IL CENTRO DI DETENZIONE DI GUANTANAMO BAY I
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IL CENTRO DI DETENZIONE DI GUANTANAMO BAY I
Note di analisi OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE n. 14 – 25 febbraio 2009 IL CENTRO DI DETENZIONE DI GUANTANAMO BAY I detenuti di Guantanamo Bay A cura dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) Due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, il Presidente Obama ha firmato tre Executive Orders ed un Memorandum che affrontano alcuni dei problemi più urgenti legati al centro di detenzione di Guantanamo Bay. A sette anni dalla sua apertura e dopo svariati interventi da parte del potere legislativo, esecutivo e giudiziario la prigione di Guantanamo continua ad essere “a legal black hole”, un’evidente violazione dei valori fondamentali dello Stato di diritto che ha contribuito ad indebolire la credibilità degli Stati Uniti sul piano internazionale. LA CREAZIONE DI UN CENTRO DI DETENZIONE NELLA BASE DI GUANTANAMO BAY Il centro di detenzione di Guantanamo Bay è la principale struttura utilizzata dal Governo statunitense per la reclusione dei soggetti catturati nel corso della cd. guerra al terrorismo. La prigione, composta da diversi campi (Camp Delta, Camp Iguana e Camp X-Ray), si trova all’interno dell’omonima base navale che, sebbene situata sulle coste cubane, è posta sotto il pieno controllo dell’Esercito statunitense. Con un accordo stipulato nel 1903, infatti, il Governo cubano si è impegnato a concedere in locazione all’esercito statunitense il territorio circostante la Baia di Guantanamo per la costruzione di una base militare e di una struttura mineraria per lo sfruttamento di giacimenti carboniferi. Ai sensi dell’articolo III dell’Accordo, gli Stati Uniti riconoscono l’ultimate sovereignty di Cuba, la quale a sua volta accetta che, durante tutto il periodo dell’occupazione, gli Stati Uniti esercitino completa giurisdizione e pieno controllo su tali zone. L’Accordo del 1903 è stato confermato anche in un successivo trattato concluso tra le stesse Parti nel 19341. Il centro detentivo di Guantanamo Bay è diventato operativo nel gennaio 2002. Nel corso di questi 7 anni, il centro ha ospitato 779 detenuti di 42 nazionalità diverse, mentre attualmente il loro numero è sceso a 248 (dati aggiornati a dicembre 2008). La maggior parte dei detenuti sono stati catturati nel corso delle operazioni militari condotte in Afghanistan nel 2001-2002; una parte, invece, è costituita da affiliati di Al Qaeda arrestati in altri contesti, quali il Pakistan e la Bosnia-Erzegovina. Contrariamente a quanto affermato dalle autorità USA, secondo alcuni analisti non tutti questi soggetti erano esponenti di primo livello dei Talebani o di Al Qaeda: in molti casi si trattava di soggetti impegnati in funzioni di basso livello nell’esercito afgano o di persone che avevano legami solo estemporanei con l’organizzazione terroristica. Esemplare a questo riguardo è il caso di Sayed Abbasin, tassista di Kabul arrestato nel 2002 perché sorpreso mentre stava trasportando un signore della guerra. La possibilità per l’esecutivo di detenere i soggetti catturati nel corso della cosiddetta war on terrorism costituisce una delle misure adottate in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Più nel dettaglio, il 18 settembre 2001, il Congresso degli Stati Uniti aveva adottato la Joint Resolution “Authorization for the Use of Military Force” (AUMF), con la quale aveva conferito al Presidente l’autorizzazione ad utilizzare tutti i mezzi necessari contro i soggetti che avessero a vario titolo partecipato agli attacchi terroristici contro il World Trade Center e il Pentagono o che costituissero una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. 