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BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CONTRIBUTI
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE DI
CARLO BERNARI*
Alla memoria di Carlo Bernari e Paolo Ricci
ROCCO CAPOZZI
University of Toronto
Toronto, Ontario
L
a dinamica dei rapporti tra realtà, fantasia (immaginazione) e scrittore (o
artista) hanno sempre attirato l’attenzione di Carlo Bernari sin dal 1926,
e cioè da quando decise di scrivere il suo primo romanzo. In “Ciminiere
e rifiuti”, apparso in Bibbia napoletana nel 1961, il giovane ventenne Carlo
Bernard (nome dell’autore prima che egli adottasse lo pseudonimo Bernari
suggeritogli da Corrado Alvaro nel 1940), documenta un evento autobiografico
che riguarda la genesi di Tre operai tra il 1926 e il 1931:
Il dolore è arma troppo pericolosa perché, maneggiandola, non si corra il
rischio di rimanerne noi stessi feriti. Presto cominciai a sentire anch’io le
punture di quelle spine che angustiavano la vita dei miei amici; durante la
sosta per la colazione, che noi consumavamo all’ombra delle ciminiere del
Pascone, tra le capre brucanti l’erba che germoglia a fatica fra i gasometri e
le gru, essi mi chiedevano spiegazioni: Tu leggi tanto, – mi dicevano. – E
perché non ci spieghi come stanno le cose? Quand’è che finisce? – Un
torrente di fumo scorreva su di noi per dissolversi contro il petto del
Vesuvio, ancora fumante. Eccitati dalle mie letture, s’aspettavano da me una
“storia della classe operaia a Napoli”; ma gli anni passarono, e di quelle
promesse non mi restano oggi che pallidi appunti a matita su un esile
quaderno scolastico, e un ricordo incancellabile […]. Dopo qualche anno mi
misi all’opera, e il mio racconto si ambientò naturalmente fra i gasometri e le
gru del Pascone, popolandosi di personaggi che avevano un nome e un
cognome, una piaga da sanare, una paura da vincere. Fu così che invece della
storia scrissi una storia, un romanzo, cioè, o se più piace una favola; giacché
favolosi sono sempre tutti gli inizi e tutte le fini del mondo (59-60)1.
Altrettanto rilevanti sono le parole dell’autore nel 1975 nella presentazione al
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IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
catalogo dell’artista napoletano Camillo Catelli (1886-1978) dove accenna come
la realtà viene filtrata attraverso l’arte mentre l’arte influisce sulla realtà
dell’artista o dello scrittore. In essenza Bernari sta parlando di un processo di
simbiosi durante l’atto creativo in cui fantasia e realtà interagiscono l’una
sull’altra – una nozione a cui egli è rimasto fedele in tutta la sua opera:
Intanto però noi già “vedevamo” con occhi ciechi quella negatività, ne
sentivamo le tensioni, ne avvertivamo magicamente la presenza annunciatrice
nella corsa dei colori a farsi luce, nell’organizzarsi dell’architettura negli
spazi premonitori di una realtà diversa da quella conosciuta, eppure tanto
familiare, da riconoscerla come nostra nell’attimo stesso in cui vi ravvisiamo
il diverso, l’altro, in una continua divaricazione che è congiunzione e
immedesimazione. L’immagine della realtà si arricchisce così, si perfeziona
o si deforma, secondo una visione che non ci è propria, quanto piuttosto
acquisita attraverso altre visioni, altre sintesi che ci hanno preceduto sul
medesimo percorso verso quella determinata realtà. Finiamo dunque per
vedere l’Estaque con gli occhi di Cézanne, e il paesaggio reale tende a
conformarsi a quella pittura assecondando i parametri che la nostra
formalizzazione del vero tende a fornirci2.
Il “noi” qui si riferisce certamente a Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, ma forse
anche ad altri artisti antifascisti che frequentavano a Napoli la “Libreria del
900”3 di Ugo Arcuno e Mastellone, ad esempio i futuristi napoletani Luigi
Crisconio e Francesco Cangiullo, e i pittori che aderivano al movimento del
“Circumvisionismo” e cioè Peirce, Antonio D’Ambrosio, Carlo Cocchia, Mario
Lepore e Luigi Pepe Diaz, i quali si opponevano alle banalità estetizzanti della
macchina e della guerra – tutti amici di Ricci (1908-1986) e Bernari.
Come stiamo per discutere nelle due citazioni riconosciamo degli elementi
chiave delle strategie di Bernari nel rappresentare la realtà in rapporto alla
società e alla cultura del tempo. Per Bernari lo scrittore è un filosofo culturale e
la sua rappresentazione della realtà è un’oggettività culturalizzata. Questo è di
fatto ciò che l’autore ribadisce nella risposta alla mia richiesta di elaborare il
concetto di simbiosi tra realtà e artista4: “nella crisi di accrescimento della realtà
va sottointeso un processo dialettico sostanziale, in cui tanto la realtà dà
all’artista quanto questi restituisce alla realtà. Ecco perché postulo uno scrittore
come filosofo culturale, e perché non mi stanco di insistere su un’oggettività
culturalizzata”. Nella stessa lettera Bernari si accinge a chiarire il problema del
realismo:
Il problema del realismo non può risolversi applicando la più ovvia formula
dialettica, ora col privilegiare la realtà (l’oggetto) ora col privilegiare l’artista
(cioè il soggetto) a seconda che si propenda per un materialismo cieco o uno
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spiritualismo non meno allucinante. A questo punto dovrebbe essere chiaro
per tutti che quando si parla di realismo non si vuole pretendere di asservire
l’arte al più piatto oggettivismo o naturalismo, ma s’intende agire all’interno
di un fenomeno per coglierne tutti i momenti di crisi. Operando una scelta
nella realtà l’artista compie un atto critico; ma tale scelta è già il risultato di
un rapporto istituito, o meglio in fieri fra l’artista, nel nostro caso lo scrittore,
e la realtà (Lettera inedita, 13 nov. 1974, corsivi dell’autore)5.
Paolo Ricci, soprannominato con affetto da Guglielmo Ricci e dagli amici, “il
Normanno” richiederebbe un discorso a parte. Qui mi limito a citare Filiberto
Menna che riassume in nuce l’arte di Ricci affermando: “il tema dominante è
sempre stato il rapporto tra arte e ideologia, dove per ideologia non deve
intendersi un contenuto specificamente politico, ma piuttosto l’intenzionalità di
porre la pittura a confronto con il reale e fare dell’arte uno strumento di
conoscenza e di giudizio”6. Le parole di Menna oltre a definire la pittura di Ricci
si addicono perfettamente alla narrativa di Bernari anche perché i due amici
avevano le stesse idee sul ruolo dell’arte come conoscenza e come denuncia
della realtà sociale, sull’onnipoliticità della vita e sulla teatralizzazione7 della
vita nei vicoli napoletani.
Inoltre, come introduzione al realismo e sperimentalismo di Bernari credo che
sia utile ricordare che nel 1929 Carlo Bernard, Paolo Ricci e Gugliemo Peirce
firmarono il “Manifesto dell’U.D.A.” che all’epoca voleva essere una
dichiarazione antifascista, antifuturista e anticrociana e che privilegiava invece la
macchina, la scienza e l’arte nuova. Qui di seguito i nove principi base esposti
all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di
riferimenti alla cultura europea del primo Novecento:
1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è
stata sempre rivoluzionaria.
2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento.
3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare
della simpatia.
4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno
creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno laciato niente
d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo.
Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non
esiste. In arte esiste la non arte.
5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da
noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 etc. – e niente affatto perché i
nostri problemi artistici siano più complessi.
6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma
finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione.
7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai
cubisti ai surrrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte
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l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente
nuova.
8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte.
