La responsabilità educativa della famiglia

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La responsabilità educativa della famiglia
Diocesi di Acerra
XXX Convegno Ecclesiale
“Maestro dove abiti? La Diocesi di Acerra dinanzi alla sfida educativa”
II giorno – Sabato 18 Settembre 2010
di don Silvio Longobardi – dott.ssa Giovanna Abbagnara
La responsabilità educativa della famiglia
Premessa
Benedetto XVI torna spesso a parlare dell’educazione. È un argomento che gli sta molto a cuore. Nelle
prime battute del suo ministero pontificio, introducendo il convegno diocesano della Chiesa di Roma,
disse che “le famiglie cristiane costituiscono una risorsa decisiva per l’educazione alla fede”. L’incontro
mondiale delle famiglie, celebrato a Valencia nell’estate 2006, ha avuto come tema: “La trasmissione della
fede in famiglia”, nel gennaio del 2009 a Città del Messico si continua e si approfondisce con: “La famiglia,
formatrice ai valori umani e cristiani”. Anche la Lettera alla diocesi di Roma, del gennaio 2008, s’inserisce in
questo solco, riprende e approfondisce questa preoccupazione. Quando parliamo della questione
educativa è inevitabile pensare alle nuove generazioni, alla fatica di comunicare non solo la fede ma
anche quei valori che danno consistenza alla vita personale e sociale. Siamo tutti in affanno. Non c’è
dubbio. La Chiesa fatica a tenere il passo, la scuola sembra aver rinunciato al suo tradizionale ruolo
educativo, gli stessi genitori non sanno più cosa fare. Dal canto loro adolescenti e giovani sfuggono, si
tengono alla larga dagli adulti, rivendicano crescenti spazi di autonomia.
L’educazione appare come una sfida difficile, talvolta come una mission impossible. Ma rinunciare
a priori significa venir meno alle proprie responsabilità; peggio ancora se scarichiamo sugli altri (i media,
le istituzioni, …) le colpe di questa situazione. Meglio affrontare la questione, a viso aperto, come fa il
Papa. Dal Vangelo, egli trae una fondamentale certezza: educare oggi non è solo un dovere ineludibile
ma un compito che tutti possiamo esercitare.
Oggi tutto è più problematico. “La tradizione – ha scritto tempo fa mons. Betori – non è negata, perché, più
drammaticamente, è dimenticata, cancellata dalla memoria collettiva”. Siamo nell’epoca degli ismi: il relativismo
culturale taglia le gambe alla proposta morale, l’individualismo esalta acriticamente le esigenze
soggettive, il secolarismo allontana Dio e rinchiude l’uomo in un presente senza futuro. Benedetto XVI
non nasconde queste difficoltà ma riprende dal Vangelo un invito semplice e consolante. Il Vicario di
Cristo ripete agli uomini e alle donne del nostro tempo, le stesse parole che Gesù disse agli apostoli:
“Non abbiate paura”. Quel giorno la barca era agitata dalle onde, sospinta dal vento contrario. Anche
oggi la situazione non è delle migliori. E talvolta s’insinua la sfiducia. Abbiamo più che mai bisogno di
sapere che vale la pena accettare la sfida educativa.
Da teologo raffinato, Papa Ratzinger conosce assai bene le difficoltà che ostacolano, anzi che
soffocano sul nascere l’impegno educativo. Per questo, da uomo di fede, invita a vincere la paura che,
specie quando è alimentata dalla rassegnazione, ritiene inutile ogni sforzo e consiglia di battere in
ritirata. Inutile chiudersi nella sterile lamentazione, meglio affrontare la sfida educativa con quella forza
che deriva dal Vangelo. Il termine sfida fa capire che questo compito non è facile ma neanche
proibitivo: una sfida è una “provocazione” che mette in crisi ma anche una sollecitazione a darsi da fare,
trovando le risorse necessarie per combattere la buona battaglia. In fondo, questo è il primo obiettivo
da raggiungere: sconfiggere quella sfiducia, che serpeggia e fa sempre più discepoli nel mondo degli
adulti. Non basta certo, ma è la premessa per suscitare una nuova coscienza della responsabilità
educativa e generare di conseguenza un nuovo impegno.
Il primo luogo
1
La famiglia è il primo ed essenziale luogo educativo: questa convinzione, che per troppo tempo è stata
accantonata come un residuo del passato, oggi viene nuovamente presa in seria considerazione. Il
filosofo Hans Jonas invita a rifondare l’etica della civiltà tecnologica a partire dalla famiglia perché, a
suo parere, è questa l’esperienza originaria che struttura la persona1. Il bambino conosce se stesso e il
mondo attraverso gli occhi e le mani di chi si prende cura di lui. È nella famiglia che l’essere umano fin
dall’infanzia percepisce di avere una dignità. I valori più importanti passano attraverso la famiglia, per
meglio dire: attraverso un’esperienza familiare in cui si ha la possibilità di percepire l’amore in tutta la
sua bellezza. La relazione che si vive nell’ambito familiare diviene il fondamento di ogni altra relazione,
la responsabilità educativa che la famiglia esercita non è solo l’indispensabile pilastro di ogni compito
educativo ma diviene il paradigma a cui si deve conformare l’intera società2.