1 Dal 1959, il Governo cubano ritiene che l’Accordo debba ritenersi estinto, chiedendo la restituzione dell’area, ma senza successo. SENATO DELLA REPUBBLICA SERVIZIO STUDI - 06_67062629 - [email protected] SERVIZIO AFFARI INTERNAZIONALI - 06_67062989 [email protected] CAMERA DEI DEPUTATI SERVIZIO STUDI – DIPARTIMENTO AFFARI ESTERI 06_67604939 - [email protected] Senato della Repubblica Camera dei deputati Sulla base di tale autorizzazione, il 13 novembre 2001 il Presidente George W. Bush ha adottato il Presidential Military Order “Detention, Treatment and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism” (PMO 2001). L’ordinanza prevedeva la possibilità di detenere e sottoporre a giudizio qualsiasi soggetto non in possesso della cittadinanza statunitense che il Presidente avesse ragione di ritenere che avesse fatto parte di Al Qaeda o partecipato alla commissione o alla preparazione di atti terroristici contro gli Stati Uniti. LO STATUS DEI SOGGETTI DETENUTI AI SENSI DEL PRESIDENTIAL MILITARY ORDER 2001 IL PMO 2001 stabiliva che i soggetti detenuti dovessero considerarsi enemy combatants2 e non prigionieri di guerra ai sensi del diritto internazionale umanitario. Così come precisato in un Memorandum del Segretario alla Marina (2003), doveva considerarsi “combattente nemico” chiunque avesse fatto parte delle milizie talebane o di Al Qaeda, o avesse partecipato alle ostilità contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati. Secondo l’Amministrazione americana, la scelta di negare loro lo status di prigioniero di guerra era giustificata dal fatto che gli Stati Uniti erano impegnati in un conflitto contro un governo illegittimo – i talebani – e contro una rete terroristica, entrambi privi dei requisiti necessari per poter beneficiare delle garanzie previste dalle Convenzioni di Ginevra. In seguito alle forti proteste da parte dell’opinione pubblica internazionale, nel 2003 l’Amministrazione statunitense ha parzialmente rivisto questa sua posizione, affermando di ritenere applicabile la III Convenzione di Ginevra ma solo nei confronti dei cd. “talebani”, pur senza riconoscere loro lo status di prigionieri di guerra. Il mancato riconoscimento dello status di prigionieri di guerra ai detenuti di Guantanamo voleva escludere l’applicazione nei loro confronti delle garanzie previste dalle Convenzioni di Ginevra e, in particolare, della possibilità di adire un tribunale competente a stabilire il loro status (art. 5 della III Convenzione di Ginevra). Ai sensi del PMO 2001, spettava al Presidente USA qualificare, con una decisione a carattere discrezionale, un soggetto come enemy combatant, di disporne la detenzione senza dover formalizzare le accuse a suo carico ed, eventualmente, di sottoporlo a giudizio di fronte a commissioni militari per violazione delle leggi di guerra o di altre norme applicabili dai tribunali militari. Il PMO 2001 prevedeva che le Military Commissions, tribunali speciali nei quali tutti i ruoli – anche quello dell’avvocato difensore - erano ricoperti da militari nominati dal Segretario della Difesa, fossero le uniche istanze competenti a giudicare gli enemy combatants. La procedura era disciplinata da ordinanze emanate dal Dipartimento della Difesa, le quali ponevano forti limitazioni al diritto ad un equo processo. Era previsto, ad esempio, che le commissioni fossero sottratte alle norme sulla valutazione delle prove vigenti nei processi penali celebrati nelle corti distrettuali degli Stati Uniti e al diritto processuale delle corti penali in tempo di guerra, che potessero essere utilizzate anche prove estorte con mezzi coercitivi e che le decisioni non potessero essere impugnate di fronte ad istanze giurisdizionali statunitensi. I CASI RASUL ED HAMDI E LA CREAZIONE DEI COMBATANT STATUS REVIEW TRIBUNALS Pur in presenza di tali limitazioni, fin da subito sono stati numerosi i ricorsi (petition for a writ of habeas corpus) presentati da soggetti detenuti a Guantanamo alle corti statunitensi per vedere accertata l’infondatezza giuridica della loro detenzione. Il Governo contestava la sussistenza della giurisdizione delle corti statunitensi su ricorsi proposti da cittadini stranieri detenuti in un territorio formalmente non sottoposto alla sovranità territoriale statunitense. La posizione del governo si fondava sulla sentenza Eisentrager adottata dalla Corte Suprema nel 1950, nella quale era stata negata la possibilità per 21 prigionieri tedeschi, catturati in Cina e detenuti in Germania, di beneficiare dell’habeas corpus. Sebbene