9. L’arte è novità, la novità è arte”8.
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Le prime opere di Bernari nascono in un clima di profonda crisi socio-politica
ed economica che va dagli anni venti agli anni quaranta e cioè durante l’intero
ventennio nero della dittatura fascista. Di conseguenza pessimismo, sfiducia,
inquietudine, angoscia, attesa, incubi e paura sono le tematiche principali che
dominano in Tre operai (1934)9; Quasi un secolo (1940); Il pedaggio si paga
all’altra sponda (1943); Tre casi sospetti (1946, racconti lunghi scritti tra il ’42
e il ’45); e, Prologo alle tenebre (1947). A questi titoli andrebbero aggiunti
molti racconti scritti nello stesso periodo e pubblicati molto più tardi10. Questo è
anche il caso di parecchi saggi in origine apparsi in quotidiani e riviste e poi
raccolti in vari testi a partire da Bibbia napoletana (1961) e Non gettate via la
scala (1973) – due testi fondamentali per chi voglia conoscere a fondo l’uomo,
lo scrittore e il teorico Bernari.
La ristampa di Bibbia napoletana nel 1996, con un’introduzione di Antonio
Ghirelli, contiene nell’appendice un documento di grande importanza. Enrico
Bernard ha raccolto in “Album napoletano” 65 foto del Bernari fotografo11 (uno
dei “cento”o “mille” mestieri, come l’autore amava definire la varietà di lavori
da lui svolti). Le foto sono un’ulteriore testimonianza di come Bernari col cuore,
col cervello e con gli occhi, sin dagli anni trenta, ha indagato e illustrato
“l’animus napoletano”12 in modo tale da non cadere nelle trappole dei miti
popolari e turistici della sua città nativa. Le rappresentazioni di Napoli, ad
esempio in Tre operai, Speranzella (1949), Vesuvio e pane (1952), e Era l’anno
del sole quieto (1964) illustrano perfettamente la sua arte di porsi davanti ad una
città estremamente contraddittoria e cercare di penetrare le apparenze, come
l’autore sostiene ne “Il paese delle anime”: “Così l’osservazione di Napoli come
una realtà con le sue irrealtà diventava già una sfida a trovare ciò che essa aveva
di più nascosto e geloso, ma altrettanto autentico” (Scala, 206). Dopo la morte
dell’autore nell’ottobre del 199213 sono apparse tre opere che rivelano anch’esse
i forti interessi di Bernari per le avanguardie artistiche e letterarie dai giorni del
futurismo fino agli anni quaranta.
Romanzesco ma non troppo (1992). Il testo, da me curato, raccoglie 11
racconti scritti negli anni trenta e all’inizio degli anni quaranta (apparsi in riviste
e quotidiani non facilmente reperibili) e la ristampa di un piccolo capolavoro
espressionistico e metanarrativo, Il pedaggio si paga all’altra sponda, scritto
intorno al 1936.
Il pedaggio è una storia fantastica ambientata nella stessa periferia napoletana
che troviamo descritta in “Ciminiere e rifiuti”. Bernari appare nel racconto in
prima persona, e cioè come autore-narratore delle vicende di due giovani,
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Meuccio e Giovannina, soprannominata Micella per la sua apparenza, che
muoiono ancora bambini. Ma, grazie all’immaginazione del narratore per far
piacere ai loro genitori e ai lettori (si veda come il narratore ricorre ad espedienti
metanarrativi quali “Facciamo un esperimento”, “Vediamo che cosa potrebbe
fare Giovannina”, oppure “Proviamo a dare un lavoro a Meuccio”) ecco nascere
una storia ipotetica (un “mondo possibile” – i cosiddetti possible worlds – della
fiction costruiti con parole e fantasia)14 in cui Micella e Meuccio crescono e si
sposano. Purtroppo a causa di malattie, difficoltà economiche e soprusi i due
giovani muoiono in estrema povertà, esattamente come detta il destino per i
poveri operai della “casa del gas”, e anche perché come il narratore spiega ai
genitori dei bambini: “Prima o poi, tutti debbono pagare un pedaggio di
sofferenza in questa società”15. Mentre per i lettori c’è la chiosa: “Questa
narrazione interessò i miei ascoltatori, come sempre un romanzo d’appendice,
d’abbrutimento e di morte, interessa gli animi semplici. Essi ritrovarono forse,
nella mia storia, elementi di verità, una verità triste, avvilente, ma non meno
amara di quella che essi erano costretti a vivere ogni giorno” (Pedaggio, 214). E
credo che sia facile desumere che gli ascoltatori e lettori qui sono indubbiamente
gli stessi amici e operai di “Ciminiere e rifiuti”.
Nel 1993 esce L’ombra del suicidio (Lo strano Conserti), una storia di
corruzione, di politica e di suicidi, scritta tra il ’36 e il ’37 ma tutt’oggi così
attuale da far pensare agli scandali di “mani pulite”. Il manoscritto, rimasto
smarrito per molti anni, fu ritrovato nell’estate del 1988 mentre Bernari ed io
cercavamo alcune lettere scritte a Vasco Pratolini durante il suo soggiorno a
Napoli. Pochi mesi prima che Bernari subisse un ictus, nel gennaio del 1989,
riuscii a convincere l’autore che il romanzo andava pubblicato senza revisioni. Il
romanzo è apparso con il solo cambiamento del titolo in quanto nel 1937 il
manoscritto era intitolato Lo strano Conserti.
Con una documentatissima introduzione di Eugenio Ragni, nel 1994 viene
pubblicato Gli stracci. Il romanzo è in realtà la prima stesura di Tre operai
composta tra il 1929 e il 1932 e che nel 1931 portava il titolo Tempo passato.
Anch’esso vede la luce senza ritocchi editoriali e quindi ci permette una verifica
dei primi esperimenti del realismo di Bernari in una narrativa “neo-oggettiva”.
Faccio uso del neologismo per richiamare la “Nuova Oggettività”, la Neue
Sachlichkeit tedesca, perché in essa Bernari vedeva nuove possibilità di
rappresentare la realtà prima che apparisse il termine neorealismo.
Nella discussione che segue sugli elementi figurativi nelle prime opere di
Bernari16 si vuole illustrare come l’autore si sia formato nell’ambito di una
cultura europea che abbraccia tra l’altro il cinema e l’arte espressionista, la
“Nuova Oggettività” tedesca, il surrealismo francese, De Chirico e la pittura
metafisica italiana, e i quadri di Mario Sironi. Questi sono, a mio avviso, i
riferimenti artistici principali che costituiscono le “anxieties of influences”
(come direbbe Harold Bloom) presenti nelle opere che vanno da Tre operai –
l’opera forse più rappresentativa tra i cosiddetti romanzi capostipiti, o
incunaboli, del Neorealismo italiano – fino alla composizione di Tre casi
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sospetti. Nelle prime opere si nota facilmente come l’autore ci tiene a creare
immagini e sensazioni con le parole. Di fatto, sono innanzitutto gli elementi
figurativi a dare una carica di sperimentalismo al realismo di Carlo Bernari, e
sono le immagini a trasmettere sensazioni e emozioni, sia quelle sentite dai
personaggi che quelle che l’autore vuole far scaturire nel lettore.
In Tre operai va riconosciuto il coraggio di un giovane autore che scrive
un’opera controcorrente sia in senso ideologico-politico che in termini stilistici
e linguistici che qui non avremo occasione di illustrare. Bernari all’epoca
adottava varie tecniche linguistiche e pittoriche non per fare un’operazione di
avanguardia ma perché questi esperimenti, oltre ad essere strumenti per rompere
col naturalismo, servivano a velare delle denuncie contro il regime fascista –
denuncie che, purtroppo, non sfuggirono alla censura.
Sin dalle prime pagine di Tre operai si nota come Bernari ami rappresentare la
sfiducia dei suoi personaggi verso la realtà socio-politica dell’epoca dissolvendo
la realtà, artisticamente parlando, in aspetti simbolici, onirici, surrealistici e
espressionistici. Dal 1972, vale a dire, a cominciare dalla mia intervista apparsa
in parte in Italianistica nel 197517 ho sostenuto che una conoscenza degli
interessi artistici di Bernari è essenziale per poter valutare la funzione simbolica
dei colori e dei giochi di luce e di ombre che abbondano nelle sue opere dal
1929 fino al primo dopoguerra. Purtroppo, anche nelle pagine dei pochi critici
che hanno ricostruito la formazione culturale di Bernari sono scarsi i riferimenti
alla maturazione artistica e letteraria del giovane scrittore che seppe cogliere “il
polline” culturale che viaggiava nell’aria di quell’epoca18. L’autore era conscio
di queste lacune nei suoi critici e nella “Nota ’65” decide di segnalare ad
esempio che Guido Piovene, nella recensione di Tre operai menzionava come
dalle pagine di questo romanzo traspaiano la luce e i colori di Mario Sironi.