La responsabilità educativa della famiglia si differenzia da quella degli altri soggetti sociali perché si
presenta con tratti suoi propri: essa infatti è totale e continua3. Nella famiglia la relazione educativa non è
legata ad alcuni aspetti, come ad esempio quella dell’insegnante, ma consiste nel prendere la persona a
carico, nella totalità del suo essere. Per lo stesso motivo non è limitata nel tempo ma intenzionalmente
abbraccia tutto l’arco dell’esistenza. L’educazione in famiglia nasce dall’accoglienza, cioè dal legame che
essi instaurano con i figli, un legame che non è solo scritto nella carne ma anche e soprattutto nel cuore,
come dimostrano assai bene i legami parentali che nascono dall’adozione. Per tutto questo possiamo
dire che “il valore di una pedagogia familiare è fondante ogni altra pedagogia”4. La crisi della famiglia
dunque ha una ricaduta negativa sull’intera società, mette in crisi l’intero sforzo educativo, vanifica
l’impegno della scuola e delle altre agenzie educative. Occorre dunque ripartire dalla famiglia come
ambiente educativo e dal legame padre-madre-figlio come relazione da cui ha origine la crescita della
persona.
1. Famiglia e società
Il ruolo della famiglia infatti si inserisce in un più ampio processo culturale e spesso si scontra con
quello svolto dalle altre agenzie educative. Secondo una sensazione molto diffusa oggi tra i genitori: la
famiglia non sembra avere la capacità di incidere fortemente sui processi educativi delle nuove
generazioni, la sua azione soccombe dinanzi all’invadenza dei mass media e della cultura veicolata
attraverso l’ambiente sociale. Anche la scuola e la comunità ecclesiale vivono la stessa difficoltà e
avvertono la stessa impotenza.
È difficile pensare alla famiglia come ad un’isola incontaminata, una sorta di riserva indiana in cui cerchiamo
di conservare quei valori che altrove vengono calpestati. La famiglia sempre più spesso riflette il volto
della società, vive le stesse inquietudini che attraversano gli altri ambiti della vita sociale e fatica
anch’essa a individuare gli obiettivi e i sentieri da percorrere. Non possiamo parlare perciò della famiglia
senza dare uno sguardo alla cultura che oggi si afferma e s’intrufola con invadenza in ogni angolo della
vita sociale.
Ma se così stanno le cose, la famiglia ha davvero un ruolo da svolgere? È veramente un laboratorio in cui
si modellano le nuove generazioni oppure è sola una cassa di risonanza che accetta e trasmette più o meno
acriticamente, cioè senza il necessario discernimento e senza i dovuti filtri, quei messaggi che altrove
vengono prodotti?
1
2
3
4
H. Jonas, Il principio responsabilità. Einaudi, Torino 1993.
Ib., 162.
Ib. 124.
C. Xodo Cegolon, La famiglia? Ripartire dall’infanzia, cit., 36.
2
Non è questo il luogo per affrontare una problematica così complessa ma credo che sia doveroso
tenerla presente come una questione ineludibile e in qualche modo decisiva per interpretare l’attuale
fenomenologia. La mia posizione è questa (la esprimo ovviamente in sintesi e senza possibilità di
spiegarla adeguatamente):
pur rimanendo pesantemente condizionata dalla società, la famiglia custodisce una
risorsa che la rende capace di offrire un contributo proprio e originale all’intera società.
Questa risorsa è l’amore. La famiglia infatti nasce da un atto di lucida follia in base al quale due persone
decidono di vivere l’uno per l’altra e di prendersi cura dei figli che saranno da loro generati. Questa
decisione, pur essendo vecchia di secoli, rappresenta in ogni tempo un’energia nuova e sorprendente,
capace di modificare il corso degli eventi. È un elemento che non può essere ridotto alle puri leggi
biologiche né a quelle psicologiche, un surplus che immette nel tessuto sociale motivazioni inedite e apre
orizzonti nuovi. In un mondo dominato dalla cultura del profitto e dell’efficienza, la famiglia ricorda
che solo l’amore ha la capacità di comunicare e diffondere gioia.
2. Il ruolo della famiglia
In questo contesto culturale, che tende ad emarginare e ad esautorare la famiglia, appare ancora più
importante e urgente il ruolo che essa è chiamata svolgere, soprattutto sul piano educativo. Vorrei
partire da un’affermazione del Vaticano II:
“L’epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di sapienza, perché diventino più
umane tutte le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non
vengano suscitati uomini più saggi”5.
