera scritta da Carlo pochi giorni prima dell’ictus. Capozzi, 1994, pp. 381-82. BIBLIOGRAFIA Bellonci, Goffredo. “I Tre operai di Carlo Bernard”, Il Giornale d’Italia (29 marzo 1934). Bernard, Enrico. “Bernari tra paura e natura. 32 pensieri sulla natura”, Forum Italicum 2 (Fall 2008), pp. 403-15. Bernari, Carlo. Tre operai, Milano: Mondadori, 1965 [Rizzoli, 1934]. _____. Quasi un secolo, Milano: Mondadori, 1940. _____. Tre casi sospetti, Milano: Mondadori, 1946 (poi, Roma: Lucarini. 1990). _____. Prologo alle tenebre, Milano: Mondadori, 1947. _____. “L’arte è paura”, Ulisse IV, 13 (dicembre 1950), pp. 77-81. _____. “Bontempelli uno e due”, L’Europa letteraria, 1 (ottobre 1960), pp. 101-07. _____. Bibbia Napoletana, Roma: Newton Compton, 1994. [Vallecchi 1961]. _____. Era l’anno del sole quieto, Milano: Mondadori, 1964. _____. 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