Immagino che Piovene si sia soffermato su tantissime descrizioni di paesaggi
urbani e periferici che abbondano nei primi capitoli di Tre operai, come ad
esempio:
Davanti a lui si estende il Vasto, segnato da miseri alberi di cartapesta. Si
ode il rumore di un tram che si avvicina stridendo, la luce dall’interno della
vettura si proietta a quadretti sul selciato (p. 20).
Il caseggiato che si vide dal lucernario s’alza obliquo contro il cielo grigio
con le sue finestre strette e nere e con la grondaia che fa un lungo scolo di
ruggine (p. 30).
Le persiane accostate lasciano scorgere una strisciolina azzurra di mare, un
pezzo di molo e le nuove costruzioni di ferro del porto: i cilindri dei silos
bianchi e le casette quadrate della dogana (p. 80).
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Il romanzo è certamente saturo di questi quadri circumvisionisti, metafisici o
sironiani (paesaggi urbani e di periferia), comunque va chiarito che sebbene
Piovene riconosca i meriti di questa prima opera del giovane narratore egli rivela
anche dei pregiudizi quando sostiene almeno due volte che l’autore non è
“colto”19 e che forse ha imparato troppo in fretta da Verga, dalla poesia
crepuscolare e dalle traduzioni di alcuni romanzi europei. In ogni caso leggiamo
alcune parole di Piovene anche perché sembra che pochi le abbiano consultate
avendo accettato ciò che Bernari dice nella “Nota ’65” dove riassume in una
frase due paragrafi (“Nota”, p. 242) del critico. Il primo riguarda gli elementi
pittorici:
La luce in cui queste figure si muovono, è quella più consueta nei cosiddetti
romanzi del novecento, specialmente stranieri. Li vedi, o meglio li intravedi
imprecisi, in un’aria sporca, senza colori vivaci, con riflessi ora terrosi, ora
d’un azzurro plumbeo come la lamiera: un’aria, direi, da quadro di Sironi.
Vedi i volti rigidi, tagliati da ombre troppo forti, con trapassi di luce bruschi
che li rendono inespressivi (p. 362).
Il secondo si riferisce all’interpretazione della presenza degli oggetti e
dell’ambiente, ed è interessante anche perché non potendo usare il termine
“neorealismo”, perché allora il neologismo non era ancora applicato alla
letteratura, Piovene esprime una nozione in cui vengono abbinati naturalismo e
crepuscolarismo:
E si capiscono, infine, in quest’arte, le interminabili enumerazioni degli
oggetti che attorniano le vicende umane, e che col semplice loro apparire
devono esprimere un senso di stanchezza umana: perché quest’arte, parli di
cose o d’uomini, è tutta un sunt lacrimae rerum (p. 365).
Nella “Nota ’65” Bernari offre diversi suggerimenti a coloro che vogliano
indagare i richiami intertestuali riconoscibili nel suo primo romanzo in cui
troviamo, come osservò giustamente Remo Cantoni, un “realismo continuamente
filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose”
(“Nota”, p. 242). Comunque né nella “Nota ’65” né nei nostri dialoghi a Roma
e a Gaeta e nella nostra corrispondenza, per circa venti anni, Bernari non ha
menzionato che Goffredo Bellonci nel discutere Tre operai20 assieme a Tre casi
sospetti parlò di un “realismo spettrale” riferendosi agli effetti della luce e dei
colori. Bellonci oltre ad essere stato il primo lettore di “Tempo passato”, viene
citato da uno dei fedeli critici e amici del Nostro, Walter Mauro. In Tre operai si
nota chiaramente l’intenzione di drammatizzare ambiente e personaggi tramite la
luce (sia solare che lunare), le ombre, i colori, le nubi, la pioggia, il vento e
l’inquinamento per far risaltare in primo piano le senzazioni inquietanti, quali il
pessimismo, l’attesa e la paura, che affliggono la società. Con i suoi tagli
pittorici Bernari vuole mettere in risalto delle immagini che vanno al di là
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dell’immediato realismo della rappresentazione dell’ambiente. E questo potrebbe
essere il fattore principale che rende la sua narrativa troppo concettuale e
sperimentale e meno realista per i critici che si aspettavano realismo e impegno
dagli autori della cosiddetta era neorealista.
Ad agire sul giovane scrittore, assieme all’ambiente socio-politico, fu
indubbiamente l’intera cultura del tempo che, come rievoca l’autore “si
estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film” (“Nota”, p. 243).
Bernari anziché rifiutare l’elenco delle possibili letture di scrittori italiani e
stranieri che avrebbero influenzato la composizione di Tre operai, vi aggiunge
altri nomi di illustri autori, registi e artisti che in quell’epoca fornivano il
cosiddetto “polline culturale” alle coscienze più avvertite21. Inoltre egli afferma
che la composizione del primo romanzo inizia subito dopo il suo breve
soggiorno parigino e suggerisce che questo è un riferimento importante per
accertare “se e quante delle esperienze vissute in Francia si trasferiscono in Tre
operai e/o se addirittura non ne favoriscono la nascita” (“Nota”, p. 247).
Detto ciò non significa che la breve esperienza in Francia costituisca l’inizio
degli interessi artistici di Bernari. Da bravo autodidatta, l’autore coltivava già da
tempo il suo temperamento artistico, e quindi i contatti con scrittori e artisti
surrealisti, come pure i tantissimi film russi e tedeschi visti a Parigi non fanno
che consolidare i suoi interessi per delle tecniche pittoriche e cinematografiche
che egli aveva imparato ad apprezzare a Napoli accanto all’inseparabile amico
fraterno artista, teatrante, sceneggiatore e critico d’arte Paolo Ricci22 e al cugino,
architetto e artista, Guglielmo Peirce, ambedue ritratti in vari racconti e romanzi
di Bernari23. I tre, ricordiamo, avevano vissuto da vicino le esperienze del
“Circumvisionismo” e del futurismo napoletano e anche se solo indirettamente,
erano venuti in contatto con le prime nozioni freudiane che risalivano alle lezioni
di Freud all’introduzione della psicoanalisi dal 1915 al 1917. Dopo tutto, le
nozioni su simboli manifesti e simboli latenti, associazioni libere, come pure su
condensazione, composizione24 e deformazione, e sull’intera dinamica del
simbolismo onirico circolavano con tante altre idee nel “polline culturale”
dell’epoca ed erano state assorbite sia dalla pittura che dalla narrativa europea.
Ad esempio si pensi ai lavori di Italo Svevo, Max Ernst e André Bréton, tanto
per fare alcuni nomi.
Comunque, oltre ad artisti post-impressionisti e espressionisti come Oskar
Kokoschka, Egon Schiele, Edvard Munch e Emil Nolde, conosciuti da Bernari,
Ricci e Peirce, andrebbe indagato quanto della cultura della Repubblica di
Weimar (1918-1933) è filtrato nelle opere del primo Bernari. Tra gli artisti più
conosciuti della cultura tedesca di quest’era cito Bertold Brecht per il Teatro,
Fritz Lang e Friederich Murnau per il cinema, e Alfred Döblin e Thomas Mann
per la letteratura – tutti nomi che Bernari ha menzionato spesso nei suoi saggi. E
naturalmente si dovrebbe esaminare quanto della “Nuova Oggettività”25,
innanzitutto quella di artisti come Otto Dix e Georg Grosz che denunciavano le
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angosce e inquietudini della società operaia, sia stata assimilata da Bernari, Ricci
e Peirce prima del loro soggiorno a Parigi. E per quanto riguarda gli operai non
credo di aver mai visto menzionato il capolavoro di Guido Pellizza da Volpedo,
Il Quarto Stato (1902) in rapporto alla scena finale di Tre operai dove Bernari,
nel sogno di Teodoro, tra surrealismo e allegoria, suggerisce che la classe
operaia non può morire. Infatti come l’autore spiega nella “Nota ’65”: “la classe
operaia per quanto inchiodata non si dà mai per vinta”(“Nota”, p. 256).
