50 anni fa il disastro del Vajont
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50 anni fa il disastro del Vajont
35 L’ECO DI BERGAMO MERCOLEDÌ 9 OTTOBRE 2013 Primo piano A 50 anni dalla tragedia a «È impossibile dimenticare l’orrore del Vajont» Gli alpini bergamaschi che soccorsero le vittime «Tra i primi ad arrivare: un deserto di morti» «Quella ragazza che aveva perso 12 familiari» LAURA ARNOLDI Pezzotta di San Paolo D’Argon era in questo primo gruppo di alpini dalla Cadore: «Non si poteva proseguire con i camion, la strada non c’era più, e non avevamo mezzi per illuminare. All’alba vedemmo un disastro inimmaginabile: era un deserto. In piccoli gruppi cominciammo a ricercare le persone e raccogliere gli oggetti». Edoardo Vanotti di Brembilla prestava servizio militare nel Genio alpino di Bressa«Arrivati, fari «Le persone none: potenti illuminavano rimaste di fronte alla diga distesa non un’immensa di fango che tutto avevolevano va travolto. Gli autisti me dovevano che ce ne come inizialmente aspettaandassimo» re al camion, poi sono stati coinvolti nelle azioni: tutti insieme aiutavamo a recuperare i morti. Sono immagini ancora vive, impresse nella memoria, quelle di cadaveri galleggianti nel fango». In una lettera datata 11 ottobre 1963 indirizzata a Lina, che sarebbe poi diventata sua moglie, il giovane Adriano (che a casa chiamano Sergio) scrive: «Dopo un’ora eravamo già sul luogo del grande disastro mai visto davanti ai miei occhi, non saprei descriverti quanto ho visto, ti dico di aver visto morti, morti e morti e morti, non ho mai pianto da tutto il a «Vi chiamò il dovere, trovaste l’orrore, vi sostenne l’amore»: poche parole incise su una medaglia, quella che gli alpini ricevettero per l’opera di soccorso compiuta dopo l’immane tragedia del Vajont. Tra quei soldati di leva che dalle caserme alpine furono mandati subito dopo l’onda di acqua e fango che spazzò via Longarone, Erto, Casso e Castellavazzo ci furono tanti giovani bergamaschi. Ai loro occhi si presentò veramente l’orrore che è rimasto impresso nelle menti e nei cuori per tutti questi lunghi 50 anni. Nessuno di loro ha dimenticato. «Per me è impossibile dimenticare, ho compiuto 22 anni proprio il 9 ottobre del 1963 - racconta Guglielmo Redondi di Ponte San Pietro -. Ero nella caserma Fantuzzi a Belluno. Fummo tra i primi ad arrivare poco dopo le undici. Partimmo armati perché in un primo momento si pensò ad un attentato, erano gli anni in cui gli altoatesini facevano saltare i tralicci». Nei primi giorni si temette anche che la diga possa crollare: «Sarebbe stata un’altra strage tra i soccorritori perché noi eravamo lì sotto» aggiunge Redondi. Anche Adriano Sergio tempo che sono stato lontano da te, ma oggi sono stato costretto». La morte è il primo impatto duro che Lorenzo Magni del 5º Alpini ha quando arriva a Longarone il 10 ottobre: «Mi sono sentito quasi male, il primo giorno è stato terribile. Ci hanno messo a scavare e abbiamo estratto dal fango una gamba, solo una gamba con la scarpa. Avevamo pale e picconi, niente guanti. Dopo il lavoro si faceva una fila per disinfettare le mani, e altrettanto per mangiare una gavetta di pasta». Poi Magni viene spostato alla costruzione di un ponte sul Piave per collegare una frazione isolata; lì ritrova un compaesano di Calusco d’Adda, Giancarlo Colleoni: «Sono rimasto lì 21 giorni, si scavava nel fango, c’era gente che piangeva. Un’esperienza che non si dimentica». Vittorio Marconi, originario di Alzano Lombardo (ora abita a Sarnico), era nella Cadore: «Non era facile organizzare i soccorsi, non c’era ancora la Protezione civile». Tutti si danno da fare, ma non si è mai preparati a certe situazioni: «La prima volta che ho visto un corpo estratto - rammenta Marconi - mi sono quasi sentito male. E poi c’erano i parenti che arrivavano da lontano, dall’estero, e non trovavano più nulla. Per orientarsi tenevano il riferimento del pavimento della chiesa». C’è chi si aggira nel de- 1 1) L’orrore del Vajont in una foto scattata all’indomani della tragedia; 2) Guglielmo Redondi, uno degli alpini bergamaschi che partecipò ai soccorsi; 3) Vittorio Marconi; 4) Adriano Sergio Pezzotta; 5) Lorenzo Magni 2 3 4 5 serto di fango alla ricerca di un segno del paese che non c’è più. «Una scena - racconta Redondi - mi è sempre rimasta negli occhi: a 5 giorni dalla disgrazia, mentre stavamo scavando, una ragazza si è avvicinata, aveva una valigia in mano, lo sguardo vuoto. Le abbiamo chiesto se potevamo aiutarla. Ha risposto solo che aveva perso 12 persone della sua famiglia. Lei si era salvata perché era a servizio in un paese del veneziano. Ancora adesso mi viene la pelle d’ora». Tra i racconti di questi