Il disastro del Vajont

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Il disastro del Vajont
Appunti 5 – Il disastro del Vajont 9.10.2013
Torrente Vajont
(Dal sito www.vajont.net, dedicato al "Disastro del Vajont")
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle
di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a
Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno
(Italia).
La parte inferiore della vallata del Vajont, che confluisce nel Piave di fronte a Longarone, viene
citata come esempio classico e suggestivo di profondissima gola che s’interna nei monti a guisa
di gigantesca spaccatura. In questo punto la gola è così angusta e profonda da richiamare alla
mente i classici canyon degli Stati Uniti. Anche qui, come nei canyon dell’America
settentrionale, il fiume scorre in una profondissima fessura a forma di tortuoso corridoio, i cui
fianchi si ergono pareti verticali di considerevoli altezze.
La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che
determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un
immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione.
La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime.
Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver
costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del
lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per
attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.
La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la
visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere.
Il disastro del Vajont
(da Wikipedia)
Alla fine dell'estate del 1963, poiché i sensori rilevarono movimenti
preoccupanti della montagna, venne deciso di diminuire gradualmente
l'altezza dell'invaso, sia per cercare di evitare il distacco di una frana, sia
per evitare che una possibile frana potesse provocare un'onda che
scavalcasse la diga. Ma alle 22,39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla
costa del Monte Toc (che in friulano, contrazione di "patoc", significa
"marcio") una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e
terra. In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa
sismica e riempiendo il bacino artificiale.
L'impatto con l'acqua generò tre onde: una si diresse verso l'alto, lambì
le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino
del laghetto di Massalezza; un'altra si diresse verso le sponde del lago e
attraverso un'azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località
in Comune di Erto e Casso e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di
acqua), scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta, ad eccezione del
coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al
versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante. I
circa 25 milioni di metri cubi d'acqua che riuscirono a scavalcare l'opera
raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul
settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il
municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa
2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1918 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il
numero). È stato stimato che l'onda d'urto dovuta allo spostamento d'aria fosse di intensità eguale, se non
addirittura superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Vi sono testimonianze
di superstiti scagliati a diverse centinaia di metri di distanza prima ancora che la massa d'acqua piombasse
al suolo, alla velocità di quasi 100 km/h.
Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell'Esercito Italiano arrivarono sul luogo per
portare soccorso e recuperare i morti. Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali
appartenenti all'arma del Genio che scavarono anche a mano per riuscire a trovare i corpi dei dispersi.
Questi trovarono anche alcune casseforti, non più apribili con le normali chiavi, in quanto molto danneggiate.
Dei circa 2000 morti, sono stati recuperati solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non è stato possibile
riconoscere.
9 ottobre 2013
La testimonianza di quei giorni, il sottotenente Mario Tasinazzo,
mio cognato, inviato per il primo soccorso … ma, leggiamolo!
Ettore
Sono passati 50 anni.
Sono tanti. La memoria si è stemperata in vaghi ricordi essenziali.
Sono Sottotenente a capo del Plotone Trasmissioni del Battaglione Feltre.
10 ottobre 1963 - ore 1.00 vengo svegliato dal mio attendente (dormo fuori caserma): c'è un allarme.
Corro in caserma: gli alpini si stanno radunando nel cortile, in attesa di ordini.
Le notizie si susseguono frammentarie: sembra che una diga abbia ceduto ... no, è un'alluvione improvvisa ... no, una
grande frana ...
Attendiamo ordini dal Comando del 7° Reggimento Alpini di Belluno.
Dopo 2-3 ore di attesa arriva una colonna di camion per caricare tutta la truppa e portarla a Belluno, al Reggimento.
A Belluno le notizie si fanno più precise: un'ondata immane è scesa dalla diga del Vajont e ha sommerso i paesi
sottostanti. Purtroppo arrivano anche le conferme: il Piave sta trascinando a valle molti corpi: ne hanno già recuperati
alcuni dalle rive accanto a Belluno.
Attorno alle 8 parte la nostra colonna di camion verso Longarone. Gli Alpini del Battaglione Belluno sono già sul posto
da prima dell'alba. Qualche km prima di Longarone le strade non sono più agibili e proseguiamo a piedi.
Avvicinandoci al paese, non riusciamo a distinguere nulla: dove tempo prima avevamo visto casette, alberi, verde, ora
rimaneva un'immensa pietraia, spianata. Nella mia memoria rimane impresso il campanile, l'unica costruzione rimasta
in piedi ed accanto una spianata rialzata che era il pavimento della chiesa.
Abbiamo scavato alla ricerca di superstiti fino alla mattina del giorno dopo.
Poi siamo tornati a Feltre per prepararci al Servizio di Ordine Pubblico sulla linea ferroviaria del Brennero, a Vipiteno
(erano i tempi degli attentati dinamitardi in Alto Adige).
Siamo tornati a Longarone successivamente, a quasi un mese di distanza, per l'ultima settimana di servizio degli
Alpini, sempre scavando per recuperare le salme. Poi il lavoro veniva continuato dalle altre organizzazioni civili.
E' stato questo tragico evento, assieme ai terremoti successivi che hanno devastato altre parti dell'Italia, a dare il via
alla nascita della Protezione Civile, con la determinante partecipazione delle Penne Nere.
Ricordo il clima cupo e disperato che aleggiava a Longarone quei giorni.
Cercando di mettermi nei loro panni, ho capito: non dipendeva solo dalla morte dei loro cari, amici, vicini; c'era
qualcosa di più. Erano stati traditi dalla Società Elettrica, che non aveva dato ascolto ai segnali di allarme della
popolazione e dei tecnici indipendenti che avevano sconsigliato di realizzare quell'invaso. Ed erano stati traditi anche
dallo Stato che come minimo non aveva controllato (e poi ha fatto ben poco per riconoscere le ragioni dei pochissimi
superstiti, che parlavano a nome delle tantissime vittime).
Per il rispetto di chi è morto in quella catastrofe e anche dei vivi, al di là delle manifestazioni folkloristiche (talvolta di
dubbio gusto), dobbiamo ricordare che lo scopo principale della commemorazione che avviene in questi giorni è
quello di ricordare e onorare 1910 persone morte.
E ben vengano tutte le iniziative che tendono a fare in modo che tragedie del genere non si ripetano più.
Mario Tasinazzo