Sia da giovane che da adulto, oltre alla pittura, Bernari amava molto il cinema
perché amava l’arte di far parlare le metafore mute e i simboli delle immagini. A
proposito di cinema, si può notare un bellissimo esempio di come l’autore
applichi delle tecniche filmiche all’inizio di L’ombra del suicidio (Lo strano
Conserti):
La maniglia gemé con suono molesto, i cardini emisero uno stridio e la porta
si aprì lentamente come mai era avvenuto, sino a battere contro il muro; e
comparve il Consigliere Delegato; era lui, non potevano esserci dubbi.
Con moto simultaneo tutti piegarono il capo in segno di saluto, benché
nessuno conoscesse il visitatore; ma era il Consigliere Delegato, certamente,
colui che entrava, con tanto frastuono, seguito da dieci persone tutte calve,
con occhiali e cravatta a farfalla, che si fermava con aria di padrone al centro
dell’ufficio e non salutava gli impiegati. [...]
Solo Conserti, mentre i compagni pronunciavano un timido buonasera, si
mise a passeggiare con aria che dissipasse i sospetti nell’ambiente dominato
da greve silenzio, sul quale, come in uno schermo bianco le ombre, si
proiettarono con improvvisa chiarezza le voci e i rumori della stanza (p. 7).
La scena è molto simile alla descrizione dell’arrivo del protagonista all’inizio del
racconto “Il Pugliese,” scritto nel 1942:
Un colpo di vento, spalancando la porta, lo aveva sospinto nello studiolo che
faceva da anticamera all’officina: per un poco s’era visto il cielo nero
precipitarsi verso l’uscio aperto; poi tra mulinelli di polvere e calendari che
volavano sulle pareti, era comparso il Pugliese, lentamente, con un passo che
sembrava smentire l’estremo bisogno che rivelavano i vestiti non suoi, ma
chiaramente appartenuti ad altra persona, ed ora finiti sulle sue spalle come
un attaccapanni (p. 3).
A questi ingressi drammatici possiamo avvicinare numerosi esempi da Tre
operai quali:
Ecco infatti Marco e Teodoro fare ingresso nella stazione, portando una
valigia per uno. Salgono in uno scompartimento di terza classe, dove ci sono
soldati e marinai che cantano (p. 87).
Eccoli soli, incamminati a piedi lungo via Caracciolo, sotto un cielo che si
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DI CARLO BERNARI*
smaltava di un blu metallico (p. 181).
E aggiungerei che l’uso del presente abbinato alla tecnica cinematografica di
avvicinarsi ai personaggi e seguirli mentre si muovono qui ci fanno pensare alla
“teoria del pedinamento” diffusa nel cinema neorealista dall’amico di Bernari, il
famoso regista e scrittore Cesare Zavattini che nel 1934 fece pubblicare Tre
operai dalla Rizzoli.
Quando Bernari specifica nella “Nota ’65” che nel riscrivere Tre operai “i
riferimenti ambientali subirono alterazioni: vennero configurandosi,
diversamente dalla prima stesura, con prospettive, esasperate, atmosfere allusive,
in una sfocata dilatazione di effetti visivi, a mezza strada tra espressionismo e
metafisica” (“Nota”, pp. 240-41), egli in effetti dichiara come il surrealismo, De
Chirico, Sironi, l’arte e il cinema hanno tutti stimolato e influenzato il suo
progetto di svelare e allo stesso tempo denunciare le angosce e le paure che
l’ambiente fascista incuteva sempre più oppressivamente sugli individui. In
breve, per Bernari le arti figurative sono tanto importanti quanto le opere
letterarie di autori come Kafka e Lautréamont nel raffigurare ansie e paure26 e
cioè nel tradurre simbolicamente, incertezze e inquietudini in un realismo
espressionistico e spettrale realizzato tramite giochi di luce, di colori, di ombre e
di forti contrasti di bianco e nero. Da Tre operai a Prologo alle tenebre gli
elementi pittorici aiutano l’autore a drammatizzare, con maggiore forza
espressiva, le pagine in cui ambiente e personaggi sembrano afflitti da un’abulia
immobilizzante e allo stesso tempo lo aiutano ad intensificare la tensione che
nasce dallo scontro tra individuo e realtà socio-storica. Per cui credo che sia
logico pensare anche alla pittura metafisica di De Chirico. Mi riferisco
specificamente alle “Piazze d’Italia” e ai monumenti desolati dove le lunghe
ombre e gli acuti contrasti di luce seguono delle linee geometriche (triangolari o
cubiche)27, mentre gli oggetti e le rare persone, spesso raffigurate dalle ombre,
suggeriscono spaesamento e mistero. Comunque, in ultima analisi bisogna tener
presente che il ricorrere al metafisico o al surreale in Bernari serve sempre ad
arricchire la narrativa di implicazioni psicologiche e socio-politiche.
Prima di illustrare come l’autore ha raffigurato paura e inquietudine nelle sue
prime opere credo che sia utile richiamare alla memoria alcuni aspetti
dell’Espressionismo. Tra le acute osservazioni di Thomas Harrison nel saggio
1910. The Emancipation of Dissonance, troviamo una definizione
dell’espressionismo letterario che si può applicare facilmente alla tecnica
bernariana nel raffigurare l’ambiente dell’epoca, abbinando il simbolismo al
naturalismo:
Expressionism finds its path between symbolism and the other aesthetic that
it inherits: naturalism, or the “crude” and “overly realistic” depiction of
positive, historical life. Just as expressionism naturalizes the domain of the
59
ROCCO CAPOZZI
symbol by tying it to everything it wishes to transcend, it also makes the
natural symbolic”28.
Per le tecniche filmiche dell’espressionismo citiamo una nota di Luigi Chiarini:
Le linee oblique, spezzate, come i violenti contrasti di bianco e nero dipinti,
tendevano a creare un’atmosfera di angoscia. Non le cose ma la proiezione
dell’io sulle cose [...] Un’importanza particolare hanno i valori luministici
[...] si è ottenuta, così, una deformazione antinaturalistica che risponde allo
spirito29.
Nonostante la citazione si riferisca a film ben noti quali Il gabinetto del Dr.
Caligari (1920), Nosferatu (1921), o Metropolis (1923) vedremo che anche
questa fa pensare ai primi romanzi e racconti di Bernari. Altre conferme delle
forti similarità tra le tecniche figurative di Bernari e le teorie dell’espressionismo
le troviamo nei saggi raccolti in Caos e geometria a cura di Paolo Chiarini. Mi
riferisco a nozioni che accentuano la forma, la luce e i colori per dissolvere “la
rigidità naturalistica, ponendola in movimento”30:
L’espressionismo può definirsi come espressione dello spirituale tramite la
forma. Gli ingredienti materiali della forma sono, per le arti figurative, la
linea, la superficie e la luce (il colore)31.
Nella natura noi non percepiamo ovunque la luce [...]. La luce sembra
scorrere, lacera le cose. Cogliamo distintamente brandelli di luce, strisce di
luce, fasci di luce [...]. Fra alte file di case ci abbaglia un tumulto di chiari e
di scuri32.
