maurizio palma – universitâ di ginevra

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maurizio palma – universitâ di ginevra
Maurizio Palma
Università di Ginevra
MAURIZIO PALMA – UNIVERSITÂ DI GINEVRA
[VERSIONE PROVVISORIA DEL 15 03 2005]
Poetica della reticenza: « la dottrina che s’asconde » (If. IX 61-105)
Se fosse lecito ricavare la psicologia di un autore a partire dall’analisi formale dell’opera direi
che la reticenza doveva essere uno dei tratti caratterizzanti del funzionamento mentale dantesco.
Tutti gli scritti, e in particolare la Commedia, offrono un’ampia testimonianza dell’uso costante dei
molteplici meccanismi che può assumere la retorica della reticenza: sospensioni, ellissi, omissioni,
preterizioni, lacune, allusioni, interruzioni... Ho scelto di soffermarmi sul caso particolare della
reticenza enfatizzante, cioè della scelta - imposta al lettore e di per sé straniante - di tacergli
un’informazione essenziale che sola gli permetterebbe di decifrare l’insegnamento morale (o
comunque il senso secondo) che l’autore esplicitamente e provocatoriamente proclama di aver
celato dietro la lettera testuale. L’omettere, il nascondere, il velare viene ad enfatizzare
l’importanza dell’omesso, del nascosto, del velato in una sorta di gioco narratologico, di elitistica
scrematura dei destinatari, di sfida al lettore esegeta (sulla falsariga del « tacciolo, acciò che tu per
te ne cerchi » di Pg. XVII 139) invitato all’analisi testuale e intertestuale. Di modo che ciò che non
viene detto (nel nostro caso il nome del protagonista del canto) verrebbe di fatto a esser svelato
da numerosi altri indizi che dovrebbero guidare il virtualissimo « lettore ideale » sulla via di
quell’agnizione che renderà poi decifrabile anche l’allegorismo soggiacente. Ma, come si vedrà, le
cose non sono sempre così semplici, e lungi da me l’ambizione di far luce sull’ormai proverbiale
« dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani », mi propongo qui, molto più realisticamente, di
esaminare gli indizi appunto attraverso i quali Dante sceglie di connotare l’anonimo personaggio
« messo dal cielo» destinato ad aprire la porta della città di Dite.
Il nono canto infernale è esemplare quanto all’uso narrativo della reticenza, fin dall’ellittico « se
non... » (v. 8) con cui Virgilio personaggio (facendo il verso a se stesso autore, penso in
particolare al « quos ego... » di Aen. I 135) si tradisce quando lascia trapelare, ma subito tenta di
rimuovere, i dubbi sulla propria inadeguatezza, suscitando nondimeno un sentimento immediato
di sgomento in un Dante che d’istinto decritta in malo il senso implicito dell’ellissi, la probabile
« sentenzia » della « parola tronca » (« ma nondimen paura il suo dir dienne / perch’io traeva la parola
tronca / forse a peggior sentenzia che non tenne » vv. 13-15). Subito dopo, sempre Virgilio, per
rassicurare il discepolo timoroso sulla sua conoscenza dei luoghi e del cammino, lo informa
« ch’altra fiata qua giù fui » (v. 22) quando la maga Eritone lo aveva incaricato di penetrare nella
« città dolente » per restituire al suo corpo uno spirito dannato nelle profondità del nono cerchio.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
(If. IX 22-27)
Chi fosse il misterioso traditore che un Virgilio necromantico messo al servizio della magia nera
avrebbe ricondotto sulla terra è taciuto con cura, mentre invece la curiosità del lettore sarà
riattizzata successivamente da altre due allusioni allo sconcertante evento (If. XII 34-35, If. XXI
63) il che lascia presumere che si trattasse di un personaggio molto autorevole (morto tra il 19 a.
C. e il 33 d. C.) sul quale la sagacia degli interpreti non pare che per il momento abbia saputo
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fornire informazioni attendibili. E si può constatare che in questo canto non sono certo i punti in
sospeso che mancano, come ad esempio il successivo: « E altro disse, ma non l’ho a mente » (v.
34), dove la lacunosità dell’informazione è da addebitare alla memoria del narratore, in quanto
Dante personaggio venne distratto dall’apparizione di mostri infernali, le Erinni che dalla torre
infuocata minacciavano di pietrificarlo grazie all’esibizione di Medusa, chiudendo così un conto
rimasto in sospeso fin dall’invendicata impresa di Teseo (« mal non vengiammo in Teseo
l’assalto » v. 54) cogli esseri viventi che hanno la pretesa di penetrare nella città infernale.