inizialmente accolta da alcuni tribunali di grado inferiore, l’impostazione è stata rigettata dalla Corte Suprema nelle decisioni Rasul c. Bush e Hamdi c. Rumsfeld del 28 giugno 2004. Nella sentenza Rasul, la Corte ha riconosciuto la sussistenza della competenza giurisdizionale delle corti statunitensi sui ricorsi proposti dai detenuti di Guantanamo, posto che l’area su cui sorge la base navale si trova sotto il pieno controllo civile e militare degli Stati Uniti. La Corte ha chiarito come il campo di applicazione dell’habeas corpus, una delle garanzie fondamentali previste dalla Costituzione americana a favore dei soggetti detenuti, non possa essere limitato attraverso l’utilizzo di una nozione formalistica di sovranità, la quale non prenda in considerazione l’esercizio da parte degli Stati Uniti di un potere di fatto sul territorio. La medesima impostazione è stata adottata anche nella sentenza Hamdi, relativa al caso di un cittadino americano recluso a Guantanamo come enemy combatant. In questa circostanza, è stato messo in luce che l’imputato, in quanto cittadino statunitense detenuto in un luogo sottoposto alla giurisdizione del suo Paese, avesse diritto, ai sensi della Due Process Clause, ad un processo equo davanti ad un giudice 2 Il concetto era stato utilizzato per la prima volte dalla Corte Suprema nella sentenza Ex Parte Quirin del 1942, in un caso relativo ad otto sabotatori nazisti catturati a Long Island e successivamente condannati a morte da una commissione militare costituita dal Presidente Roosevelt. Senato della Repubblica Camera dei deputati imparziale ed indipendente, senza che la qualifica di “combattente nemico” che gli era stata attribuita potesse in alcun modo limitare il godimento di tale diritto. A seguito di tali pronunce, proprio per evitare ulteriori coinvolgimenti da parte delle corti federali, il Dipartimento della Difesa ha deciso l’istituzione dei Combatant Status Review Tribunals (CSRT). Si trattava di istanze amministrative composte da tre ufficiali dell’Esercito statunitense, alle quali i detenuti di Guantanamo potevano rivolgersi per chiedere di riesaminare lo status di enemy combatant loro attribuito. Le regole procedurali prevedevano che il detenuto non avesse diritto all’assistenza di un avvocato, ma solo di un ufficiale militare, e non potesse avere accesso alle prove presentate a suo carico. D’altro canto, il CSRT aveva la facoltà di prendere in considerazione qualsiasi informazione ritenuta rilevante, anche se ottenuta attraverso l’utilizzo di mezzi coercitivi, ed era tenuto a riconoscere, al momento dell’adozione della decisione finale, una presunzione di validità a favore delle prove addotte dal governo. In altre parole, il procedimento di fronte ai CSRT era ispirato al principio di colpevolezza, spettando al detenuto dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni del governo. Tra il 2004 ed il 2007 i CSRT hanno sottoposto a revisione lo status di 572 detenuti, tra i quali Khalid Sheik Mohammed e altri high-level detainees trasferiti a Guantanamo nell’autunno del 2006 dopo essere stati incarcerati per un lungo periodo in prigioni segrete della CIA all’estero. Per 534 di questi detenuti è stata confermata la qualifica di enemy combatant, mentre negli altri casi è stato deciso il rilascio. IL DETAINEE TREATMENT ACT DEL 2005 E IL CASO HAMDAN La costituzione dei CSRT ha lasciato irrisolti alcuni dei problemi principali relativi allo status e alle condizioni di detenzione dei soggetti presenti nella base di Guantanamo Bay. Il 30 dicembre 2005 il Congresso ha così adottato il Detainee Treatment Act (DTA 2005), il quale fissava gli standard di trattamento per i soggetti sotto il controllo del Dipartimento alla Difesa e disciplinava la questione della possibilità per i detenuti di Guantanamo di rivolgersi alle corti federali per ottenere la revisione della legittimità della loro detenzione. Quanto al primo aspetto, il DTA 2005 confermava il divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti di coloro che si trovassero sotto il controllo del governo statunitense e regolava le tecniche di interrogatorio dei