A cominciare da Tre operai, il continuo sperimentare con atmosfere allusive a
metà strada tra espressionismo e metafisica è dovuto al fatto che il giovane
Bernard non intendeva descrivere naturalisticamente uno spaccato di società, ma
preferiva invece raffigurare l’ambiente napoletano – intendiamoci, non quello
cartolinesco con il pino, la baia azzurra e il Vesuvio fumante nel retro scena, ma
invece quello della “terza Napoli industriale” che “si estendeva dal Vasto al
Pascone, da San Giovanni a Teduccio a Torre Annunziata”33 (“Nota”, p. 273) – ,
in una serie di quadri intesi a rispecchiare tanto lo squallore quanto le
inquietudini e frustrazioni dei suoi personaggi. Dunque, gli ambienti urbani e
industriali raffigurati nei quadri come quelli di Sironi, anche se con
intenzionalità socio-politiche diverse34, sono degli ottimi echi intertestuali che ci
aiutano a visualizzare ed apprezzare più ampiamente le descrizioni di Bernari dei
gasometri, delle fabbriche e dei paesaggi, quasi tutti cupi o grigi, se non proprio
neri. In altre parole nella pittura Bernari aveva trovato quello che T. S. Eliot
chiamava gli “oggettivi correlativi” per far scaturire dalle sue descrizioni
reazioni mentali e sensoriali. Inoltre, per drammatizzare il clima oppressivo e il
60
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
senso di squallore sentito dai personaggi, agli effetti cromatici in Tre operai si
aggiungono elementi di sinestesia dove l’olfatto vien fuso con la percezione
visiva e auditiva dell’ambiente industriale:
L’ipoclorito e il bisolfito dànno nausea. Eppure i due odori si avvertono solo
a mezzogiorno [...]. Il caseggiato che si vede dal lucernario s’alza obliquo
contro il cielo grigio con le sue finestre strette e nere e con la grondaia che fa
un lungo scolo di ruggine (p. 10).
Dalle tre ciminiere dell’officina del gas il fumo va ad infilarsi nei balconi del
palazzo contiguo dalle tendine nere, dalle tappezzerie sporche. Il gas spande
per l’aria un odore nauseante, insieme ad un assordante rumore di macchine
e di cinghie di trasmissione. Sul fondo livido del Vesuvio si stacca la torre
scura della fabbrica di piombo con le sue feritoie di raffreddamento strette e
nere (p. 44).
Nel saggio “L’arte è paura: ovvero la realtà della realtà”35 Bernari parla della
paura come sentimento estetico e di come egli l’abbia spesso sfidata, esorcizzata,
lavorandosela dentro con la ragione e cioè, narrativamente parlando,
oggettivandola nelle sue opere (nozione commentata dall’autore sia nella “Nota
’65” che nella mia “Intervista” del 1972 (cfr. p.149):
Se il fascismo era uno dei travestimenti della paura, pensavo che lo scrittore
dovesse imporsi il compito di sfidare l’una per l’altro: bisognava lasciarsi
invadere dalla paura, lavorarsela dentro con la ragione, assottigliandola
sempre più, sino ad annullarla nel coraggio che se la ripropone come limite
da superare. (“Nota”, p. 244).
La paura è un’emozione forte che condiziona molti dei personaggi bernariani
del “ventennio nero”36, e anche quando non viene menzionata, l’autore riesce a
renderla presente come angoscia, timore, ansia, fobia, terrore, e panico grazie
agli elementi pittorici.
In Tre casi sospetti Bernari manifesta la paura nei suoi aspetti più paralizzanti.
Il Pugliese e Cupris, nei racconti omonomi, testimoniamo perfettamente come la
paura provoca insicurezza e alterazioni sia psicologiche che fisiche. I due
protagonisti sono infatti delle vittime che scelgono illusoriamente il silenzio, la
solitudine e la fuga per evadere il sospetto e la paura di cadere nelle mani dei
loro oppressori.
Se con la luce solare Bernari si è a volte divertito a creare svariati giochi
luministici che rievocano la pittura futurista e circumvisionista, è certamente con
le ombre e il biancore lunare ch’egli realizza numerosi effetti spettrali intesi ad
intensificare la drammaticità psicologica dei personaggi e dell’ambiente come ad
61
ROCCO CAPOZZI
esempio in Tre operai: “L’ombra del compagno scivola di traverso sul muro
bianco di una fabbrica di conserve” (p. 46). Oppure nei numerosi esempi in
Quasi un secolo, come:
Di Posillipo si scorgeva la punta nera, bucata da mille luci, sospesa nell’aria
come una nube. Le stelle lumacavano fredde nel cielo. Lampare scorrevano
lungo gli scogli neri, rivelandone il fondo in una chiarità spettrale (p. 81).
Il pugnale, conficcato attraverso la tenda, lo reggeva per la nuca in una fissità
spettrale (p. 82).
Un velo di luna gelata ricopriva gli alberi spogli e accendeva gli stagni (p.
329).
La valorizzazione simbolica dell’ombra e del colore nero è un procedimento
che per ovvie ragioni politiche troviamo con maggiore rilievo in opere
antifasciste come Il Pedaggio si paga all’altra sponda, Tre casi sospetti,
Prologo alle tenebre e Quasi un secolo e cioè dove le impressioni
espressionistiche, metafisiche o surrealistiche sono chiaramente funzionali e
quindi parte delle strategie narrative del Nostro. Basta vedere due esempi in cui i
tormenti del sentirsi perseguitati fanno scaturire incubi sia notturni che diurni nei
personaggi. Il primo riguarda Micella:
Ella vide montare, spezzata sui gradini, l’ombra di lui con la testa appoggiata
come una sfera sulla parete di fronte, vide l’ombra di lui aprirsi a guisa di
ragno e con mille braccia scivolare per le scale e sparire (Pedaggio, p. 22).
Il secondo si riferisce a Cupris:
Ma le ombre già si allungavano sul selciato, e l’ombra di colui che lo seguiva
si fuse alla sua e giunsero insieme alla torre. Qui le due ombre ebbero di
colpo le teste mozzate dal buio del portoncino (Tre casi, p. 240).
In Tre casi sospetti Bernari si è indubbiamente abbandonato più che altrove ad
evocare impressioni d’ordine surrealistico e kafkiano per creare un “realismo
spettrale”. Il disegno kafkiano, ma estremamente politicizzato (Capozzi,
“Intervista”, p. 149), qui soccorre l’autore nel sottolineare l’incombente incubo
che deriva dalle condizioni oppressive del regime fascista. Di conseguenza
l’autore ricorre più liberamente ai colori, agli effetti di luce e alle sensazioni di
mistero che trasformano lo spazio in una serie di valenze simboliche. Si vedano
ad esempio scene quali:
I borghigiani vestiti di nero, coi cappelli neri come ali di grossi uccelli,
spiavano tra i rami senza parlare (“Il Pugliese” p. 94).
62
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
Gli ombrelloni e i tendoni, sorretti da mille mani, si fondevano talvolta fino a
formare un cielo nero e umido sotto cui passavano, di tanto in tanto, come
fuggevoli lampi, dei pipistrelli attratti dalla stessa luce dei lumi e delle torce
(“Minutolo” p. 119).
Gli effetti cromatici in Tre casi vengono ripetuti con una notevole frequenza in
modo tale che i leitmotiv stabiliscano un ritmo stilistico e allo stesso tempo
rafforzino le sensazioni di mistero, ansie e paure che tormentano i protagonisti.
Per esempio, nel primo racconto, “Il Pugliese”, incontriamo due immagini
ripetute a breve distanza:
La luna correva sull’acqua che recava di lontano un odore di terra bagnata (p.
67, poi pp. 68 e 69).
Passò il silenzio con la sua ala greve e nera (p. 90; cfr. anche pp. 91 e 92).
È interessante notare che in Prologo e in Tre casi sospetti i colori giallo, rosso
e verde spariscono quasi completamente per dare ampio spazio al bianco e al
nero. Sia le ombre che il colore nero qui si rivelano come felici metafore dello
stato d’animo degli individui e allo stesso tempo del colore che meglio descrive
la realtà socio-politica. Si vedano quattro esempi da Prologo alle tenebre:
silenzi bianchi, rotti da nere parole. (p.109)
Anche l’ombra è scomparsa dalle strade, anche l’eco. Un silenzio ora tutto
bianco ora tutto nero si alterna in quel deserto di detriti, di ferri contorti. (p.