Questo monito appare oggi ancora più attuale perché il potere della scienza rischia di assumere forme
che contrastano radicalmente con il vero bene dell’uomo.
a) La cultura sapienziale
Nel passato la tradizione aveva un ruolo essenziale nella vita sociale: i valori morali erano accolti e
tramandati con cura da una generazione all’altra, erano il segno e la garanzia della continuità e della
stabilità dell’ordine sociale. L’istruzione scolastica, che raggiungeva solo un’élite della popolazione, era
sostituita da una forma di cultura sapienziale che veniva trasmessa di padre in figlio: l’autorità
genitoriale era pacificamente accettata come un dato costitutivo della struttura sociale. La famiglia era
naturalmente il luogo della trasmissione culturale, ma di una cultura di tipo sapienziale e non nozionistico,
come in gran parte è quella attuale.
La rivoluzione industriale ha radicalmente cambiato la situazione. È nata, sia pure gradualmente, una
società “secolare” che si evolve con crescente dinamicità, con un’accelerazione che cresce nel tempo.
Nel giro di pochi anni tutto cambia o sembra comunque in movimento. Questa dinamicità è
determinata dal processo tecnologico che di fatto diventa l’anima di questa società: per questo oggi la scienza
acquista un potere sempre maggiore. I valori morali, che garantiscono l’unità e la continuità tra il
5
CONCILIO VATICANO II, Gaudium et Spes, 15.
3
passato e il futuro, perdono consistenza; il loro posto è sostituito dalla tecnologia. Essa non difende la
continuità ma promuove una sempre maggiore discontinuità e crea la sensazione di dover sempre ricominciare
daccapo, di essere davanti ad un mondo nuovo che va dinamicamente costruito. La cultura tecnoscientifica ha finito per sostituire quella sapienziale. Questo ha determinato una vera rivoluzione
culturale: il primato della tecnologia sull’etica ha fatto passare in secondo piano i valori morali. Questa
società è aperta al nuovo, ma anche più debole perché senza valori di riferimento non è capace di
operare un opportuno discernimento. È una società alla ricerca di una sua identità sul piano culturale e
morale.
L’epoca in cui viviamo è piena di contraddizioni. Tra queste vi è quella che il filosofo tedesco Hans
Jonas ha espresso con molta lucidità: “Tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di
potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi”6.
Abbiamo ampliato enormemente le conoscenze del sapere ma rischiamo di smarrire quella cultura
sapienziale che garantisce l’interiore compattezza del sistema sociale e comunica un senso alla vita e
all’opera dell’uomo. Giovanni Paolo II più volte ha sottolineato la necessità di invertire questa tendenza
affermando che su questo si gioca il futuro dell’umana società:
“La ricomprensione del senso ultimo della vita e dei suoi valori fondamentali è il grande
compito che si impone oggi per il rinnovamento della società. Solo la consapevolezza del
primato di questi valori consente un uso delle immense possibilità, messe nelle mani dell'uomo
dalla scienza, che sia veramente finalizzato alla promozione della persona umana nella sua intera
verità, nella sua libertà e dignità. La scienza è chiamata ad allearsi con la sapienza”7.
A partire da queste considerazioni possiamo forse comprendere meglio il ruolo della famiglia. Prima
ancora dei valori che essa può e deve trasmettere è importante sottolineare la specifica modalità della
comunicazione sapienziale. La famiglia nasce da un legame, quello coniugale, e tende a formare altri
legami, quelli genitoriali. Essa è proprio il luogo della formazione dei legami e il modello di quella
tipologia relazionale che dovrebbe diventare patrimonio dell’intera famiglia umana. Vediamo perché.
b) La relazione familiare
Nella famiglia infatti il legame non è frutto di una costrizione ma scaturisce dalla libertà e dalla gratuità:
l’amore impegna i coniugi ad essere l’uno dono per l’altro e di conseguenza a prendersi cura l’uno
dell’altro. È un legame gratuito ma genera una relazione obbligante. L’affettività non si riduce a mero
sentimento, effimero e precario, ma diventa nomos, la legge nuova che plasma l’intera esistenza. Questa
forma di relazionalità, che investe la vita dei coniugi, si riflette poi nel rapporto genitoriale. In esso il
legame assume una più marcata caratterizzazione curativa, la responsabilità acquista una maggiore
rilevanza affettiva ed etica. I figli, infatti, dipendono in tutto dai genitori, sono affidati alla loro
responsabilità, intesa qui come sia capacità di rispondere (respondeo) sia come attitudine al discernimento
(rem - ponderare). La relazione che si instaura non è determinata dalle leggi del profitto né da quelle
dell’efficienza, che dominano il mondo dell’economia e delle comunicazioni sociali, né dalle leggi
dell’opportunismo e del carrierismo che influenzano la vita sociale e politica. Ma sono impregnate di
dedizione e di attenzione. Grazie ad essa ciascuno scopre di essere amato per se stesso e non per quello
che è capace di fare o di dare.