prigionieri. A tale ultimo proposito era evidente la volontà da parte dell’Amministrazione americana di rispondere alle critiche mosse sul punto dall’opinione pubblica nazionale e da varie componenti della comunità internazionale, senza, però, impedire ai propri agenti l’utilizzo di strumenti ritenuti essenziali per la lotta contro il terrorismo. Così, se da un lato il DTA 2005 si preoccupava di regolare in modo analitico le tecniche di interrogatorio utilizzabili e poneva limiti all’utilizzo da parte dei CSRT di informazioni ottenute attraverso l’utilizzo di mezzi coercitivi, dall’altro escludeva la possibilità di perseguire il personale impegnato in operazioni che prevedessero la detenzione e l’interrogatorio di cittadini stranieri sospettati di terrorismo se questi avesse agito in buona fede senza sapere che le tecniche adottate fossero illegittime. Quanto al secondo aspetto, la Sezione 1005 del DTA 2005 escludeva la competenza giurisdizionale di qualsiasi corte statunitense per l’esame di una petition for a writ of habeas corpus presentata da un detenuto di Guantanamo e di qualsiasi azione promossa nei confronti degli Stati Uniti o di suoi agenti da parte di uno straniero sottoposto a custodia militare. Inoltre, il DTA 2005 conferiva competenza esclusiva alla Corte d’Appello per il Distretto di Columbia (sede del Governo federale) in ordine alla valutazione della legittimità delle decisioni adottate dai CSRT, escludendo, però, che il riesame della Corte d’Appello potesse riguardare anche il merito della decisione. A giugno 2006 la Corte Suprema è nuovamente intervenuta sulle questioni relative ai detenuti di Guantanamo con la sentenza Hamdan c. Rumsfeld. Salim Ahmed Hamdan, cittadino di nazionalità yemenita, si presumeva fosse stato l’autista personale e la guardia del corpo di Osama Bin Laden dal 1996 al 2001. Dopo la cattura in Afghanistan nel 2001, era stato trasferito a Guantanamo nel 2002 e dichiarato enemy combatant dal Presidente Bush a luglio 2003. A febbraio 2004, Hamdan era stato portato di fronte ad una Military Commission, in quanto accusato di crimini di guerra e terrorismo. Contro tale procedimento, l’avvocato di Hamdan aveva proposto una petition for a writ of habeas corpus, la quale era stata accolta dalla Corte distrettuale per il Distretto di Columbia. Dopo l’annullamento di tale pronuncia da parte della Corte d’Appello per il Distretto di Columbia avvenuta a luglio 2005, Hamdan si era rivolto alla Corte Suprema chiedendo la revisione della decisione d’appello. La Corte Suprema ha, prima di tutto, rigettato l’eccezione di inammissibilità presentata dal Governo, rilevando che l’esclusione della competenza giurisdizionale di qualsiasi corte statunitense per l’esame di una petition for a writ of habeas corpus sancita dal DTA 2005 non potesse trovare applicazione in casi pendenti al momento dell’entrata in vigore dell’atto. Nel merito, la Corte Suprema ha sancito l’illegittimità della scelta di sottoporre Hamdan al giudizio di una Military Senato della Repubblica Camera dei deputati Commission e non di un tribunale militare, essendo tale scelta contraria sia all’Uniform Code of Military Justice sia alle Convenzioni di Ginevra. Le commissioni istituite dall’esecutivo costituivano, infatti, a giudizio della Corte, una forma di giustizia sommaria che non garantiva il livello di protezione minimo previsto dall’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, ritenuto applicabile al caso di specie. IL MILITARY COMMISSION ACT DEL 2006 E IL CASO BOUMEDIENE In risposta alla sentenza Hamdan, il 17 ottobre 2006 il Congresso ha adottato il Military Commission Act (MCA 2006). L’atto confermava la legittimità delle commissioni militari istituite secondo quanto previsto dal PMO 2001, modificando solo alcuni aspetti procedurali e sancendo la loro compatibilità con l’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra. Il MCA 2006 ribadiva l’incompetenza di qualsiasi corte statunitense a pronunciarsi sulle istanze di habeas corpus, ampliando la portata della Sezione 1005 del DTA 2005, nonché su ogni azione giudiziaria avente ad oggetto la detenzione, il trasferimento, il