È a questo punto che il narratore lancia il guanto della sfida al suo lettore ermeneuta (« O voi
ch’avete li ’intelletti sani » v. 61) affinché sia pronto a cogliere il senso recondito che verrà celato
« sotto ’l velame de li versi strani » (v. 63). Quel lettore sano d’intelletto era stato già informato, in
un primo tempo nel canto precedente, che le porte della città sarebbero comunque rimaste aperte
per Dante e la sua guida, e ciò riformulando l’abituale lasciapassare (« vuolsi così... » If. III 95,
« vuolsi ne l’alto... » If. VII 11) fin lì di provata efficacia :
mi disse: « Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può torre alcun: da TAL n’è dato.
(If. VIII 104-105)
Ma nonostante il benestare dei superiori (« tal »), dopo l’inutile trattativa condotta da Virgilio per
ottenere con le buone (« sanz’ira » If. IX 33) il passaggio dalle porte infernali, ecco l’annuncio
sempre da parte sua dell’arrivo di un aiuto materiale più convincente per sconfiggere l’arrogante
resistenza dei mostri e dei demoni, quegli stessi che si erano opposti 1266 anni prima al raid di
Cristo nel limbo:
« Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta :
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
TAL che per lui ne fia la terra aperta ».
(If. VIII 124-130)
Non viene detto come Cristo abbia scardinato la prima porta (If. III 11), è per contro chiaro che
il solitario e anonimo aiutante (« tal ») che senza bisogno di protezione, a piedi, sta scendendo dal
limbo (« di qua da lei ») attraverso i primi cerchi ha l’esperienza e le capacità di persuasione
necessarie per aprire la terra a Dante. Il doppio solidale soccorso (del divino mandante e del suo
uomo di mano) è contrassegnato dall’uso alterno dello stesso pronome (tal) e ribadito ad inizio di
canto nel moto d’impazienza di Virgilio (v. 9) volto a solleticare ulteriormente la curiosità degli
intelletti sani.
« Pur a noi converrà vincer la punga »,
cominciò el, « se non... TAL ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’ALTRI qui giunga! ».
(If. IX 7-9)
L’offerta di aiuto per « vincer la punga » fatta a Virgilio (si presume quando Beatrice venne ad
invocarne l’intervento) tarda a concretizzarsi. Sembrerebbe, ma l’autore sta già confondendo le
piste, che colui (« tal ») che offrì di intervenire personalmente (« s’offerse ») sia quello stesso che
sta scendendo (« altri »). È così che dopo l’appello-sfida alla sagacia dell’élite dei lettori e dopo i
molteplici preannunci assistiamo all’impressionante, podistico descensus del tanto atteso
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personaggio, che però si rinunzia a descrivere, se non metonimicamente attraverso i vistosi effetti
collaterali della catabasi (tuono, tempesta, terremoto) e la citazione delle sue parole:
E già venia su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’ alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori ;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
(If. IX 64-72)
La prima delle due similitudini che inquadrano l’ingresso in scena del nuovo venuto compara il
« fracasso d’un suon » che lo precede all’approssimarsi devastatore di un tifone coi suoi esiti
dirompenti sulla foresta e le belve e i pastori che la popolano. La seconda, altrettanto terrifica,
assimila la fuga precipitosa dei dannati a quella delle rane dinanzi a un serpente d’acqua :
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’ a la terra ciascuna s’abbica,
vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad UN ch’ al passo
passava Stige con le piante asciutte.
(If. IX 76-81)
Il rumoroso e ciclonico personaggio associa visibilmente doni sovrannaturali a qualità umane
visto che, come Cristo sul Giordano, cammina sulle acque fangose dello Stige, e in ciò si
accomuna agli altri spiriti del primo cerchio (e a Dante stesso) che attraversavano il bel fiumicello
del limbo « come terra dura » (If. IV 109). Del tutto indifferente al terrore che semina attorno al
suo passaggio, è concentrato unicamente sulla sua missione e colla sinistra (ha dunque la
verghetta nella destra) allontana meccanicamente dal volto l’aria densa e fumante della palude
stigia che gli impedisce la vista:
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso ;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro ; e quei fé segno
ch’ i stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno !
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
(If. 82-90)
Anche se non ce lo descrive fisicamente Dante lo può osservare da vicino, e ne sottolinea un
tratto psicologico consono alla forza che emana (« parea pien di disdegno »). L’uomo è ignoto a
Dante che coglie in lui (« ben m’accorsi »), nelle sue movenze qualcosa di sovrumano (« ch’elli era
da ciel messo »), è per contro perfettamente noto a Virgilio che d’altronde indica al discepolo di
tacere e di omaggiarlo. Compiuta senza resistenze la sua missione con l’apertura della seconda, la
più « secreta » porta infernale, dopo aver apostrofato i demoni torna sui suoi passi e, con « greca »
alterigia, senza far motto ai due pellegrini.
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Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’OMO cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante ;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.
(If. 100-105)
Egli ha dunque preoccupazioni e sembianti umani, un volto disdegnoso e impaziente, una bocca
che articola « parole sante », degli occhi infastiditi dal fumo, un passo veloce, dei piedi anfibi, delle
mani, in una delle quali stringe una verghetta, passepartout con cui apre la porta (sorta di
rivisitazione del soporifero caduceo di Mercurio, come pure del virgiliano ramo d’oro, la virga
fatalis del pio Enea suo coinquilino nel limbo, e in ambito biblico della verga di Mosè). Possanza
fisica e leggerezza spirituale (come i limbicoli cammina sulle acque) sembrano coesistere in questo
essere dalla natura sovrumana. Arrivati a questo punto, a norma dell’apostrofe del narratore,
starebbe ora a noi lettori ricavare la sentenzia sottesa alle quattordici terzine. Ed è evidente che ciò
sarà impossibile se non avremo prima capito chi sia l’individuo che Dante, sia pur senza darcene
il nome (via via: tal, altri, un), ci ha indirettamente descritto.
Ormai da tempo, seguendo una congettura tarda ma fortunata, il responso dei principali
commentatori è unanime: colui che è stato « messo » dal cielo è un angelo. Un angelo senza nome
né qualità, anonimo e benefico strumento della grazia inviato in soccorso dei due pellegrini, ormai
incapaci di procedere dinanzi all’arroganza diabolica senza un concretissimo intervento divino.
Ora alla luce della lettura del testo in questione, questa soluzione (praticamente ipostatizzata fin
dalle Esposizioni di Boccaccio) che generazioni di interpreti si trasmettono di padre in figlio, a mio
avviso, non è che una grossolana semplificazione, e se non fosse al limite difendibile su basi
etimologiche (angelo cioè messaggero) sarebbe da considerarsi poco meno di un’idea bizzarra. Tutta
questa calibratissima messinscena per descrivere un banale angelo ? Quando poi, come tutti
sanno, nell’inferno dantesco non ci sono, non possono esserci angeli, neppure in visita pastorale.
Tutt’al più ex angeli cacciati dal cielo, come quelli pilateschi del vestibolo (If. III 38-39) oppure
come gli « angeli neri » (cfr. If. XXIII 131, XXVII 113 ecc.) debitamente riconvertiti in diavoli
(angeli « d’inferno » Pg. V 105). Il solo angelo infernale, il nostro insomma, non è che una
fantasiosa aporia, una fra le tante, abortita dal secolare commento. A quando un diavolo
nell’Empireo ? Non è perché è inviato per volontà divina che questo sant’uomo deve
necessariamente avere attributi angelici, e se ne avesse avuti, Dante personaggio se ne sarebbe
accorto... perché di fatto il protagonista della Commedia scoprirà che cosa realmente sia un angelo
soltanto nel secondo canto purgatoriale (ed è chiaro che non ne aveva mai visti prima : « omai
vedrai di sì fatti officiali » v. 30) con la luminosa apparizione del nocchiero che nella seconda
cantica funge da pendant all’infernale Caronte :
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
(Pg. II 16-18)
Esso vola sul mare colla velocità della luce che emana, luce indistinta a lunga distanza, che si
materializza avvicinandosi in due ali bianche che vengono progressivamente a caratterizzarne
l’essenza. Si faccia caso anche alla diversa qualità dell’omaggio che Virgilio impone a Dante :
dinanzi all’ « angel di Dio » egli giunge in preghiera le mani e si inginocchia, dinanzi al « messo dal
cielo » si inchina reverente. È manifesto che al limbicolo superuomo compete un tributo inferiore
a quello dovuto a un vero angelo.