c) Necessità del legame
6
7
H. JONAS, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, 8.
4
La vita familiare ricorda dunque che l’educazione ha un’intima struttura relazionale, passa attraverso un
legame di natura affettiva e non semplicemente mediante la comunicazione asettica di nozioni e di
principi. Il ruolo della famiglia è dunque sempre più essenziale in una società come la nostra in cui
l’individualismo e l’autoreferenzialità hanno acquisito un’oggettiva priorità rispetto alla relazione. Vorrei
richiamare a questo proposito una favoletta dei tempi moderni, il Piccolo principe di ANTOINE DE SAINTEXUPÉRY:
« Addomesticare, disse la volpe al piccolo principe, significa “creare dei legami”. E spiegò così:
“Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho
bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a
centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me
unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
E aggiunse: “Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di
passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi
farà uscire dalla tana, come una musica. […] Per favore … addomesticami »8.
Educare significa creare un legame in cui si ha bisogno l’uno dell’altro. È un aspetto questo poco
considerato perché siamo abituati a pensare la relazione educativa in termini unidirezionali. Accettare la
sfida della comunione significa diventare più vulnerabili, sperimentare la fatica della relazione e anche
l’abbandono da parte di coloro che sono a noi affidati. La relazione educativa risponde alla legge
della reciprocità, anche se ovviamente l’adulto la vive fin dall’inizio a partire da una scelta libera e
consapevole. Ma proprio questa sua scelta, iniziale e gratuita, apre lo spazio per una relazione che nel
tempo acquista sempre più i contorni della comunione.
È importante sottolineare che la relazione educativa, anche quando si instaura tra una persona e un
gruppo, passa sempre attraverso un rapporto personale. Ciascuno ha bisogno di sentirsi amato per
se stesso e non solo come parte di un tutto. Accettare questa legge è faticoso per chi ha una
responsabilità che si rivolge ad ambiti e situazioni diverse. Educare vuol dire entrare in una relazione
coinvolgente nella quale chi educa accetta anche di lasciarsi educare. Questa prospettiva è assai diversa
da quella più comunemente accettata che lega strettamente, fin quasi a identificare, educazione e
autorità. In questa luce la fatica di costruire una relazione affettivamente coinvolgente è sostituita dal
ruolo normativo. Si tratta di una superficiale semplificazione del compito educativo che sembra
garantire l’ordine ma in realtà non giova a nessuno perché non produce una reale crescita.
Jean Vanier, fondatore della comunità dell’Arca, in cui vivono insieme persone handicappate persone
sane, in un libro che tutti i genitori dovrebbero leggere, racconta una storia emblematica. Quella di Eric:
quando lo incontrano in un ospedale psichiatrico ha 16 anni: è cieco, sordo, non cammina, non parla,
non è in grado di mangiare da solo, soffre di una grave insufficienza mentale. La madre lo aveva lasciato
in ospedale fin da quando aveva quattro anni. Eric è cresciuto da solo, senza poter capire perché e
senza aver mai accettato questa sua condizione.
“Quando l’ho incontrato, Eric aveva già trascorso dodici anni nell’ospedale psichiatrico.
Soffriva di terribili carenze affettive. Il suo cuore era come una grande cavità vuota, invasa dalla
paura e dall’angoscia. Quando mi avvicinavo a lui, mi toccava le mani o i piedi e poi cominciava
ad aggrapparsi a me con un grido che scaturiva da tutto il suo essere, urlando il suo bisogno di
8
A. DE SAINT-EXUPÉRY, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1997, 92.93.
5
essere toccato, di essere amato. Il suo grido era così totale e aggressivo da risultare
insopportabile, inaccettabile. Bisognava liberarsi dai suoi abbracci altrimenti si aveva la
sensazione di essere divorati. Ovviamente in ospedale era visto come un bambino che chiedeva
troppo, e che chiedeva male; con lui non si aveva nessuna gratificazione.
Commenta Jean Vanier: “Il bambino vive di comunione, vive dello sguardo della madre e della
tenerezza delle sue mani. Se rimane solo è in pericolo. Non può difendersi, è troppo piccolo, troppo
vulnerabile, troppo privo di difese. […] Si sente in colpa per il semplice fatto di esistere, ed entra nel
circolo vizioso delle sofferenze interiori. Sentendo che nessuno vuole saperne di lui, diventa ancora più
angosciato, depresso e aggressivo, si chiude sempre di più” 9.
L’uomo non può fare a meno di sentirsi legato ad un’altra persona, anzi la mancanza di un legame
affettivamente coinvolgente genera un disagio crescente fino al punto da inibire lo sviluppo psicoaffettivo del minore. La struttura sociale oggi moltiplica i contatti ma rende più difficile la relazione. Di
fatto viviamo in un mondo in cui cresce la sensazione di essere soli e conseguentemente aumenta anche
la percezione di essere indifesi dinanzi al male e/o incapaci di fare il bene.