trattamento o il giudizio di un enemy combatant. Inoltre, pur confermando il divieto di ammettere in giudizio le dichiarazioni ottenute con la tortura (divieto già sancito nel DTA 2005), il MCA 2006 lasciava aperta la possibilità di utilizzarle qualora fossero dotate di sufficiente valore probatorio e contribuissero a servire l’interesse della giustizia. La scelta di negare agli enemy combatants detenuti a Guantanamo la possibilità di richiedere un writs of habeas corpus codificata nel MCA 2006 è stata dichiarata illegittima dalla Corte Suprema nella decisione adottata nel caso Boumediene del 12 giugno 2008. Prima di tutto, la Corte ha ribadito l’applicabilità del diritto di habeas corpus ai detenuti di Guantanamo, anche a quelli non statunitensi, facendo riferimento al controllo assoluto esercitato dal Governo statunitense su Guantanamo Bay ed alla mancanza di ragioni di ordine pratico che potessero compromettere la missione del governo nel caso in cui ai detenuti fosse riconosciuto il diritto a rivolgersi ad un giudice federale. La Corte ha poi sancito l’incompatibilità del MCA 2006 con la clausola di sospensione prevista dall’articolo I, sez. 9, secondo comma della Costituzione, la quale prevede la possibilità di sospendere il diritto di habeas corpus nel caso in cui sia necessario per garantire la sicurezza pubblica in caso di ribellione o invasione, ma solo previa istituzione di un rimedio alternativo adeguato ed effettivo per valutare la legittimità della detenzione. Sul punto, la Corte ha messo in luce l’inadeguatezza del meccanismo di riesame dinanzi alla Corte di Appello, non essendo possibile in questa sede contestare la decisione del Presidente di detenere a tempo indefinito gli enemy combatants sulla base di una semplice ordinanza, né sottoporre a revisione la ricostruzione dei fatti da parte dei CSRT, né chiedere l’ammissione di nuove prove. La Corte non si è, però, pronunciata sulla possibilità di estendere ai detenuti di Guantanamo tutti i diritti garantiti dalla Costituzione, tra i quali spicca il diritto ad un equo processo sancito dal Quinto Emendamento. VERSO LA CHIUSURA DELLA PRIGIONE DI GUANTANAMO BAY A sette anni dalla sua apertura e dopo svariati interventi da parte del potere legislativo, esecutivo e giudiziario la prigione di Guantanamo continua ad essere “a legal black hole”: appelli per la sua chiusura sono arrivati anche da alcuni degli alleati più fedeli dell’Amministrazione Bush nella war on terror, come, ad esempio, Tony Blair. La detenzione sine die di soggetti ai quali vengono negate anche le garanzie minime previste dal diritto interno ed internazionale costituisce un’evidente violazione dei valori fondamentali dello Stato di diritto e ha contribuito ad indebolire la credibilità degli Stati Uniti sul piano internazionale. La necessità di porre rimedio a questo tipo di situazione ha rappresentato uno dei cardini della campagna elettorale di Barack Obama, fin dalle primarie del Partito democratico. In un discorso tenuto nell’agosto 2007 al Wilson Centre di Washington, l’attuale Presidente aveva affermato che, una volta eletto, avrebbe chiuso Guantanamo, abrogato il MCA 2006 e approntato una risposta conforme ai principi e alle norme della Costituzione e delle Convenzioni di Ginevra. Tenendo fede a queste promesse il 22 gennaio 2008, due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, il Presidente Obama ha firmato tre Executive Orders ed un Memorandum che affrontano alcuni dei problemi più urgenti. Le ordinanze riguardano la chiusura di Guantanamo e la revisione dello status dei soggetti ancora detenuti, le tecniche di interrogatorio e la modifica della politica detentiva nel quadro della lotta contro il terrorismo; il Memorandum, invece, impone la revisione della situazione di Ali Saleh Kahlah al-Marri, il quale, essendo l’unico enemy combatant detenuto sul suolo statunitense e non a Guantanamo, non rientra nell’ambito applicativo della prima ordinanza. La prima delle ordinanze sancisce la chiusura di Guantanamo entro il più breve tempo possibile e, comunque, non oltre un anno dall’entrata in vigore dell’ordinanza stessa. L’atto