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Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: « Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di si fatti officiali.
(Pg. II 25-30)
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’ i stessi queto ed inchinassi ad esso.
(If. IX 82-87)
Ali, sempre e dovunque, anche nelle rime, al posto delle braccia mulinanti dell’altro. L’uno vola,
l’altro cammina. Nulla di umano nel comportamento dell’angelo, sul mondo circostante nessun
effetto se non luministico e ineffabile. Nulla a che vedere insomma con l’impetuosa brutalità
anche semplicemente lessicale che caratterizza l’arrivo del messo (fracasso, spavento, tremavano,
impetuoso, fier, schianta, abbatte, fa fuggir, ecc.).
Vedi che sdegna gli argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
(Pg. II 31-33)
Abbagliante si fa infine quando il divino volatile giunge sulla riva del purgatorio, al punto da non
poter più esser fissato da occhi umani:
Poi, come più e più verso noi venne
l’uccel divino, più chiaro appariva:
per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
(Pg. II 37-40)
Come d’altronde sarà il caso dei due angeli dalla testa bionda di cui non riesce a cogliere i
lineamenti (« ma ne la faccia l’occhio si smarria » Pg. VIII 35) e del successivo collega del galeotto,
l’angelo che siede sui gradini della porta del purgatorio, il cui volto splende a tal punto « ch’io non
lo soffersi » (Pg. IX 81) informa il narratore. A parte il fatto, ripeto, che in inferno angeli non si
danno, se il messo lo fosse stato non si capisce perché non presentasse il minimo problema di
visibilità ravvicinata, ma anzi andasse osservato con attenzione (« Or drizza il nerbo / del viso »
If. IX 73-74) come ordina Virgilio. L’angelo portinaio è inoltre un raro caso di angelo parlante, si
presta dunque ad un ulteriore confronto sinottico con l’idioletto dell’uomo dalla verghetta :
« O cacciati del ciel, gente dispetta »,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
« ond’esta oltracotanza in voi s’alletta ?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia ?
Che giova ne le fata dar di cozzo ?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo ».
(If. IX 91-99)
« Dite costinci: che volete voi? »,
cominciò elli a dire, « ov’è la scorta?
Guardate che ’l venir su non vi noi ».
« Donna del ciel, di queste cose accorta »,
Rispuose ’l mio maestro a lui, « pur dianzi
ne disse: ‘Andate là : quivi è la porta’ ».
« Ed ella i passi vostri in bene avanzi »,
ricominciò il cortese portinaio :
« Venite dunque a’ nostri gradi innanzi ».
(Pg. IX 85-93)
Certo tra la brutalità minatoria dell’apostrofe (in sostanza: se non volete fare la fine di Cerbero ubbidite al
volere divino) dell’innominato sicario che spalanca la soglia di Dite e la curialità del cortese portinaio
che solennemente schiude la porta del purgatorio ce ne corre. Un abisso separa i due registri, e
questo a prescindere dai diversi destinatari. D fatto la lingua viene qui a connotare innanzi tutto i
due locutori, e un angelo dantesco non potrà mai parlare come il messo. La sua breve allocuzione
brusca e autoritaria non compete al verbo angelico per definizione « soave e benigno / qual non
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si sente in questa mortal marca » (Pg. XIX 44-45). Le parole del portinaio sono carezze se
confrontate alle mazzate verbali dell’altro, dove le violente metafore (mozzo, cozzo) tagliano e
colpiscono anche per l’aspra cacofonia delle rime, dove l’accostamento tra un registro basso
(pelato...’l gozzo), la magniloquenza dei pentasillabi (oltracotanza, recalcitrate), il ruggente quinario
(Cerbero vostro) che introduce il minaccioso exemplum finale (con le tre interrogative retoriche che lo
precedono) danno una marziale autorevolezza al locutore. Saranno anche « parole sante » ma non
hanno proprio nulla di angelico.
***
Nella parte conclusiva (in fieri) si mostrerà come le 14 terzine consacrate all’innominato
personaggio siano state costruite mescidando materiali che rinviano in modo univoco al
Mercurio di Stazio (Theb. I 283-311, II 1-70) e all’Ercole di Virgilio (Aen. VIII 184-305), di Ovidio
(Met. VII 406-419, IX 1-272, Fasti 543-586), di Lucano. Le due candidature saranno discusse e
confrontate.
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