211)
Trascorsero dei mesi neri e lunghi, i più lunghi e neri da molti inverni in qua
[...]. (p. 220)
Vedevo la sua ombra scivolare sull’asfalto sbiancato dalla luce intensa
dell’estate [... ]. Le ombre correvano sul selciato, come in una lanterna magica, oppresse dalla paura [… ]. La mia ombra si mescolava, anch’essa
labile, alle altre [...]. (p. 264)
In breve, ribadiamo che la dinamica del conflitto tra luce e ombra, e bianco e
nero, è uno degli elementi espressionistici pittorici e filmici che Bernari sfrutta
nelle sue opere da Tre operai in poi durante il ventennio fascista. E quindi, se si
insiste tanto sugli effetti visivi di queste prime opere è perché in questi elementi
si riconoscono le fonti della poetica bernariana nel risolvere i dati realistici in
63
ROCCO CAPOZZI
“libera fantasia” (espressione che piaceva molto a Bernari)37. Naturalmente il
momento storico, la cultura e la censura allora vigente ebbero un notevole ruolo
nella scelta delle tecniche adottate dall’autore. E quindi la fusione di realismo,
simbolismo e allegoria surrealistica va vista innanzitutto come mezzo per
analizzare la realtà sociale e onnipolitica nei suoi aspetti più ambigui e
poliedrici. Inoltre va ribadito che queste due componenti della narrativa
bernariana, quella realistica (storico-saggistica) e quella inventiva (fantasticosimbolico-allegorica) sono complementari e intrinseche al realismo nell’intera
opera dello scrittore.
L’uso di elementi fantastici all’epoca avrebbero fatto pensare giustamente a
delle possibili influenze del “realismo magico” di Massimo Bontempelli. E se
consideriamo che il giornalista e aspirante scrittore Bernard conosceva molto
bene le opere metafisiche di Bontempelli quando lo intervistò a Napoli nel
192938, è ancora più facile assumere che tra il realismo magico e il realismo
spettrale ci siano dei nessi. L’autore invece ritiene che sono innanzitutto le opere
di Kafka e Les Chants de Madodor di Lautréamont a suggerirgli un’operazione
di “transfunzionamento” della paura e del mistero nel suo lavoro. Bernari usa
specificamente il termine “transfunzionare” per richiamare Thomas Mann39 il
quale aveva “transfunzionato” dei miti biblici nella sua narrativa, come ad
esempio in Giuseppe e i suoi fratelli. Ciononostante, con qualche eccezione, né
Bontempelli, né Kafka, né Lautréamont, né il surrealismo francese, tantomeno il
circumvisionismo napoletano e la pittura metafisica italiana furono presi in
considerazione come strategie intertestuali nelle opere del primo Bernari che con
coerenza e costanza voleva rappresentare la realtà con “oggettività
culturalizzata”. Anzi, direi che a cominciare, come già ricordato, dalle recensioni
di Piovene e Bellonci si notano dei pregiudizi in quanto le tecniche pittoriche, gli
esperimenti linguistici, e gli esempi di meta-narratività, vengono spesso
ingiustamente considerati come manifestazioni di eccessivo sperimentalismo ed
eclettismo.
Carlo Bernari rimane uno dei maggiori esponenti nella narrativa italiana del
dopoguerra non solo per il suo forte impegno socio-storico ma anche per le sue
strategie narrative nel fondere storia, cultura, realismo e sperimentalismo
linguistico-rappresentativo come strumenti di conoscenza. In tutta la sua opera
l’autore ha costantemente fuso la ricerca esistenziale dei suoi personaggi con
l’indagine sociologica e storica dell’ambiente per svelare verità e contraddizioni
(pubbliche e private) nell’inconciliabile scontro tra individuo e società, tra
operai e borghesi, e tra intellettuali e potere.
Quando nel 1974 chiesi all’autore se concordasse con la mia definizione di
Bernari realista critico ecco come mi rispose:
Tutte le definizioni mi trovano concorde: realismo critico, realismo
dialettico, eccetera; purché si aggiunga alla formuletta (in sé inconsistente,
giacché non definisce che il solo aspetto esteriore del realismo) che critico va
inteso nel senso di crisi; e dialettico va interpretato all’interno, vale a dire
64
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
nella molteplicità di un rapporto, che si risolve con un accrescimento della
stessa realtà per gli apporti dell’arte. Si vuol concludere con ciò che in natura
non esistono solo gli alberi o i rovi di biancospino, come li elenca la
botanica, ma fra i primi c’è anche l’albero di Corot (o del Giorgione se si
preferisce un richiamo più classico, cioè meno sospetto di romanticismo);
come, fra i secondi, c’è il rovo di biancospino di Proust, entrati a far parte
dell’oggettività, ai quali l’artista non può esimersi dal riferirsi dovendo
operare successivamente la sua scelta critica nella realtà circostante, fatta di
alberi o di rovi di biancospino40.
Alla fine di agosto del 1988, in un piccolo ristorante buio nei pressi di Ponte
Milvio, ebbi l’ultimo colloquio con Carlo e gli chiesi se voleva essere conosciuto
come un autore impegnato; la sua risposta ci riporta all’inizio del nostro discorso
e ai rapporti tra Paolo Ricci e Bernari:
Se per impegno s’intende l’engagement sartriano, cioè quell’obbedienza alle
regole politiche di questo o quel partito, mestiere che fu battezzato da pifferi,
certamente mi trovi congedato. Se invece per impegno vuol intendersi
rettamente quel processo che trova lo scrittore come coscienza e come
conoscenza conflittuale del mondo reale, allora mi reputo più che impegnato,
asservito a quest’opera alla quale mi sono votato da molti decenni41.
E quindi, realismo spettrale, realismo critico, realismo linguistico, o qualsiasi
altro tipo di realismo che possiamo identificare nelle opere di Bernari, va
ribadito che alla base della sua narrativa c’è sempre la realtà socio-storica
abbinata all’arte e alla cultura del tempo. La sua finzione è sempre ricchissima di
richiami alla realtà e alle verità nascoste della società che viene descritta e
indagata in ogni opera. In breve, è sempre la realtà a mettere in moto la fantasia
dell’autore. Ma una volta che la realtà, come quella della sua città nativa, entra
nell’immaginazione di Carlo Bernari, e cioè una volta che si dissolve in “libera
fantasia”, ecco come questa diventa una menzogna narrativa ben costruita, o
meglio, un’ingegnosa macchina conoscitiva alla ricerca di verità nascoste sotto
la cosiddetta realtà che ci circonda.
__________
NOTE
*In appendice accludo alcune lettere indedite della nostra corrispondenza. Buona
parte delle lettere verranno depositate nell’“Archivio Bernari” all’Università
degli Studi di Roma “La Sapienza”.
65
ROCCO CAPOZZI
1
Bibbia napoletana, Firenze: Vallecchi, 1961. Edizione illustrata a colori, con
una tiratura di circa mille copie; nel 1977 appare l’edizione economica, senza le
illustrazioni, col titolo Napoli silenzio e grida e con una dedica a Paolo Ricci.
Nel 1999 la Newton Compton ristampa BN riproducendo l’edizione originale
con le immagini in bianco e nero e con delle foto del Bernari fotografo in
appendice. Le citazioni di “Ciminiere e rifiuti” e le altre da Bibbia napoletana
vengono dall’edizione della Newton Compton e riferite con l’abbreviazione BN.
2
Catologo, Camillo Catelli, pp. 19-20.
3
Per un discorso più approfondito si veda l’ottimo studio di Matteo
D’Ambrosio: I Circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del
fascismo (1996).
4
In “Questioni sul realismo”, in Non gettate via la scala, pp.107-12, Bernari
aveva ancora una volta discusso questo processo di simbiosi.
5
Si vedano le lettere in appendice. Le lettere di dicembre 1989 sono le ultime
due lettere scritte da Bernari prima dell’ictus.
6
Dal “Catalogo della mostra antologica di Paolo Ricci”, Todi (11 aprile-5
maggio 1974). Si veda pure il contributo di Menna, “Un normanno a Napoli”, in
Paolo Ricci. Opere dal 1926 al 1974, pp.13-17.