dispone, inoltre, l’adozione di una serie di misure necessarie per la chiusura di un centro detentivo che ospita ancora più di 200 persone. Per prima cosa, chiarisce che tutti i detenuti hanno senz’altro diritto a presentare un’istanza di habeas corpus di fronte alle corti USA. Inoltre, viene predisposto un meccanismo per la revisione della situazione di ciascun detenuto, così da determinare quali debbano essere rilasciati e quali perseguiti di fronte ai tribunali statunitensi. A tal fine, viene costituita una commissione investigativa coordinata dall’Attorney General (Ministro della giustizia) ed alla quale partecipano anche, tra gli altri, il Segretario alla Difesa, il Segretario di Senato della Repubblica Camera dei deputati Stato e il Segretario per la Sicurezza Nazionale. Da ultimo, l’ordinanza dispone la sospensione di tutti i procedimenti pendenti di fronte alle Military Commissions. Il secondo Executive Order mira ad assicurare che le tecniche di interrogatorio utilizzate dai funzionari statunitensi siano conformi agli standard previsti dal diritto interno e dal diritto internazionale. A tal fine, l’ordinanza chiarisce che le garanzie previste nell’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra debbano considerarsi “the minimum baseline” nella conduzione degli interrogatori e che le tecniche da utilizzarsi sono solo quelle previste nell’Army Field Manual. Viene, inoltre, specificato che da questo momento in poi nessun funzionario statunitense impegnato nella conduzione degli interrogatori potrà fare riferimento all’interpretazioni dei testi normativi rilevanti – l’articolo 3 delle Convenzioni di Ginevra, la Convenzione ONU contro la Tortura o l’Army Field Manual – adottate dal Dipartimento della Giustizia dall’11 settembre 2001 al 20 gennaio 2009. L’ordinanza si occupa anche dei centri di detenzione diversi da Guantanamo, disponendo l’immediata chiusura delle prigioni della CIA e l’obbligo per tutti i dipartimenti e le agenzie di consentire l’accesso ai membri del Comitato internazionale della Croce Rossa in ogni struttura detentiva sotto il loro controllo. Da ultimo, viene creato un organismo – la Special Interagency Task Force on Interrogation and Transfer Policy – presieduto anche in questo caso dall’Attorney General e composto, tra gli altri, dal direttore della CIA, dal Segretario alla Difesa e dal Segretario di Stato. Il compito di tale organismo è rivedere e, se del caso, proporre modifiche, alle tecniche di interrogatorio codificate nell’Army Field Manual, e valutare le questioni giuridiche legate al trasferimento di alcuni detenuti in altri Paesi. Con la terza ordinanza viene decisa la creazione di una Special Interagency Task Force con il compito di identificare le opzioni a disposizione dell’Amministrazione per quanto riguarda la gestione dei soggetti catturati in operazioni anti-terrorismo, in vista della chiusura di tutti i centri di detenzione della CIA e di Guantanamo. Questa Agenzia è presieduta dall’Attorney General e dal Segretario alla Difesa vedrà la partecipazione, tra gli altri, anche del Segretario di Stato e del Segretario alla Sicurezza nazionale. Fonti − Conseil de l’Europe, Guantanamo: Une violation des droits de l’homme et de droit international?, Strasbourg, 2007 − E. Greppi, I prigionieri di guerra, in I. Papanicolopulu, T. Scovazzi (a cura di), Conflitti armati e situazioni di emergenza: la risposta del diritto internazionale, Milano, 2007, 13-40 − N. Napoletano, La posizione giuridica dell’enemy combatant dinanzi alle corti, ai tribunali e altre istanze giurisdizionali degli Stati Uniti, in La Comunità internazionale, LXII, 2007, 131-156 − K.M. Rotonda, Honour Bound: Inside the Guantanamo Trials, Durham, 2008 − B. Wittes, Z. Wyne, The Current Population of Guantanamo: An Empirical Study, Brookings Institute, 16 December 2008 − www.defenselink.it − www.supremecourtus.gov L’attività dell’Osservatorio si inquadra in un progetto sperimentale di collaborazione tra le Amministrazioni del Senato della Repubblica, Camera dei deputati e Ministero degli Affari esteri e si avvale del contributo scientifico di autorevoli Istituti di ricerca.