21 - § 7 La narrativa fra tradizione e sperimentalismo

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21 - § 7 La narrativa fra tradizione e sperimentalismo
21 - § 7
La narrativa fra tradizione e sperimentalismo
Uno degli aspetti caratteristici successivi alla cultura della neoavanguardia è, dopo il
mescolamento di generi, stili, strutture, tendenze, la sofisticazione letteraria. La letteratura ha
perduto fissità e specificità che ancora aveva ed ha acquistato dall'assimilazione dei linguaggi
della psicanalisi, dell'antropologia, della sociologia etc. una sensuosità imprecisa e ricercata,
ancora in via di formazione; industria e mass-media, inoltre, ne hanno alterato le strutture (ma
su questo ritorneremo più avanti). Le metamorfosi che opere antiche assumono per opera di
adattamenti, travestimenti, tagli, manipolazioni sono di solito prive di motivazioni, non
rispondono a esigenze culturali.
Il muovere - spesso, nella critica - dalla contemporaneità per misurare il passato senza averlo
storicizzato ha per conseguenza l'abnormità di certe interpretazioni. Ma anche questi
fenomeni si accompagnano a ciò che è in fieri nella storia e nella cultura. Accanto alla
letteratura che cerca i modi in cui svolgersi nella società di oggi, abbiamo la letteratura che si
svolge dai suoi precedenti involucri.
Ricordiamo tra i narratori Mario La Cava (1908-1988) di Bovalino Marina che dalla vena di
moralista di Caratteri (1939) è venuto acquistando misura di narratore sociale con I fatti di
Casignana (1974) che narrano l'occupazione di un bosco da parte dei contadini poveri della
Calabria jonica e l'intervento sanguinoso delle squadre fasciste; Mario Tobino (1910-1991) di
Viareggio, autore di La brace dei Biassoli (1956) e di un romanzo sulla Resistenza, Il
clandestino (1962); Dante Troisi (1920-1989) di Tufo (Avellino), vigoroso moralista nel
Diario di un giudice (1955) e in I bianchi e i neri (1956) e narratore umano, problematico in
La gente di Sidaien (1957), L'odore dei cattolici (1963); Mario Pomilio (1921-1990) di
Orsogna, scrittore cattolico di romanzi in cui peccato e colpa non hanno possibilità di
redenzione ma autore anche di La compromissione (1965), romanzo che sottolinea l'abuso del
potere inteso come privilegio e l'incapacità dell'opposizione; Guglielmo Petroni (1911-1993)
di Lucca, autore dell'autobiografico Il mondo è una prigione (1949) sulla detenzione nelle
prigioni fasciste di via Tasso, di La morte del fiume (1974) testimonianza della fedeltà dello
scrittore al mondo di Lucca; Giuseppe Bonaviri (1924-2009) di Mineo il quale dal Sarto della
stradalunga (1954) a Martedina (1976), attraverso una serie di romanzi originali, è venuto
sviluppando una sua visione cosmica e fantastica, poetica e sovrareale in cui è il riflesso
esistenziale di un mondo distrutto dalla tecnologia; Antonio Meluschi (1909-1977) di
Vigarano Mainarda, autodidatta che ha avuto Gorkij quale modello e la Resistenza come tema
fondamentale (La morte non costa niente, 1946; Adamo secondo, 1952; La fabbrica dei
bambini, 1955).
Possiamo soltanto accennare ancora a Nino Palumbo, Lucio Mastronardi, Luigi Santucci,
Luciano Bianciardi, Giuseppe Cassieri, Silvano Ceccherini, Enrico Emanuelli, Fausta
Cialente, mentre Elsa Morante (1912-1986) di Roma tende a un affascinante «romanzesco»,
un mondo di passioni, di allucinazioni quasi melodrammatiche, il quale ha valore per il
significato che racchiude e non per la sua realtà. Così è in Menzogna e sortilegio (1947) in cui
il romanzesco è costituito dai sogni di grandezza e di amore, di passioni masochiste a cui si
sono abbandonati i parenti di Elisa mentre in L'isola di Arturo (1957) simboli e miti
accendono il rapporto di Arturo con l'isola di Procida, l'ammirazione verso il padre prima che
ne scopra i vizi.