La famiglia ha come suo compito primario quello di potenziare la dimensione relazionale/affettiva e di
promuovere la coscienza della reciprocità. Nella dinamica familiare l’altro non è percepito come estraneo,
la diversità non è sentita come un muro che divide due mondi e li condanna ad essere distanti. L’altro è
invece una persona concreta con la quale discutere e confrontarsi. In famiglia la coscienza di essere
generato s’intreccia con la consapevolezza di essere chiamati a generare. Impariamo così la difficile arte
dell’accoglienza e della condivisione, non in nome di interessi contingenti ma a partire da quella affinità
che unisce i diversi componenti del nucleo familiare. Questa esperienza favorisce una diversa
comprensione del mondo in cui la radicale diversità non annulla la fondamentale unità che lega tutti gli
uomini.
3. La civiltà dell’amore
Queste considerazioni mostrano chiaramente lo stretto legame che intercorre tra famiglia e società.
L’impegno sociale della famiglia, prima di esprimersi nelle diverse forme del volontariato, è
strettamente legato alla sua primaria missione di accogliere e custodire la vita. È in questo ambito che
essa offre il suo maggior contributo per far crescere la società come “civiltà dell’amore”:
“Attraverso la famiglia – afferma Giovanni Paolo II – fluisce la storia dell’uomo, la storia della
salvezza dell’umanità. Ho cercato di mostrare in queste pagine come la famiglia si trovi al centro
del grande combattimento tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l’amore e quanto
all’amore si oppone. Alla famiglia è affidato il compito di lottare prima di tutto per liberare le
forze del bene, la cui fonte si trova in Cristo Redentore dell’uomo”10.
Queste parole ci invitano a riflettere più attentamente sul compito educativo che accompagna e orienta
i passi dell’uomo verso la maturità. Se viene meno la spinta e la risorsa che essa possiede, se smarrisce il
suo compito tutta la società diventa più povera. Se la famiglia perde la sua stabilità chi preparerà la culla
per accogliere il bambino non ancora nato? Se la famiglia non riesce più a trasmettere serenità dove
potrà il bambino trovare quella necessaria sicurezza affettiva per crescere? Se la famiglia si lascia
9
10
J. VANIER, Ogni uomo è storia sacra, Bologna 1995, 34.35.
Gratissimam sane, 23.
6
travolgere da un ideale consumistico chi aiuterà l’adolescente e il giovane a trovare i valori ideali che
danno senso alla vita?
Giovanni Paolo II scrive che nell’odierna società è in atto uno scontro tra la civiltà dell’amore e quella
che egli chiama “l’anti-civiltà”: la prima mette al centro la persona come un dono da accogliere; la
seconda pone al centro le cose e usa anche delle persone come “cose”. La famiglia è il cuore di questa
lotta: da un lato la civiltà delle cose finisce per offuscare la verità dell’amore e indebolire la famiglia;
dall’altro un autentico rinnovamento può partire solo dalla famiglia11. La vocazione e la missione della
famiglia è quella di custodire, rivelare e comunicare l’amore. L’amore rivela che l’uomo è fatto per la
comunione, per intessere relazioni fondate sulla disponibilità a donarsi. In tal senso l’amore non solo
fonda e sostiene la dinamica coniugale ma è l’energia che orienta il cammino dell’umana società verso
una progressiva umanizzazione. Se la famiglia svolge in pienezza questo compito contribuisce nel
migliore dei modi al crescere della società. Una famiglia ricca di amore diventa un luogo di autentica
umanità.
•
La famiglia è il cuore della civiltà, il nucleo fondamentale della dinamica sociale, la prima forma di
società, il primo ed essenziale luogo in cui la persona cresce. La famiglia rappresenta la prima e
spesso unica risorsa per invertire la tendenza sociale. Una famiglia fedele ai suoi compiti è già una
roccaforte sociale, un sicuro baluardo dinanzi alle tempeste della vita sociale.
•
Essa è il luogo dell’amore e della solidarietà: è qui infatti che si impara ad accogliere e a rispettare l’altro.
Il fatto stesso di vivere in comune è un continuo invito ad uscire dall’istintivo egoismo. La famiglia
diventa così una “scuola di umanità”12, la prima ed essenziale esperienza di socializzazione.
4. Onora il padre e la madre
Nella luce di queste considerazioni possiamo ora tentare di approfondire il significato dell’impegno
educativo. Vorrei partire dalla Lettera alle famiglie nella quale Giovanni Paolo II svolge alcune riflessioni
veramente illuminanti sull’identità della famiglia e sul ruolo che essa è chiamata svolgere nella società. Il
tema educativo è approfondito in modo originalissimo a partire dal quarto comandamento: “onora tuo
padre e tua madre”. Questo comandamento, secondo Giovanni Paolo II, manifesta quell’interiore
fondamento che sostiene la vita familiare e quell’essenziale principio che accompagna l’intero processo
educativo (Gratissimam sane, 15-16). Questo comandamento è posto significativamente dopo i tre precetti
fondamentali che ci invitano ad amare Dio sopra ogni cosa; e prima degli altri precetti che riguardano la relazione
con il prossimo. Amare Dio, infatti, è la fonte di ogni altro amore: chi ama Dio è disponibile ad accogliere
il prossimo nel quale vede impressa l’immagine di Dio. Nella famiglia questo raccordo tra amore di Dio
e amore del prossimo si manifesta nella sua pienezza. È qui che si impara ad amare Dio e il prossimo!
a) Riconosci la persona
Il verbo onorare ha un suo preciso significato che vale la pena di mettere in luce. Onora infatti significa
riconosci la persona che è davanti a te, riconosci che è una persona da rispettare, accogliere ed amare. Onora
11
12
Gratissimam sane, 13.