7
Rimando a un mio articolo “Miti e teatralità nelle opere di Bernari” dedicato
alla memoria dell’autore. Per quanto riguarda il teatro ricordiamo che Ricci e
Bernari erano grandi amici di Viviani e Edoardo De Filippo e che l’idea di
Napoli milionaria nasce di fatto in Villa Giulia dove risiedevano Ricci e De
Filippo.
8
Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A.
Unione Distruttivisti Attivisti. Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare
in appendice al mio saggio monografico Bernari tra fantasia e realtà (1984); qui
viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del
“Circumvisionismo”. Una delle sorprese nel completare la ricerca per questa
relazione è arrivata dall’internet. Sul sito di Daniele Lombardi si legge: “Il 9
giugno 1929 sul Corriere d’America a New York apparve il Manifesto di
Fondazione dell’U.D.A. ( Unione Distruttivisti Attivisti) di Napoli, firmato da
Carlo Bernard, Guglielmo Peirce e Paolo Ricci; nel quinto capitolo di questo
scritto si tratta della macchina come strumento ultilitariastico e antiemotivo”.
Credo che sia la prima volta che qualcuno accenni al fatto che il Manifesto sia
arrivato in America subito dopo la pubblicazione a Napoli.
9
Tre operai (1966), p. 44. Le citazioni al romanzo e alla “Nota ’65” provengono
da questa edizione e appaiono nel testo con le abbreviazioni T.O. e Nota.
10
Ad esempio: “Erba nera” e “Una porta che non s’apre”, due composizioni
surrealistiche composte intorno al 1941, appaiono nel 1951 in Siamo tutti
bambini e poi in Alberone eroe e altri racconti non esemplari (1971).
11
Un’altra testimonianza del Bernari fotografo si trova nella ristampa de Il
Gigante Cina, a cura di Enrico Bernard. Le foto fanno parte di un saggio scritto
dopo il viaggio in Cina nel 1950. Interessante che quando Bernari arriva in Cina
nota subito delle somiglianze tra i cinesi e i napoletani: “Solo in Cina ho trovato
66
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
qualcosa che somigli a Napoli: un teatro delle contraddizioni, affollato di
spettatori che recitano le loro contraddizioni” (BN, p. 195).
12
Rimando innanzitutto all’articolo dell’autore “Il paese delle anime” che è
anche il titolo della parte IV dedicata a Napoli in Non gettate via la scala,
Milano: Mondadori 1973 (le citazioni vengono da questa edizione e nel testo
l’opera viene abbreviata con “Scala”). Nella raccolta troviamo utilissimi saggi
sulla nozione del realismo in Bernari e come pure i saggi sulle genesi sia di Tre
operai che di Era l’anno del sole quieto, Le radiose giornate e Un foro nel
parabrezza.
13
Carlo Bernari viene colpito da un ictus a gennaio del 1989. Dopo circa tre
lunghi anni di sofferenza – una paralisi che gli toglie sia la parola che la facoltà
di scrivere – l’autore muore il 22 ottobre del 1992.
14
Sui possible worlds si veda innanzitutto Thomas Pavel, Fictional Worlds,
Cambridge: Harvard University Press, 1986.
15
Questa nozione del destino crudele degli operai era già presente nelle prime
pagine di Tre operai nel dialogo tra Teodoro e suo padre, come pure nel titolo
del terzo capitolo: “Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non
si può essere che operai” (p. 22).
16
Per un’analisi più dettagliata rimando alle mie pagine in Carlo Bernari. Tra
fantasia e realtà (1984), pp. 37-46; e “Metafisica e Neue Sachlikcheit in
Bernari”, in Nord e Sud (2000-2001).
17
Delle circa sei ore di registrazione nel dicembre 1972, il meglio è apparso
nella rivista Italianistica nel 1975. La nostra corrispondenza era iniziata dopo il
nostro incontro nella primavera del 1969 e a cominciare dall’autunno del 1972
iniziarono degli scambi epistolari che si rafforzarono sempre di più man mano
che iniziarono le mie pubblicazioni sulle sue opere.
18
“Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno
nei libri e nei film. Credevamo di essere fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo
immersi fino al collo con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella cultura ci
ispirava”; “le idee viaggiano nell’aria come il polline e una coscienza avvertita
sa sempre da dove spira il vento giusto”; “Nota ’65” in Tre Operai (Mondadori
1966, p. 251). La “Nota” scritta per la ristampa di Tre operai nel 1965
accompagnerà ogni ristampa.
19
L’intervista di Guido Piovene apparse sulla rivista Pan, II (1934), pp. 762765.
20
La recensione a Tre operai appare in Il giornale d’Italia, 29 marzo 1934. La
recensione di Bellonci viene segnalata da Bernari nella “Nota ’65”, assieme a
quella di Piovene, di Vittorini e di altri scrittori e critici. Nella recensione
Bellonci aggiunge che il nuovo titolo e le revisioni che accompagnano la
pubblicazione del 1934 sono validissime. Comunque egli asserisce di aver letto
la stesura precedente che portava il titolo “Tempo passato” circa un anno prima.
A nostro avviso se Bellonci ha letto “Tempo presente” e non la stesura de “Gli
67
ROCCO CAPOZZI
stracci” (si veda E. Ragni nell’introduzione a Gli stracci) è possibile che l’abbia
letto molto prima e quindi intorno al 1931-32. Quanto al realismo spettrale,
Walter Mauro ne parla in “La Napoli di Bernari” e poi nella voce “Bernari” per I
Contemporanei della Marzorati.
21
“Così, agli exempla che mi venivano attribuiti da fuori mano (Céline, Döblin,
Dos Passos, Werfel) dovrei ora aggiungere Gorki, Dreiser, Charles-Louis
Philippe, e poi Malraux, e soprattutto Guilloux; senza contare i più classici
Dostoijevski e Lautréamont, per quel tanto di tenebroso che filtra nelle pagine di
Tre operai” (“Nota”, p. 270).
22
Già dagli anni venti a casa di A. D’Ambrosio, nella “Libreria del 900” di
Arcuno, e a casa di Paolo Ricci a Villa Giulia, tantissimi artisti e intellettuali si
radunavano per discussioni, dibattiti e scambio di informazioni. Casa Ricci era
frequentata non solo da molti artisti napoletani ma anche da autori quali De
Filippo, Viviani, Guttuso, Pratolini, Gatto e Alvaro, tanto per fare i primi nomi.
23
Le attività dei tre amici vengono narrate in racconti come “Bettina ritrovata”,
in Per cause imprecisate (1965) e in romanzi semi-autobiografici quali Amore
amaro, Prologo alle tenebre e ne Le radiose giornate. Le stesse attività vengono
richiamate con una certa distanza critica, e con nostalgia, nell’ultimo romanzo di
Bernari: Il grande letto. Per le esperienze vissute con Ricci durante la guerra, si
vedano molte pagine in Vesuvio e pane.
24
Nella “Lezione 11”, dove associa sogno e immaginazione creativa, Freud
afferma: “La fantasia ‘creatrice’ non è in grado di inventare assolutamente nulla,
ma solo di mettere insieme elementi estranei tra loro” (p. 156). L’osservazione ci
sembra utile per le opere del surrealismo, della metafisica e del realismo magico
dove le associazioni tra oggetti, persone e ambiente non sono facilmente
interpretabili.
25
La prima mostra degli artisti della “Nuova oggettività” ebbe luogo a
Mannheim nel 1925, lo stesso anno che Franz Roh pubblica Dopo
L’espressionismo. Realismo Magico. Nella sezione III del Manifesto UDA si
nota che i tre conoscevano sia le opere della “Nuova Oggettività” sia il saggio di
Roh: “cfr. punto 5: “In Germania il movimento iniziato da Franz Ro(c)h (sic) col
suo Magesher Realismus è stato il primo tentativo, ancora romantico, di
realismo, che come sviluppo naturale, ha avuto il neo oggettivismo attuale”
(UDA p.154).