La Morante sente che la realtà è avversa e non conoscibile e le romanzesche invenzioni della
scrittrice sono i tentativi di rendere oggettivo e coordinato ciò che è irreale e franto. Perciò
allucinati sono certi aspetti della realtà descritti nei racconti dello Scialle andaluso (1963)
mentre in La storia (1974), che descrive le vicende durante e dopo la seconda guerra
mondiale di una famiglia romana composta da una donna, un ragazzo, un bambino e due cani,
la scrittrice esprime la sua sfiducia nella storia («tuta la Storia — dice Davide — l'è una storia
di fascismi più o meno larvati... nella Grecia di Pericle... e nella Roma dei Cesari e dei Papi
[...] sèmpar e departut i liberi e gli schiavi... i ricchi e i poveri... i compratori e i venduti») e la
violenza che cade sui poveri da una «forza che non conoscono e che li falcia spietatamente,
presentandosi eternamente, a tutte le generazioni, con il volto enigmatico di una sfinge»
(Luciana Martinelli).
L'esperienza della vita siciliana alimenta la narrativa di Leonardo Sciascia1 (1921-1989) di
Racalmuto fin dalle Parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958) in cui è una
visione pessimistica intorno alla giustizia e alla ragione fondata sul passato. Nel Giorno della
civetta (1961) il giovane ufficiale settentrionale esperimenta la sua fede umana in strutture
sociali scoraggianti mentre nel Consiglio d'Egitto (1963) il borghese illuminato crede in un
futuro migliore, contro l'aristocrazia e anche se lui stesso sarà giustiziato. Al libro «giallo» si
richiamano A ciascuno il suo (1964), Il contesto (1971), Todo modo (1975): il colpevole,
però, sfugge sempre alla giustizia. La malavita siciliana, le degradazione della politica e della
società, il «contesto» di responsabilità e di mafia che svolge chi comanda hanno creato in
Sciascia un sentimento di pessimismo che nasce dalla ragione. Candido ovvero un sogno fatto
in Sicilia (1977) non ha la struttura del libro «giallo» né deriva dalla storia ma dal testo
letterario di Voltaire.
Il linguaggio narrativo della tradizione è dissolto nelle sue strutture sentite come inadatte da
Antonio Pizzuto (1893-1976) di Palermo (funzionario della Interpol, questore, dotato di larga
cultura, traduttore di Kant e classici antichi), fautore di una lingua «continua» e di una misura
narrativa corrispondente al ritmo di continuità che è nel flusso dell'esistenza. La narrazione di
Pizzuto, con i suoi strumenti stilistici e formali e con l'abolizione di tante forme tradizionali è
una sferzata sperimentale che dà una brusca impennata alla prosa. Questa, perdendo parecchi
guarnimenti secolari, appare più lucida e metallica, arieggia la prosa dei futuristi.
L'operazione di Pizzuto (in Signorina Rosina, 1956; Si riparano bambole, 1960; Ravenna,
1962; Paginette, 1964; Sinfonia, 1966; Testamento, 1969) è ritenuta da taluni critici un
artificio privo di motivazioni e di finalità.
Dallo sperimentalismo di «Officina» passa alla narrativa (dopo essere stato poeta, funzionario
dell'industria capitalistica di Olivetti e Agnelli) l'urbinate Paolo Volponi (1924-1994). La
fabbrica è il motivo del romanzo Memoriale (1962) in cui il nevrotico Albino Saluggia riesce
a sottrarsi allo spaventoso condizionamento sociologico e psicologico, a non farsi calamitare
dall'alienazione che risucchia nel sistema e può organizzare la rivolta che, in quanto isolata e
ideale, è una sconfitta. Nella Macchina mondiale (1965) Anteo Crocioni inventa una
macchina che dovrebbe rimettere in ordine il mondo impazzito ma il romanzo è freddo,
costruito più che rappresentato. Il Corporale (1974) racconta la crisi ideologica e la delusione
storica di un ex dirigente d'industria ed ex comunista, Girolamo Aspri, mentre in Sipario
ducale (1975) la strage di piazza Fontana del 1969 è osservata da un angolo di provincia quale
è Urbino.