Gaudium et spes, 52.
7
la persona in quanto è persona. Rispetta i diritti che sono costitutivamente di ogni persona. Questo
comandamento non riguarda solo i figli ma tutti i membri della famiglia: ciascuno infatti ha il dovere di “onorare”
gli altri. I figli hanno il compito di onorare i genitori e di riconoscere nella loro paternità e maternità un
particolare riflesso della paternità di Dio. Ma anche i genitori devono onorare i figli per quello che sono,
cioè persone create ad immagine di Dio. Anzi, scrive il Papa, essi devono agire in modo da meritare
l’onore dei figli. Questo comandamento deve essere letto perciò in una logica di reciprocità, è rivolto ai
genitori non meno che ai figli. In tal modo esso “esprimendo l’intimo legame della famiglia, mette in
luce il fondamento della sua compattezza interiore”13.
Allargando lo sguardo all’intera società, il Papa afferma che “la vita delle Nazioni, degli Stati, delle
Organizzazioni internazionali passa attraverso la famiglia e si fonda sul quarto comandamento del
Decalogo”14. Infatti, dove si fondano i diritti dell’uomo se manca il riconoscimento della sua dignità? Il
quarto comandamento costituisce il fondamento non solo della vita familiare ma anche di quella sociale:
“Tutti i diritti dell’uomo sono, in definitiva, fragili ed inefficaci, se alla loro base manca l’imperativo
onora; se manca, in altri termini, il riconoscimento dell’uomo per il semplice fatto che egli è uomo,
questo uomo”15. L’esperienza storica ricorda che nonostante le varie e solenni dichiarazioni, la dignità
dell’uomo continua ad essere minacciata e calpestata. Solo il riconoscimento pieno dell’uomo come
persona – che trova proprio nell’esperienza familiare la sua prima e più compiuta espressione – mette al
riparo da ogni deriva totalitaria. Per questo, scrive Giovanni Paolo II, “l'affermazione della persona è in
grande misura rapportata alla famiglia e, conseguentemente, al quarto comandamento. Nel disegno di
Dio la famiglia è la prima scuola dell'essere uomo sotto i vari aspetti”16. Se la famiglia svolge la sua
missione, di essere cioè il luogo in cui ciascuno è accolto e onorato come persona, essa pone le basi per
una vera civiltà dell’amore.
b) Riconoscere la dignità
La cultura odierna rischia di dimenticare il valore dell’uomo come persona: essa pensa che l’uomo è
tanto più uomo quanto più è “solo” uomo, cioè un uomo ad una sola dimensione, come diceva
Marcuse. Questa concezione, oggi così diffusa, toglie spazio al mistero. L’uomo dunque ha valore per
quello che produce o per quello che ha o per quello che può godere. La vita perde il suo valore assoluto
e diventa un bene relativo e che può entrare in concorrenza con gli altri beni. Per questo la famiglia può e
deve dare il suo contributo per invertire questa tendenza culturale. Nella riflessione proposta da
Giovanni Paolo II, che salda la riflessione teologica e morale con quella giuridica e sociale, la famiglia
appare perfettamente incastonata nell’architettura sociale come un elemento essenziale dalla cui stabilità
dipende anche la compattezza dell’intera società.
Nella famiglia si crea una dinamica interpersonale per cui ciascuno è accolto come persona, anche se
debole e sofferente. Educare dunque non significa semplicemente trasmettere valori o comunicare
regole ma creare un ambiente in cui ciascuno viene riconosciuto come persona e accolto come un dono. Nonostante
l’umana fragilità, che spesso incrina e deforma le relazioni tra i coniugi e tra genitori e figli, la famiglia
rimane il luogo in cui maggiormente la persona sperimenta la sua dignità:
“È qui che si viene ricevuti incondizionatamente senza dover giustificare la propria presenza. E
inoltre, più si è fragili e vulnerabili e più si è sicuri della tenerezza degli altri. È qui che si impara
ad esistere. È qui che si costruisce progressivamente la propria personalità. È qui, ancora, che ci
13
14
15
16
Gratissimam sane, 15.
Ivi.
Ivi.
Ivi.