uomini, che a soli vent’anni si sono trovati in mezzo alla tragedia, colpisce un’osservazione sui superstiti: «Le persone rimaste non volevano che ce ne andassimo. Noi siamo partiti di notte, per non farci vedere. Ci volevano lì, come se avessero paura di essere abbandonati, di essere lasciati soli» ricordano Colleoni e Redondi. Loro, i sopravvissuti, non hanno mai dimenticato i lo- ro soccorritori. Anche lo scorso 15 settembre li hanno invitati alla giornata a loro dedicata che si svolge ogni cinque anni. Nel Natale del 1963 i superstiti dedicarono queste parole ai soccorritori: «Siate benedetti voi che ci soccorreste nella tribolazione e ci infondeste coraggio quando ci stringeva il terrore e cercaste e seppelliste e foste i nostri fratelli quando tutto era crollato intorno a noi». ■ Quell’onda immane che spazzò via anche tre famiglie bergamasche masta una lapide, a Longarone, e ogni anno andavamo lassù, quando la stagione era bella, per ricordarli. Quando penso che solo qualche settimana prima ci avevano scritto un biglietto, con una foto, mi viene ancora da piangere. A Longarone vengono con me alcuni nipoti che desiderano vedere i luoghi della tragedia» . Il viaggio-pellegrinaggio a Longarone è stato organizzato dalla Pro loco: la delegazione è guidata dal sindaco di Sant’Omobono Terme Paolo Dolci, e ci saranno assessori, consiglieri, parenti delle vittime e altri cittadini. «Per noi è la giornata del ricordo di una tragedia immane – sottolinea il sindaco Dolci –. Parteciperemo alle funzioni religiose e civili, poi visiteremo anche il cimitero di Longarone, ricorderemo e pregheremo per tutti quei morti spazzati via come dei fuscelli. Ma un pensiero particolare sarà per la signora Anna e i suoi figli che hanno vissuto a Sant’Omobono». Ma il Vajont fu una tragedia anche per altri bergamaschi, ed in particolare per una famiglia originaria di Brembate Sopra che gestiva il bar Minerva nel centro di Longarone. Morirono Adamo Bessega, la moglie Virgina Nessi e il figlio Claudio, di 7 anni, inghiottiti dall’onda di acqua e fango. Virginia Nessi era nata a Brembate Sopra, il marito era friulano. Si erano conosciuti in Belgio, tutti e due emigranti, e si erano sposati. Poi erano tornati in Italia, a Brembate Sopra. Quindi l’occasione del bar a Longarone. La famiglia aveva trovato nel paese veneto una buona sistemazione e una discreta condizione economica. L’ultima visita a Brembate Sopra, in località Tresolzio Sopra, avvenne un mese prima della tragedia. E fu tragedia anche un’altra famiglia bergamasca, quella di Sito Capoferri, un emigrante che risiedeva a Bergamo in via Rovelli. A Longarone abitava la famiglia della moglie, Sandra Fraghi. Morirono la madre, due sorelle e altri sette parenti. Sandra Fraghi era tornata a Longarone soltanto due settimane prima per fare visita alla madre e si era fermata per qualche giorno nel paese natale. ■ ©RIPRODUZIONE RISERVATA a a Una cinquantina di valdimagnini partecipano oggi alla commemorazione del disastro del Vajont, anche per ricordare le cinque persone originarie della valle che persero la vita nella tremenda sciagura del Vajont. Quella notte a Erto rimasero sommersi dalle acque e dal fango Anna Personeni, originaria di Sant’Omobono, e i suoi quattro figli Giacomo, Ornella, Mirella, Rosy. Oggi a Longarone ci sarà Rosa Maria Bonomi – moglie di Edoardo Personeni, il fratello di Anna– che abita nella frazione Mazzoleni di Sant’Omobono. «Quando è successo il disastro eravamo emigranti in Svizzera, a Olten – ricorda –: abbiamo saputo subito della tragedia e mio marito con un altro fratello raggiunsero Longarone. Sono stati momenti terribili per noi e per i suoceri che persero figlia e nipoti, che d’estate tornavano a Sant’Omobono a trascorrere le vacanze. Mia cognata Anna in prime nozze aveva sposato Gian Battista Facchinetti, della Valle Imagna: da lui aveva avuto i primi due figli, Giacomino e Ornella. Poi il marito, che faceva il muratore in Svizzera, morì. Anna conobbe un infermiere di Trento, Agreppino Loos, si sposarono e si trasferirono a Erto, a poca distanza dal Vajont». «Anna era sola a casa con i figli, il 9 ottobre 1963 – continua Rosa Maria Bonomi –: il marito lavorava in Africa. Probabilmente erano davanti alla televisione, al momento della sciagura, perché i figli di mia cognata guardavano sempre il Carosello prima di andare a dormire. Sono morti tutti: mio marito andò lì il giorno dopo, ma non abbiamo più trovato alcuna traccia di loro. È ri- A sinistra, Virginia Nessi col figlio Claudio; a destra, Anna Personeni con i quattro figli Rosy, Mirella, Giacomo e Ornella: morirono tutti travolti dalle acque della diga del Vajont Remo Traina ©RIPRODUZIONE RISERVATA