Il punto di vista di Volponi nello scrivere della fabbrica è quello della problematica borghese
mentre l'operaio metalmeccanico calabrese Vincenzo Guerrazzi (1940) di Mammola, che
lavora all'Ansaldo di Genova, vive drammaticamente, con linguaggio ironico e scatenato
(«Signori Bocca, Cederna, Moravia e Montale, Montini e Montanelli, e tutti gli altri, io,
operaio metalmeccanico [...] da oggi mi ritiro dalla produzione, non ho più voglia di produrre
per voi...visto che lavorare stanca ed è fatica immane, ho pensato di fare anch'io il vostro
mestiere e da oggi mi dedico all'arte dello scrivere») la propria condizione e rappresenta
l'alienazione operaia in Nord e Sud uniti nella lotta (1974), Le ferie di un operaio (1974) e
nell'inchiesta collettiva L'altra cultura (1975).
Al «Gruppo 63» appartenne Luigi Malerba (1927-2008) di Berceto (Parma), antirealista, alla
ricerca sperimentale, inventiva e bizzarra, di nuove vie espressive. Taluni esiti surreali e
ironici rompono le strutture narrative tradizionali mentre i temi più recenti di Malerba (dopo Il
serpente, 1966; Salto mortale, 1968: Il protagonista, 1973) tendono a vedere nel Potere una
assolutezza metafisica incontrastabile (Rose imperiali, 1974).
Anche Stefano D'Arrigo (1919-1992) nei folti diverticoli di Horcynus orca (1975) in cui si
distorce l'unità del romanzo getta la sua sperimentazione lessicale e sintattica, strumento della
visione tragica unitaria che lo scrittore riesce a ricomporre anche attraverso miti antichi e
moderni.
Estraneo alle mode e attento, invece, a scavare nella cultura del mondo meridionale e nei
problemi meridionali con progressivo arricchimento artistico è Saverio Strati (1924) di S.
Agata del Bianco (Reggio Calabria). Strati comincia a scrivere nel 1952 dopo essere stato
muratore, autodidatta, allievo di Giacomo Debenedetti all'Università di Messina. Il tema del
calabrese misero ed errante domina nei suoi romanzi, perciò i personaggi hanno accenti velati:
il ragazzo di La Marchesina (1956) si meraviglia del mondo che viene scoprendo e reagisce
con sensibilità in episodi teneri e delicati. In La teda (1957) c'è la rappresentazione sociale di
uno sperduto paese jonico in cui la gente vive tra le capre, in tuguri affumicati, nutrendosi di
castagne: in quel paese alcuni muratori risvegliano la coscienza sopita dei contadini
predicando la ribellione in nome della giustizia sociale.
Ma l'uomo di Strati, uomo del popolo, vuole entrare nella storia, compiere la sua esperienza,
con la lotta contro il paese, il padrone, il costume familiare retrivo; è il simbolo delle
popolazioni meridionali che prendono coscienza dopo essere rimaste per secoli soggette a
stranieri, tiranni, pregiudizi e superstizioni. Strati accompagna la narrazione con la sua pietà
umana, con la tenerezza di solidale, partecipe di dolori e affanni. Da un tempo all'altro — da
qui la sua storicità — Strati contrappunta la via della speranza, di lotte, di sconfitte dei poveri
della Calabria. Così dal Nodo (1965) a Gente in viaggio (1966), a Noi lazzaroni (1972) Strati
osserva che il Sud si viene modificando nelle strutture ma che le vecchie ideologie
sopravvivono, che i cambiamenti sono avvenuti in modo sbagliato: nella regione sono entrate
cose e ne sono partiti uomini. Partenza dalla regione e miseria della regione sono collegate
all'incapacità della dirigenza politica nazionale.
Gli uomini di Strati aspirano ad una vita civile ma ne sono continuamente ricacciati indietro.
Lo scrittore non si rifugia nel mito alvariano di una necessaria realtà contadina ricca di valori,
egli sa che se qualcosa è mutato con la fine del fascismo i «lazzaroni» emigranti dal Sud
continuano a pagare per colpa di altri. Sulle vicende Strati distende un velo di accorato dolore
non rassegnato che è la nota più viva della narrazione calabrese di questi anni. In tutte le sue
narrazioni lo scrittore fa circolare, con strumenti linguistici anche dialettali idonei, l'ostinata
volontà di trasformazione della realtà. Nel Selvaggio di Santa Venere (1977) i mali del Sud
(emigrazione, clientelismo, mafia) sono confrontati con la vita delle città del Nord:
protagoniste di questo capolavoro sono tre generazioni (il nonno, il padre Leo, il nipote) con
la loro epopea tragica e negativa in cui si rispecchiano la brutalità della mafia con i suoi rituali
e il suo codice e il desiderio di liberazione da un mondo violento e disumano.