8
è dato scoprire che non si è al centro del mondo; si conoscono in profondità delle persone
differenti in un arricchimento reciproco. Si impara ad essere amati, ad amare l’altro, ad amare se
stessi17.
c) Ogni uomo è persona
L’onore e il riconoscimento della persona prepara la strada all’amore. L’onore infatti nasce dal riconoscere la
dignità della persona e conduce ad amarla come Dio stesso la ama. Ogni persona ha una sua irripetibile diversità,
Onorare significa riconoscere e rispettare la sua personalità. Questo principio antropologico non è solo
il fondamento dell’impianto giuridico che sostiene l’umana società ma anche il cuore della dinamica
educativa che regge la vita familiare. Luigi Pati, docente di pedagogia presso l’Università Cattolica di
Brescia, fa notare che nel passato il processo educativo era concepito solo in forma unidirezionale come
comunicazione dell’adulto verso il minore, oggi invece tutti sono invitati a partecipare attivamente allo
scambio educativo; e gli adulti devono essere in grado di raccogliere i suggerimenti che i minori offrono
con il loro comportamento o con la loro accoglienza degli orientamenti che ricevono dagli adulti18.
Questa impostazione pone in maggiore evidenza il ruolo e la personalità di ciascuno.
La pedagogia personalistica non toglie ai genitori il compito di guidare – “l’educazione in generale,
quella domestica in specie, è sempre direttiva”19 – e di offrire ai figli suggerimenti, indicazioni e
orientamenti precisi. Ma questo compito viene oggi vissuto in un contesto dialogico che riconosce a
ciascuno la sua dignità e permette a ciascuno, e dunque anche ai genitori, di vivere questo scambio
come un’opportunità di crescita. L’impegno educativo diventa così una sfida: non si tratta più di dare
regole precise e standardizzate nel tempo, ma di costruire insieme una storia. In questa luce viene
superato il falso contrasto tra autoritarismo e permissivismo perché entrambi dimenticano la persona: il
primo perché considera i minori come vasi da riempire; il secondo perché non li considera la loro
attuale situazione di crescita e di fisiologica dipendenza. Secondo O. Clément tra genitori e figli non vi è
alcuna reciprocità: “Il tentativo di stabilire una reciprocità d’amore tra il bambino e i genitori, infatti, è
una delle derive del nostro tempo. […] I bambini riverseranno sui loro figli l’amore che ricevono, nello
scorrere infinito delle generazioni”20.
d) Anche i bambini
Questa verità si applica ad ogni essere umano. Anche il bambino è una persona con la quale entrare in
relazione. Questa verità potrebbe sembrare scontata ma spesso è dimenticata. I bambini sono
considerati più come vasi da riempire che come soggetti da accompagnare, persone che hanno una loro
reale autonomia e che devono essere aiutate ad esercitarla. È questo il fondamento di ogni efficace
azione educativa. Questo testo può aiutarci a comprendere più efficacemente il principio personalistico:
Per favore, Mami e Papi
Le mie mani sono piccole e deboli,
non volevo far cadere il latte.
Le mie gambe sono corte,
per favore, rallenta il passo,
così potremo camminare insieme.
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GIOVANNI PAOLO II, Discorso alle famiglie, 14.5.1985, n. 5.
L. Pati, Nuove dinamiche dell’educazione familiare, in La Famiglia, n. 200 (2000), 43-56, spec. 52.
Ib. 53.
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O. Clément, Teologia e poesia del corpo, Piemme, Casale Monferrato 1998 , 89.
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Non mi colpire le mani
quando tocco qualcosa che è brillante e bella,
io ancora non capisco, voglio solo vedere cos’è.
Guardami, per favore, quando ti parlo,
così so che veramente mi ascolti.
I miei sentimenti sono teneri e sinceri,
non mi rimproverare tutto il giorno,
lascia che sbagli senza farmi sentire stupido.
Non sperare che,
quando ricompongo il letto o faccio un disegno,
lo faccia alla perfezione,
amami solo perché ho tentato di farlo.
Ricorda che sono un bambino,
non un adulto piccolo,
e pensa che, a volte, non capisco quello che dici.
Ti amo tanto; per favore, amami
soltanto perché sono io,
non solo per le cose che posso fare.
e) E gli adolescenti?
Di recente ho letto un libro illuminante che mi ha molto scosso e fatto ancora di più capire quanto sia
necessario che la famiglia riprendi in mano e ripensi al ruolo educativo. Il libro è quello di Marida
Lombardo Pijola, Ho 12 anni e faccio la cubista mi chiamano principessa, 2007. Un libro – inchiesta
sconvolgente.
Forse perché ho un figlio che si prepara a vivere il tempo dell’adolescenza, forse perché ignoravo
quanto il mondo sia vertiginosamente cambiato negli ultimi anni per chi ha questa età, tuttavia mi sono
ritrovata di fronte ragazzi dai 10 ai 14 anni che l’autrice ben definisce come “dei Peter Pan al contrario,
travolti dalla fretta di crescere, pronti a spiccare un salto verticale oltre il perimetro della loro infanzia, senza fasi
intermedie, senza progressioni”. Un libro che fotografa la realtà cruda e nuda. Lo fa attraverso la piazza di
internet che è diventata il luogo per eccellenza della comunicazione tra adolescenti, lo spazio in cui
riversare tutte le emozioni, i sentimenti di gioia o di rabbia, di piacere o di dolore che essi provano in
forma decisamente diretta e senza pudore.