26
Alla mia domanda se il “realismo magico” abbia avuto molto peso sulla sua
prima narrativa, Bernari risponde: “Credo anch’io che il realismo magico c’entri
ben poco, Kafka sí, invece, e per quanto possa sembrare assurdo, Lautréamont,
che in questi anni tradussi assiduamente, proprio per tentare un innesto
sociologico del Kafkismo, e per sottrarmi cosí ai condizionamenti fascisti della
realtà, transfunzionando quest’ultima in chiave di selvaggio e di paura, una
contaminazione dove etnologia e demonico si dessero la mano” (Lettera, 20
maggio 1972).
27
Per quanto Era l’anno del sole quieto (1964) entri nel quadro di quella
letteratura che dal 1957, dopo la pubblicazione di Donnarumma all’assalto di
68
IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
Ottiero Ottieri, viene battezzata, “letteratura e industria”, possiamo capire perché
Bernari fosse d’accordo con chi scrive che questo romanzo rimane una delle sue
più acute disanime delle “piaghe del meridione”, e che assieme a Tre operai,
costituisce uno dei due pilastri di un ponte su cui scorrono la più parte delle sue
tecniche, tematiche e strategie narrative. In Era l’anno del sole quieto si notano
ancora alcune delle tecniche visive adottate dal Nostro negli anni trenta.
All’inizio del romanzo troviamo la seguente descrizione di un paesaggio urbano
napoletano (qui molto moderno) in cui le forme e i tagli geometrici sono ben
evidenti: “Lievemente declinante verso le stazioni di due reti suburbane, si
svolgeva ad ampie curve circuendo un panorama che soggioga chiunque lo
abbracci con un solo sguardo; analizzato però di tratto in tratto, sino al mare,
esso si rivela una tavola di geometria fitta di cubi, parallelepipedi, dodecaedri,
assurdamente affastellati su un termitaio vociante, tumultuoso”(1964, p. 23;
nostro corsivo). Ecco un’ulteriore conferma di ciò che Bernari afferma in Napoli
silenzio e grida: “Non vi è mio libro nel quale questa presenza di Napoli non si
sia trasformata in assenza” (p. 13).
28
1910. The Emancipation of Dissonance, p. 38.
29
Luigi Chiarini, “L’espressionismo e il linguaggio del film”, in Il bilancio
dell’espressionismo, p. 120.
30
Paolo Chiarini, Caos e geometria, p. 14.
31
La definizione è di Osvald Herzog, in Caos e geometria, op. cit., p. 26.
32
Ludwig Meidner, ibid., p. 165.
33
Nella “Nota” Bernari specifica che in Tre operai critici e lettori rimasero
sorpresi nel non trovare le due Napoli conosciute e cioè quella “crociana, da
archivio storico, o una Napoli digiacomiana nei suoi riflessi lirici o drammatici
(Russo o Viviani)”, p. 253. Alla Napoli turistica e storica Bernari sostituisce
quella povera e industriale poco conosciuta ma strumentale alle sue denuncie
socio-politiche dell’era fascista. È interessante notare che generalmente gli
scrittori napoletani hanno parlato delle “due Napoli”. Ad esempio, “Le due
Napoli” è il titolo di un saggio di Domenico Rea, scritto nel 1949 e poi incluso
in appendice al romanzo Quello che vide Cummeo (Mondadori, 1955). Per Rea
le due Napoli erano: da una parte quella centrale del Rettifilio e dei centri
turistici e dall’altra quella dei vicoli stretti dove dominavano miseria, ladrocinio
e ingiustizie. In questa seconda Napoli sia Rea che Bernari ambientano le loro
narrative che riguardano i napoletani e la loro napoletanità e come pure aspetti di
teatralità. Naturalmente un’opera importante per una discussione più
approfondita sui rapporti tra scrittori e Napoli, si veda Anna Maria Ortese, Il
mare non bagna Napoli (1953; ristampato nel 1994), anche se tra questi non
appare Bernari.
34
Dei paesaggi sironiani Renato Barilli afferma: “[…] il lavoro che ferve in
quella medesima civiltà urbana, fondata sulle fabbriche, produce dal suo seno
fiotti di fumo, di caligine, che contribuiscono a contornare di un orlo luttuoso
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ROCCO CAPOZZI
case, opifici, veicoli, strade”. Ma il noto critico avvisa pure: “Bisogna, però fare
molta attenzione, circa il modo migliore d’intendere queste periferie sironiane.
Spesso, infatti, si cade nella trappola di interpretarle come referti volti a
constatare squallore, degrado, ‘ male di vivere’: nulla di più contrario alle
intenzioni dell’artista”. Si veda “Che città grigia, anzi nera”, p. 167.
35
L’articolo era apparso col titolo “L’arte è paura” nella rivista Ulisse nel 1950;
poi in Nuovi Argomenti, 27, 1972, pp. 121-26 e ristampato in Non gettate via la
scala (1973), pp. 66-73. Va notato pure che all’inizio degli anni ’40 Bernari
aveva scritto, o meglio annotato “32 punti sulla natura”, e tra questi parla spesso
della paura” – di fatto all’origine gli appunti portavano il titolo “32 punti sulla
paura” (si veda il saggio di Enrico Bernard sull’inedito di Bernari apparso
recentemente nella rivista Forum Italicum). Va ricordato pure che in “Ciminiere
e futuro” Bernari già parlava di vari aspetti della paura: “[…] e fu al loro fianco
che io provai per la prima volta quella ‘paura’, che doveva apparirmi poi con
mille voci e nei suoi infiniti travestimenti”. (BN, p. 58)
36
Qui non discuto Prologo alle tenebre perché il romanzo viene scritto durante
la caduta del fascismo e cioè quando Bernari poteva parlare esplicitamente di
paura. Ad esempio Eugenio, l’io-narrante, descrivendo la sua Napoli spiega: “La
città sembrava già conquistata dal nemico, e noi, sulle soglie dei nostri rifugi, ad
osservare impotenti il saccheggio; ci sentivamo frugare nel cuore, la luce spietata
dell’inquisitore penetrava nei nostri affetti, e li sconvolgeva nell’insinuarvi
l’angoscia e la paura [...]”. I cinque personaggi centrali di Prologo vivono tutti
di paure. Essi non solo hanno paura delle bombe e delle spie fasciste ma hanno
anche paura di amare, di agire e di dire la verità, e quando si nascondono nei
loro segreti hanno paura perfino delle proprie menzogne.
37
Per quanto riguarda la funzione della libera fantasia davanti alla realtà, quando
nel 1972, durante l’intervista, chiesi a Bernari se era dunque d’accordo con
Pirandello quando all’inizio di Sei personaggi in cerca d’autore fa dire al padre
“la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la
sua opera di creazione” (Maschere Nude, I, 79) egli sorrise, e poi rispose “certo,
non ci avevo pensato, ma è proprio così”. Fu allora che decidemmo che forse la
mia tesi avrebbe portato il titolo “Bernari tra fantasia e realtà”.
38
L’intervista apparse con il titolo “Bontempelli uno e due” in L’Italia
letteraria, poi riveduta e ristampata in L’Europa letteraria nel 1960, pp. 101-07,
e infine appare con alcune revisioni in Non invidiate la loro sorte, pp. 99-105.
39
Si veda in Non gettate via la scala “Mann e noi” (pp. 177-202). L’articolo è
importante perché dimostra la sua conoscenza di Thomas Mann e perché, ancora
una volta, Bernari discute della cultura europea e in particolare quella della
“Repubblica di Weimar”.
40
Lettera inedita del 13 novembre 1974.
41
Alla fine di Agosto, in un ristorante nei pressi di Ponte Milvio, a pochi passi
dalla residenza romana di Bernari in via Gosio, registrai l’ultima intervista
apparsa in Forum Italicum (1994) . La risposta che qui cito fu rielaborata da
Bernari e mi arrivò in una lettera due mesi dopo. Marcella, sua moglie, precisò
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IL REALISMO SPETTRALE NELLE PRIME OPERE
DI CARLO BERNARI*
che fu l’ultima lettera scritta da Carlo pochi giorni prima dell’ictus. Capozzi,
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