Quasi con il bisogno di voler vedere se tutto questo era effettivamente realtà, mi sono informata sulle
Community più gettonate dai ragazzi e ho cominciato a frequentarle per alcuni giorni. Mi sono
imbattuta in questo universo tanto temuto da tutti i genitori e chiamato adolescenza. Ho letto di
bambine che giocano a fare le donne fatali, o di ragazzini desiderosi di sbandierare le loro prime
esperienze sessuali. Certo, mi sono detta: “Nell’adolescenza è tutto amplificato, questa è un’età di
transizione, ma la famiglia dov’è? I genitori possono solo essere gli argini di un fiume in piena?”. Penso
di no.
È necessario non stancarsi nel compito educativo, è necessario dare certezze ma soprattutto dobbiamo
imparare a dare le ali ai nostri figli se vogliamo che abbiano il coraggio di innalzarsi verso orizzonti più
ampi. Dare le ali significa comunicare loro ideali grandi, come la necessità di vivere amicizie autentiche
e sincere, aperte e generose; significa trasmettere loro il valore del sacrificio, della serietà nello studio;
significa interessarsi alle loro paure, alle domande che troppo spesso rivolgono allo sconosciuto mondo
di internet piuttosto che al papà o alla mamma che sono a portata di mano; significa trasmettere la fede
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attraverso i grandi testimoni della storia della Chiesa. Diciamocelo pure con franchezza. Noi genitori ci
siamo un po’ rassegnati al compito educativo, pensando che ciò che circonda i nostri figli, sia superiore
alle nostre capacità. Ci limitiamo a contenere e in questo modo abituiamo anche i nostri figli a
svolazzare come le galline.
Recuperiamo la cima! Mostriamo ai nostri figli la bellezza della vita che loro ancora non riescono a
vedere, riprendiamoli in braccio come un tempo perché sappiano guardare lontano, senza ripiegarsi su
se stessi, aprendosi al futuro senza la paura di mettersi in gioco. Spesso perché i nostri figli non ci
disturbino troppo, presi come siamo da mille impegni, li condanniamo ad omogeneizzarsi alla
mediocrità imperante della società, non li stimoliamo a tirare fuori tutte le potenzialità che si portano
dentro.
Pensiamo che la vigilanza sulle sue amicizie o la tassatività dell’orario basti a tenerlo al sicuro dai
pericoli. Non è così. I figli che attraversano l’adolescenza hanno bisogno certamente di regole, di
ascolto, di pazienza, di divieti ma soprattutto di chi gli mostri l’orizzonte, di chi gli indichi la via più
bella, i traguardi più ardui, la scalate impegnative. Non lo chiedono, ma desiderano che gli si cammini
accanto senza imposizioni, con la delicatezza di chi ama e la pazienza di chi ha già vissuto le tempeste di
quella età. Non ci illudiamo, non esiste un’adolescenza tranquilla. Per approdare sulle sponde della
maturità, bisogna attraversare il fiume di questo tempo burrascoso, fatto di mutamenti ed esperienze
nuove, senza cercare di eliminare la lotta o il confronto, piuttosto saliamo sulla barca insieme a loro.
Ogni figlio ha bisogno di genitori che credono in lui, che sanno di essere custodi della propria creatura
e non padrone del suo futuro. È quanto impararono Maria e Giuseppe dinanzi al loro figlio dodicenne.
Imparano a guardare oltre. E noi genitori da che parte guardiamo?
Una responsabilità comune
La civiltà dell’amore si costruisce a partire dalla relazione che si instaura nella vita familiare. Ma la
famiglia è oggi in grado di corrispondere a questa chiamata? L’amore che in essa circola non è in
qualche modo offuscato dall’egoismo che porta ad accogliere la persona solo nella misura in cui
produce qualcosa? Questa domanda interpella sia la comunità ecclesiale che quella civile. Nessuno può
lavarsi le mani. È vero che la famiglia è il fondamento della convivenza sociale, ma non dobbiamo
dimenticare che è anche plasmata dalla cultura che si respira nella società, porta in sé le contraddizioni
presenti nella struttura sociale. Senza un adeguato sostegno che liberi la famiglia dai condizionamenti
culturali, e che aiuti i coniugi a vivere l’amore nella prospettiva del dono, essa non è più capace di
svolgere pienamente il suo ruolo sociale di umanizzazione. Ed è questa la ragione principale dell’attuale
crisi. È una crisi di umanità perché la famiglia non appare più in grado di influire sulla società e/o di
attenuare la deriva tecnologica.
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